L’Espresso
L'Espresso, 22/03/2001
L’inquieto Colle
Al Quirinale sanno che Carlo Azeglio Ciampi è in attesa di pagare una cambiale. Con Silvio Berlusconi vincitore, il centrodestra si presenterà sul Colle sventolando il pagherò risalente all'elezione "bipartisan". Messaggio: se i voti del Polo erano graditi per eleggere il capo dello Stato, ora nessuno si faccia venire dubbi. Mandato pieno al Cavaliere, niente facce meste o tutele. Non sono più i tempi in cui Scalfaro poteva prendersi il ruolo di garante. Il Polo ha sempre magnificato l'imparzialità di Ciampi proprio per poter contare al momento buono sul suo via libera. E quando forzisti disinibiti come Giulio Tremonti hanno messo in dubbio la sua neutralità, hanno dato l'idea di tirarlo per la manica affinché non dimentichi che il suo incarico non viene da Marte. Già sarebbe umanamente fastidioso per il Presidente, ex ministro dell'Ulivo, assistere al giuramento di quegli esponenti di Forza Italia che non gli risparmiarono sarcasmi sul risanamento dei conti. Ma l'inquietudine maggiore è quella del presidente "azionista" che si trovasse a consegnare il potere a una maggioranza postfascista e postresistenziale. Un governo Berlusconi potrebbe implicare infatti che le vecchie convenzioni repubblicane sono fondi di magazzino. Per questo Ciampi sottolinea il 25 aprile come simbolo, la Liberazione come rinascita e l'antifascismo come patriottismo. Prova a conservare una cornice, nella speranza che anche la Casa delle libertà accetti uno scambio: semaforo verde al governo contro il rispetto dello statuto pubblico su cui si è fondata la democrazia italiana. Che Berlusconi governi, è un esito della storia. Mentre il ribaltamento della storia, possibile premessa di forti di-scontinuità costituzionali, sarebbe una lacerazione tale da mettere a rischio, insieme alla prima parte della Carta, anche il ruolo di un presidente bipartisan chiamato Ciampi. NON CI POSSO CREDERE Milan Club, chi era costui? IL PANEBIANCO ADDORMENTATO. «Un brutto esempio di demonizzazione dell'avversario». Angelo Panebianco condanna Norberto Bobbio, reo di aver scritto «è necessario battere col voto il cosiddetto Polo delle Libertà» perché «è in gioco la democrazia». ("Corriere della Sera", 11 marzo). Il politologo invece giura che «la democrazia non è in gioco». Ma dov'era quando, il 9 marzo, è stato Silvio Berlusconi a demonizzare l'Ulivo, asserendo che il 13 maggio si voterà per «ristabilire la democrazia ferita»? Evidentemente non c'era, o se c'era dormiva. IL GALLIANI SCARICATO. «Da quando mi sono disimpegnato dalle vicende del Milan, mi considero il presidente onorario». All'indomani della sconfitta con la Galatasaray, Berlusconi avverte che lui con la crisi dei rossoneri non c'entra. Siamo alle solite: già il 20 gennaio Giorgio Tosatti notava che «Berlusconi non fa onore alla propria immagine accollando a Giuliani tutte le responsabilità , dando la sensazione di chiamarsi fuori perché le cose vanno maluccio». Gli elettori sono avvisati. Se affideranno al Cavaliere la nave Italia, in caso di avaria il comandante sarà il primo a svignarsela. IL CIELLINO STRALUNATO. «Siamo a Torquemada!». Giorgio Vittadini, presidente della Compagnia delle Opere, inveisce contro i magistrati che indagano sul braccio affaristico di Comunione e Liberazione. Strano insulto, sulla sua bocca di credente e di anticomunista. Il mitico capo della Santa inquisizione, che si sappia, figura nell'album di famiglia non degli stalinisti, bensì dei cattolici. IL D'ALEMA SMEMORATO. «Modello francese, modello tedesco? Io avrei preferito il primo approdo, quello a cui giunse la Bicamerale». Parola di Massimo D'Alema. Mah. In realtà la forma di governo alla francese fu scelta dalla defunta commissione soltanto perché così volle, a sorpresa, Umberto Bossi. D'Alema vagheggiava invece il premierato forte, una buffa ricetta made in Italy caduta (per fortuna) nel dimenticatoio.
