L’Espresso
L'Espresso, 25/10/2001
Benvenuti nell’insicurezza totale
Eccoci qua, precipitati nella "Risiko Gesellschaft", la società dell'insicurezza totale del sociologo Ulrich Beck, nel "mondo in frantumi" dell'antropologo Clifford Geertz, nel disordine globalizzato diagnosticato dall'esploratore della modernità Zygmunt Bauman. Imprigionati nei dilemmi incombenti della schizofrenia contemporanea: da un lato nell'attesa infantile che tutto ritorni normale, in modo che il "ground zero" delle Torri gemelle si ridefinisca come un problema di ricostruzione o come un nuovo progetto urbanistico, e dall'altro la sensazione che ogni minuto potrebbe innescare la destabilizzazione finale. Si scherza a denti stretti con la fatalità, e con le paure della distruzione, perché la funzione esorcistica non ha tabù. I giovani della Marcia della pace ironizzano sulle note antiamericane di Gianni Morandi: «Gli han detto va' in Afghanistan, e spara ai taleban...». Ma nel frattempo, e per la prima volta, l'impulso angoscioso supera quello vecchio e classico che aveva nella crisi atomica il suo climax emotivo. Il Mad, la mutua distruzione assicurata dall'equilibrio nucleare, era un format rassicurante, perlomeno nel senso che rendeva tutti potenziali vittime, e quindi scoraggiava implicitamente l'aggressività degli Stranamore nonché la tentazione di risolvere la guerra fredda con il "first strike", il colpo preventivo. Adesso invece gli elementi in disequilibrio sono talmente numerosi da risultare psicologicamente incontrollabili: l'incubo dell'antrace o del vaiolo, la volatilità del Dow Jones, una paura di volare che non è più quella simbolica di Erica Jong, i video terrificanti dell'emiro e del mullah, gli scoop catastrofisti di Al Jazeera, il sospetto immediato per le acrobazie linguistiche degli imam immigrati. Mentre si ricorre ai freddi dettagli ingegneristici per spiegare come il "flash over" nelle Twin Towers colpite abbia provocato il crollo della struttura, un brivido supplementare viene generato dal lessico degli avvertimenti di Al Qaeda sull'imminente "tempesta di aerei" e dall'invito ai musulmani d'America a evitare voli e grattacieli. Se Umberto Eco spende due pagine per prospettare come il cosiddetto scontro di civiltà innescherebbe una catena di ritorsioni catastrofiche, se il dibattito sulla Fallaci è diventato un serial, se per un altro verso non si estinguono le leggende antisemite sui 4 mila ebrei assenti quel giorno dal Wtc, qualcosa vuol dire. Vuol dire che gli involucri della razionalità sono così sottili da permettere facilmente all'immaginazione di insinuarsi nel pensiero quotidiano; a un futuro distruttivo, a paure apocalittiche, di penetrare nelle routine giornaliere. Soprattutto entrano in conflitto concezioni diverse del tempo: per una famiglia occidentale la scansione temporale è un alternarsi di eventi individuali, nascite, adolescenze, lauree, matrimoni, carriere, successi d'impresa; mentre nei messaggi oracolari di Osama Bin Laden il tempo è una stringa lenta di umiliazioni storiche di una "nazione", in cui gli ottant'anni dalla caduta dell'Impero ottomano sono un tempo di vita ma soprattutto di memoria. E siccome "noi" misuriamo il tempo sulla velocità istantanea di connessione al web, si rivela insostenibile che qualcun altro possa misurarlo sul succedersi di epoche, di generazioni, di comunità. Al massimo, si pianificavano strategie di esistenza, progetti famigliari, programmi di investimento; adesso si attende dalle pagine del televideo la notizia che consentirà il ripristino della normalità. Ma ogni informazione rimane interlocutoria, e la sensazione che una fonte di alterità assoluta possa annichilire abitudini, standard di consumo, prevedibilità della vita, mandando per aria la nostra frammentarietà rassicurante, diffonde un'incertezza che in una psicologia collettiva inabituata al conflitto sfuma oscuramente nell'angoscia.
