L’Espresso
L'Espresso, 16/08/2001
Fra regime e utopia
Finora aveva vinto l'ammiccamento dei "cattolici irregolari" (secondo la definizione di Arturo Parisi): votate per noi, per la destra, per la Casa delle libertà, per «mandare la società al governo». Senza fisime, per chiuderla finalmente con lo spazio dell'over-regulation di sinistra. Il cattolico irregolare Berlusconi era insieme il simbolo e il contrattista dello scambio fra il realismo politico della gerarchia cattolica e la laicità materialona di Forza Italia. Due mondi che potevano parlarsi senza mediatori. Un'alleanza fruttuosa per tutti, almeno in apparenza, perché Berlusconi poteva ottenere dall'alto la riduzione sostanziale del proprio tasso di irregolarità cattolica, insieme alle credenziali diplomatiche, la benedizione del papa e l'accreditamento politico del cardinal Sodano. Mentre la Chiesa, da Camillo Ruini in giù, poteva pensare di lucrare vantaggi significativi sui suoi temi, dalla scuola privata alla famiglia e alla bioetica. L'inaugurazione di questo clima pattizio sembrava avvenire sotto i migliori auspici. Tra il governo e la gerarchia c'era il sigillo di Comunione e liberazione, invisibile e revocabile, ma favorevole al centro-destra nel nome dello storico pragmatismo ciellino, e grazie alla controfirma di figure come Roberto Formigoni. L'atmosfera si è raffreddata, neanche a dirlo, con il G8. Perché a Genova è balzata sulle prime pagine una presenza cattolica non riducibile ai meccanismi del potere e al suo sottobosco. Inoltre, la gestione catastrofica dell'ordine pubblico, con i papa-boys coinvolti dal pressappochismo manganellatorio della polizia, ha messo in luce che il collateralismo cattolico rispetto a Berlusconi non è propriamente una testimonianza mobilitante, e neanche, una missione così eroica da risultare suggestiva, se non eventualmente per monsignor Alessandro Maggiolini e Gianni Baget Bozzo. È probabile che dopo Genova si sia aperto un conflitto fra cattolicesimo di regime e cattolicesimo con tracce di utopia. Su questo punto, con un attrito virtualmente drammatico, potrebbe venire fuori che l'egemonia cattolica non abita necessariamente ad Arcore. Anche il meeting di Cl a Rimini, atteso come il rito euforico dell'omologazione con la destra, potrebbe invece esprimere tensioni impreviste. Già: non piace a molti essere il portavoce di un cristianesimo di polizia; ma soprattutto non fa piacere né ai ciellini né ai cattolici impegnati passare dalla condizione di avanguardia allo status di minoranza, dato che le minoranze si possono picchiare, se disturbano, o inglobare, se si prestano. In entrambi i casi, si tratta di una fine troppo ingloriosa per non provocare ribellioni.
L'Espresso, 09/08/2001
Vieni avanti, creatino!
Temporibus illis, ci si interrogava perplessi al caffè sugli amori delle ali sinistre, chiedendosi se fosse vero che lo juventino Stacchini aveva avuto una love story rivierasca con la giovane Raffa. Ne chiacchierava fra le righe il "Guerin sportivo", che era il settimanale cultural-scandalistico del calcio domestico. Gli altri giornali sportivi, muti. Era l'epoca in cui i critici mettevano in conto l'annus horribilis per il centrocampista appena sposato, perché il talamo nuziale era untuosamente considerato il primo nemico della vigoria atletica. I luoghi deputati della fama, della visibilità e del successo erano fuori dallo stadio. Tra Ira Fürstenberg e Sandrino Mazzola, tra Farah Diba e Omar Sivori i rotocalchi non avevano il minimo dubbio. I grandi dualismi patinati riguardavano tutt'al più Callas e Tebaldi, Loren e Lollo, con Moravia e Pasolini eventuali second best. Più tardi, a via Veneto come via trucis del jet-set sarebbe succeduta la Statale di Mario Capanna in quanto cattedrale dell'avanguardia. Ma i calciatori restavano parte dell'immaginario di frange maschili, o al massimo degli uzzoli del machismo di Pier Paolo. Donne allo stadio, solo qualche fanatica. Con portieri e terzini si mettevano soltanto quelle più sgherre. Negli anni formidabili, la riscossa sociale del terzino non sarebbe stata presa in considerazione dai movimenti: riusciva difficile considerare un calciatore come compagno di strada, e anche come servo dei padroni, simbolo del capitalismo più fesso, bah. Che cosa sia successo poi, per proiettare un trequartista e il suo look fighetto nel libro dei sogni sexy, è un tema praticabile di antropologia culturale. Per dire, Michael Schumacher è un idolo pop, ma non attrae torme di adoratrici: troppo distante, siderale, asettico. Mentre un calciatore medio, debitamente muscolato, bombato o ormonico naturale, è "one of us", molestabile in discoteca da una tosta bad girl qualsiasi. Non occorre che sia un talento della "cool Britannia" come il glamoroso Gary Beckham autore di exploit "animali" con la riconoscente Spice. Una preda erotica calcistica rappresenta la via più breve fra l'anonimato e la celebrità; oppure l'acceleratore keynesiano di notorietà precarie e futili. I braudeliani "giochi dello scambio" nel calciomercato e gli accoppiamenti senza pregiudizi complice il backstage dei talk show facilitano l'iscrizione dell'atleta nell'orbita mediatica, mentre la coppia di belli e vincenti assume un alone di glamour fatale: anzi, si trasforma in schema dell'amore ai tempi della ripartenza, nella stagione in cui il flirt deve essere bruciante come un contropiede, con l'estate quadricipite che sancisce, come no, la prevalenza del creatino.