L'Espresso, 22/03/2001
D’Alema, tu uccidi Rutelli
Per Massimo D'Alema è subito diventato «il signor Parisi». Uno che «viene da un'altra parte e lavora per distruggere la sinistra». Gli scontri personali in politica sono la norma, ma fra il capo diessino e il leader dei Democratici c'è un conflitto irriducibile. Da parte di D'Alema un'insofferenza ontologica. È l'esistenza stessa di Parisi, l'incarnazione post-prodiana, che lo fa imbizzarrire, con il suo ulivismo radicale e lo scetticismo per le abilità manovriere del Migliorino. In ultimo, con la denuncia della doppia cabina di regia nel centrosinistra e l'individuazione di Amato come interprete di un «rapporto, seppur contraddittorio e altalenante», di intesa con l'opposizione, Parisi ha sollevato il male dei mali, un problema politico. Irritante, fastidiosissimo. Perché mette allo scoperto il vero nodo del centro-sinistra. Perché straccia la retorica d'ufficio e fa emergere due visioni chiare e incompatibili. Secondo Parisi, parlare di linee strategiche differenziate dentro i Ds è una finzione. Il partito è compatto. Lo stesso Veltroni, presunto ulivista, in tutti i passaggi cruciali si è adeguato. Amato usufruisce stabilmente di un rapporto con D'Alema ed è oggettivamente ostile a formule politiche diverse da quelle di stampo socialdemocratico. Il leader dell'Asinello non si stupisce di questa sinistra-roccaforte: «Lo hanno detto e scritto. Il loro schema è la costituzione di un partito riformista a vocazione maggioritaria, che non delega a nessuno la rappresentanza politica del centro. Sarebbe quello che chiamano il modello europeo. Di qui l'accusa a me di distruggere la sinistra italiana, perché l'unica sinistra sarebbe la loro». La prima conseguenza di questo disegno è la riduzione alla subalternità dei Popolari. Ma ciò rientra nella fisiologia politica. La seconda, molto più delicata, è un'implicita congruenza con Berlusconi, nel nome di un interesse comune a fare piazza pulita dei residui centristi. Ecco allora le diplomazie più o meno segrete, le offerte ministeriali ad Amato: «Accolte senza la dovuta indignazione», sottolinea Parisi, quasi con un compiacimento per una simile mondanità bipartisan; e le porte aperte e i cellulari accesi per Gianni Letta e gli altri ambasciatori berlusconiani. «Il che comporta un atteggiamento perlomeno ambivalente verso l'appuntamento elettorale», aggiunge Parisi: «Dato che il partito socialdemocratico non si realizza in tempi brevi, la sconfitta elettorale non viene percepita come il problema più acuto. Anzi, agli occhi dei dalemiani una vittoria di Rutelli potrebbe avere il difetto di fare regredire il loro progetto». Ma allora con quali prospettive un centrosinistra schizofrenico scende in partita? E quale messaggio mandano all'elettorato, l'inciucismo? «Il professionismo dei diessini non va sottovalutato. Sono capaci di alternare fasi di intesa e fasi di scontro. Ad esempio, sul conflitto di interessi hanno recuperato a freddo il tema dell'ineleggibilità di Berlusconi, mentre la nostra posizione giungeva al massimo all'incompatibilità con la premiership». In sostanza, a giudizio di Parisi il pedale viene premuto o allentato a seconda delle circostanze. Quando Rutelli riesce a far prevalere la spinta espliticitamente competitiva e alternativa al Polo, l'Ulivo si spende per l'approvazione unilaterale della legge costituzionale sul federalismo; non appena prevale la "regressione consociativa", si concede al capo di Forza Italia la data delle elezioni e l'abbandono, per ritrovato fair play, del tema dell'ineleggibilità. Che la