L’Espresso
L'Espresso, 03/05/2001
Voti a perdere
Quelli che defezionano dalle coalizioni, o non ci vogliono entrare, respingono sempre con indignazione l'accusa di contribuire alla sconfitta. Anzi, rovesciano il capo d'imputazione contro i mancati alleati. Così Fausto Bertinotti degrada l'Ulivo per la sua deriva "centrista, confindustriale e vescovile", e davanti a Mirafiori ripropone l'estetica della sinistra bella, plurale e perdente. Rifiuta la Realpolitik e rievoca il sogno. Aggredisce i compromessi e sotto sotto si capisce che il suo bersaglio polemico è Massimo D'Alema: per dare uno scrollone alla sinistra deve agire sull'uomo forte dei Ds, favorire la sconfitta purificatrice e preparare il terreno per la soluzione "francese". Come se in Italia esistesse un partito socialista in grado di risultare maggioritario nell'elettorato. In realtà, l'atteggiamento di Bertinotti, classico quanto prevedibile, nasconde il timore che Rifondazione comunista stia rischiando più dell'immaginabile sulla soglia di sbarramento alla Camera e che quindi sia necessario recuperare alla svelta presenza e visibilità negli ultimi giorni di campagna elettorale. Un discorso analogo investe Antonio Di Pietro e il suo movimento. Anche l'ex pm rivendica una purezza che il centrosinistra avrebbe perduto, e anche l'Italia dei valori vede il 4 per cento come un miraggio. Insieme, Bertinotti e Di Pietro potrebbero incarnare nei confronti dell'Ulivo la figura dei maramaldi: se il 13 maggio il centrosinistra si rivelasse effettivamente un uomo morto, Fausto e Tonino rigetterebbero tutte le responsabilità della sconfitta sui perdenti. La colpa è sempre di chi perde, non di chi ha favorito la batosta. Si tratta di vedere se nell'elettorato c'è effettivamente la voglia di punire l'Ulivo, cioè se esiste un complessivo 10 per cento di votanti a perdere, che preferiscono bastonare Rutelli piuttosto che battere Silvio Berlusconi.
L'Espresso, 03/05/2001
Bocciato dall’Europa
Silvio Berlusconi può essere irresistibile, avere in tasca l'incarico di Carlo Azeglio Ciampi, programmare 100 giorni da Grande Sogno, eppure il provincialismo della Casa delle libertà, dopo la copertina di "The Economist", sfiora l'impensabile. Il Cavaliere in persona dice che l'inchiesta del settimanale inglese, bibbia neoliberista, è «spazzatura». Umberto Bossi allude a un complotto europeo ordito da D'Alema. Gli altri alleati di Forza Italia, da Fini a Casini, trattano il caso con sufficienza, come se si trattasse di una bizzarria anglosassone, e i britannici non avessero capito le vere caratteristiche di Berlusconi, la simpatia, l'anticomunismo, lo spirito del fare, l'eclettismo mediatico. La realtà è che le domande e le critiche di "The Economist", poi seguite da quelle di "El Mundo" riguardo a presunti flussi di pesetas da Telecinco verso sue società domiciliate nei paradisi fiscali, vanno al cuore di un problema politico, e di una questione pubblica, che nel nostro Paese sono stati oscurati da una campagna poderosa: la quale è riuscita a convincere buona parte dei cittadini che l'anomalia del magnate entrato in politica, il conflitto d'interessi, la storia del suo intreccio con la politica, e i misteri all'origine della sua fortuna economica, oltre alla scarsa trasparenza della sua struttura societaria, sono solo simpatiche caratteristiche di un uomo che era ed è troppo geniale per occuparsi anche di formalismi. In sostanza, l'affondo di "The Economist", e magari anche le punzecchiature di "The Guardian" e del "Financial Times", nonché la scomunica di "Le Monde" e la strigliata di "The New York Times" riprese da "The Herald Tribune", non costituiscono un atto di malevolenza verso l'Italia e gli italiani, ma l'espressione del dubbio che Berlusconi non sia un politico dal profilo europeo. È per questo che risultano deludenti ed elusive le riflessioni di esponenti della business community come Letizia Moratti, secondo cui le grandi testate di scuola liberale dovrebbero «fare uno sforzo supplementare per capire cosa ha rappresentato nel sistema italiano la novità Berlusconi. E allora probabilmente sarebbero meno ingenerosi». La tesi di fondo è che «i nostri amici inglesi e americani fanno l'errore di applicare il loro metro a una realtà che è sicuramente diversa». Vale a dire che l'eccezione è l'Italia, non il monopolista Berlusconi. L'anomalia è un Paese che ha rimesso a posto i conti ed è entrato nell'euro, non il portatore del conflitto d'intessi. Singolare visione, ma non incongruente con la formidabile combinazione di Sozialmarktwirtschaft e di supply side economics, di economia sociale e di tardoreaganismo, la ricetta magica per lo sviluppo. E se i mercati non ci credono, si risponde nella Casa, tanto peggio per i mercati.