L'Espresso, 09/08/2001
Non ci resta che mormorare
A Milano, sui computer dei dealer e dei trader furoreggia un salvaschermo che si apre con il suadente accento del Cavaliere: «Mi consénta di augurarle un buongiorno e una piaciuevole giornata di lavoro, la cosa più importante della vita» (e in chiusura, con la voce alteratissima: «Ma crìbio... è possibile che tu abbia già finito di lavorare? È una cosa... indegna!»). Sono espedienti di resistenza umana, perché Silvio Berlusconi non è ancora criticabile come uomo di governo. Solo gli stizzosi fondamentalisti se la prendono con la legge sul falso in bilancio e criticano la pietanzina del Dpef, un fritto così aereo. Per il resto, con la nascita del regime di Silvio II è semmai tempo di fronda e di "ius murmurandi". Che accomuna maggioranza e opposizione, perché nulla piace a tutti come parlare male del Capo. Struggendosi d'ammirazione, i suoi; compiacendosi per le cadute di stile, gli altri. E godendo languidamente lui, che vuole solo essere amato, e che quindi ama il rumour quando è frutto di un amore confessato o inconfessabile. Frondeggia freudianamente perfino il rigido Claudio Scajola, quando riferisce sul G8 e dice «abbiamo predisposto accurati controlli alle fioriere... ehm, alle frontiere», influenzato com'è dall'attivismo del premier, con i 106 interventi sostanziali ed estetici per «cambiare la faccia a Genova». Al punto che il sindaco di Genova Pericu, un dandy sul sarcastico, sbotta: «In 20 giorni, non ce la faceva neanche il mago Zurlì» (ma Lui sì, fior di «interventi sulla logistica e sull'accoglienza», sulle mutande stese e sul pesto alla genovese "garlic free", oltre che su edifici fatti misteriosamente abbattere). E quell'ingrato di Pericu: «Non ricordo se erano 106 o 110...». Frondeggiano comunque all'unisono destra e sinistra. Giuliano Ferrara scrive che dare la colpa di qualsiasi incidente al governo precedente è una strategia «capziosa», e la sconsiglia vivamente sul piano stilistico. Mattia Feltri, nelle lettere al "Foglio", riporta gli auguri di compleanno a Francesco Cossiga scritti nel gergo della fureria di Publitalia: «Caro presidente, nella lieta ricorrenza genetliaca le giungano i miei sentimenti augurali più fervidi». In effetti il Capo è debole dal punto di vista linguistico. Per questo, a parte gli errorini di natura lombarda per cui va celebre (le «chiacchere», il «teg-nico»), e i ripescaggi liceali di quando era un bravo grecista («vorrei dare contezza», «i prodromi»), è politically correct criticarne la propensione alla barzelletta: sia per ragioni istituzionali, perché non sta bene equiparare la Guardia di Finanza ai ladri (come in una delle storielle più successful) sia per filosofico fastidio verso barzellette e barzellettieri, come nel caso di Lucio Colletti: «Io detesto quelli che raccontano barzellette; in più le racconta in milanese, e non capisco un cavolo». Questo di Colletti è tradimento medio-alto, con sfumature esiziali perché il filosofo non nasconde una incompatibilità antropologica. Intelligenza con il nemico sono le facce degli altri intellettuali della Casa, Urbani, Fisichella, Tremonti, Sgarbi, allorché il Cavaliere se ne esce al Senato con le sue riflessioni di alta geopolitica tipo: «Era bello vedere la simpatia fra il presidente degli Stati Uniti e il premier giapponese, sessant'anni dopo Pearl Harbor, e dopo Hiroshima». Chissà, un dossier di Renato Ruggiero gli avrebbe chiarito che americani e giapponesi si sono parlati, nel frattempo; e gli avrebbe suggerito di non dire «queste otto teste coronate», che si presta ai giochi di parole. Tradimento medio-basso sono invece le critiche come quelle dell'oppositore Luciano Violante: «Lei ha parlato dell'Aids e delle carestie come di "inconvenienti"», perché mettono capziosamente in luce una inadeguatezza di lessico che potrebbe rivelare l'insensibilità di Silvio per quei rumpabàll di africani. Più accettabili, secondo l'etichetta di corte stilata da Gianni Letta, il Mazzarino di re Silvio, certe analisi politicamente borderline che mettono in rilievo l'originalità, disemm inscì, di certe espressioni. Ad esempio, quando il premier parla dei risultati del G8 e racconta del miliardo e 300 milioni di dollari stanziati contro l'Aids, aggiungendo: «che non è un importo da poco», è tollerato rilevare che il tono è da commercialista brianzolo. Rischioso invece censurare l'amoroso delirio pro-Bush e anti-Kyoto con la strofa «tu vuo' fa' l'amerikano». Vietato anche storcere il naso quando il premier parla della polizia dicendo «i nostri ragazzi», e vietatissimo segnalare che trattasi di espressioni da telefilm Usa o da Milan. Completamente out risultano ormai le malignità sull'aspetto fisico. Il pessimo Vauro che sul "manifesto" cita il «cantautore genovese» Fabrizio De Andrè («...che un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo») è un perverso epigono di "Spoon River" ma anche l'autore di una insopportabile scorrettezza verso un individuo di statura svantaggiata. Male anche il sinistro Roberto Benigni, con il suo song post-brechtiano «Quando sento Berlusconi mi si sgonfiano i c...». Meglio la Ferilli, frondista fronzuta e con quel paio di robe. Da evitare infine, perché fuori moda, le dicerie sulla tinta dei capelli, e i giudizi sul doppiopetto catafratto e il maglioncino blu. Cose d'altri tempi, quando Berlusconi era un avversario politico: mentre adesso, come dice ironicamente Giuliano Amato, è il presidente di tutti gli italiani e ci rappresenta tutti. Con l'augurio implicito che si controlli, e non ci rappresenti troppo.