schizofrenia fosse già incorporata nel nuovo Ulivo era risultato evidente al momento della scelta della leader-ship. Con una sola frase («Guarderemo anche i sondaggi»), Parisi aveva affossato Amato, candidato di D'Alema. Ma la lealtà di coalizione, o anche solo l'istinto di sopravvivenza, vorrebbe che, una volta scelto il leader, l'intendenza seguisse. Mentre il sospetto dei Democratici è che i Ds, dietro gli slogan unitari, si stiano comunque preparando a gestire in proprio il risultato elettorale. È un'illusione, quella diessina, di poter "trattare" anche la vittoria della destra? «Hanno in mente due scenari», dice Parisi: «Il primo è l'opposizione dialogante. Ancora una volta D'Alema si assumerebbe il compito di interlocutore primario di Berlusconi. Due leader "veri" in una spartizione di ruoli, senza disturbatori in mezzo. Il secondo scenario è più disinibito, ed è quello delle larghe intese. Praticabile soprattutto in caso di risultato elettorale ambiguo, ma comunque funzionale alla normalizzazione diarchica della politica italiana». Rimane pur sempre un terzo scenario, quello della batosta elettorale. Perché quando si punta a gestire la sconfitta si può anche rischiare la goleada. «Il vero trionfo di Berlusconi avverrebbe se dopo le elezioni si potesse permettere di fare a meno della Lega. A quel punto avrebbe tutte le possibilità di stabilizzarsi al centro del sistema, praticando una riedizione della politica dei due forni, di là con la Lega, di qua con i Ds». Nel tono delle parole di Parisi si avverte una scia ironica: il pensiero di un D'Alema che lavora per l'eternità del Cavaliere, in effetti, è puro humour nero.
L'Espresso, 15/03/2001
Sbrego alla milanese
Ovvio che a Giuliano Amato la devolution alla Formigoni non piaccia. Per la sua finezza giuridica è una iniziativa grossière. Andrea Manzella oppone alle sgangheratezze referendarie del centrodestra l'«intima coerenza» istituzionale della riforma nata con i 316 voti. Antonio Maccanico si preoccupa come sempre degli equilibri messi a rischio. Di sicuro, in attesa della Consulta, per i costituzionalisti del centrosinistra la devolution è uno strappo. Anzi, uno "sbrego", in quanto resuscita le velleità disgregatrici e il lessico nordista dello schmittiano e protobossiano Gianfranco Miglio. In realtà non risulta chiara neppure la convenienza politica di un referendum contro lo Stato centrale («un colpo di gong», dice Roberto Formigoni annunciando cazzotti), proprio quando la Casa delle libertà è pronta a prendere il potere. Silvio Berlusconi dal canto suo non ha mai sventolato il federalismo. Il suo piano di megaopere necessita di una cabina di regia padronale, non di vincolistica regionale. Il fatto è che Formigoni non è uno dei numeri due del Cavaliere. Si sente piuttosto il potenziale numero uno della futura Casa delle libertà. Per la ragione che lui, il governatore "irakeno", il capo populista delle milizie cielline, il cattolico con il dono della cattiveria, è già una sintesi tosta degli spiriti di Forza Italia e della Lega, dato che a un certo machismo manageriale di stampo berlusconiano associa l'avversione antirisorgimentale e paraleghista per Roma. Come capo della destra unita riscuote anche il sostegno di An, per il modo militare con cui interpreta il rapporto con la sinistra. C'è solo un inciampo. Il papalino Formigoni potrà pure convincere l'eclettico Fini che il federalismo lumbard è strumentalizzabile politicamente come arma contro l'Ulivo: ma come farà il vecchio elettorato patriottico di An a mandare giù l'idea dell'Italia fatta a spezzatino?
