L’Espresso
L'Espresso, 21/06/2001
Alleati al guinzaglio
Da destra, l'ipotesi più ottimistica dice che il seduttivo Silvio Berlusconi, dopo avere fatto da idrovora nell'elettorato dei suoi alleati, ha incardinato Gianfranco Fini come vice-premier, Rocco Buttiglione alle Politiche comunitarie (e Pier Ferdinando Casini sul seggio più alto della Camera, fuori dal giro governativo) e Umberto Bossi all'enfatico ministero per le Riforme istituzionali e la devoluzione, e che in questo modo ha rafforzato il pacchetto di mischia: il governo è lo specchio politico della Casa delle libertà. Può darsi che sia così. Di sicuro il leader di An ha trovato una tribuna in cui potrà fare il suo apprendistato di governo, e contemporaneamente occupare tutti gli spazi politici e mediatici possibili. Ottima posizione per cinque anni di campagna elettorale permanente, oltre che laboratorio per la costruzione di una leadership alternativa al Cavaliere nella Casa delle libertà. Buttiglione è defilato, se non emarginato, mentre Bossi è stato collocato in una delle caselle che bruciano. La sua postazione potrebbe rivelarsi la premessa perché la Lega diventi a tutti gli effetti una corrente di Forza Italia; oppure il trampolino di rilancio del Bossi federalista furioso, e magari anche proporzionalista irriducibile. In sostanza, i due alleati più complicati di Berlusconi, An e Lega, si trovano in una posizione anfibia: Berlusconi pensa di averli sistemati al guinzaglio, ma ognuno di loro potrebbe invece coltivare i propri progetti esclusivi. Con l'alleanza come un sol uomo finché fa comodo, a titolo di parte se si presenta o si riesce a costruire l'occasione. Occorrerà vedere se ormai la Casa delle libertà è davvero un monocolore mascherato, e se il potere addormenta anche gli istinti di sopravvivenza. Oppure se, soprattutto per Bossi, vivere da forzisti camuffati è meglio che morire da leghisti in preda alle antiche passioni.
L'Espresso, 21/06/2001
Buona squadra: non la voto
Habemus Berlusconem secundum, senatore Cossiga. Bella squadra, secondo il trainer. Delusione immediata, secondo l'Ulivo. E per il più capzioso interprete della politica italiana? «Mi paiono esagerate le critiche sollevate dai Ds dei vari riti, dalla Margherita e dall'Ulivo. Presi uno per uno molti ministri hanno un profilo che, per dire, Romano Prodi non avrebbe esitato a inserirli nella sua compagine. Penso al ministro degli Esteri Ruggiero, al ministro per l'Innovazione tecnologica Stanca, al ministro della Sanità Sirchia, al ministro per le Infrastrutture Lunardi...». Ma non è un governo dei tecnici. «Tutt'altro: è il frutto maturo del principio di alternanza. Fra destra e sinistra, non fra i due eufemismi che contengono la parola "centro". Nella formula bipolare, c'è da diffidare quando si evoca quello stato d'animo che è il centro. Il centro non è più un soggetto politico». E quindi, come conseguenza? «Quindi per igiene politologica cominciamo a dire che il Berlusconi 2 è un governo di destra. Destra europea, sulla scia di Aznar e in passato della signora Thatcher. Questa definizione è di per sé una conquista concettuale, in un Paese dove il termine destra ha sempre avuto un connotato spregiativo». La chiarezza terminologica è utile, ma non è ancora un giudizio. «È un governo di destra con alcune anomalie. Ci sono ministri che non mi sentirei di definire di destra: non Ruggiero; nel Regno Unito, Antonio Martino sarebbe un liberaldemocratico». È un'anomalia minore. «L'immagine di un governo non è data dalla sommatoria dei ministri. Al di là di episodi come l'infelice dichiarazione dopo avere ricevuto l'incarico, si giudicherà l'indirizzo politico generale, che sarà dato essenzialmente da Berlusconi. Non solo in quanto è sancito dalla Costituzione, ma perché è il capo di un partito specialissimo come Forza Italia». Partito specialissimo perché è l'emanazione diretta del capo. «Vede, la concezione politica di Berlusconi oscilla fra il qualunquismo e il populismo. Sbaglia chi dice che non è democratico, che non è antifascista. Lo è a modo suo, con naturalezza, da piccolo borghese della Brianza». Un populista democratico. «Incline a vedere la politica ridotta all'alta amministrazione. E convinto di avere un rapporto diretto con il popolo». Dicevamo delle anomalie nel governo. «C'è l'anomalia di una figura che non concepisce la politica come lavorio, come mediazione. Sono persuaso che se il pool di Milano non lo avesse puntato in maniera persecutoria lui avrebbe potuto perfino sostenere Mani pulite. È una concezione grezza della politica, in cui si iscrive anche l'anticomunismo. Io, che sono stato picchiato dai comunisti, colloco fra i grandi, De Gasperi e Moro, anche Togliatti, per la sua opera di democratizzazione e per la difesa delle istituzioni in momenti critici. A Berlusconi una riflessione simile è estranea». Ma l'anomalia più grande non è il conflitto d'interessi? «Lo chiede a me? Ho risollevato io il problema, ai tempi della Bicamerale, e nel silenzio del Senato sento ancora dietro di me i Ds che mormorano: queste cose dovremmo dirle noi. Invece si doveva tutelare il patto della crostata». Ce lo terremo, il conflitto d'interessi? «No, Berlusconi in qualche modo lo aggiusterà, anche perché nel suo ruolo diventa un organo dell'Unione europea, e la sua questione proprietaria potrebbe trasformarsi in un caso istituzionale europeo. Proverà ad aggiustarlo anche se non concepisce che è essenziale risolvere il problema di separare il potere del denaro dalla formazione del consenso. Gli è estraneo il criterio di un grande giurista inglese come Dicey, secondo cui la democrazia non esiste senza una pubblica opinione libera di esprimersi. Per questo in