L'Espresso, 02/08/2001
La strana coppia Ciampi-Berlusconi
Non è usuale che il presidente della Repubblica e il capo del governo appaiano insieme in tv per rivolgersi al Paese. Per questo, l'immagine appaiata di Carlo Azeglio Ciampi e Silvio Berlusconi durante il G8, sullo sfondo di una Genova devastata, aveva una doppia valenza. C'era l'aspetto simbolico, con le due maggiori istituzioni dello Stato che si esponevano per trasmettere una rassicurazione all'opinione pubblica. Ma era più rilevante l'aspetto politico implicito: in quel momento, il Quirinale si incaricava di coprire Palazzo Chigi. L'autorevolezza del Colle si stendeva sul premier esordiente, mentre Berlusconi accettava un ruolo semi-gregario. È un altro episodio che connota la diarchia creatasi al vertice delle istituzioni. La coabitazione fra il vecchio azionista, ministro ulivista, garante delle convenzioni istituzionali, e lo sdoganatore degli ex missini, oltre che strenuo oppositore delle politiche dell'Ulivo, costituisce una delle fattispecie più singolari della Seconda Repubblica. Finora, Ciampi si era limitato alle azioni di "moral suasion", come nella composizione dell'esecutivo e nella scelta dei ministri; a Genova si è manifestata invece una forma di tutela. Non dichiarata ma percepibile. Sarebbe una forzatura sostenere che Berlusconi è un premier a sovranità limitata. Piuttosto, si intravede una sottile trama di scambi: il Quirinale vuole un contesto di stabilità, nel rispetto del tessuto istituzionale, senza slabbrature populiste e senza sbreghi regolamentari; mentre Palazzo Chigi avverte ancora il bisogno di una legittimazione dall'alto, che gli conferisca un crisma di rispettabilità politica e di credibilità istituzionale. L'equilibrio è acrobatico, poiché fra la sostanza del grand commis Ciampi e quella del leader mediatico Berlusconi c'è una differenza ontologica. I loro mondi si iscrivono in orbite lontanissime. Il capo dello Stato ha buon gioco nel rivendicare la titolarità del sistema di garanzie democratiche, e Berlusconi ha per ora qualche vantaggio nel concedergli il riconoscimento di questa titolarità. Questo gioco di scambi può durare a lungo, ma non fino al punto di ridurre Berlusconi alla dimensione di premier dimezzato. Quindi è dubbio che l'equilibrio possa restare inalterato all'infinito. Anche perché Ciampi non è solo il garante di Berlusconi, ma è il riferimento di ultima istanza dell'opposizione: nel momento in cui il governo accelererà la propria azione, alzando inevitabilmente la temperatura del confronto politico (oppure quando emergeranno di nuovo in modo vistoso i problemi connessi al conflitto d'interessi), il centrosinistra si rivolgerà al Quirinale per ottenere un sostegno o una parola dirimente. A quel punto, l'equilibrio potrebbe spezzarsi. Un Berlusconi emancipato politicamente risulterà via via insofferente di ogni tutela. L'Ulivo chiederà appoggio al Quirinale. Come in ogni condominio, la coabitazione fra due inquilini reciprocamente troppo ingombranti è destinata a complicarsi.
L'Espresso, 26/07/2001
Governate, please
Qualcuno dovrà avvertire il centrodestra che in un certo giorno di maggio la Casa delle libertà ha vinto le elezioni. Perché mentre il premier sta arricchendo "day by day" la sua immagine di factotum d'Italia, tutti gli altri, dall'inflessibile Giulio Tremonti al duttile Bobo Maroni, continuano a gemere come se il paese fosse ancora sotto il giogo del centrosinistra. La Casa delle libertà era riuscita in corso d'opera a delegittimare l'azione del centrosinistra: "ostruendo", come dice l'economista Paolo Onofri, la comunicazione con l'opinione pubblica e distorcendo realtà e numeri. L'obiettivo di illustrare la situazione italiana come un progrediente disa-stro aveva fatto breccia nella società. La vittoria berlusconiana è la prova che il Cavaliere e i suoi erano riusciti a peggiorare significativamente la percezione dei fatti. Ma adesso sarebbe bene che il centrodestra (membri effettivi e di complemento) si rendesse conto che è difficile continuare a scoprire il fallimento dell'Ulivo. Difficile per la pazienza dei cittadini, e inadeguato per chi si è insediato al governo. Se Prodi, D'Alema e Amato hanno fallito, pietà. Ma continuare a stigmatizzare il malgoverno passato è un cattivo succedaneo del compito che la Casa delle libertà si è assunto. Berlusconi e la sua équipe hanno conquistato il diritto di governare e quindi si sono assunti anche il relativo dovere. Pensare che l'esercizio del governo consista nel proseguire la campagna elettorale costituisce un fraintendimento di ruoli, nel migliore dei casi. Nel peggiore, la ricerca di un alibi. È vero che l'attuazione di un programma è cosa complessa: ma è un obbligo civile ancor prima che politico. Alla lunga, la lamentela perdurante, con gli stupori pubblici per l'inadeguatezza dei predecessori, è un genere noioso. Mettersi a governare è finalmente anche una questione di stile.