L'Espresso, 03/05/2001
Adriano? Più bollito che Molleggiato
Cade, il presunto capopopolo cade. Era stato Eugenio Scalfari a coniare per Adriano una definizione carismatica («Celentano evoca l'indistinto e l'istinto», sostenendo che in futuro qualcuno avrebbe fatto tesoro della nuova dimensione politico-televisivo-populista creata dalla hybris del Molleggiato. Era il 1987. Ora il qualcuno è venuto allo scoperto, e a suo modo è anche più mitico e magico di Adriano, con le sue missioni e i suoi pilastri per rifare l'Italia. Perché una certa differenza, fra un monologo di Berlusconi e uno sproloquio di Celentano, alla fine c'è. Silvio è professionale, Adriano è sempre un dilettante. Berlusconi ha imparato a credere a ciò che dice, mentre Adriano, che alle sue idee galattiche e universali ci credeva da prima, ancora non riesce a dirle in maniera appena fluente. L'ultima storia, comunque, è questa. Hinterland lombardo, o come accenna Michele Serra, echeggiando Franco Fortini, un «rugginoso fuoriporta milanese». Località Brugherio, il giorno della famosa prima puntata. Si capisce che sui "125 milioni di cazz...te" i vertici della Rai hanno scommesso tutto, anche la faccia, vedendo il direttore di Raiuno Maurizio Beretta che prima dello show misura solo e pensoso le scalinate della platea, fra sbarre e inferriate "piranesiane", mentre il vulcanico organizzatore Bibi Ballandi stringe mani su mani passando fra il pubblico di idolatri con l'aria di uno che ha costruito l'evento del decennio. E infine l'adrenalinico (lo dice lui) Roberto Zaccaria che interpreta la parte del team manager, come se il programma del salvatore Adriano fosse opera sua e dei suoi boys: e quindi si divide fra la platea, diveggiando alla pari con Ronaldo e Massimo Moratti, e il set, facendosi fotografare con tutti gli operatori in divisa da secondini, raccolti intorno a lui con un'euforia da paddock di Formula uno. Vincere! Ma questa volta vincere è difficile, anche se i giorni seguenti sono la sagra del conformismo. Del programma di Celentano parlano bene tutti o quasi escluso ad esempio un perplesso Aldo Grasso ma compreso un estatico Dario Fo che scambiando il caz-show (definizione dell'inviata della "Stampa" Marinella Venegoni) per teatro d'autore dice che quel vecchio ligéra di Adriano ha stravolto i tempi della televisione, dilantandoli e facendo la rivoluzione. Un'operazione culturale «di grande raffinatezza». Ai tempi del famoso "Fantastico" del 1987, quello del figlio della foca, Norberto Bobbio aveva visto «un cittadino di serie B», Lucio Colletti «un mezzo analfabeta», Enzo Bettiza «un guitto ignorante e furbastro». Solo Giuliano Ferrara parlò dello show come di una lezione di tv, e vedi caso il direttore del "Foglio" è stato il protagonista passivo della fiction sul pomodoro transgenico, a cui ha collaborato anche Carlo Lucarelli per dare una dignità noir al demenziale. Giuliano Ferrara nella mini fiction transgenica ha fatto il morto, e lo ha fatto benissimo, con un realismo impressionante o espressionista, gli occhi spalancati, la faccia irrigidita. Ottimo il funerale sulle note rallentate di "Azzurro", in attesa di quello di Gad Lerner fritto sulla sedia elettrica, e delle esequie delle periferie annunciate già 35 anni fa con "Il ragazzo della via Gluck". Va da sé che la prima fiction era una cazzata deprimente, ma peggio è stata la round table a seguire tra Celentano, il Ferrara redivivo e Carlo Petrini, con i fan in platea raggelati e incapaci di riaversi fino ai titoli di coda (mentre anche l'audience andava in raffreddamento, anche se nessuno lo