campagna elettorale si è osservata la tendenza a trasformare l'informazione in pubblicità». Ed è per questo che fra un "totus politicus" come lei e il Cavaliere c'è incompatibilità di fondo? «Ho simpatia per lui, e lui è capace di grande cortesia, con chi non dipende da lui. Con me, la cortesia deriva dal fatto che io non posso essere comprato. Comprato con la seduzione, intendo. Inoltre ai suoi occhi io non conto nulla. E sa perché? Perché non ho fatto i soldi». Creare patrimoni è una dote politica? «In un profilo teologico-filosofico di Berlusconi, diremmo che ha venature calviniste. Il successo è un segno della grazia, proprio secondo Max Weber. Ma quando dice "mandiamo a lavorare D'Alema", sbaglia, perché proprio Weber ha parlato di "Politik als Beruf". La politica è professione e vocazione». Aggiungiamo che lei continua a professarsi provocatoriamente di sinistra. «Sono un cattolico liberale, e oggi dove possono situarsi i cattolici liberali, se non a sinistra? Nei retroscena vengo indicato come il presidente del partito trasversale dalemiano, e si capisce: immagini che confusione se vinceva l'Ulivo. Non ci sarebbe il chiarimento, magari caotico, che si è avviato. L'Ulivo, l'Ulivo. Quale Ulivo? Rutelli è una figura che tiene il posto a Prodi, se si guarda la realtà». Ma non è per le ispirazioni ideali che i suoi rapporti con la destra sono tesi. «Sui miei amici, i Quattro gatti, si sono vendicati. Ma ciò che non ho tollerato è stato il comizio di Berlusconi a Gallipoli, con il giudizio sprezzante sull'operazione che portò al governo D'Alema. Lo ha chiamato un mercimonio. Mi ha indignato moralmente perché veniva da un uomo che ha fondato un partito su una struttura commerciale: e parla di mercimonio. Mi ha inquietato politicamente perché non ha percepito che l'operazione D'Alema era tutta politica: il segnale della fine della guerra fredda interna durata 50 anni. E lui ha riaperto le ferite». Sono le scivolate del personalismo. «In un partito che non è un partito. Sono contento che Claudio Scajola vada agli Interni, perché è un giovane vecchio dc, con tutte le finezze di una scuola. Ma ad un tempo mi spiace perché poteva trasformare Forza Italia in un partito vero. Berlusconi si inquieterà, ma io penso che rispetto al personalismo di Forza Italia era più democratico il Pci». Comprensibile, l'inquietudine. «Devo dire che però alcuni antidoti stanno agendo: ci sono isole di auto-organizzazione politica che stanno prendendo la forma di quasi-correnti. Ci sono ministri di qualità che possono fare da argine al governo personale, che non nomino per non metterli nei guai». Tutto questo la porta a una valutazione positiva sul governo? «Temevo peggio, che prevalesse l'aziendalismo. Questo sarà il primo governo italiano di destra democratica e bisognerà aiutarlo a essere tale, affinché l'aggettivo qualifichi il sostantivo». E che dire della "formazione"? Non c'è solo Ruggiero, ci sono anche i Gasparri. «Discreto politico, che piace molto a Berlusconi perché è immune dalla tabe intellettuale». Letizia Moratti all'istruzione. Con un'idea aziendale della scuola? «Conto molto sulla grande e duttile intelligenza della signora Moratti». Umberto Bossi alle riforme istituzionali. «Non ho mai gridato al lupo verso Bossi, anche se il federalismo è una moda o una furbizia basata sull'ignoranza di ciò che è il federalismo vero, che per un paese come l'Italia sarebbe una iattura». Bilancio finale: un governo da seguire passo passo. Lo vota o no? «Escludo di votare a favore. Non posso. Sono incerto fra l'astensione e il voto contrario. Nella coloritura comportamentale della mia decisione conta l'accusa bruciante di mercimonio, con cui Berlusconi senza motivi politici ha macchiato un rapporto personale. Nel giudizio politico a freddo conta invece la mia storia, la mia intera personalità politica. No, non posso votarlo».
L'Espresso, 14/06/2001
Zaccaria il resistente
La Casa delle libertà avverte un bisogno fisico di sloggiare il Cda della Rai, e appare indifferente al fatto che la nomina dei nuovi consiglieri potrebbe dare al monopolio televisivo berlusconiano un profilo grottesco. Primum, liberarsi di Zaccaria; sui problemi di compatibilità democratica si teorizzerà dopo. Per questo, non appena riunite le Camere sono partiti i primi ukase contro il Cda. Ma Zaccaria resiste. Il presidente della Rai non sta interpretando il ruolo di giapponese nella giungla, ignaro della sconfitta. È piuttosto il soldato che presidia la difesa dell'Ulivo. Fin tanto che rimane in trincea, l'assetto di governo della Rai rimane negoziabile. La minaccia di andarsene solo alla scadenza naturale nel 2002 è l'ultimo velo che consente al centro-sinistra di trattare una resa condizionata. Da destra infatti giungevano spifferi secondo cui all'Ulivo sarebbe stato concesso un solo consigliere, e che nessun tg sarebbe stato "octroyé" come in passato all'opposizione (al massimo se ne sarebbe "neutralizzato" uno). Quindi Zaccaria deve rendere il servizio finale alla sua parte politica. Anche se gli attacchi da destra si moltiplicheranno, la sua permanenza a dispetto di tutto dovrebbe consentire l'apertura di una diplomazia per limitare i danni. È vero che si susseguono le ipotesi per modificare una situazione che l'esito maggioritario ha reso insostenibile (vedi la proposta di Cossiga di affidare al Presidente della Repubblica la nomina del Cda). Ma al momento è solo la resistenza del Cid campeador Zaccaria, che combatte a cavallo da morto, a poter permettere un tavolo informale di trattative, e consentire al centro-sinistra di salvare il salvabile dopo un risultato elettorale che ha consegnato al vincitore Camera e Senato, cioè i due assi piglia-Rai.