L'Espresso, 25/10/2001
I nostri primi quaranta secoli
Tutti in fila, 4 mila anni di storia italiana fanno 40 secoli, 160 generazioni, 400 pagine, e un'impresa lievemente temeraria. Provateci voi a inventarvi la competenza necessaria per scrivere dell'Italia dal 2000 avanti Cristo al 2000 dopo, e a sfidare il sopracciglio alzato degli specialisti. Alfio Caruso ci ha provato, e manda in libreria per l'editore Salani la sua ultima opera, dopo il successo del trattato sulla mafia "Da cosa nasce cosa" e il bestseller su Cefalonia "Italiani dovete morire". Il libro si chiama "Breve storia d'Italia" (412 pagine, 28 mila lire), e non è affatto facile parlarne: la prima tentazione infatti sarebbe quella degli slogan riduttivi: un super-sussidiario, un iper-Bignami. Ma non funziona. Perché di fronte a un tentativo così fuori scala, l'unica possibilità di giudizio è quella di mettere mano a quelle 400 pagine, e di vedere come Caruso sia riuscito a fare le sue sintesi sfidando la strettoia fra le secche della scolasticità e il mare aperto del panorama weberiano. Insomma, si comincia da quei primi italiani che «escono dalle loro caverne per assistere esterrefatti al passaggio di alcune tribù provenienti dal Centro Europa» (che si mettono a costruire palafitte), e si finisce con 11 righe dedicate all'avventura di Silvio Berlusconi (l'homo italicus dell'ultima generazione che erige trionfalmente antenne). Dopo di che conviene leggere, con la soddisfazione di ritrovare puntualmente tutto ciò che si è dimenticato fra la scuola elementare e la laurea: Rea Silvia e la spedizione dei Mille, la battaglia di Canne e Silvio Pellico, l'imperatore Ottaviano che domina il mondo e l'imperatorino Vittorio Emanuele III a cui viene regalata l'Etiopia, gli etruschi e i musulmani, i mercenari e gli invasori. Eccetera. La caratteristica del libro è quella di raccontare secoli di storia in presa diretta, come se si trattasse di uno sterminato articolo di giornale. Sintesi, semplificazione, un dettaglio esemplificativo, un episodio, una curiosità, sguardi dall'alto e sbirciate dal basso. Giornalismo applicato alla storia. L'effetto è quello di un Montanelli compresso e centrifugato. E se il vecchio Indro si doleva che gli studiosi accademici lo avessero ignorato come storico, è facile prevedere per Caruso il più totale disinteresse degli specialisti, neanche per fargli le pulci. Già, si tratta di un'operazione ultrapopolare, divulgativa, tutta narrata, in cui i giudizi e le tesi balzano fuori dal racconto, non dal richiamo alla dottrina e alla storiografia. La concessione alla tesi di fondo è tutta riassunta nell'ultima frase: «Purtroppo siamo sempre fermi a Guicciardini. Quando scoccherà l'ora di Machiavelli?». Curioso che un libro così eroico si concluda con un punto interrogativo. Eppure in quella domanda si riassume tutta l'intenzione del libro: spiegare perché l'Italia e gli italiani sono così, popolo senza essere nazione, perché si sono divisi in fazioni e continuano a dividersi, perché i moralisti hanno ceduto il passo agli immoralisti e viceversa, perché, perché, perché (alla fine, viene l'idea che la risposta sia già saltata fuori grazie al racconto, galoppando felicemente fra i secoli).
L'Espresso, 18/10/2001
E Ciampi? È silente
Schiacciato dal clima di guerra, il primo referendum confermativo di una legge costituzionale è scivolato via come un compitino, svolto dalla diligenza di un terzo dell'elettorato. È una mezza vittoria per l'Ulivo, una mezza sconfitta per la Casa delle libertà, probabilmente una sconfitta intera per qualsiasi progetto di ristrutturazione istituzionale. Tolto il dente del semi-federalismo in versione ulivista, non si vede come potrà evolversi l'ammodernamento della Costituzione, dal momento che l'unico soggetto politico interessato è la Lega di Bossi (ma solo nel senso di abbattere il "falso federalismo" vidimato dagli elettori domenica scorsa per sostituirlo con un impianto devolutivo tanto enfaticamente rivendicato quanto imprecisato nell'articolazione). Sotto questo aspetto, varrà la pena di ricordare la bizzarria di un ministro per le Riforme che a poche ore dal voto popolare faceva una propaganda piuttosto folk per l'astensione, sovrapponendo con sfrontatezza il suo intento politico al suo ruolo istituzionale. E di riflesso è il caso di notare che dal Quirinale non sono giunti richiami o appelli davvero convinti sul rilievo del referendum. Eppure, se il presidente della Repubblica è il garante della Costituzione, lo è anche di quella delicatissima parte costituita dall'articolo 138. Se Ciampi non ha ritenuto di dare solennità a un momento nodale della vita collettiva, evidentemente sul Colle si dev'essere pensato che alla legge di modifica costituzionale convenisse il silenzio più che la drammatizzazione; e che l'understatement giovasse al destino della riforma istituzionale più che la sua trasformazione in un muro contro muro. Un simile manierismo, tuttavia, suggerisce che a Ciampi non restano molte carte politiche da giocare, forse nemmeno in chiave di "moral suasion". L'automaticità, per così dire, con cui ha firmato la legge sulle rogatorie sembra l'indizio che in futuro la sua azione si caratterizzerà in senso ampiamente notarile. Prima del referendum, Rutelli e Fassino si erano appellati al Quirinale, segnalando che il conflitto d'interessi "tracima" dappertutto, dall'informazione al falso in bilancio e alle rogatorie. I risultati ottenuti non sembrano all'altezza dell'allarme. È evidente che per l'opposizione sarebbe insensato usare il capo dello Stato a fini politici; ma ormai è anche chiaro che per Ciampi, ex ministro del centrosinistra, eletto alla più alta carica dello Stato con un voto bipartisan, non è praticabile l'interventismo politico che segnò il mandato di Oscar Luigi Scalfaro. La situazione si sta decantando, l'esecutivo governa, quale che sia il giudizio sulle sue leggi. Il Ciampi "silente ma non assente" può esercitare le sue funzioni sul registro alto delle convergenze internazionali, favorendo le consonanze sui temi dettati ieri dall'Europa e oggi dall'agenda antiterrorismo. Quanto al resto, rogatorie e altri affari domestici, si tratta di quotidianità politica. A dispetto delle ansie del centrosinistra, il Quirinale non farà il cane da guardia dell'opposizione contro il governo: per la banale ragione che quando si è il presidente "di tutti" è impossibile mettersi contro qualcuno.