dice). Poi, Adriano è fortunato. Malgrado gli sforzi di Michele Serra, che alla fine della serata d'esordio si muoveva nervosamente in un angolo del set per essere poi abbracciato catarticamente dalla pleonastica Asia Argento, il livello qualitativo del programma sarebbe stato catastrofico, perlomeno se si prendeva sul serio la faccenda dei contenuti. Perché con Celentano non si fa spettacolo. Se si facesse spettacolo, bisognerebbe recensire: le robette di Antonio Albanese, paraletteratura cheap; il duetto con Gaber, e vabbè; gli tzigani di Romania, le solite violinerie etniche; le prostitute "vere" troppo mute, oltretutto interpellate sul quanto-col-guanto prima di attaccare a tradimento "Io non so parlar d'amore...", con uno straniamento mica male. È fortunato, celentano, di una fortuna schifosa, perché c'è sempre qualcuno che se la prende e lo prende sul serio. Il superpopolare ministro Umberto Veronesi scrive alla Rai che con un solo monologo Celentano ha buttato nella spazzatura anni di civiltà giuridica e civile sui trapianti. Soldi sprecati e parole «ottuse e irresponsabili». Così lui, Adriano, con un maestoso colpo di fortuna è tornato a essere un problema politico, economico, sociale. Da antico democristiano di sinistra Zaccaria opera i suoi speciosi distinguo a favore del cattolico di destra Celentano: e che diamine, uno show non fa informazione, al massimo produce opinione. E le opinioni si potranno lanciare e discutere, o no? Ma sì, si potrebbero discutere se fossero per l'appunto opinioni. Mentre il problema di Adriano è che ormai non ha opinioni. Strano, singolare, misterioso caso di guru dall'idea sbandante, di ideologo dall'ideologia col buco, di pensiero senza pensiero, Celentano si è sgonfiato perché non riesce nemmeno più a sostenere un argomento. L'Elefantino, il dottor Stranamore del transgenico, alla lunga avrebbe messo in seria difficoltà l'Ispettore Gluck e le sue confuse fobie alla mucca pazza. Perché il carismatico Adriano non ha convinzioni, ha solo sensazioni. E non diciamo, come Zaccaria, trattasi di spettacolo. Anche Enzo Jannacci precipita nell'equivoco e dice: «È l'unico artista bravo che abbiamo in Italia». Ma se di Arte & Spettacolo si trattasse, i critici dovrebbero fare capire al Re degli ignoranti che i mostri sacri hanno l'obbligo di un maggiore rispetto di se stessi. Quindi stilizzare le performance e i duetti, creare un velo di aura, sollevare un alone favoloso, trasformare l'evento in prodigio: e non buttarla sul trash, sul provinciale, sull'autoreferenziale (il trash andrebbe benissimo come materiale per il grande effetto comico, ma se è involontario lo svacco è assicurato, altroché sublimare la spazzatura: si fa la figura dell'"idiot", come lo definì David Bowie dopo un dialogo allucinante su guerra e pace). Macché: tutta l'attesa per lo show era e sarà concentrata su ciò che il carismatico avrebbe detto e dirà, sul suo non essere di destra né di sinistra «e sia ben chiaro, nemmeno di centro», sulla sua convinzione metapolitica di poter spostare quattro o cinque milioni di voti. Ma se poi deve, come sempre, rettificare, spiegare, tornare sui suoi passi, dare ragione a tutti, ripiegare nella categoria del guitto che lancia il sasso e ritira la mano, il gusto è scarso. Si parte sistemando George W. Bush e si finisce sperando che all'ultima puntata arrivi Roberto Benigni. Però con il pensiero nascosto che l'Oscar gli possa rubare la scena: come accadde con Teo Teocoli e Gianni Morandi, a "Francamente me ne infischio". Dura la vita, anche da carismatico: soprattutto quando tu predichi, e gli altri razzolano.