L'Espresso, 14/06/2001
Io speriamo che sopravvivo
La crisi a sinistra sarebbe comprensibile se i Ds fossero ancora un partitone gonfio di voti e con la necessità tecnica di risolvere il problema della sconfitta elettorale. Allora sì che si tratterebbe di "elaborare il lutto", secondo l'espressione che va di moda al Botteghino. Reggenze, garanti, mediatori, e poi analisi, riflessioni, lenti progetti e bei congressi, apparterrebbero alla strumentazione tecnica del rilancio. Purtroppo le cose non stanno così. I Ds sono una forza politica al 16 virgola, percentuale troppo bassa per imporre primazie politico-culturali e troppo alta per accettare alleanze contrattate, con la leadership in appalto. In queste condizioni, concentrarsi sulla favola della rinascita socialista, come fa D'Alema, non è l'indizio di un sovrano realismo, bensì della coazione a ripetere. Il dilemma vero riguarda oggi la costruzione di uno schieramento competitivo nel contesto di un confronto bipolare. Dopo di che, si tratta di capire se la dirigenza Ds è in grado di assimilare questo obiettivo e di elaborarne le pratiche. Oppure se la Quercia è un esercito in cui lo stato maggiore discute nevroticamente tattiche e strategie, mentre il campo di battaglia si sta spostando altrove. In sostanza, occorre infrangere il tabù della sopravvivenza, cioè riconoscere davvero che anche i partiti possono morire. E che si può tentare di sopravvivere in molti modi: arroccandosi a Bisanzio, secondo un riflesso condizionato; o cercando una formula politica. Il partito è a rischio non per il destino cinico e baro, ma per insufficienza politica e culturale. Qualcosa che non si risolve nelle stanze d'apparato. Il problema è salvarsi dentro una coalizione. Altrimenti i Ds possono scegliere di salvare egoisticamente ciò che sembra salvabile: tranne accorgersi che si è cercato di curare la malattia con la malattia.
L'Espresso, 07/06/2001
I consigli del Padrone
Si infittiscono i segnali, da parte della Casa delle libertà, che indicano in Sergio Cofferati il leader preferito a destra per i Ds e presumibilmente anche per l'Ulivo. Sono i consiglieri non tanto occulti di Silvio Berlusconi (come Giuliano Ferrara sul "Foglio") a suggerire questa linea, come a suo tempo fu consigliato al Cavaliere, in nome del pari realismo, di individuare Massimo D'Alema come avversario e principale interlocutore. Le forze politiche vittoriose hanno spesso la tentazione di scegliersi anche la leadership più opportuna in campo avverso. Ma in questo caso il disegno appare fin troppo scoperto. Gli strateghi del centrodestra sono infatti i più forti sostenitori dell'evoluzione "socialdemocratica" dei Ds, e in questo senso la candidatura del segretario della Cgil viene trattata come il sigillo su questa ipotesi. D'altronde, lo scenario Cofferati è vantaggiosissimo per Berlusconi. Non solo priverebbe la Cgil del suo esponente più prestigioso proprio nella fase in cui il sindacato potrebbe rappresentare l'unico serio fattore di risveglio per il Grande Sogno berlusconiano. Ma indebolirebbe anche la leadership tuttora embrionale di Francesco Rutelli, e spingerebbe l'Ulivo a discutere all'infinito su chi conta davvero nella coalizione. Certo, c'è un elemento estetico nei disegni del centrodestra su Cofferati, visto che si potrebbe avere un confronto ad alto livello fra il Padrone e il Sindacalista. Ma non si può trascurare che oggi l'egemonia culturale sta dalla parte degli imprenditori, e quindi un sindacalista a capo dell'opposizione avrebbe il sapore di una scelta difensiva, tradizionale, deterministica. Mentre un certo dinamismo, nell'Ulivo, sta da un'altra parte; la capacità di attrazione elettorale pure e quindi i Ds farebbero bene a temere i consiglieri del Padrone, anche quando portano in dono soluzioni attraenti.
L'Espresso, 31/05/2001
Il partito padrone
Malgrado la farraginosità del Mattarellum, il sistema maggioritario ha fatto il suo lavoro, liquidando i terzopolisti e raschiando a fondo gli schieramenti. L'effetto è stato fortissimo anche a destra, dove la Lega e il Biancofiore si trovano ad avere più posti che voti. Anzi, a questo punto uno dei pochi elementi di squilibrio all'interno della Casa delle libertà è dato proprio dalla persistenza di alleati del Cavaliere che devono mantenere visibilità (cioè posti di responsabilità governativa e parlamentare) nonostante siano rimasti sotto la soglia del 4 per cento. La Lega ha pagato a salatissimo prezzo la sovrapposizione con Forza Italia; Casini e Buttiglione appaiono sempre più come una corrente del partito di Berlusconi. A questo punto, la loro presenza e rilevanza politica è condizionata dalla volontà del capo della Casa. Che cosa conviene a Berlusconi, nel medio-lungo periodo: una coppia di partiti satellite, con i rischi di turbolenza che soprattutto Umberto Bossi può provocare, o una annessione morbida degli alleati? Per ora si può constatare solo che il centrodestra non può andare verso il partito unico perché Alleanza nazionale non è integrabile in Forza Italia. Benché Gianfranco Fini abbia ottenuto un risultato elettorale mediocre, il suo partito è l'unico che possa differenziarsi in chiave politica e culturale dall'egemonia forzista. Tuttavia i numeri di Forza Italia mettono An in una posizione subalterna, anche se non del tutto marginale. Impallidiscono in ogni caso le aspettative di Fini verso la leadership futura. Il partito di Berlusconi ha davanti anni di governo, e potrà scremare nuove figure guida. Non solo: ha tutto anche per diventare il partito-padrone della Casa delle libertà. Per i liberal-cattolici è sempre possibile un grande abbraccio federativo; per Fini, un'alleanza in cui no-nostante i sorrisi si sa chi comanda e chi ubbidisce.