L'Espresso, 11/10/2001
Referendum: il buonsenso dice sì
Fra poche ore si aprono i seggi per uno degli appuntamenti in teoria più significativi e in pratica più sottovalutati della vita politico-istituzionale italiana. Nel disinteresse pressoché generale, infatti, si giunge al referendum "confermativo" sulla riforma costituzionale di stampo federalista approvata in extremis dall'Ulivo nel finale della scorsa legislatura. Proprio la disattenzione dell'opinione pubblica, degli organi di informazione, e anche delle forze politiche, sembra testimoniare che l'epoca dei grandi investimenti sul ridisegno istituzionale si è chiusa. A destra, Forza Italia ha favorito il disinteresse dei cittadini; Alleanza nazionale guarda con implicito fastidio ai progetti che modificano la struttura statale; solo la Lega ha assunto un atteggiamento apertamente ostile contro il "falso federalismo" dell'Ulivo, motivato anche dal fatto che se la legge costituzionale viene confermata dal voto popolare (senza quorum) sarà politicamente difficile scardinarla agitando la bandiera della devolution alla padana. Ora, dal momento che ci si sta giocando un pezzo di Costituzione, occorre valutare fra i tanti almeno due aspetti. Come hanno rilevato diversi costituzionalisti, la "bozza Bossi-Speroni", cioè la ricetta devolutiva imposta dalla Lega all'alleanza di centrodestra, è un tipico documento leghista, poco più che una dichiarazione politica, non già un articolato costituzionale con un'accettabile tecnicalità giuridica. Costituzionalmente, carta straccia. In secondo luogo, una indagine demoscopica dell'Istituto Cattaneo (condotta da Salvatore Vassallo e presentata di recente a Bologna nell'ambito del Compa, il salone della comunicazione pubblica) ha mostrato con tutta evidenza che il tema del federalismo non è più un oggetto di scontro politico fra gli elettori. A eccezione dei militanti della Lega e di Rifondazione comunista, l'opinione pubblica di destra e di sinistra tende a condividere insomma un'idea di federalismo moderato, ragion per cui è difficile aspettarsi guerre di dogmatismi sulla devolution. Si tratta, dice il rapporto del Cattaneo, di una "fiducia disinformata" verso le strutture regionali e la prospettiva federale. Ma, disinformata o no che sia la fiducia, si tratta di un atteggiamento che difficilmente può essere trasformato in una mobilitazione contro la legge approvata in Parlamento. Nello stesso tempo, sarebbe perlomeno bizzarro che dopo anni di chiacchiericcio federalista si volesse spazzare via la prima riforma approvata nella direzione del federalismo. Nessuno lo vuole, infatti. Neanche la maggioranza dei "governatori" e degli amministratori pubblici di centrodestra. Vorrebbe liberarsi del federalismo ulivista solo Bossi. Perché teme che una conferma del federalismo moderato sarebbe una campana a morto per il federalismo radicale. Più prosaicamente: Bossi ha il timore che il via libera del referendum svuoterebbe ulteriormente il ruolo politico della Lega. Ecco, fra le molte ragioni di normale buon senso che inducono a votare sì al referendum di domenica 7 ottobre, c'è anche quella di rendere superfluo il movimento di Bossi. Guardata con occhi disincantati, questa ragione prende anche un aspetto irresistibilmente bipartisan.
L'Espresso, 11/10/2001
Noi e loro
Se si prende sul serio il fondamentalista Berlusconi, la discussione assume la solita piega epocale, fra il citatissimo scontro delle civiltà di Samuel Huntington, l'esorcismo contro il relativismo culturale di Angelo Panebianco, le distinzioni sulla "Kultur" di Massimo Cacciari. Se invece a inalberarsi è il segretario della Lega araba, la questione della superiorità dell'Occidente piglia una tonalità geopolitica aspra: tanta fatica nel costruire la coalizione con i regimi musulmani moderati, per vederla messa a rischio da una tirata provinciale. Nel merito, poi, la discussione è aperta, ci mancherebbe. Non c'è solo uno storico del valore di Franco Cardini a problematizzare, ad articolare, a spiegare la varietà della cultura islamica, nelle sue declinazioni di tolleranza. Per dire, che ne pensa il custode dell'ortodossia cattolica, il cardinale Ratzinger? «Per secoli la cultura dell'Islam è stata superiore alle altre forme socio-culturali, compresa quella cristiana». Relativista, Ratzinger? E ancora: le parole del papa, secondo cui l'odio, il fanatismo e il terrorismo «profanano il nome di Dio e sfigurano l'uomo», non sono d'inciampo a un altro cardinale di vertice, Sergio Sebastiani, nel ribadire la vocazione di Roma verso l'Islam: «La scelta della Chiesa è chiara: continuare, anzi intensificare il dialogo e l'amicizia con il mondo musulmano». Mettiamoci anche il cardinal Martini, che censura la tentazione di abbandonare il dialogo e spiega che va bandita «ogni semplificazione o generalizzazione», dato che «la denuncia del fondamentalismo violento presente tra alcune popolazioni islamiche non può condurre a ingiuste confusioni fra ideologia della violenza e religione musulmana», e il quadro, se non completo, è almeno riconoscibile. A maggior ragione se il cardinale di Milano aggiunge che «sofferenza e rabbia, con una crescente reazione da parte di chi è sfruttato ed emarginato, potrebbero sfociare in una pericolosa rivolta mondiale». Insomma non è, o non è solo, un confronto fra destra e sinistra, se è vero che Domenico Fisichella lancia moniti accademici al Cavaliere: «Ciascuno dovrebbe parlare in base alle proprie competenze». Gira e rigira, si torna invece al nodo della globalizzazione. Berlusconi aveva provato a coinvolgere i no global nella polemica sulla superiorità occidentale, segnalando la «singolare coincidenza» (un'espressione stigmatizzata da Adriano Sofri) fra mobilitazione antiglobale e raid terroristico. Il commissario europeo Mario Monti ha individuato un link simbolico fra le proteste di Seattle contro la World Trade Organization e l'attentato alle torri del World Trade Center. Due parole in comune, World Trade, e una sintesi tutt'altro che ovvia o rassicurante: «È chiaro che il fenomeno storico implicito è la globalizzazione e che queste sono due diversissime manifestazioni di disagio, di reazione, di odio nei suoi confronti». Ma non ci fosse stato il grido viscerale di Oriana Fallaci sul "Corriere", forse avrebbe