L'Espresso, 26/04/2001
Caccia agli indecisi
Da mesi nel centrosinistra si sostiene che l'Ulivo può ancora farcela "recuperando l'area dell'astensione". Ora, è vero che i sondaggi continuano a segnalare che c'è un'ampia quota di elettorato ancora indecisa. Gli incerti sono all'incirca un terzo, e secondo il Cirm sfiorano il 40 per cento. Analisti come Nando Pagnoncelli dell'Abacus sottolineano che oggi l'elettore indeciso è indeciso veramente (non come all'epoca dello Scudo crociato, quando gli incerti erano in realtà cripto-democristiani timidi). Ma sono fondate le speranze uliviste? A leggere il saggio di Renato Mannheimer e Giacomo Sani pubblicato di recente dal Mulino ("La conquista degli astenuti") affiorano molti dubbi. L'area dell'astensione è mutevole e caratterizzata da motivazioni differenziate; ma sembra smentita l'idea che la sinistra sia più mobilitabile che non l'elettorato di destra. L'elettore astensionista si caratterizza in genere come un cittadino distante dalla politica, e il fenomeno del non voto come un aspetto "trasversale" agli schieramenti: «Anche in occasione delle ultime consultazioni, il fenomeno delle astensioni - perlomeno di quelle volontarie - non pare aver colpito nessuna forza politica in particolare». Quindi lo sforzo ulivista dovrebbe puntare non tanto ad alzare il numero di votanti, quanto ad aggredire l'area degli incerti. Poiché è dimostrato dalle curve statistiche che la decisione di voto tende ad approssimarsi sempre più alla data del voto (risultano cruciali gli ultimi 10-15 giorni di campagna), a questo punto Francesco Rutelli deve giocarsi il tutto per tutto. La Casa delle libertà si comporta come se la partita fosse già stata giocata e vinta, per accentuare l'ineluttabilità del successo e l'inutilità della rincorsa; l'Ulivo deve puntare ai minuti di recupero, sperando che alla fine il dio degli incerti dia una spintarella a sinistra.
L'Espresso, 26/04/2001
E Rutelli prepara una volata alla Prodi
Una delle speranze sottaciute di Francesco Rutelli è data dagli irregolari. Quanti voti potranno sottrarre alla Casa delle libertà i radicali di Emma Bonino e Marco Pannella? Non molti. Ma se si aggiungono al conto i consensi giustizialisti di Di Pietro, il richiamo di Giulio Andreotti alle riserve democristiane, l'effetto delle scomuniche di Indro Montanelli... E mettiamoci pure la presenza delle liste di Pino Rauti, che determina conseguenze a doppia faccia: dove i rautiani sono alternativi al centro-destra, possono fare male nei collegi in bilico; mentre nel caso di desistenze, come in Sicilia, fanno scattare riflessi antifascisti. Anche se Silvio Berlusconi ha minimizzato l'accordo con Rauti, invocando «ragioni di concretezza regionale» (un seggio val bene una Fiamma), è stata immediata la reazione di un esponente di un'élite "sensibile", il presidente delle Comunità ebraiche Amos Luzzatto, secondo il quale dietro espedienti simili «si dà ufficialmente spazio agli epigoni del regime fascista». Considerazioni di questo tenore hanno il difetto di essere fondate sui possibili e non sempre comprovati elementi di debolezza del fronte avverso. Ma l'inseguimento di Rutelli ha ancora una possibilità o si tratta di un match per onor di firma? Vero è che l'euforico patron di Datamedia, l'analista-fan Luigi Crespi, sostiene che solo gli errori dei votanti rannuvolano i cieli della Casa delle libertà (in base a una sua simulazione, 40 elettori su 100 continuerebbero a sbagliare le modalità di voto). Ed è vero pure che Berlusconi ha dichiarato alla "Welt am Sonntag" che la sconfitta del 1996 fu dovuta a «Un milione 171 mila schede distrutte» grazie alla lunga tradizione della sinistra in fatto di brogli. In realtà il compito più faticoso, per tutto l'Ulivo, consiste nel ribattere alle promesse e alle accuse del centro-destra: promesse di vistosi tagli fiscali, di spesa pubblica generosa con le grandi opere, di crescita del Pil almeno al 4 per cento (secondo l'economista Antonio Marzano); le accuse riguardano invece il "malgoverno" e i cinque anni di vessazione che avrebbero drammaticamente impoverito il Paese. L'improvvisazione della candidatura di Rutelli ha messo sullo sfondo il suo programma di governo. Il centro-sinistra deve compiere l'impresa sfibrante di recuperare in extremis gli elettori all'idea che l'ultima legislatura, malgrado i giudizi sprezzanti del centro-destra, è stata virtuosa (approdo all'euro, crescita al 2,9 per cento nel 2000, controllo dell'inflazione, deficit all'1,5 per cento, debito in netto calo percentuale sul Pil, un milione e 253 mila posti di lavoro creati dall'aprile '96). Nello stesso tempo Rutelli deve provare a far capire che la moderazione programmatica del centro-sinistra, rispetto alla pirotecnia berlusconiana, si iscrive proprio nella linea di razionalità che ha presieduto al risanamento e al rilancio degli ultimi cinque anni. È la battaglia fra le scabre cifre di Giuliano Amato, di Vincenzo Visco, di Paolo Onofri (il cui ultimo saggio, "Un'economia sbloccata", appena pubblicato dal Mulino, dovrebbe essere un vademecum per la classe dirigente italiana) e le immagini di "Una storia italiana", il libro del sogno berlusconiano. Battaglia impari, psicologica ancor più che ideologica: ma non si dovrebbe dimenticare che in condizioni altrettanto difficili Prodi rovesciò il pronostico, e centrò l'inseguimento: quasi sul traguardo.