L'Espresso, 31/05/2001
Credetemi, ho vinto
Temevo lo sfondamento della Casa delle libertà in Emilia Romagna. Poteva avvenire. Invece rivendico un successo. Dico di più: un successo straordinario, tenuto conto anche del contesto in cui si è verificato e della tendenza che si è delineata... Non si smentisce Mauro Zani, segretario della federazione ds emiliana. Era tornato a Bologna dopo "l'incidente", come lo chiama lui, che aveva portato Giorgio Guazzaloca a espugnare la cittadella rossa. Quando il gioco si fa duro, con quel che segue. Ha condotto la battaglia elettorale con la convinzione che la partita era decisiva, per i Ds come per l'Ulivo. Preso atto del risultato nazionale, ha spedito a Roma un secco messaggio dei suoi, contestando l'assenteismo dei vertici diessini. Dal Botteghino gli hanno risposto piccati: stai zitto tu, che hai perso il 7 per cento. In Emilia il rosso langue. I giornali scrivono che è scomparsa una quota di diessini grande come Modena. Il partito è al 28,8 per cento. Ci sono assessori che ipotizzano lo scioglimento dei Ds e la fusione a caldo nell'Ulivo. E lei parla di un successo straordinario. «Ci eravamo posti l'obiettivo di limitare le perdite solo ai collegi di Piacenza, dove l'Ulivo era sotto di 20-25 punti, e dove pure siamo arrivati a un'incollatura. Abbiamo preso il 100 per 100 di tutto il resto. C'erano sette seggi a forte rischio e due incerti. A Fidenza Pierluigi Bersani partiva da meno 10 e ha vinto. Le situazioni delicate erano a Parma e a Ferrara: abbiamo fatto un lavoro capillare, casa per casa. Sapevo benissimo che se perdevo quei sette collegi non avevo davanti altro che le dimissioni». Con il risultato che la coalizione vince, la Margherita prospera e i Ds piangono. «È sbagliato considerare i risultati solo in chiave competitiva all'interno della coalizione. Non c'è mai stata una frizione con gli alleati. Io rivendico la funzione essenziale dei Ds nella scelta e nella costruzione delle candidature, e nello svolgimento della campagna elettorale». Lo ha detto lei: avete fatto i donatori di sangue. Il partito Avis. «Avevo l'obbligo di agire come punto di riferimento della coalizione. Quindi le decisioni le abbiamo prese accollandoci tutte le responsabilità. Abbiamo scelto tutti i collegi peggiori e ci abbiamo messo i nostri, i diessini. Non per gusto del martirio, ma per dovere politico: siamo il maggiore partito dell'alleanza e quindi dovevamo comportarci di conseguenza. C'era un altro candidato che poteva prendere Fidenza? No, c'era solo Bersani, e Bersani è andato nel collegio a battersi e a vincere. La logica delle coalizioni implica questi comportamenti, e ci vuole coerenza anche se si pagano prezzi». Prezzi alti. Perché tutto l'impegno dei Ds a che cosa è servito, al successo della Margherita? «No. La Margherita ha fatto un balzo in avanti negli ultimi quattro-cinque giorni prima del voto. Il traino di Rutelli è stato molto forte, con un finale di grande impatto mediatico». Sa che cosa dicono gli scettici? Che una parte di vostri tradizionali elettori, diciamo i meno informati, hanno votato Rutelli credendo di votare direttamente per voi. «Una componente volatile nella Margherita ci può essere. Ma ciò che conta in politica è guardare la realtà: adesso nella coalizione ci sono due gambe. Io ho sempre sostenuto l'idea delle due gambe, anche quando Martinazzoli diceva che era una visione ortopedica. Certo, l'analisi del voto alla Margherita va fatta, e io resto scettico su ciò che dice Castagnetti, secondo il quale la lista di Rutelli avrebbe intercettato i voti dei ceti medi illuminati. Non è l'ora della sociologia». In sostanza lei si tira fuori dalla diatriba sul partito socialdemocratico e il partito democratico. «Bisogna evitare una doppia miopia: la prima è la miopia di chi non vuole vedere il formarsi di questa realtà a due gambe. La seconda è quella di chi non vuole capire che le identità del centro e della sinistra esistono ancora. Occorre tenerne conto, altrimenti l'Ulivo è solo un'idea platonica». L'altro dato in Emilia Romagna è la crescita di Forza Italia. Quando uno vede che a Sassuolo, malgrado la vittoria ulivista, il primo partito è Forza Italia, ha di che sbarrare gli occhi. «Il risultato di Forza Italia pone un problema serio a tutti, a noi come alla Margherita. Perché sotto la sfida dei berlusconiani è l'Ulivo nel suo insieme che deve reagire in termini di governo, e gestire l'innovazione del potere regionale». Una formula esoterica. «Significa riformulare le relazioni con i ceti e gli interessi». Cioè l'Ulivo come referente delle classi sociali che una volta erano in rapporto dialettico con il Pci. Ma intanto a sinistra c'è chi sostiene, come Gianfranco Pasquino, che i Ds sono un partito «leggerissimo, invisibile in campagna elettorale; e anacronistico con le sue federazioni anni Cinquanta, mentre la battaglia si fa nei collegi». «Storie. Se c'è un partito che ha capito le modalità della competizione nei collegi è proprio il nostro. C'è una rete organizzativa con un responsabile per ogni collegio. I candidati erano buoni, ma sono stati i Ds a fare la campagna. Diessini giovani, attenti alla comunicazione, capaci di insegnare ai candidati come muoversi. Anacronistica è l'idea di un partito che si riunirebbe nelle sezioni per lunghe discussioni fumose». Occorreva impegnarsi di più per un accordo con Rifondazione? «Io stesso avevo proposto in un dibattito pubblico a Bertinotti: non vuoi l'accordo politico? Ti propongo un accordo parlamentare: tu dici quali leggi vuoi e io discuto. Abbiamo fatto il necessario per non perdere Rifondazione? No, non lo abbiamo fatto, anche se la responsabilità di Bertinotti nella sconfitta è eccezionale. Forse nel momento in cui occorreva mettere le carte in tavola con Rifondazione la leadership nell'Ulivo non era ancora abbastanza solida. Ma ci voleva più determinazione». Aleggia sempre il timore che gli accordi con Bertinotti mettano in fuga l'elettorato centrista. «È un'idea sbagliata proprio in chiave di logica bipolare, se si vuole giocare per vincere. Un pregiudizio logoro: e con i pregiudizi non si fa politica».