L'Espresso, 08/03/2001
porte girevoli Cavaliere tuttofare
Lo chansonnier Berlusconi è sbarcato sulla conferenza programmatica di An accompagnato dalle note dell'inno di Forza Italia. Il ritornello non tanto subliminale diceva: nessuno può fermare il padrone. La megamacchina del Cavaliere tritura consensi intorno al 30 per cento: a che servono gli altri? Buttiglione è un discreto filosofo della dottrina sociale, Casini un piacioso sottufficiale doroteo, Fini l'addetto ai marescialli e alle vecchiette, Bossi un Hinterlander da pizzerie. Il Cavaliere ha occupato le piazze con il suo eclettismo: imprenditore, innovatore, operaio, amico. Quando uno ha l'animo del mattatore, non si può fermare: fra poco apparirà anche il presidente devoto, con abbracci a don Giussani per esorcizzare le tentazioni cielline verso Andreotti. Il fasso-tutto-mi berlusconiano lascia capire che la Casa delle libertà vira verso il partito unico della destra. Non proprio per ossessione egemonica, quanto per irresistibile fisiologia della politica. Per ora è necessario puntare sull'unità, in modo da tradurre gli squilli del venceremos in un lessico comune. Ma domani? È fastidioso tenere insieme il partito della modernizzazione con quello dell'autorità, i liberisti con il proibizionismo, le partite iva con i reazionari della sacra famiglia. Dicono gli insider che l'Umberto ha tentato il golpino, provando a trasformare la Cdl in una coppia di coalizioni: nel Mezzogiorno, con la Lega Sud (cioè An), al Nord con la Lega. Un ripescaggio dell'alleanza bifronte del 1994. Stizzito, Fini ha risposto che An è un partito nazionale, e che nessun dorma. Dal canto suo il Cavaliere confida che i vicepremier avranno una funzione di rappresentanza, dato che i loro partiti contano poco. La lottizzazione della Casa tiene: eppure in altri tempi si sarebbe detto che ci sono troppe contraddizioni nel popolo, e anche nelle leadership.
L'Espresso, 01/03/2001
Il terzo Giulio
Giulio Andreotti tenta la scommessa del diavolo. Sconvolgere il bipolarismo, dissolvere le alleanze. Prima di dire che è un'operazione antistorica, conviene ripassare la sua storia. Perché in passato abbiamo conosciuto due Andreotti: Giulio I, l'essenza del potere democristiano, la personificazione del gioco combinatorio, la politica come perpetuazione di una mediocrità salvifica, autenticamente "popolare" in quanto rifiutava l'alta strategia per insinuarsi nelle pieghe di una quotidianità fatta di diplomazie, pragmatismi, nomine, rapporti personali. Capace di secche sterzate a destra, come nel 1972-73, allorché diede vita all'alleanza con Malagodi, correggendola in corso d'opera con concessioni sindacali; ma anche in grado di amministrare la solidarietà nazionale, pochi anni dopo, interpretando il disegno di Moro in modo tale da sfibrare il Pci. Oppure deciso a bloccare ogni ipotesi di alternativa tra la fine degli anni Ottanta e l'avvio dei Novanta, stabilizzando l'accordo con Bettino Craxi: cioè scegliendo il presente come unico scenario possibile (salvo giocarsi il futuro). La seconda incarnazione di Andreotti è la conseguenza di un fallimento politico che coinvolge lui e un intero assetto politico. Bocciato per l'ultima volta nella scalata al Quirinale, travolto dallo sfacelo della Dc, identificato come il simbolo della bancarotta della prima Repubblica, e alla fine trasformato nell'immagine della collusione mafiosa. Due vite da democristiano sarebbero state sufficienti per chiunque, soprattutto dopo le assoluzioni di Perugia e di Palermo. Alla fine, la sua presenza nel gruppo dei Popolari al Senato veniva colta come un muto assenso alle scelte del partito, un riconoscimento informale che il Ppi rappresentava qualcosa del "partito di centro che guarda a sinistra". Perché, allora, la nuova avventura? Quando c'è di mezzo Andreotti, la dietrologia rende cattivi servizi. Giulio III tenta di fare esattamente ciò che annuncia. Scardinare Polo e Ulivo e rifare la Dc, liquidare Berlusconi come una parentesi, e giungere all'"heri dicebamus". Ma per compiere il primo passo ha bisogno di qualcosa in più dei voti ciellini e di qualche