L'Espresso, 26/04/2001
Vestivamo alla beat
My name is Clapton. Eric Clapton...». Possibile che in un istante indefinito ma cruciale degli anni Sessanta il solista degli Yardbirds si materializzi nel centro di Modena, chiedendo l'indirizzo di un celebre liutaio cittadino? Forse la sua presenza è solo un cortocircuito della memoria. Ma può anche darsi che si tratti dell'effetto di una strategia distorsiva, deliberatamente scelta da Roberto Barbolini (critico teatrale di "Panorama" e scrittore già noto per romanzi come "Il punteggio di Vienna") per acchiappare dalla provincia il mood planetario dei Sixties. Poteva essere una specie di romanzo di formazione, con annessa la concessione nostalgica, e invece no: nei 14 racconti del libro ("Chiamala veglia. Storie tra sonno e rock", Aragno editore, in questi giorni in libreria) non c'è traccia del bamboleggiamento generazionale, del come eravamo, della politica, del Sessantotto. C'è piuttosto un catalogo di oggetti, di esperienze, di "cose" che hanno scandito ossessivamente un decennio. Dalle Fender alle Gibson, fino alle autarchiche Eko. All'insegna dello slogan secondo cui, alla faccia di McLuhan, «il sound è il messaggio». La "piccola città" di Barbolini è lo sfondo di una Beat Generation dove la storia avviene in diretta, o almeno per immediato sentito dire. Si può incontrare la Rolls Royce di quegli esteti dementi dell'Equipe 84; si fanno vasche in centro con Vasco, ed è superfluo chiarire chi sia Vasco; ci si innamora di una che va pazza per i Nomadi, e soprattutto per Augusto Daolio, cantante e pittore, l'Eric Burdon della bassa e, post mortem, idolo new age. È comunque curioso che nella letteratura nazionale si inserisca un'opera narrativa che oltre ad Alberto Arbasino, Henry Roth, Raymond Chandler, chiama a raccolta gli eroi dell'età del rock. Il sonno, e la veglia, sono le polarità di un testo in cui si dispiegano i materiali maggiori e minori di un'epoca, identificati con assiduo puntiglio sociologico: dalle sonorità di "Heart full of soul" degli Yardbirds al beat italiano dei Dik Dik e della mogoliana "Dolce di giorno"; dai rimedi contro la caduta dei capelli (le fiale di Meducrin, il Selsun al solfuro di selenio, la confezione gigante di Hegor) alle bancarelle con i Gialli Proibiti Longanesi. Sarebbero reperti di archeologia culturale se non agisse una dimensione mitica (identificata da Cesare Garboli e Guido Fink, che presenteranno il libro al Premio Strega) che trasforma i frammenti di memoria in configurazioni iperboliche. Ognuno ha la storia che si merita: i reperti dei Sessanta si iscrivono in una costellazione favolistica, al punto che non importa se Eric Clapton è venuto davvero. Sarebbe potuto venire, e questo basta per esentare il decennio dalla politica, e per restituirgli una inattesa dignità estetica.