prevalso come intonazione generale un atteggiamento sincretistico, magari il «castello delle ipocrisie» in cui Panebianco vede una classica inclinazione al disimpegno della «vecchia, cinica Europa». Ci voleva la sfrontatezza di una Mordecai Richler al femminile: «Ed ora ecco la fatale domanda: dietro all'altra cultura che c'è? Boh! Cerca cerca, io non trovo che Maometto col suo Corano e Averroè coi suoi meriti di studioso... I suoi nonni, Illustre Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella moschea e un libro col quale da millequattrocento anni mi rompono le scatole più di quanto i cristiani me le rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah...». Dopo di che, il cosiddetto dialogo era pronto per essere tumulato. Punto e basta: se non fosse che l'apocalittica scorrettezza ideologica della Fallaci può indirettamente essere messa a frutto. Politicamente. Perché Berlusconi sarà anche apparso culturalmente inadeguato, nelle sue dichiarazioni, e anche in certi passaggi fin troppo confidenziali del discorso al Senato («I miei amici arabi e musulmani...», con il pensiero che corre veloce al principe Al Waleed); ma se dietro la polemica sul politicamente corretto e il politicamente scorretto si profilasse anche il politicamente utile? Non perché le argomentazioni del cardinale Biffi sulla necessità che lo Stato controlli l'immigrazione a favore dei più integrabili, cioè gli stranieri di matrice cattolica, abbiano avuto come riflessi diretti l'insulto «sporca araba» rivolto a una bambina egiziana a Grugliasco, i sigilli per le moschee "abusive" in Lombardia, o lo sparo con il flobert contro un algerino di una smarrita casalinga di Porta Palazzo a Torino. Ma perché la destra presunta "global" avverte il diffondersi del desiderio di protezione, e il clima sospettoso creatosi verso la diversità etnico- culturale. Dalla "superiorità" occidentale all'imprenditoria politica in chiave di chiusura nazional- populista il passo è lungo sul piano del governo, ma più breve come percezione delle paure e delle idiosincrasie della "gente". Dicono che Berlusconi è convinto che la grande maggioranza degli italiani la pensa come lui, sulla superiorità culturale. Può essere: fra il cielo della Weltanschauung e il terra-terra della produzione di consenso, fra la geo-strategia, «il nostro asse con il presidente Bush», e il cortile della politica, qualche nesso si può trovare.
L'Espresso, 11/10/2001
Un suggerimento a Silvio: parla in politichese
Io rivendico alla nostra cultura uno spirito di tolleranza e libertà sconosciuto ad altre culture e altre religioni. Lo rivendico non contro altre religioni o culture, ma contro la distorsione di quelle religioni e di quelle culture volta a innescare un processo di terrore. Sempre ammesso che si tratti di distorsione, e non di fedeltà all'antica tradizione e di rifiuto del secolarismo e della modernità... Presidente Cossiga, ma allora Silvio Berlusconi ha fatto confusione o no? «Si è messo su un piano che non lo riguardava. Se uno mi chiede qual è il matrimonio valido, in quanto cattolico rispondo che l'unica unione fra coniugi è quella sacramentale. Ma come uomo delle istituzioni repubblicane questa risposta non avrebbe senso». Quindi l'errore del capo del governo... «...deriva da una non piena consapevolezza del fatto che la sua carica obbliga a una prudenza che per altri sarebbe una viltà. Chi copre certe cariche non ha il diritto di dire ciò che in coscienza ritiene una verità». Può essere che a ispirare Berlusconi sia stata la convinzione che l'opinione pubblica italiana condivide quel sentimento di superiorità? «Ma no. Gli italiani sono divisi, è impensabile indurli all'idea di morire per Danzica. Anche Berlusconi, rispetto al furore bellicista di Blair, è un moderato. Sul piano politico, mentre negli Stati Uniti i democratici, l'intero Congresso, i Clinton si sono stretti a Bush, noi, che non daremo né un aereo né un uomo, ci stiamo azzuffando». Una commedia all'italiana, ma con le parole grosse? «Anche una commedia europea. L'Europa è stanca, stanca per le guerre del Novecento, stanca per la guerra fredda. Stanchi i tedeschi, stanchi i francesi. Gli spagnoli sono tiepidi come noi. Per questo le parole di Berlusconi sono state accolte con diffidenza». I toni da crociata sono apparsi inopportuni mentre si costruiva un'alleanza con i paesi islamici moderati. «Non esagererei questo aspetto. L'Italia ha una radicata fama filo-araba e filo-palestinese. Si è sempre mostrata tiepida con gli israeliani. Non ho l'impressione che le leadership arabe si siano impressionate per le dichiarazioni di Berlusconi». Nello stesso tempo, pagine accese come quelle di Oriana Fallaci non sembrano le più adatte per favorire processi di pacifica convivenza. «Non condivido tutto lo scritto della Fallaci, ma ammiro il suo coraggio, la sincerità, la lucidità di pensiero». Che cosa non condivide? «Il bianco e nero non esiste. Oriana è un'illuminista, o una kantiana delusa, che in seguito alla sua delusione ricorre a toni da "Full Metal Jacket" del giornalismo. Per un cattolico come me è meno facile restare delusi, perché so che l'imperativo categorico non c'è, che esiste il peccato originale: e quindi le visioni diventano più complesse». Il ruolo dell'opposizione le sembra adeguato alla situazione? «Distinguiamo. D'Alema ha assunto una posizione da grande leader occidentale, che ha pochi riscontri nel continente. Imparagonabile rispetto a quella del trozkista infiltrato Jospin, o a quella di Schröder, che sarebbe un magnifico protagonista di una versione tedesca dei "Vitelloni". Al Senato l'intervento di Amato è stato come sempre di alto livello». Occorreva a suo giudizio una coesione maggiore fra opposizione e governo? «Non possiamo chiedere agli italiani di schierarsi come un sol uomo. Non è nella tradizione. Si è parlato di crociata? Alla crociata posso aderire io, "toto corde", da uomo libero, da cristiano, da europeo, da occidentale, contro le distorsioni fondamentaliste. Berlusconi farà bene a parlare in politichese, a non mettersi sotto il tiro di speculazioni di carattere culturale. E sistemandosi su un podio diverso da quello di una sala stampa. Ci sarà più di un'università ben lieta di ospitare la sua professione di fede nella civiltà europea e occidentale».