L'Espresso, 19/07/2001
Un dilemma per i ds
Con una fatica estrema, sfiorando ripetutamente il baratro della dissoluzione, i Ds cercano la via che deve condurli al congresso, a una leadership, a una prospettiva negli anni asprigni dell'opposizione. Le ultime tappe della crisi hanno visto appannarsi l'idea di un'elezione plebiscitaria di Piero Fassino, teleguidata da Massimo D'Alema; a sinistra si è coagulato un gruppone che può esprimere un candidato alternativo, raccogliendo anche le adesioni del dissolto blocco veltroniano. Di per sé, il consolidarsi di una frazione di sinistra ha un solo significato: creare le condizioni per tenere decentemente un rapporto con Fausto Bertinotti. Se invece il gruppone antifassiniano (e antidalemiano) dovesse ottenere un successo eccessivo, potrebbero essere guai. Perché se il peso della sinistra interna aumenta, il partito si convince che la sconfitta del 13 maggio è stata determinata da una perdita di identità, ed essendo l'unica identità residua quella socialista, per vincere in futuro occorre una quota di socialismo in più. Così, l'eventuale ridimensionamento del socialdemocratico D'Alema verrebbe pagato con un tributo ulteriore all'illusione socialdemocratica. Un errore al quadrato, capace di danni logaritmici, perché in questo momento i Ds non possono cullarsi nel tepore delle vecchie idee. Devono affrontare il dilemma che li stiracchia, quello di essere un partito troppo piccolo per guidare una coalizione imponendo il proprio progetto, e nello stesso tempo troppo grande per farsi neutralizzare nell'ulivismo di ritorno. Dilemma bicornuto: di quelli che non si risolvono con le mediazioni. Solo che in questo momento i Ds sono un partito a cui qualsiasi scelta provoca sofferenza, e un taglio netto fa paura: per questo si agitano, senza accorgersi che il problema del partito è una questione minore di fronte alla necessità di tenere in vita e rilanciare la coalizione.
L'Espresso, 19/07/2001
L’estate delle libertà
Viva la libertà. Punto, virgola, punto esclamativo. Facciamogli vedere che non siamo tirati. Sulla scia dell'ormai storico grido emesso da Marcello Pera appena eletto presidente del Senato, l'onda libertaria esce dai palazzi, esonda dagli alvei, travolge gli argini. L'Estate delle Libertà è la sintesi stagionale del clima nuovo: il surriscaldamento del pianeta sarà una minaccia per i "no logo" incazzosi e gli antiglobalizzatori della mestizia cattolica che preferiscono Naomi Klein a Naomi Campbell. Ma, per l'Italia uscita dalla radiosa giornata di maggio, allorché la Casa ha dilagato in politica e nelle psicologie, è una grande, straordinaria promessa. Calda, la lunga estate annunciata dal centro-destra, caldissima come nell'inno di Max Pezzali, gambe che si scoprono, reggiseni di nylon trasparente, oli essenziali sulla pelle già abbronzata in via preventiva. Fatto è che, se non altro, la Casa delle libertà ha azzeccato il mood: il sentimento corale di un'antropologia naturaliter liberista, libertaria, libertina, costretta per un'eternità a subire i rigori di Ciampi e Prodi, e poi i rabbuffi di D'Alema, nonché le postume teorie riformiste di Giuliano Amato. Sai che allegria. Basta con le lagne, con l'incubo dell'Irap, con le complessità analitiche della "dual income tax". Adesso «turbo», come dice il lanciatissimo presidente della Confindustria, Antonio D'Amato. Politiche economiche tutte sul lato dell'offerta, perché i supply-sider sono più fantasiosi, e fra la curva a campana di Laffer e le domande di un quasi-Nobel, Paul Krugman ("Meno tasse per tutti?", con un irritante punto interrogativo nel titolo), il popolo delle partite Iva sceglie istintivamente la curva a campana, che rintocca meglio ed evoca prodigi. Il tono lo dà subito il premier, che non rinuncia al vissuto brianzolo da barzelletta: «Chi è?». «I ladri». «Meno male, credevo fosse la Finanza». Un po' spente, le Fiamme gialle non protestano nemmeno più. Nel frattempo, i "moderns" come Letizia Moratti alla domanda su come va all'Istruzione rispondono: «Mi sto ancora staffando». Vèri inglisc. La gergalità anglofona viene corretta dall'idolatrato Giulio Tremonti, a cui non sembra vero di poter esibire il suo pastiche cosmopolita: la devolution di Umberto Bossi è la traduzione «semanticamente molto pregevole» del Programma, inclusa la debita «allure» costituzionale. Per rivaleggiare con la koinè di Tremonti, il re in canottiera Bossi si è limitato a commentare: se non vogliono darmi la devolution, «m'inc...». Bella parlata pop, in cui si realizza la coincidenza "maggica" fra il volgare dantesco e il ministeriale romano. Ma il vero punto di sintesi nazionale, il treno dei desideri in cui si incontrano le psicologie dell'ospite di Flavio Briatore al Billionaire (ancora meglio sui 67 metri dell'Altair) e del professionista-artigiano-autonomo del nordest in svaccanza a Lignano, è la Legge dei Cento Giorni, il sogno di mezza estate berlusconiano che dovrebbe ska-ska-skatenare la produttività