L'Espresso, 19/04/2001
Franz Joseph Formigoni
Poiché la devolution non è un pranzo di gala, Roberto Formigoni ha messo su la faccia feroce. Con il risultato di piazzarsi in prima fila: il federalismo plebiscitario è una buona carta da giocare polemicamente contro il centrosinistra, ma soprattutto permette al governatore lombardo di salire sul proscenio della politica italiana e di darsi le stimmate del leader nazionale. Sarà bene seguirle, le mosse di Formigoni, perché la sua figura illumina la possibile evoluzione della Casa delle libertà. Sembrerà fuori tempo ipotizzare successioni al Berlusconi dilagante di questi giorni. Eppure, proprio perché il Cavaliere è l'unico vero cemento del centrodestra, non è mai troppo presto per rafforzare una carriera e per accentuare un profilo che in prospettiva siano adatti a nuovi scenari di leadership. Anche perché di delfini il capo di Forza Italia non ne ha. Ovvero, ci sarebbe Gianfranco Fini: ma il capo di An è il pilota di destra della coalizione, ed è problematico pensare che in futuro possa assumerne in proprio la guida centrale. Invece Formigoni riassume perfettamente gli spiriti del centrodestra: democristiano ma di struttura culturale ciellina, quindi capace di radicalismo; cultore della "politica del fare" con quella operatività spiccia che piace ai berlusconiani; pronto a cavalcare la tigre federalista fino a rendere pleonastici Bossi e la Lega. E così combattivo verso la sinistra da rivaleggiare opportunamente con Fini e Storace. Se gli va stretta, il governatore di Lombardia assomiglierà a Franz Joseph Strauss, il toro bavarese della Csu: mano di ferro sul Land lombardo, proiezioni in politica estera, possibili ruoli ministeriali. Ma se e quando la scena si allargherà, non è il caso di mettere limiti alla Provvidenza. Nella Cdl Formigoni non è un inquilino. Con la devolution diviene un condomino. E con l'aiuto del cielo, un leader possibile.
L'Espresso, 12/04/2001
Per chi vota Cofferati
I cinque anni del centrosinistra sono stati dominati dalla concertazione e dalla relativa retorica, ma con lo scorrere dei governi il rapporto con il sindacato è diventato sempre più contorto. Pazienza per la Cisl, la cui immagine è illuminata a ritroso dalla scelta terzaforzista di Sergio D'Antoni, e che si trova nelle condizioni utili per giocare a rimpiattino con l'eventuale governo di centrodestra. Ma il punto più delicato riguarda ovviamente la Cgil: fra il sindacato "socialdemocratico" di Sergio Cofferati e l'ulivismo di Francesco Rutelli c'è una sfasatura culturale, oltre che politica. Quel che è certo è che l'universo sindacale è cambiato vistosamente: sotto una leadership di sinistra classica si stratificano quote talora maggioritarie di iscritti con inclinazioni elettorali moderate. Dunque è qui l'inciampo per le sorti del futuro partito forte della sinistra. La catena di montaggio D'Alema-Amato-Cofferati è perfetta per assemblare un oggetto politico solidamente novecentesco. I sindacalisti si infastidiscono quando risentono parlare del sindacato come cinghia di trasmissione fra il partito e i lavoratori. Ma ormai il problema è che esiste la cinghia, forse esisterà il partito, ma non è detto che esistano iscritti al sindacato trasformabili meccanicamente in elettori. Per questo la Cgil non può perdere il rapporto, per conflittuale che sia, con l'Ulivo. Il sindacato d'opposizione dura e di piazza aperta non resusciterebbe per miracolo con un governo Berlusconi, dato che ormai i profili del conflitto e del negoziato sociale sono più articolati e sfumati che mai. Insomma, la destra non conviene a Cofferati, malgrado sull'ala estrema si coltivi il miraggio del sindacato di guerra. E anche a Rutelli, dopo le improvvisazioni e le insolenze sull'Irpeg, conviene confermare la non belligeranza, cioè almeno l'eco della concertazione che fu.
L'Espresso, 05/04/2001
Se cambia il vento
Specialista nel vincere le campagne elettorali, Silvio Berlusconi aveva vinto a mani basse anche quella del 1996: ma poi il destino cinico e baro gli sottrasse con destrezza il trionfo. Inutile, ai suoi occhi, mettere in conto il migliore rendimento dei candidati ulivisti nei collegi, l'effetto Prodi con il sostegno del mondo cattolico di base, l'erosione della Fiamma di Rauti nei collegi marginali. Per autodefinizione il Cavaliere non può perdere, brogli permettendo: e tutta la campagna 2001 è stata costruita per convincere l'opinione pubblica che non c'è partita. Il "cupio dissolvi" del centrosinistra rappresenta l'altra faccia di questa ventata propagandistica. Da quanti mesi è in atto la corvée masochista? Eppure, disincanto per disincanto, anche l'Ulivo di questa stagione spettrale non è battuto per volontà dei fati. Di sicuro è arduo colmare il divario creato dalla ricomposizione del trust con la Lega. Eppure, anche per scalfire la noia di un match già deciso, Francesco Rutelli potrebbe innanzitutto mettere a bilancio gli incidenti della Casa delle libertà: i giudizi sprezzanti di Indro Montanelli, le guerricciole con i socialisti sfrattati, il fastidio provocato dagli attacchi alla Corte costituzionale, le minacce di occupazione della Rai. Ma non basta: se Rutelli vuole avere una chance, non può contare solo sul disordine nella Casa. E nemmeno sulla timida mobilitazione che si intravede a sinistra, con un rigurgito emotivo che dal basso sembra smuovere il popolo dei delusi. Rutelli deve uscire dalla sua moderazione manierata per argomentare in modi meno ovvi. Non tutta la società italiana è prigioniera di un'egemonia provincial-patrimoniale. Ci sono ceti caratterizzati da una cultura globalista, da consumi evoluti, da comportamenti modernizzanti: perché il vento cambi, Rutelli faccia respirare anche un po' di brezza parigina.