clientela cislina. Gli servirebbe un appoggio della Chiesa: almeno un segnale che faccia capire ai parroci che sì, quel partitino centrista riflette almeno alla lontana la luce dello Scudo crociato. Per ora, tuttavia, i segnali latitano. Anzi, la gerarchia depreca "la confusione" nel Centro. Dati i tempi, il realismo è una prerogativa di Sodano e Ruini. La Chiesa ha molto da guadagnare dalle due alleanze attuali: le soppesa, le mette una di fronte all'altra, le sottopone a esame, espone le proprie richieste. Per quale motivo dovrebbe puntare apertamente sul terzo incomodo e sponsorizzare l'attacco contro due interlocutori così disponibili, e così facilmente condizionabili? Solo perché il realismo del senatore a vita in questa occasione si è mutato in un inatteso idealismo neodemocristiano? Molto più semplice, per il Vaticano, concedere ad Andreotti solo una benedizione. Tanto, Giulio III non ha obiettivi parziali: ha un traguardo epico. Se ce la fa, e sbanca il 4 per cento, la sua romanzesca abilità manovriera avrà modo di sbizzarrirsi. Per una volta nella vita, Andreotti non tira a campare: si gioca una storia, personale e politica. L'aiuto di Dio e di Santa Madre Chiesa sarebbero essenziali. Ma difficilmente ai cardinali piacciono le scommesse se non procurano un utile immediato; tanto più che Dio, lo sanno tutti, non gioca a dadi.
L'Espresso, 22/02/2001
Dacci oggi il nostro eros quotidiano
In un mondo di top model e di aspiranti squinzie in tv, le casalinghe dovrebbero sfigurare. A confronto con l'astrattezza competitiva della new economy, non ci dovrebbe essere spazio per queste marginali del mercato del lavoro. Di fronte alla velocità della comunicazione contemporanea, la lentezza ripetitiva della domesticità sembrerebbe una sfasatura. Sentori di brodo e di bollito mentre fuori si resiste alle aritmie per l'andamento online del Nasdaq. Future, swaps, hedge fund contro la borsa della spesa e lo scontrino del supermercato. Davanti alla pentola, la casalinga cerca di evitare come un pensiero eccentrico l'inquietudine familiare per mucca pazza; mentre le sue consorelle in tailleur trasformano l'angoscia epocale per la "mad cow disease" in uno slittamento vegetariano, teatralmente moody. Mentre loro sarebbero le dimenticate dal trend, quelle della rinuncia, le vittime di un opaco e inapprezzato sacrificio. Le escluse, con l'unica rivalsa di una lettera a Natalia Aspesi, o del diciannovesimo crollo nervoso dopo una Scarsdale, tanto per indurre qualcuno in famiglia almeno a preoccuparsi. Eppure, non appena si esce dal circuito dell'isteria mediatica, dall'adorazione del look, dall'alone di splendore delle supertette sui corpi da anoressiche, si capisce piuttosto alla svelta perché la casalinghitudine è uno degli ultimi rifugi dell'eros. Non importa che la casalinga in questione sia una scambista, o una frequentatrice dei siti da appuntamento sul web. E non c'è nemmeno bisogno più arcaicamente di storie di "cochonnerie" della provincia profonda, di molli vicende adulterine negli interstizi della scansione circadiana. Basta il pensiero di una donna chiusa in casa, con la possibilità di amministrare ritmi lenti, pigrizie e malizie femminili, ed ecco il flash politicamente scorretto: perché in fondo l'immaginario maschile, annichilito dalla determinazione militante delle professioniste dello spettacolo, dagli sguardi gelidi delle mannequin, dalla ferocia irraggiungibile delle attrici, dalla insondabile superficialità della cosmesi e dall'altezzosità del management al femminile, trova nel tepore delle case e delle casalinghe un richiamo senza appello. Non si può spogliare una modella più di quanto non facciano gli specialisti della moda. Il lato bondage di una dirigente d'impresa può essere colto tutt'al più da un Helmut Newton. Mentre una casalinga qualsiasi è l'occasione per un'esercizio di fantasia. Un centro di frustrazioni e di cedevolezze, devozioni e trasgressioni, con il fascino molto indiscreto del lasciarsi andare. Per la fragilità neurotica del maschio d'oggi, molto più che una tentazione: è il richiamo irresistibile di una nostalgia.