L'Espresso, 24/05/2001
L’ombra di Prodi
Scene da una campagna: gli ulivisti guardano dati, controllano sondaggi, si scambiano timori e speranze. Poi c'è sempre uno che si stringe nelle spalle e chiede: ma che ne pensa Romano? Niente, Prodi tace. Fin troppo automatico attribuire il silenzio al suo ruolo istituzionale. In effetti da Bruxelles filtrano solo valutazioni smorzate e mezze frasi. Eppure l'ombra del Professore incombe sul dopo-elezioni. E non solo perché il risultato imporrà comunque un ridisegno del centrosinistra. Queste sono faccende da risolvere dentro i confini della provincia, lasciando che la politica faccia il suo corso. La partita vera è rimandata. Perché nella percezione di Prodi il voto del 13 maggio ricalca ancora, probabilmente per l'ultima volta, il profilo di una questione interna. Mentre l'appuntamento cruciale è fissato più in là, allorché lo scontro non sarà più tra fautori della "libertà" e "comunisti", ma su temi esplicitamente europei. L'adozione dell'euro dilaterà la dimensione politica dell'Unione, e a quel punto le scelte di carattere sovranazionale risulteranno molto più stringenti di quanto non siano state sentite finora dall'opinione pubblica italiana. I segnali provenienti dalla Casa delle libertà prefigurano già linee di virtuale conflitto politico: l'antieuropeismo di Umberto Bossi, una certa velleità paragollista di An, le posizioni "americane" sull'accordo di Kyoto espresse da Silvio Berlusconi, le critiche all'allargamento manifestate da Giulio Tremonti prospettano un centrodestra incline alla relativizzazione dell'Unione europea. Quindi in prospettiva il confronto potrebbe svolgersi fra due contrastanti idee di Europa: e a quel punto Prodi, con alle spalle il consenso raccolto a suo tempo sull'adesione alla moneta unica, e l'esperienza alla guida della Commissione, sarebbe il punto di riferimento ideale, à la Delors, per ispirare e pilotare l'Ulivo di formato europeo.
L'Espresso, 24/05/2001
Dove vai, Quercia bonsai
La soluzione classica, spettacolare, mediaticamente irresistibile sarebbe la resa dei conti: una specialità storica della sinistra, anche se questa volta non c'è un capro espiatorio, un Occhetto a cui attribuire le solite pulcinellate. Eppure, il 13 maggio è stato tellurico per l'Ulivo. Non tanto nel risultato complessivo, visto che malgrado tutto il centrosinistra non è crollato: ma perché nel panorama politico-elettorale si stagliano due figure apparentemente incompatibili, i Ds precipitati al loro risultato storicamente peggiore e la Margherita rutelliana, che invece ha smentito i sondaggi e si è issata a poche centinaia di migliaia di voti dal partito di D'Alema e Veltroni. Già, Massimo e Walter. L'uno autoconfinato nella sua partita personale a Gallipoli, con il beau geste del rifiuto del paracadute proporzionale, per dimostrare la sua caratura di combattente politico e di leader capace di sporcarsi le mani; l'altro, il segretario, isolatosi nell'enclave romana, senza sfuggire al sospetto che la conquista municipale dell'Urbe sia la foglia di fico di una sostanziale abdicazione politica. Con la conseguenza che il maggiore partito della coalizione ha condotto una campagna elettorale mediocre, opaca, priva di rilievo autenticamente nazionale. A battere in lungo e in largo il Nord, a fare a cazzotti con il mondo dell'imprenditoria e delle professioni, con la realtà delle partite Iva, è rimasto quella povera anima di Piero Fassino, con il suffragio di Pierluigi Bersani, contando sul fatto che i resti della macchina operativa diessina facessero ancora una volta il loro regolare lavoro. Malgrado tutto, la notte dei lunghi coltelli non ci sarà. Non c'è un responsabile oggettivo della sconfitta, dal momento che i Ds appaiono come un partito acefalo, che si era preparato all'appuntamento elettorale chiudendosi a riccio e contando fiduciosamente su andamenti inerziali nell'elettorato. C'è da scommettere che qualcuno riesumerà l'espressione "zoccolo duro": solo che l'orgoglio diessino si trova a fare i conti con la novità assoluta emersa il 13 maggio, e cioè l'inatteso successo della Margherita. Il movimento fortissimamente voluto da Francesco Rutelli è l'incarnazione politica di un progetto radicalmente alternativo a quello centrato sull'egemonia diessina. Sfuocata culturalmente quanto si vuole, indefinita come profilo politico con il suo estendersi dai diniani ai Democratici, la Margherita interpreta comunque, magari in modo subliminale, una domanda dell'elettorato. Come ha fatto notare Enrico Letta, sfortunatissimo protagonista della campagna elettorale (è stato battuto per 384 voti nel suo collegio), «nell'arena politica l'eco prodiana di un programma teso ad assecondare lo sviluppo e nello stesso tempo a reinterpretare modernamente lo stato sociale». Può sembrare una proposta debole, se non fosse che essa si colloca in esplicita antitesi ai progetti attribuiti alla componente "socialdemocratica" dei Ds. Non è un caso che a scrutinio appena completato Francesco Cossiga abbia rivolto i soliti sarcasmi verso la Margherita e in particolare verso i margheritici criptati come Veltroni, accusato di intelligenza con il nemico e di incompatibilità con il destino a suo dire storicamente obbligato dei Ds, in pratica l'approdo incondizionato alla tradizione socialista democratica europea. Questa della destinazione socialdemocratica non è solo un'ossessione cossighiana, agitata per giustificare intellettualmente l'operazione trasformista dell'ottobre 1998 che portò alla nascita del governo D'Alema. È anche l'idea politica di fondo che ha animato l'azione politica del líder Massimo, e che ultimamente aveva visto manifestarsi l'impegno non solo culturale di Giuliano Amato. Concezione in sé tutt'altro che ignobile, anche se in questo ripiegamento