L'Espresso, 05/04/2001
Il Polo convince, ma solo chi è già convinto
Mentre si avvicinano i momenti decisivi del confronto elettorale, affiora un elemento anomalo. Un dato in ombra che stride con le sicurezze del centro-destra. Un tarlo, una pulce, un ronzio, forse un dubbio. Secondo i sondaggi, la vittoria della Casa delle libertà è certa: ma solo sulla base degli intervistati che si pronunciano. In mesi di campagna la macchina pubblicitaria del centro-destra è sicuramente riuscita a costituire un blocco maggioritario di consensi: tuttavia non estende la propria attrazione all'area dell'incertezza. Tutti gli sforzi propagandistici rafforzano la convinzione dei già convinti, ma non allargano il totale delle preferenze. Lo zoccolo degli indecisi è intatto. Un terzo dell'elettorato risulta ancora impermeabile al messaggio berlusconiano. Nello stesso tempo, tutti gli istituti demoscopici sottolineano che la tendenza consolidata delle ultime tornate elettorali vede gli elettori sciogliere l'indecisione solo negli ultimi dieci-quindici giorni prima delle elezioni. Quindi almeno dal punto di vista aritmetico le profezie sono premature. È vero che in condizioni politiche normali l'area degli indecisi dovrebbe dividersi in modo proporzionale fra gli schieramenti. Ma le condizioni non sono proprio normali. Il 13 maggio ha assunto l'aspetto di una battaglia d'epoca, e la Casa delle libertà esprime di continuo una intenzione revanscista che può entusiasmare la voglia di potere del popolo di destra, ma non rassicura l'elettorato moderato ancora in dubbio. Oltretutto, ancora una volta la Casa delle libertà si presenta all'appuntamento elettorale come una struttura perfetta per la conquista del potere, ma come un'incognita quanto a capacità e possibilità di governo. L'immagine di Berlusconi copre le contraddizioni dell'alleanza, ma non è affatto chiaro fino a che punto il programma berlusconiano per il centro-destra può fare da sintesi in modo durevole. Come si è visto a Parma, l'avanguardia costituita dai piccoli imprenditori si identifica a pelle con il leader di Forza Italia, ma l'establishment è più attendista: dietro la personalità del Cavaliere sono visibili le persistenze nazionalpopuliste di An, come pure l'ideologia caotica di Bossi. Il rischio di sposare il presidente imprenditore e di trovarsi un paio di cognati che fanno da zavorra induce a prudenza. In conclusione: le élite non controllano voti, ma condizionano il tono generale. I moderati sono infastiditi dai fuori registro. Gli incerti continuano a rimanere incerti. A sinistra, si spera che dentro i sondaggi ci sia nascosto il profilo di un centrodestra in stallo.