L'Espresso, 22/02/2001
Parola di apprendista stregone
Adesso che cosa si inventerà, Alessandro Profumo? Le voci più maliziose del mondo bancario dicono che l'amministratore delegato di UniCredito italiano è entrato in stallo, e questo non è nel suo stile. Lui, vecchio boyscout, il capobranco più cattivo e determinato, a un certo punto era diventato il capo degli apprendisti stregoni. Aveva l'idea che la "sua" banca dovesse essere il motore del cambiamento del sistema bancario. Tutto questo da una posizione di centrosinistra, perché non nasconde le sue preferenze politiche, ed è stato un ulivista esplicito: «Con Prodi c'era una profonda condivisione di vedute, anche se capivo che ogni volta che sui giornali appariva in un articolo l'aggettivo "prodiano" era un termine che poteva prestarsi a considerazioni malevole». Soprattutto per un quarantenne che rompeva ritmi e schemi. «Siamo stati i primi a parlare di Roe, Return on equity, trattando il nostro settore di lavoro come un'azienda sotto tutti gli aspetti. C'era molto scetticismo, in giro, ci consideravano eccentrici. Si sgonfieranno, dicevano. Per la verità la fama di apprendisti stregoni non era immeritata. Avevamo il senso della direzione, ma anche l'idea che ogni giorno occorreva inventare qualcosa». Nel frattempo però il governatore Fazio ha bloccato la fusione con Intesa. Questo cambia la strategia complessiva di UniCredito? «No, nel giugno scorso abbiamo approvato un piano triennale imperniato sull'informatizzazione degli sportelli, sul lancio di due banche Internet, sullo sviluppo della nostra presenza nella nuova Europa. Unintesa non è mai stato un progetto per il management dei due gruppi, quindi non ci saranno contraccolpi. Resta però, non me lo nascondo, il problema della crescita a medio termine. Il mercato domestico ormai è l'Europa e da questo punto di vista tutti noi siamo ancora inadeguati». Non è la prima battuta d'arresto. A suo tempo anche l'Opa sulla Comit non è andata in porto. «Quando si commettono errori è bene riconoscerli e analizzarli. Con la Comit ci fu un eccesso di sicurezza, che ci indusse a trascurare la necessità di generare consenso sull'operazione. Ma sarebbe un altro errore perdere di vista la realtà in cui ci troviamo adesso, con gli sviluppi possibili». Quando si parla del suo stile si allude spesso a metodi controcorrente. Sbrigativi. Comunque poco felpati. «Al contrario. L'esperienza di UniCredito è stata un crinale per tutto il settore. Abbiamo messo insieme mondi molto diversi, e credo che ciò abbia dato un contributo significativo al miglioramento del sistema bancario italiano. Adesso siamo al diciottesimo posto in Europa come dimensione, all'undicesimo per il totale dei ricavi, al quarto come ritorno su capitale e investimenti. In Italia siamo in prima posizione per redditività e per capitalizzazione di mercato, al terzo come "total asset" dopo Intesa e San Paolo». E a dispetto di tutto questo gli azionisti sembrano impazienti. «Tutto il sistema è in movimento, con una contrapposizione visibile fra innovatori e conservatori. Una parte del settore continua a fare banca in modo completamente diverso dal nostro, più sensibile agli umori ambientali, diciamo così...». Cioè più sensibile alla