italiana meglio che un karaoke da Umberto Smaila a Poltu Quatu. Facendo turbinare il common rail dell'economia. E dentro la Legge, preziosa come un'entità metafisica, ecco il Prodigio, cioè la Tremonti bis. L'aspettavano, la desideravano, la imploravano: perché la legge sugli utili reinvestiti piacerà pure alle grandi imprese, ma fa commuovere i piccoli, spreme emozioni, procura languori kierkegaardiani e anti-viscali. Con il pensiero segreto che unisce nel tremore l'avvocato e l'idraulico: «Mi rifaccio la macchina!». Evangelico: in effetti griderebbe vendetta negare a chi lavora la giusta Mercedes. Oppure, visto che la Tremonti premia anche gli investimenti in capitale umano, «mando la segretaria a fare un corso di inglese, e defalco». Defalcate, defalcate, qualcosa resterà. Resterà sicuramente l'eccitante chance del primo comandamento italico, «mi rifaccio la casa». Ristrutturazioni libere, qui dentro il padrone sono me. Ai grandi lavori e trafori ci penserà il ministro Lunardi ing. Pietro. Nella Valle dei Templi, se volesse, Totò Cuffaro potrebbe suscitare un movimento con lo slogan "Né con gli abusivi né con le ruspe". Qui in città, un bel soppalco, due muri spostati, e da un pregiato appartamento nel centro storico ne vengono fuori meravigliosamente due, «rispettando volumi e facciate»: ma, soprattutto, non ci saranno schizzinosi tecnici comunali a eccepire sugli schizzi del geometra. Altro che "tre i", alla triade internet-inglese-impresa bisogna aggiungere il francese: laissez- faire, enrichissez-vous, Turgot più Guizot. Ma il fatto è che questa "renaissance" anarchica è entrata sotto la pelle degli italiani. I quali non si fanno scoraggiare dalle sortite più grevi, tipo Gasparri che tenta di sputtanicchiare Lasorella, o quelli di An che si "inc..." con la Lega perché il reato di immigrazione illegale volevano introdurlo loro. Ma che invece fanno i loro calcoli sulle leggi più genuinamente familistiche, a partire dalla soppressione dell'imposta sulle successioni, l'iniquo balzello sulla robba. Soldi, Macchina, Famiglia, Padrone a casa mia: sono gli incipit delle strofe di una chanson molto italiana, così irresistibile da dissolvere nel vento anche l'improvvisato "Va' pensiero" di Rocco Buttiglione: estemporanea trovata di un filosofo che non ha capito che l'Italia di Forza Italia s'è davvero desta. Quell'Italia mamelica e babelica, «preterintenzionale» secondo il politologo Ilvo Diamanti, perché non rispetta le prescrizioni dei costituzionalisti e si fa i comodacci suoi anche in politica, a dispetto dei modelli e delle regole (tanto, poi cambia trend anche il pregiato "Economist"). Che sente Vittorio Sgarbi reclamare imperialisticamente l'Obelisco di Axum. E poiché gli obelischi alludono fisiologicamente a quell'idea di virilità da esibire a bischero sciolto sulle spiagge accaldate della Riviera e nei locali di Porto Cervo, fra squinziette ghiandolari e vippone scalandrate, che cosa può rispondere alla domanda "a chi l'Obelisco?", se non "ma a noi, ça va sans dire"?
L'Espresso, 12/07/2001
Dietro gli avvocati…
Il ministro della giustizia Roberto Castelli ha recuperato Montesquieu per sfumare le polemiche di Gaetano Pecorella e Carlo Taormina contro le sentenze su Piazza Fontana e sul giudice Carnevale. Tuttavia sarebbe minimalistico ridurre la questione a un conflitto d'interessi di marca professionale. È vero che il sottosegretario agli Interni Taormina ha difeso a Milano il neofascista Maggi, e il presidente della commissione Giustizia Pecorella, avvocato di Berlusconi, è stato il difensore di Delfo Zorzi. Ma ridurre i loro giudizi («Storia riscritta con la penna rossa» il verdetto su Carnevale, «Una sentenza politica» gli ergastoli per Piazza Fontana) a un conflitto deontologico è l'indizio di una sottovalutazione. Quindi fa bene il ministro Castelli a rievocare i canoni del costituzionalismo, ma farebbe ancora meglio a capire che gli attacchi di Taormina, Pecorella & c. non sono un semplice revanscismo corporativo. Malgrado l'ascesa a responsabilità di governo e istituzionali, l'ala militante "antigiustizialista" di Forza Italia e alleati sta mostrando infatti l'intenzione di proseguire la sua campagna, ideologica e sul campo. Non è bastato il successo politico, e quindi la possibilità di reimpostare il rapporto fra politica e giustizia. Di per sé, il fondamentalismo avvocatesco di Pecorella e Taormina è il proseguimento della campagna elettorale con altri mezzi: che però diviene lo strumento per tenere sotto pressione la magistratura. Per aiutare il ministro Castelli a inquadrare la situazione, bisognerebbe consigliargli di tenere presente che se ai tempi di Tangentopoli veniva criticato il partito dei giudici, oggi non può piacere il partito degli avvocati. E che se tutto si risolve con un gioco delle parti, con il guardasigilli che chiede pensosamente una "riflessione" dentro il governo per rimediare agli sbreghi, la trama della commedia appare logora fin dalla prima.