socialdemocratico il capo dei Democratici Arturo Parisi aveva intravisto soprattutto il tentativo di prepararsi alla sconfitta, mantenendo intatte le forze delle milizie Ds e preparandosi a confrontarsi da potenza a potenza con Silvio Berlusconi nelle manovre parlamentari. Purtroppo per D'Alema, questa prospettiva è stata stroncata dalla terrificante combinazione del plateale risultato di Forza Italia e dalla cattiva performance diessina. Il realismo politico dice che non si possono coltivare illusioni di egemonia con un partito che numericamente è la metà della formazione guidata dal Cavaliere. A questo punto l'orgogliosa tesi dalemiana del «partito della sinistra europea che non delega a nessuno la rappresentanza dei ceti moderati» sembra più una velleità che un progetto effettivamente praticabile. Non esiste nessun partito socialista competitivo in Europa che abbia alle spalle i numeri stitici dei Ds. Ma soprattutto, come spiega Michele Salvati, uno dei liberal che, esausti, si sono tirati fuori dalla gara: «Ciò che in questo momento, dopo il voto del 13 maggio, preoccupa maggiormente non è solo la sconfitta numerica dei Ds: è la tendenziale scomparsa del suo potere di coalizione». In sostanza, gli eredi del Pci vedono svanire per il futuro la possibilità di figurare comunque alla guida delle alleanze di centrosinistra. Se in precedenza, anche ai tempi di Prodi, i Ds potevano bilanciare la cessione della sovranità a una personalità esterna con la consapevolezza di rappresentare comunque la forza principale dell'alleanza, e quindi potendo esercitare un fortissimo potere di condizionamento, ora la situazione cambia in misura radicale. Nelle regioni settentrionali, alla Camera la Margherita è andata vicinissima al risultato dei Ds (15,1 contro 15,6 per cento). La resistenza nelle regioni rosse, la «riserva indiana» di cui ha parlato il segretario emiliano Mauro Zani, comincia ad avere l'aspetto di un fenomeno residuale, sottoposto a lenti ma inquietanti processi di erosione. Inutile e masochista chiedersi che cosa sarebbe della Quercia senza l'apporto delle vecchie roccaforti: ma le qualità strategiche dei Ds hanno già dovuto scontare l'incapacità di trovare un accordo con Rifondazione comunista e con Antonio Di Pietro, giocandosi di fatto molte chance competitive, e nell'immediato domani si profila soltanto l'attrazione chissà quanto fatale con Bertinotti, che prima e dopo il 13 maggio si è rivolto ripetutamente a D'Alema per suggerire la via della rifondazione mitterrandiana, con l'obiettivo di giungere alla "gauche plurielle" di ispirazione francese. Ma la realtà è che domenica scorsa probabilmente è passata di mano la leadership di coalizione. Ha un bel dire Rutelli: «La Margherita non è in competizione con i Ds, e la Quercia rimane il perno della coalizione». Queste sono diplomazie post-elettorali, forse obbligate, ma distanti dalla nuda realtà dei fatti. La riflessione «approfondita» che tutti i diessini dicono necessaria dopo la sconfitta porterà a una scelta ad un tempo drammatica e obbligata. Drammatica perché implica la perdita del potere di guida sull'alleanza di centrosinistra. Obbligata perché dopo il 13 maggio la spinta propulsiva della coalizione è finita tra le schiere della Margherita. Qualcuno fra i Ds si trastullerà per qualche tempo con l'idea che sia possibile cercare soluzioni di sinistra pronunciata. Il superlaburista Cesare Salvi potrebbe essere uno dei protagonisti del dibattito in questa direzione. Sergio Cofferati farà sentire la sua voce, dopo avere espresso ripetutamente la sua avversione per la volatilità delle politiche proposte da Rutelli. Ma l'ala pragmatica della Quercia dovrebbe rendersi conto piuttosto rapidamente che il risultato elettorale ha fatto emergere quel pilastro centrista dell'Ulivo che era sempre mancato e che ora si propone come l'elemento di resistenza del centrosinistra dopo la grandinata berlusconiana. Che Rutelli diventi il capo dell'opposizione è, come dice Parisi, «un fatto fisiologico» e in linea con la logica maggioritaria. Superato il lutto per l'insuccesso elettorale, i Ds dovranno provare a uscire dalla scomodissima condizione di «donatori di sangue» della coalizione, come li ha definiti il sempre ruvido Zani. Probabilmente c'è un solo modo per farlo. Scartata al momento l'ipotesi epocale della fusione a caldo nel partito democratico all'americana, i diessini dovranno cercare un modus vivendi con la Margherita. A questo scopo, servono a poco le idee, omogenee ma poco spendibili, di D'Alema, Amato e Cofferati. Occorre offrire a Rutelli un interlocutore politicamente plausibile, disposto a prendere atto dell'impulso nuovo offerto alla coalizione dalla Margherita e dal suo leader, e disponibile in prospettiva a privilegiare le logiche di alleanza su quelle di partito. Non ci sono troppi esponenti, sotto la Quercia, in grado di esercitare questo ruolo. Non si può nemmeno risolvere la questione auspicando un drastico ricambio generazionale, dal momento che i protagonisti dell'ultima stagione post-Pci sono tutti più o meno coetanei. Occorre l'identikit di un capo gradito psicologicamente alla base e dotato di quella duttilità politica che gli consenta di giocare di sponda con i centristi. Un uomo in grado di dare ai Ds un ruolo di rappresentanza del mondo economico, facendo pendant con il ruolo simbolico e "ideologico" ricoperto da Rutelli. Può essere Piero Fassino, il vecchio "responsabile fabbriche" del modernista Pci torinese. Ma se si pensasse che a Fassino manca la dote divina del carisma, l'appeal del politico popolare, allora l'alternativa cadrebbe per forza di gravità su Pierluigi Bersani: l'anima emiliana, il possibile capo di un partito che non dona il sangue ma che sa venire a patti con i moderni lì al centro.