politica. Mentre di UniCredito si dice che non ha santi in paradiso. «Io sono convinto che a restare chiusi nella dimensione nazionale e a privilegiare l'aspetto politico si perde di vista il futuro. Ormai metà del nostro gruppo è all'estero. Dei 60 mila dipendenti del gruppo, 35 mila sono fuori dai confini nazionali. Abbiamo fatto uno sforzo straordinario per guadagnare posizioni nell'Europa centro-orientale, partecipando al processo di privatizzazione e acquisendo banche importanti in Polonia, in Bulgaria, in Croazia, in Cekia, in Slovenia». Sarebbe la terza via bancaria? «È una strategia che si fonda sull'allargamento dell'Unione europea. La prospettiva dell'allargamento abbatte il rischio-paese, perché i candidati all'ingresso hanno l'obbligo di mettere sotto controllo i conti pubblici e l'inflazione. Inoltre questi paesi hanno tassi di crescita elevati, e vi si può trasferire facilmente il modello organizzativo che abbiamo applicato in Italia. Per questo, a medio termine, si possono aprire discorsi con la Turchia, creando partnership con banche private, e in futuro ci potrebbe essere qualche sviluppo che riguarda il Maghreb». Ma intanto, per restare all'Italia, non è ancora chiaro quale sarà il prossimo target di UniCredito. «Che ci sia in corso un processo complicato è fuori dubbio. Riguarda tutti, dai giganti alle più piccole casse di risparmio. I tempi cambiano, l'immobilità non è più un dogma. Per dire, se in futuro Mediobanca dovesse modificare il portafoglio di partecipazioni che detiene non sarà quella rivoluzione che sarebbe apparsa nell'epoca precedente». Rivoluzione per rivoluzione, quella di UniCredito sembra in stand-by. «Faccia lei. Abbiamo chiuso il 2000 con un Roe intorno al 24 per cento, mentre la media italiana del settore è intorno al 10 per cento. Nei primi nove mesi del 2000 l'utile è stato di circa 2.700 miliardi. Nel 1996 il prezzo per azione era intorno alle 2 mila lire, mentre oggi il titolo oscilla sui cinque euro e mezzo». Capirà, dopo avere visto i fuochi artificiali non ci si accontenta della qualità del management. «L'importante è sfruttare tutte le potenzialità che offre la banca. Ad esempio adesso siamo terzi in Europa per i fondi comuni, con oltre 250 mila miliardi di lire in gestione. Ma esistono grandi possibilità di articolare l'attività, che abbiamo cominciato a muovere: dall'investment banking alla banca per le famiglie, dai servizi di gestione finanziaria per la clientela "affluent" fino agli strumenti di copertura per le aziende che fanno export e quelli per stabilizzare i flussi finanziari degli enti locali». Sono faccende che non eccitano la fantasia. «Già. Abbiamo comprato una società americana, Pioneer, nata a Boston dopo il crollo del 1929, pagandola 2.750 miliardi, e in pochi ci hanno fatto caso. È basata a Dublino, ha 200 dipendenti con uno staff di 80 analisti che sono in grado di andare in giro per l'Europa osservando bottom- up le aziende ed esaminando le opportunità di investimento. Si parla sempre del "risiko" bancario, come se fosse un gioco di società o la conseguenza di una trama politica: ma la banca è un lavoro duro, non sempre spettacolare. Passate le epoche eroiche, la normalità continua a essere un impegno difficile».