L'Espresso, 04/10/2001
Indovina chi è il grande cinico
Chi è Andrea Grammonte, il protagonista del romanzo di Eugenio Scalfari? Nipote di un grande industriale, orfano di un padre «che si è sfracellato nel fondo di un burrone insieme alla sua auto», permeato da una noia che avvolge tutta la sua esistenza, dedito a un cinismo leggero e irrimediabile, a un rapporto curioso con gli uomini, volatile e distratto con le donne: «Sembra un dio che gioca col mondo e con le creature». Anche se è un ingegnere, se la sua azienda è a Milano, se qualche tratto del carattere e dello stile potrebbe appartenere a un figlio di altre dinastie (dai Pirelli ai Falck o ai Perrone), ci vuole poca fantasia per sovrapporre questo profilo a quello dell'Avvocato. Perché la narrazione di Scalfari individua "un" principe virtuale dell'avventura economica italiana: chiedersi se c'è una storia più esemplare di quella di Gianni Agnelli, "il" principe reale dell'establishment imprenditoriale, sfiderebbe l'ovvietà. Nel romanzo la vicenda di una famiglia dell'aristocrazia industriale, con le sue intime tragedie massime e minori, e con i trionfi pubblici, costituisce l'innesco per spiegare la traiettoria italiana dal 1939 a oggi. L'intento storicizzante di Scalfari approfitta di un caso famigliare e personale per scrivere le didascalie di una storia della modernizzazione nazionale. La "ruga sulla fronte" del protagonista ha come riflessi storicamente necessari le tre fratture su cui è imperniato il libro: la guerra fascista (con il protagonista impegnato a El Alamein), il fallimento del riformismo, il terrorismo degli anni di piombo. Dopo di che, ciascuno è autorizzato a cercare fra le pagine i giochi speculari tra fiction e realtà storica. Carli, Cuccia, Mattioli, Nenni, Lombardi, e poi Foro Buonaparte, Mediobanca, il neocapitalismo, il sogno borghese dell'ammodernamento italiano che va in attrito con le resistenze confindustriali, la dolcezza della vita borghese che si incrocia con le tumultuose trasformazioni del paese, il mutamento sociale che fa i conti prima con l'immigrazione e poi con la lotta armata. Ma alla fine rimane il racconto filosofico di un conflitto individuale fra la disinvoltura morale e la tenuta etica. Impersonato dai vizi privati e dalle virtù pubbliche di un uomo, il simbolo del capitalismo italiano (forse l'unico possibile, insieme a Enrico Mattei), continuamente in bilico fra il piacere e il dovere, fra le strategie del potere e la mondanità, tra il futile e il necessario, fra la missione dinastica e l'individuale ricerca di un contatto autentico con la realtà: «È vero, la mia è una solitudine affollata».