L'Espresso, 09/05/2001
L’industria s’è destra
A Parma, assise di Confindustria, un trionfo per Berlusconi. A Roma, davanti agli imprenditori, una serie applauditissima di colpi di cabaret. E nell'illuminata Torino? A Torino il più internazionale, il più aristocratico, il più sofisticato leader dell'economia italiana, Gianni Agnelli, corruga le sopracciglia per le critiche della stampa straniera al candidato del centrodestra. Grandi e piccoli uniti nel via libera alla Casa delle Libertà? Qualcosa è cambiato negli atteggiamenti della Torino agnelliana, e questo mutamento va connesso alle pulsioni della base imprenditoriale. È possibile che il punto di svolta abbia coinciso, un anno fa, con la sconfitta di Carlo Callieri alla guida della Confindustria: dietro la ferita e le conseguenti sprezzature dell'Avvocato («Hanno vinto i berluschini») si dev'essere fatta strada l'idea che era cominciata una sorta di ribellione delle élite. In sostanza, che la vittoria di Antonio D'Amato fosse solo il sintomo di un fenomeno più profondo: l'affermarsi di un ceto dirigente, contiguo al berlusconismo, svincolato dai galatei di potere tradizionali. Il profilarsi di una perdita di egemonia è mal tollerabile per l'istituzione Fiat. Si aggiunga la delusione per quella che viene giudicata dal Lingotto l'inconsistenza attuale dell'Ulivo, a cui era stata concessa una fiducia a tempo per riformare l'economia senza conflitti sociali. Se la maggioranza degli imprenditori considera il Cavaliere come un eroe di categoria, la pur scettica filosofia torinese non contempla croci e delizie dell'opposizione. Se occorre, la portaerei Fiat comincia a ruotare, offrendo il fianco al male minore. Ieri era la sinistra, domani potrebbe essere la destra. Passando sopra al dubbio che il fare di necessità virtù sia una strategia imposta dalle circostanze: e che per la prima volta la leadership pos - sa passare agli outsider.
L'Espresso, 09/05/2001
Un narciso piccolo piccolo
«Non c'è nessuno sulla scena europea o mondiale che possa pretendere di confrontarsi con me». (A un incontro con i coordinatori regionali di Forza Italia, 7 marzo 2001) Il narcisismo politico di Silvio Berlusconi è la prova più plateale che la Repubblica è ormai un organismo geneticamente modificato. Ai tempi dei tempi, a nessun democristiano sarebbe mai venuto in mente di autoincensarsi, dato che sarebbe stato sommerso dalle pernacchie del capocorrente a fianco. Palmiro Togliatti diventò il Migliore per un plebiscito del popolo comunista, non in seguito a un accesso di superomismo. La personalità selvaggia di Bettino Craxi aveva bisogno della lotta quotidiana con alleati e avversari, non dello specchio solipsistico. Dunque se oggi il Cavaliere esibisce il suo ego dilatato vuol dire che la politica si è trasmutata in un campionato mondiale, un premio di bellezza, un concorso a premi. Si è ribaltata in antipolitica. La concezione stratosferica di sé, il di-sprezzo per gli avversari («i peggiori», tanto per gradire), la degnazione paternalista per i partner politicanti della coalizione come Casini, Buttiglione e Fini, sono tutti atteggiamenti che si rifanno a una concezione che non lascia spazio alle sostanziali mediocrità della politica. Berlusconi non può fare nulla di normale o di compromissorio. Nel privato ogni sua ora di vita è un'ora di prova con se stesso: il Cavaliere sgambetta nel jogging nel parco, alle Bermuda sfida la sua shakespeariana "band of brothers" nella lettura dei classici, rilegge Meister Eckhart e i mistici medievali per tenere alto il tenore intellettuale. Nella dimensione pubblica si scatena l'homo faber, il costruttore di città e imperi, il progettatore di opere colossali. L'aneddotica raccolta dagli antipatizzanti è infinita e viene superata solo dall'agiografia dei laudatores. Al punto che lascia stupiti l'adorazione stucchevole che hanno nei suoi confronti i capetti politici della Casa delle Libertà: come faranno vecchi democristiani come Beppe Pisanu, quadrati ex fascisti come Gianfranco Fini, onorati filosofi del neoguelfismo come Rocco Buttiglione a spremere l'adorazione dalle proprie viscere? Ma ancora più sbalorditiva sembra l'idolatria di un realista come Giuliano Ferrara: Silvio «è l'autoironia personificata... sa sorridere di se stesso». Sarà. Il punto vero non è stabilire se fra le doti di Berlusconi c'è anche un alto coefficiente di simpatia umana, proclamato da tutti gli intimi e talvolta riconosciuto anche da qualche avversario, bensì se il Cavaliere ha talento quando è investito di responsabilità pubbliche accertabili. Non è una questione minore. Già sul piano del carattere il capo della Casa ha una deprecabile tendenza ad amare le barzellette solo quando ne è l'eroe; mentre non appena ne diventa soggetto passivo si irrita malamente: come sa Massimo D'Alema, che nel collegio di Gallipoli potrebbe pagare cara una battuta da "Settimana enigmistica" («Fra poco lo vedremo con lo scolapasta in testa»), pronunciata per irridere la sua vocazione napoleonica. Ma al di là della simpatia e del suo contrario, l'unica cosa che conta è il profilo dell'uomo di governo, e sotto questa luce il Cavaliere non ha precedenti straordinari. I