L'Espresso, 05/07/2001
I Fini nascosti
Si sa che Alleanza nazionale non è stata premiata né nella formazione del governo né nelle cariche parlamentari (vedi il caso Fisichella) e qualcuno si chiede perché Gianfranco Fini continui a fare la faccia soddisfatta. Le ragioni storico-ideologiche saranno pure evidenti; ma Alleanza nazionale è un partito affamato, ha bisogno di posti e di visibilità, e finora la festa dell'occupazione del potere è stata un party di qualità minore. Seguono malumori, a partire da quelli del massimo rivale di Fini, cioè Francesco Storace. In realtà il disegno di Fini è più sottile rispetto a quello dei suoi colonnelli. La premessa obbligata è che il voto del 13 maggio ha mostrato ancora una volta l'incapacità di sfondamento di An, malgrado le doti mediatiche del suo leader e l'impegno del partito. In prospettiva il rischio di subalternità a Forza Italia è tangibile. Si esaurisce il sogno di rendere An così competitiva da poter rivaleggiare elettoralmente con il partito di Berlusconi. Quindi nel medio- lungo periodo occorre un disegno politico alternativo: non la sostituzione di Forza Italia con An, bensì il ricambio della leadership nella Casa delle libertà. In questa direzione, Fini ha già ottenuto alcune caselle strategiche. Il ruolo di vice-premier gli consente una visibilità continua, con infinite possibilità di intervento e di autopromozione. La presenza di Maurizio Gasparri alle Comunicazioni è perfetta per mettere sotto scacco la Rai presente e futura. Si tratta ora di completare l'operazione. Per An diventa essenziale sloggiare Zaccaria & C., e marchiare il futuro Cda, così come riuscire a infilare propri uomini in tutta l'informazione radiotelevisiva. Malgrado l'agitarsi di Storace, si prospetta la nascita di un partito personale di Fini, da mettere in incubazione per via televisiva: chissà se nella Casa qualcuno sospetta qualcosa.
L'Espresso, 05/07/2001
Lindo scende in campo
Giovanni Lindo Ferretti è nato postumo quarantasette anni fa ed è bello come una faccia di Ligabue il naëf: atemporale, né giovane né vecchio, scavatissimo, un millimetro di capelli, un indizio di barba. Postumo perché sua madre rimase vedova mentre era incinta, in quegli anni Cinquanta così pieni di storie. Famiglia montanara di antifascisti rigorosi, cattolici che nel Quarantotto avevano votato Dc e più tardi avrebbero sperimentato e accettato la coerenza civile dei comunisti. Per chi non lo sapesse, in avvio degli Ottanta, Ferretti ha creato dal niente un gruppo punk di culto, i Cccp-Fedeli alla linea (evolutosi poi nei Csi, Consorzio suonatori indipendenti). È un politico naturale, un affabulatore, un filosofo, che raccoglie l'adorazione di una tribù clandestina e trasversale, per la quale è una specie di leader implicito. Un suo compagno di scuola, il critico Marco Belpoliti, spiega: «Tutti allora sapevano che Giovanni avrebbe fatto qualcosa, anche se nessuno sapeva che cosa avrebbe fatto». Nella sua grande casa sul crinale dell'Appennino reggiano, a Cerreto Alpi, Ferretti alleva e doma cavalli. Giunto a una svolta, riflette sulla possibilità, o sulla necessità, forse sul dovere, di darsi integralmente alla politica. Intanto, venerdì 29 giugno, riunisce di nuovo la sua eccentrica band. Nella notte emiliana, sullo sfondo delle querce di Montesole, a un passo da Marzabotto, tiene un concerto in memoria di Giuseppe Dossetti. Lo ha voluto chiamare "Per grazia ricevuta": letture, musiche senza parole, canzoni dei Cccp-Csi. Riunendo in una singolare triade il monaco, l'eccidio nazista, il punk. Perché proprio Dossetti? «È una riscoperta della mia maturità», dice Ferretti, «allorché ho capito la sua centralità nella costruzione della Repubblica. Lo incontravo qualche volta, da piccolo, quando ero in collegio dagli Artigianelli a Reggio: e ogni volta era la sorpresa di un carisma folgorante, di un magnetismo assoluto». Quindi una sorta di riconciliazione, dopo gli anni di Lotta continua, dell'insofferenza contestativa, e poi le stagioni provocatorie dello spettacolo oltranzista. «Con il passato, certamente, una riconciliazione. Nel segno di ciò che ha rappresentato la Resistenza, ma anche nel ricordo della testimonianza politica dell'ultimo Dossetti, con la sua difesa estrema della Costituzione». Ma non è curioso che un punk, uno della ribellione "no future", del nichilismo scaraventato in faccia al pubblico, adesso si metta a cantare per un prete? Dossetti, poi: un profeta, un biblista, un santo? «E un politico, con una storia essenziale. Oltretutto, io non ho mai assimilato l'ideologia punk: solo l'estetica. Allora il "no future" andava benissimo come cifra stilistica, indicava un punto di frattura e una chance. Eravamo a Berlino, sentivo la musica nuova, l'insurrezione punk, e mi sono detto: si è aperto uno spazio, buttiamoci dentro». Quando parla di Berlino e usa il plurale, Ferretti allude a Massimo Zamboni, incontrato in una discoteca di Kreuzberg. Un