L'Espresso, 27/09/2001
Il terrorismo è poco bipartisan
Difficile, complica- to, anche impopolare il ruolo dell'opposizione in tempi di emergenza. Già dopo il G8 di Genova il centrodestra aveva cercato di coinvolgere l'Ulivo in un'ambigua collocazione "bipartisan", chiedendo pronunciamenti e prese di posizione contro la violenza, come se alle forze di centrosinistra occorresse una specie di patente democratica, una rassicurazione pubblica che escludesse la contiguità con i settori violenti dei no global. Ma adesso, dopo il raid stragista contro l'America, e nella prospettiva di un'aspra risposta delle forze occidentali, la situazione si fa persino più complicata. Non tanto perché la sinistra non abbia le carte in regola quanto a lealtà alla Nato e alla prossima coalizione contro i santuari del terrorismo: la storia recente dell'Ulivo comprende l'iniziativa militare nel Kosovo, e quindi sarebbe difficile mettere il dito su una sua presunta inaffidabilità geopolitica. Il fatto è invece, come ha sottolineato nei giorni scorsi Massimo D'Alema, che le crisi giocano di per sé a favore dei governi in carica. L'emozione collettiva induce una vasta maggioranza dell'opinione pubblica ad appoggiare le decisioni governative, e quindi a fare salire il consenso del premier e dell'esecutivo. La stessa inquietudine dei cittadini rispetto alla minaccia di nuove azioni terroristiche e alle implicazioni di un impegno militare tende a trasformarsi in una richiesta di unanimità sulle decisioni. Date queste premesse, ogni critica rivolta al governo, ogni forma di opposizione sugli atti parlamentari e sulle misure di legge rischia implicitamente di prendere una certa coloritura disfattista. Anzi, qualcuno avrà interesse a far circolare il messaggio che la minoranza di sinistra non ha la sensibilità politica di moderare la sua opposizione all'esecutivo e di tenere conto dell'eccezionalità. In realtà, per quanto impopolare possa apparire o venire illustrata, va rafforzata l'idea che la tenuta di un sistema democratico si misura proprio nella capacità di agire nel senso del "business as usual" malgrado la gravità delle circostanze. E la normalità del funzionamento istituzionale è assicurata proprio da un'opposizione che svolga il suo lavoro. Sembra un'ovvietà: eppure i confini della bipartisanship sono limitati, così come è ridotta la sfera delle decisioni che richiedono una solidarietà unitaria delle leadership. Così, mentre si preparano iniziative eccezionali, occorre anche preservare la normalità della dialettica politica. Si tratta di evitare che in area governativa si lasci opportunisticamente filtrare l'etichetta di un'opposizione inaffidabile e incapace di valutare le condizioni in cui il governo si trova a operare. E da parte del centrosinistra ci vuole uno sforzo ulteriore, anche sul piano della comunicazione, per esprimere la propria responsabilità sulla questione internazionale, ma senza perdere di vista il proprio compito istituzionale di opposizione. Perché non c'è nulla di peggio di un ceto politico lacerato sui grandi temi; se non forse, la grande confusione, cioè la strumentalizzazione di chi governa e la timidezza di chi deve controllare.
L'Espresso, 27/09/2001
Non ci restano che i camaleonti
Svanisce, forse si estingue. Il grande gattopardo dalle movenze sinuose ha visto i suoi territori restringersi dal momento in cui la politica italiana ha scelto il formato bipolare. Una schiatta di galleggiatori, di grandi ma soprattutto piccoli camaleonti della convenienza, di gregari del felino supremo, ha accettato la ferrea legge della circolazione delle élite, nel senso che le élite circolano meglio dove si annida il potere. Perché c'è una differenza primaria fra il gattopardo e il voltagabbana, tra l'esemplare alfa e l'opportunista: l'ansia di quest'ultimo si traduce nel "bandwaggoning", la corsa sul carro dei vincitori, l'affannosa ridislocazione sulla scacchiera dello spoil system domestico (mentre per indole genetica il gattopardo non si affatica nella corsa alla poltrona, si limita a restarci elegantemente sopra, o a ridisporle). Così, la febbrile schiera che ha avvertito con superiore sensibilità il cambio di stagione politica fa parte di un'antropologia minore, automaticamente propensa al trasloco (neanche la trahison) dei chierici. Di fronte ai revirement antisovietici di Sartre e degli intellettuali francesi di sinistra, Raymond Aron si stupiva: «Tutto accade come se essi trovassero un merito straordinario a di- staccarsi dal loro delirio precedente, senza però domandarsi perché abbiano delirato, e se non abbiano cominciato a delirare nuovamente». È una formula che potrebbe valere per una notevole quota di intellighenzia nazionale, passata dai puntigli o dai furori massimalisti a un fondamentalismo liberale nutrito di convenienze e di ditini alzati. Tuttavia per corrispondere al criterio immortalato da Tomasi di Lampedusa, «se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi», non basta la qualità intellettuale dell'opportunismo, o la disponibilità tattica del management esemplificata da Franco Tatò. Ci vuole lo stile supremo, la dote snobistica, il disinteresse esibito, la sintesi del principe Fabrizio che esplora il paradosso: «finché c'è morte c'è speranza». Ma dove sarebbero gli snob d'antan? Dopo la scomparsa di Enrico Cuccia, dopo il fallimento dantoniano di Giulio Andreotti nel ripristinare l'etologia democristiana, forse solo Gianni Agnelli può ambire oggi a qualificarsi come il vero interprete di un ruolo gattopardesco. Per quel senso di noia, di scetticismo interpretato stilisticamente come in un cameo hollywoodiano, sullo sfondo di un Sunset Boulevard dell'industrializzazione. Giusto come scriveva Tomasi nel suo romanzo: «Nelle persone del carattere e della classe di don Fabrizio la facoltà di essere divertiti costituisce i quattro quinti dell'affetto». Grazie allo spirito malinconico, intervallato da brevi accenni o lievi abissi di spleen, con cui assiste allo spettacolo della vita che sfugge: a cui si può rispondere con un'improvvisa accensione di interesse per un accordo con la General Motors, oppure a un satanico versetto contro Zinedine Zidane e Alex Del Piero. E per quella capacità di dettare il tono e il registro culturale che oggi gli è contesa solo dal carisma sapienziale e ineffabilmente "cool" di Carlo Maria Martini. Rispetto all'aristocrazia torinese, capace di inserirsi nel gioco politico con diplomazie da potenza a potenza, e a fornire l'imprinting delle buone maniere, scolorano nel pressappochismo le invenzioni mutuate dal lessico anglosassone. "Bipartisan" è una trasposizione mimetica che lascia sempre trasparire una traccia di furbizie da retrobottega. Un ministro come Renato Ruggiero, anima laica e internazionale di un governo qua e là incline alle bigotterie e ai provincialismi, non sembra iscrivibile né alla razza camaleontina né a quella gattopardesca: piuttosto all'ufficio di mandatario e tutore della continuità degli establishment. Chi poteva ambire al titolo era Gianni Letta, se non fosse che l'avere vestito per anni la porpora cardinalizia gli ha inibito il papato. Il Letta major può rivestire la carica di istitutore dei gattopardi eventuali, ma l'eccesso di cipria e acconciatura non compensa l'assenza di unghie. (Dall'altra parte, Antonio Maccanico era un assiduo equilibratore di sottosistemi, eppure le sue diplomazie erano tutte di tipo funzionariale, in quanto snodo pensante fra aree di potere contigue). Ci si avvicina di più, al profilo felino dei titolari di un potere eterno, se si pensa agli sforzi di Pierferdinando Casini di reincarnarsi istituzionalmente, mentre Francesco Cossiga rifiuta con balentìa sarda e pecoraia la sicilitudine del gattopardismo. Clemente Mastella o Leoluca Orlando sono esemplari spurii. Quanto agli altri circoli, fuori della politica, come maestri di stile nell'esercizio di un potere implicito non si vede un successore di Alberto Moravia. Occorre cambiare genere e serraglio, e ritrovare qualche tratto di eternità e di sapienza nel baudismo, forse in Agostino Saccà, ma sapendo che lo stigma del potere, nell'essenza della sua popolaresca trasversalità, è impresso su Maurizio Costanzo: ed è per questo che tutto il resto è corte.