sette mesi del 1994 sono stati una sagra del lamento: «Ci remano contro», «Non ci lasciano lavorare». Cioè una giustificazione fastidiosa in quanto non richiesta, mentre in realtà l'esecutivo era mediocre quando non bizzarro, e le linee politiche del governo drammaticamente altalenanti fra rigore (sulle pensioni) e lassismo pro svalutazione, per tacere della ideologica e provinciale animosità antieuropea che caratterizzò quell'esperienza. È plausibile allora il sospetto che la vera abilità dell'Uomo di Arcore consista in una reinterpretazione da grande attore del "chiagni e fotti". Anche le recenti vicende che lo hanno visto coinvolto sul versante internazionale appartengono a questo genere narrativo. Le critiche e le domande della stampa straniera sono state attribuite all'«internazionale della calunnia», a una congiura «di sinistra», a manipolazioni gestite da suggeritori italiani. In precedenza, il Cavaliere aveva occupato la scena mediatica («Mi minacciano») con denunce vaghe ma sufficienti per fottere le prime pagine alla convention di Rutelli. Nello stesso tempo, ha già fatto capolino il Berlusconi che prepara gli alibi: dopo avere proposto agli italiani un «contratto», secondo il quale se non riuscirà a realizzare il suo straordinario ma non enunciato programma, e in particolare la creazione di 300 mila posti di lavoro l'anno, fra cinque anni non si ripresenterà alle elezioni, il Migliorissimo davanti alla platea degli industriali romani ha cominciato a fissare condizioni e a sollevare ipotetiche: lui continua infatti a sentirsi un fuoriclasse ma segnala il rischio che gli spezzino le gambe. Rimane convinto di essere un grande centravanti, ma se poi i guastatori della parte avversa praticano i tackle a gamba tesa la colpa dei gol mancati non sarà sua. Quindi può darsi che il problema vero, in caso di vittoria berlusconiana, non sia la sopravvivenza della democrazia, come temono Bobbio, Galante Garrone e Sylos Labini: bensì la noia ricattatoria di un refrain già sentito millanta volte, secondo cui i fallimenti eventuali verrebbero ricondotti alle maligne manovre dei sabotatori. Una visione mitologica della "governance". La politica postmoderna di Berlusconi tende a trattare l'Italia come un'azienda, cioè una struttura in cui la catena di comando deve funzionare senza ostruzioni. Ma le società avanzate sono diverse dall'impresa: gruppi sociali, addensamenti corporativi, interessi categoriali, meccanismi istituzionali, legami sovranazionali non possono essere riconducibili a processi decisionali manovrati creativamente dall'alto. Il migliore del mondo potrebbe trovarsi nuovamente nella condizione di avere straordinarie idee di governo e pochi strumenti per realizzarle. Lo studente esemplare, il figlio modello, il padre adorante, il marito amoroso, l'amante della musica, il grande costruttore, il tycoon televisivo, il supertecnico calcistico, il leader carismatico, l'uomo di governo, insomma le mille facce immortalate dalle immagini da rotocalco di "Una storia italiana" potrebbero presto trovarsi a fare i conti con l'ontologica schizofrenia di Silvio: una personalità da Eroe e una sensibilità da Vittima. Passi per l'eroe; ma la vittima, ce la risparmi il cielo.
L'Espresso, 03/05/2001
Il Leghicidio
Umberto Bossi sembra una biscia in muta: se ne sta quieto, come succede agli arrabbiati che si sono guadagnati la pensione, e se nel caffè sotto casa si scatenano dibattiti al massimo si concede visioni planetarie, scenari geopolitici, panorami economici globali. L'America, l'Europa, le multinazionali, lo scontro delle civiltà. Quando scende dalla stratosfera e si permette qualche pensiero sul cortile domestico, si limita a qualche mormorio per dire che Berlusconi è una persona perbene, e prova a fare la voce roca contro i nani nazisti per segnalare che il grande Nord non cederà alle controrivoluzioni romane. Intanto però il referendum formigoniano è evaporato, nei paesi sulle colline i gazebo della Lega sembrano tempietti della nostalgia, la soglia del 4 per cento fa paura, e serpeggia una domanda fastidiosa: ma tutta quella brava gente che si aspettava chissà che dal Carroccio, che cosa pensa e si aspetta adesso? Per ciò che si vede, i leghisti sono un'appendice della Casa delle libertà. Le esecrazioni di Rutelli sulle infezioni haideriane del movimento sono perfino troppo vocali. Al momento buono, a Berlusconi basterebbe una veloce letterina di sfratto per togliersi di casa l'inquilino molesto. L'Umberto non può nemmeno più sostenere di appoggiare il vecchio Berluskaiser per portare a casa il federalismo, visto che ormai la questione federalista è finita in coda alle priorità percepite dall'opinione pubblica. Incasserà i parlamentari contrattati con il Cavaliere, ma poi? A Berlusconi sta riuscendo il leghicidio tentato alla fine del 1994 e fallito nel 1996. E Bossi non ha molte carte: se urla, irrita i moderati; se si modera, sfiora l'irrilevanza. Deve aspettare un'occasione e buttarcisi dentro. Sempre ammesso che le occasioni non siano fuggite tutte, e che la Lega non sia destinata ad annegare nella stessa acqua in cui è nata.
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