L'Espresso, 29/03/2001
Casa delle fragilità
Le debolezze elettorali della Casa delle libertà sono uno dei segreti meglio protetti della politica italiana. Nessuno ne parla. Eppure le incognite dell'alleanza berlusconiana sono lì, visibili a tutti. Non dipendono dalla somma dei voti e dalla percentuale complessiva, bensì dal risultato degli alleati minori. A osservare i sondaggi, infatti, si vede che il Ccd-Cdu veleggia spesso sotto la soglia del 4 per cento. Rocco Buttiglione lustra immagini poetiche («Il Biancofiore è come il fiore del baobab, che nasce piccolo per diventare poi un albero grande»), mentre Pierferdinando Casini ripete di puntare al 10 per cento. La realtà è che un cattivo risultato dei cattolici moderati, con l'ombra del fallimento del quorum nel proporzionale, può rappresentare un incidente significativo nel risultato totale del centrodestra. Oltretutto anche la Lega Nord si muove in una zona di numeri paludosi. In teoria, Umberto Bossi non dovrebbe nutrire preoccupazioni. Il blocco di centrodestra appare avviato a confermare la performance delle elezioni politiche del 1996 (quando Polo e Lega erano divisi, ma totalizzavano il 52,2 per cento), mentre si è sgonfiata la bolla della lista Bonino alle europee del 1999, che aveva saccheggiato l'elettorato del Carroccio portandolo a un risultato deludente (4,6 per cento rispetto al 10,1 del '96). In teoria. In pratica, invece, di certezze non ce ne sono. La campagna elettorale di Silvio Berlusconi sta sfociando in un personalismo sempre più stressante. Ormai il messaggio della Casa delle libertà si riassume nella potenza simbolica di un cognome che eclissa tutto il resto, uomini e partiti. La sigla Berlusconi dà la sensazione di drenare consenso a danno degli alleati. Nel caso di An, il rischio è di conservare i voti finendo al traino. Ma per Bossi, Buttiglione e Casini i numeri potrebbero essere traditori. E la campagna della Casa delle libertà un po' meno trionfale.
L'Espresso, 29/03/2001
Nostra Signora dei columnist
Qualche volta strafà: di fronte alle crisi della new economy sostiene che «basterebbe andare a rileggersi la lettera 90 di Seneca». Altre volte sta sul popolare, criticando i parlamentari perché il loro lessico è passato «dal politichese al burinese». Per Nostra Signora dei columnist, in arte Mina, l'opinionismo praticato ogni sabato sulla "Stampa" non è una novità. Nella sua complessa arte di desaparecida che lascia indizi e dispone tracce aveva tenuto una rubrica su "Musica" (un supplemento di "Repubblica"), intitolata "Ragazzi spegnete la tv". Più tardi aveva impartito le sue lezioni settimanali sul defunto "Liberal", talvolta con vertici piuttosto memorabili, come in una fratricida, adorante-odiante stroncatura della Loren. Sul quotidiano degli Agnelli, su cui compare da oltre un anno, Mina è più compassata. Sa che il giorno dopo, ogni settimana, Barbara Spinelli insegue lo "Zeitgeist": e quindi lei pedina la cronaca, dalle campagne antifumo ai pedofili, dalla clonazione alla playstation. Prova l'acrobazia di qualificarsi né di qua né di là, né con gli apocalittici che sulla stregua di Seneca demonizzano il mondo della tecnica né con gli integrati che si esaltano per il web e con il web. Da una parte infila qualche ricordo piccolo borghese (la mamma ottantunenne che ama le moto, la nonna che suonava Puccini al piano), talora con il tono nazional-cheap scrive che il papa "si emoziona" pregando per la pace. Mentre dall'altra parte ci mette una cultura sterminata, che non arretra davanti alla mitologia di Edipo e Giocasta, alle incursioni shakespeariane, alla Bibbia, citando in latino perfino la "damnatio ad bestias" dei cristiani martirizzati. Così se parla dei danni del fumo non rinuncia a citare Zeno Cosini, e ricorre a Mark Twain per spiegare che ultimamente, dopo anni di astinenza, anche lei continua a smettere di fumare con fallimentare ripetitività. Mentre di fronte ai mondi della virtualità, confessa che la sua vera emozione è «aprire un libro col suo nobile fruscio». A modo suo, tenta di interpretare la parte dell'Inattuale. Si sfoga contro il cattivo italiano imperante, «un paciugo fatto di espressioni appiccicose e collose»; parlando della fissazione per i calendari depreca «l'odierna esplosione di ombelichi, di culi e di carnacce nude». A tutela dell'inattualità, invoca i suoi numi. Ecco Pasolini, citatissimo come profeta del degrado materialistico; ma non si fa sfuggire Dante, sant'Agostino, Kant, Beccaria, Manzoni, e poi Testori, Roland Barthes, Bobbio. Ciò che la inquieta di più è il sistema della comunicazione. Parla con mesi di anticipo del "Grande Fratello" evocando l'immagine del «villaggio globale della rottamazione dell'intelligenza», e conclude: è «quel villaggio di cui mi piacerebbe essere la più grande scema». Mentre il suo rischio vero è di praticare il conformismo dell'anticonformismo. E dopo essere stata il simbolo della rottura delle convenzioni, di diventare almeno sulla carta stampata il ritratto di Nostra Signora del common sense.
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