L'Espresso, 13/09/2001
Meglio distinguere partito e sindacato
Piero Fassino, probabilità di sconfitta basse, salvo imprevisti. Giovanni Berlinguer, alte, malgrado l'effetto vecchio zio. Enrico Morando, praticamente scontate salvo confluenza. Ma neanche i giocatori d'azzardo più incalliti e imprudenti potrebbero scommettere a colpo sicuro su chi perderà davvero il congresso dei Ds, perché anche le soluzioni già scritte scolorano nell'incertezza quando un partito carico di storia vive un presente di turbolenza. Parrebbe invece di poter scommettere facilmente su chi lo ha già vinto, con settimane di anticipo, a mani basse, senza impegnarsi direttamente nella sfida congressuale. Dire che si tratta di Sergio Cofferati è superfluo, visto che con una sola intervista, e con un solo profondo attacco al governo, il leader della Cgil è riuscito a trasformarsi nel protagonista assoluto della fase politica. Cofferati incombe sulle feste dell'Unità, sulla discussione fra i militanti, sul confronto fra i papabili alla segreteria. Mentre i candidati ufficiali si sono presentati con una sola missione (salvare il salvabile), Cofferati ha occupato la scena presentandosi come l'unico leader a due facce: capo della piazza e capo implicito del partito, e in quanto tale unico esponente della sinistra con le idee chiare su come si fa l'opposizione. Le conseguenze sul dibattito interno ai Ds sono appariscenti. Fassino per ragioni d'ufficio e Berlinguer per obblighi di rappresentanza correntonista devono mettersi sulle orme del più forte esponente diessino in circolazione (operazione che impaccia evidentemente il primo ben più del secondo). E fosse tutto qui: con la sua sortita contro le politiche berlusconiane, forse resa più intenzionalmente violenta anche dalle propagandistiche accuse di passatismo rivoltegli al Meeting di Rimini da un imprudente Tremonti, Cofferati si è comunque eretto a interlocutore principale del governo di centrodestra. Al punto che anche Silvio Berlusconi si è posto il problema. È difficile che l'autunno 2001 possa ripetere gli strepitosi exploit dell'autunno 1994, tuttavia per il premier le piazze piene sono un'inquietudine. Dal governo sono partiti i segnali, seppure visibilmente astiosi, di attenzione. Si è messa la sordina agli ideologismi liberisti. È stato prospettato qualche punto di confronto. Questa strategia governativa complica le cose anche al vincitore Cofferati. Che può facilmente mettere sotto ipoteca politica i Ds, e fare della Cgil lo strumento dell'opposizione sociale. Ma se il governo fa il suo mestiere con flessibilità e apre tavoli, anche il Cinese deve comportarsi da sindacalista, e portare a casa gli accordi possibili. Insomma, Cofferati è il protagonista assoluto finché il governo berlusconiano glielo concede. Ma una certa prudenza "democristiana" riporta automaticamente il capo della Cgil dentro il suo apparato, mentre il poveretto che si troverà al vertice dei Ds resterà scoperto e boccheggiante: a riprova che in questo momento per i Ds parlamento e piazza, partito e sindacato, sarà meglio tenerli distinti.