sodalizio lunghissimo che si è interrotto da poco. Perché non c'era più niente da dirsi, niente più da suonare e cantare insieme. Mentre allora, quei due che all'insaputa l'uno dell'altro erano partiti da Reggio Emilia e si erano ritrovati in quell'isola febbrile nella Germania comunista, avevano cominciato a progettare il loro personale show rivoluzionario. Un anno di lavoro, lui che scrive e Zamboni che impara a suonare la chitarra elettrica, il primo violentissimo concerto, il ritorno in Italia e un protagonismo militante, con un'infinità di performance lungo la Penisola. Una batteria elettronica, un bassista, il ballerino- spogliarellista Danilo Fatur tanto per mostrare un lato trash-popolare, e la Benemerita Soubrette del Popolo Antonella "Annarella" Giudici a complicare la scena. Con una mimesi del dogmatismo comunista e delle sue simbologie che li avrebbe portati a incidere dischi dai titoli crepitanti come "Ortodossia", "Socialismo e barbarie" riprendendo ironicamente Sartre, "Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi", citando un testo del "Chairman Mao". Senza rinunciare a "Tomorrow", una cover di Amanda Lear, o a dedicare "Oh! Battagliero" al presidente delle mazurche Iller Pattacini. Sostiene Ferretti: «Ci eravamo presi sul serio. Avevamo fatto un piano quinquennale, alla sovietica, con le condizioni per cui avremmo continuato o mollato. Se entro cinque mesi un grande newsmagazine non parla di noi, stop: e Pier Vittorio Tondelli lancia quattro pagine su "L'Espresso". A Firenze, durante un concerto disastroso, non sentivo niente, ho urlato e stonavo come un disperato nel microfono, pensando: ci massacrano, ci fanno a pezzi, ci ritiriamo. E l'indomani "Repubblica" apre gli spettacoli con un titolo a cinque colonne: "Le ardite dissonanze dei Cccp". Troppa grazia». Poi si erano aggiunti gli ex Litfiba, Gianni Maroccolo, Francesco Magnelli, Giorgio Canali, la solista Ginevra Di Marco, ed ecco i Csi. L'idéologue Ferretti aveva trovato un suo registro, capace di mettere insieme la provincia e il mondo, con sintesi planetarie e fulminanti. Un viaggio in Mongolia, un'esibizione a Milano davanti al Dalai Lama, e soprattutto i due concerti di Mostar del 1998, con la città ancora smembrata: «Non si facevano concerti da dieci anni. Nel primo, organizzato nella parte cristiano-croata, non c'era nessuno, solo soldati e bambini. Nell'altro, a Mostar est, abbiamo suonato nello stadio dove erano stati concentrati i musulmani: sono venuti tutti, compresi i disperati, gli amputati, gli orfani, gli offesi». Sciolti i Csi, adesso fa delle cose. Scrive la colonna sonora per un film su Andrea Pazienza. Ha fatto l'attore in un cortometraggio. Allestisce festival strani. Uno si chiama "Confusion&" e si è aperto nella notte di san Giovanni, notte magica: fra lo sbalordimento della provincia reggiana ha chiamato un coro di pigmei aka del Centrafrica a cantare sulla pietra di Bismantova, un enorme e inquietante monolite dalle parti di Castelnuovo ne' Monti. A seguire, fra etnicità varie, liscio con Iller Pattacini. L'altro festival è intitolato "Per te", si aprirà il 13 luglio con un concerto di Ginevra Di Marco, ed è nato sulla scia di Bologna 2000, lavorando con Giorgio Guazzaloca quando Jovanotti si era tirato indietro. Pragmatismo emiliano. Versatilità post. Forse in nome di questa disponibilità totale, pensa alla politica: «Perché la situazione della politica oggi è quella della musica a cavallo fra Settanta e Ottanta, quando noi siamo saliti sul palco. È un pensiero forte, quello dell'impegno pubblico. Non per proporre una testimonianza, che è roba da sfigati, e neanche per creare un partitino minoritario, ma per governare un territorio, un popolo, una storia». Aveva scritto una lettera a Massimo D'Alema: «Proprio di quelle che cominciano "Caro Massimo", e gli dicevo che ero pronto a mollare tutto per entrare in uno staff. Ci vuole un luogo, e il luogo possono essere i Ds, ciò che resta del partito che ha governato la mia terra. Non ho pregiudizi su ciò che saremo, socialdemocratici, democratici, non importa. Ma con Prodi avrei lavorato, con Rutelli no. Sì, lo so benissimo che i Ds non sanno più chi li vota e perché non sono stati votati. Ci vogliono un progetto e un leader: ma se li trovi, ci vai, è un dovere». Giovanni Lindo Ferretti non ha spedito la sua lettera a D'Alema. È morto Tancredi, il suo «giovane cavallaccio, sempre rotto e rovinato ovunque per troppa energia». Tra la fine del 1999 e gli inizi del 2000 è tornato a Berlino e ha inciso un nuovo disco, "Co.dex", un infinito, sofisticato e paranoico rap composto da una nota sola. Poi ha scoperto di avere un tumore nella pleura, chiamato fortunatamente "il solitario". Si è raccomandato al chirurgo, che gli ha salvato il polmone e la vita. Adesso è di nuovo sulla strada, sul palco, sulla scena. Aspetta che un leader, un progetto, un'idea abbiano bisogno di qualcuno che è venuto dal punk.