L'Espresso, 30/08/2001
Di nome Giovanni, come quel papa
L'apparizione dei vecchi saggi È uno dei prodigi ricorrenti che illuminano la gravità della crisi di un partito. Sono segnali medievali, quando i secoli bui venivano rischiarati dalle chimere. Nei Ds, la candidatura di Giovanni Berlinguer alla guida della mozione anti-dalemiana non sfugge a questa ascendenza mitologica. Una figura di secondo piano, depositaria di sapienze fuori moda, viene evocata da un composito gruppo di soci, il "correntone", che mette insieme esponenti della sinistra e veltroniani, uniti soprattutto dalla complicità nel «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Il ciò che non vogliamo, è ovvio, riguarda un segretario come Piero Fassino, troppo oscurato, e forse condizionato, dall'ombra di Massimo D'Alema. Progetto confuso? Peggio, secondo uno dei liberal della Quercia, il senatore Claudio Petruccioli, il quale non ha mancato di segnalare a "l'Unità" come l'operazione Berlinguer sia deprimente: «un modo, in una situazione in cui non sanno bene cosa fare, per candidare il cognome». Il che liquiderebbe le sovrastrutture dialettiche con cui dirigenti come Cofferati, Bassolino, Salvi, Mussi e tutti gli altri del correntone hanno impostato la loro azione in vista del congresso di novembre. Osservata invece a freddo, l'iniziativa della mozione guidata (di fatto, se non di diritto) da Sergio Cofferati risulta particolarmente utile a tutti i contendenti. Al correntone di centro-sinistra permette infatti di schierarsi contro Fassino senza che nessuno dei leader antidalemiani si impegni in prima persona rischiando una sconfitta distruttiva: e quindi consente eventualmente di perdere il congresso senza perdere la faccia. Alla mozione Fassino dovrebbe invece permettere di eleggere un segretario dotato di tutti i crismi, dopo un confronto interno che abbia una parvenza di credibilità competitiva, dissolvendo quindi i sospetti di democrazia teleguidata e di un partito retto dal solito burattinaio. In questo senso la candidatura di Giovanni Berlinguer è perfetta per gestire la situazione senza toccare il problema. Perché dopo le elezioni di maggio i Ds sono in zona disintegrazione. Il partito non ha un punto di vista su nessuno dei temi critici: non sul problema del rapporto partito/coalizione; non sulla scelta in chiave di identità politico-culturale; non sulle relazioni con il movimento no global; non sulle politiche di mercato, se è vero che l'ala dei Morando, Debenedetti e Salvati non disdegna la flessibilità in uscita predicata da Fazio. Di fronte a una situazione così seria, chissà che non venga in mente a qualcuno fra i ds, un po' per gioco, per esorcismo o per disperazione, che il ricorso a Giovanni Berlinguer potrebbe essere significativo non tanto per il cognome, quanto per il nome. Non sarebbe la prima volta che una chiesa in difficoltà fa ricorso a un vecchio cardinale per arrangiare la transizione, salvo ritrovarsi fra i piedi una mezza rivoluzione. Che poi l'estrema risorsa degli ex comunisti si chiami Giovanni, è un'altra delle finali ironie della storia.
L'Espresso, 16/08/2001
L’impresario della mano dura
Minaccioso verso l'opposizione, spregiudicato nel ribaltare le accuse sugli avversari politici, sarcastico verso la minoranza esattamente come era sarcastico verso i "politicanti" del vecchio centrosinistra il suo maestro Almirante, in pochi giorni Gianfranco Fini si è impossessato del ruolo di leader ideologico del centrodestra. Mentre il cav. Berlusconi si occupa delle faccende pratiche, fa il "principale" vecchio stampo, sciorina il suo lessico con ironie da amministratore dell'aziendina (la Fao? «Abbiamo già dato»), il suo vicepremier fa politica. La fa in grande. In piena autonomia. Con l'obiettivo di conquistare quel ruolo centrale sulla scena italiana che a suo tempo renderà automatica la successione all'Uomo di Arcore. Intanto si propone come l'interprete del blocco "law & order", facendo circolare in Parlamento voci sulla contiguità della sinistra con i violenti. Nessuno è ancora riuscito a capire che cosa ci facesse a Genova, nella centrale operativa di Forte San Giuliano: offriva il sostegno della destra alle forze dell'ordine, faceva la "ola" per la polizia (come ha detto Giuliano Ferrara), lasciava intendere una copertura per comportamenti sbrigativi? Di sicuro in questo momento Gianfranco Fini rappresenta l'unica destra autentica che agisce nel sistema politico italiano: solo che non possedendo una cultura di destra moderna (i riferimenti culturali della famosa svolta di Fiuggi erano e continuano a essere una pagliacciata), ed essendo il portatore di una tradizione lontana anni luce dal radicalismo neoconservatore reaganiano e thatcheriano, il presidente di An ha una sola carta da giocare, mentre Berlusconi provvede alla ristrutturazione del condominio. Offrirsi come il garante dell'Italia visceralmente di destra: un garante politico, programmatico, ideologico. Nella mente di Fini, infatti, Berlusconi è ancora un fenomeno transitorio, politicamente indefinito, il capo di un'Italia anonima, atomizzata, impolitica. Alleanza nazionale invece rappresenta un'avanguardia, o una retroguardia, in grado di valorizzare politicamente tutte le pulsioni ancora largamente inespresse della borghesia italiana: la voglia di una gestione severa dell'immigrazione, il desiderio di mano dura per avere sicurezza di strada e di casa, cioè tutto il repertorio convenzionale delle destre in situazioni di complessità sociale. Sotto questo profilo, mentre Berlusconi ha bisogno soprattutto di pace sociale, a Fini il conflitto e le piazze in rivolta potrebbero non dispiacere affatto, perché se c'è un imprenditore politico della sicurezza e della mano dura è lui. Il suo calcolo può essere strategicamente azzeccato, ma la scommessa è sull'Italia più spaventata e chiusa. Forza Italia era anche un annuncio di modernizzazione; An è un programma di gestione conservatrice, visibilmente non aliena dal ricorso alle maniere forti. Un ritorno al passato, in certo modo rassicurante per una borghesia mutriosa e ostile alle novità, ma al di sotto di ogni sospetto per tutti quei ceti, a destra come a sinistra, che puntavano su un'Italia moderna, liberale e aperta.
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