L'Espresso, 28/06/2001
Il provinciale
Il Cavaliere ha smentito la figuraccia con la solita scioltezza, ma qualche frase considerata infelice dai suoi commensali europei dev'essergli scappata. Perché quella ossessione plateale sui comunisti, da cui l'Italia è stata liberata grazie alla Casa delle libertà, non rientra nel novero delle gaffe: è l'espressione più genuina di un'ideologia, di un sentire intimo, di una vocazione. Peccato che al livello delle relazioni continentali l'empito anticomunista del premier sia considerato per quello che è: vale a dire una fissazione provinciale. Ciò di cui Berlusconi va fiero fra il suo elettorato domestico, la sconfitta degli orribili rossi, in Europa appare come la fastidiosa mania di un teatrante che ripete il suo repertorio, indifferente ai sottili equilibri su cui si regge il consenso europeo. Le storielline sul premier che fa il suo numero antibolscevico (che sia stato zittito o no dai partner) apparterrebbero in realtà a un genere letterario minore se non fossero la spia di una mentalità effettivamente provinciale che alligna nella Casa delle libertà. Erano ugualmente provinciali le uscite anti-allargamento di Giulio Tremonti, le trovate estemporanee contro il protocollo di Kyoto, il volontaristico fervore americano e bushista. Mentre gli organi mediatici d'appoggio dipingono un quadro roseo dell'esordio internazionale del Cavaliere, ci si può chiedere nel frattempo quale senso abbiano le lamentele da chiagni e fotti sullo sforamento del bilancio, il declino di responsabilità su Genova sede del G8, e poi anche le uscite antieuropee e anti-italiane del ministro berlusconiano Umberto Bossi. Di fronte alle sortite più eccentriche, i laudatores sostengono che la politica del centrodestra non va confusa con le rudezze scalpitanti degli esordienti: ottima linea di analisi, eccellente interpretazione, ma si tratterebbe allora di capire, fuori dal folklore, dov'è e qual è la sostanza.
L'Espresso, 28/06/2001
I dolori del giovane Max
Cantanti si diventa, filosofi pure. Per cominciare a fare musica, dieci anni fa, era bastata una tastiera Roland, oltre a un vocione tosto. Quanto alla filosofia, dopo la saga feticistica dei body a balconcino e quella romantico-compagnona della Dura Legge del Gol, è una faccenda tutta molto esistenziale, situata fra l'impossibilità di giocherellare ancora con l'oggettistica giovane e la necessità di diventare adulti. Adesso che Max Pezzali spedisce nei negozi un nuovo disco siglato "883" ("Uno in più") predestinato a replicare il successo di "Grazie mille", 550 mila copie, viene l'idea che il ragazzo di Pavia, sul margine dei 34 anni, stia davvero provando a fare i conti con il mondo, e magari ne cavi fuori una Weltanschauung. Retrospettiva, crepuscolare, sentimentale. E per farsi perdonare l'intimismo, ci ha messo arrangiamenti hard, duri e scuri, a cui ha lavorato Carlo Rossi, il produttore dei durissimi 99 Posse: «Perché continuavano a dire che gli 883 sono provinciali, e allora abbiamo provato a fare suonare internazionale la musica della provincia». Dunque cose metalliche e violoncelli orchestrati sul dark. Il pegno al mercato è costituito dalle partecipazioni di Jovanotti, Syria, il rapper J. Ax degli Articolo 31, la chitarra virtuosa di Alex Britti, e da quello che sarà l'inno nazionale delle spiagge, "La lunga estate caldissima". Ma per il resto l'album è un'essenza di pensiero sulla disillusione: il ricordo degli anni vuoti e inutili (gli Ottanta), compleanni sempre più faticosi, storie amorose ogni volta più chissenefrega. Dice Pezzali: «Racconto le stagioni buttate via. Quando si studiava francese e ci siamo trovati nell'epoca dell'inglese. Siamo come i tedeschi dell'Est: si aspettavano chissà che dalla caduta del Muro, e invece, boh: la perdita c'è stata, ma il guadagno quando arriva? Logiche, le delusioni». La filosofia tedesca ha un suo rilievo perché gli 883 sono reduci da un tour in Germania con Eros Ramazzotti. Si ritorna in patria e ci si sente precari: «Si diventa adulti e allora si guarda indietro: il passato è inutilizzabile, il futuro imprendibile, e il presente un'incognita. Credevamo di poter vivere per sempre con la gran macchina, Internet e il dvd, e invece ci troviamo a sopportare sempre più a fatica l'ideologia della vita da single, con la noia degli appuntamenti nei sushi bar». Già, ma la critica non troppo filosofica pensa che Max Pezzali sia il ragazzo omologato, quello che l'unica cosa anticonformista che aveva erano gli incisivi (ora sottoposti a restyling), mentre il trend soffia altrove, nei centri sociali, nella musica della contestazione, fra i Csi e i Marlene Kuntz. Risposta non si sa se fra Rutelli o Cacciari: «Meno male che ci sono i centri sociali, a tenere su l'attenzione». Quindi, forse per l'ultima volta, prova l'estremo richiamo generazionale, con il rock di "Noi", coro tribale con confessione sull'Existenz: «Le responsabilità / che hanno un peso / sempre po' troppo grande per uno / già grande». Capace che uno così, nel prossimo disco, la butta sul sociale.
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