L'Espresso, 15/02/2001
Il Papa-re affligge il Cavaliere
Il presidente onorario Andreotti visita casa Gheddafi, il presidente Zecchino invoca le ragioni dell'etica politica, il segretario D'Antoni evoca la Dc: «Né nostalgici né immemori». La nascente Democrazia europea è un mistero chissà quanto glorioso nel rosario delle mutazioni dc. Il mistero sembrerebbe poi sfumare nel comico a parlare di numeri (e difatti il distaccato Franco Marini, renitente a illusioni neo-dc come a progetti arabeggianti, di fronte alle 200 mila adesioni sbandierate da D'Antoni si è fatto «una bella risata»). Si ride, ma si ride verde. Ridono poco nella Casa di Berlusconi, dato che un patto con l'ex califfo della Cisl avrebbe impresso il sigillo della tradizione degasperiana di Andreotti; ma soprattutto perché i ragionieri elettorali temono che i neocentristi si prenderanno una ventina di seggi che potevano essere sottratti all'Ulivo, e che invece adesso si accaseranno laggiù. In realtà, l'abbraccio di Andreotti a Democrazia europea è stato quasi letale. Senza il non expedit del papa-re, il cislino D'Antoni avrebbe fatto un sobrio accordo con l'operaio Berlusconi, completando pragmaticamente la Casa delle libertà come alleanza-sistema, con tanto di centro liberal, destra marginal e sinistra octroyée. Il veto andreottiano ha reso tutto più difficile: e in situazioni del genere l'unica via è spararle altissime. Scardinare i poli, battere il bipolarismo, resuscitare l'Idea, malgrado anche l'"Osservatore romano" storca il naso sulla confusione generatasi nel centro. Per scalare il muro del 4 per cento, Democrazia europea ha l'obbligo di presentarsi come una ditta di demolizioni. È un partito moderato che si qualifica come generatore di instabilità, con una luminosa reincarnazione andreottiana: dal tirare a campare alla guerra santa. Logico che, a destra come a sinistra, il fastidio sia al diapason. Intanto la carovana Andreotti-D'Antoni-Zecchino ha già rubato la scena agli altri terzopolisti, da Di Pietro alla Bonino. Malgrado la compagnia di vecchi beduini come Pomicino e Cristofori, potrebbe strappare voti di qua e di là, fra gli insoddisfatti e in qualche clientela nostalgica e memore. Non è il partito della modernizzazione politica, non è "nuovo", annovera venerabili maestri del politicantismo. Breve: è un partito libico, terzaforzista, non allineato. Lo si può bombardare, ma a che serve? Poiché può far male, saranno in molti a cercare di trattarlo bene. (Al punto che qualcuno, a sinistra, lo vede come un possibile antidoto, nel segno della confusione, al trionfo del Cavaliere. Se poi ci fosse il no contest, Allah è grande, e Andreotti un buon profeta).
L'Espresso, 15/02/2001
La nostra penna suona il rock
Combattenti, partigiani, militanti del rock movement, all'appello. Ecco il soldato Enrico Brizzi. Ex bassista della band amatoriale "Le anatre". Autore nel 1994, a vent'anni, di "Jack Frusciante è uscito dal gruppo", 500 mila copie vendute. Poi "Bastogne", 300 mila, e altri due libri, "Tre ragazzi immaginari" e "Elogio di Oscar Firmian e del suo impeccabile stile". Il veterano è Loris "Lorenzo" Marzaduri, quarantacinque anni, ex cantante di un gruppo di r'n'b, laureato da poco e per sfizio al Dams, autore per Transeuropa del noir "Rito mortale" e di "Sergio Rotino contro Rommel e Benito Adolfo Castracani". Insieme hanno scritto un libro, "L'altro nome del rock", in cui la musica si intreccia con le storie raccontate. Perché il rock, dicono loro, è innanzitutto uno schema di resistenza umana. Li abbiamo incontrati a Bologna, commentando una collezione storica di 33 giri, dai Doors ai Rolling Stones, dai Genesis ai Pink Floyd. Tema apocalittico: c'è ancora una cultura rock, e ha un riflesso nella società attuale? Oppure si tratta di un'eredità di nicchia, di una nostalgia generazionale? Brizzi: «Nella cultura di massa il rock in quanto tale non c'è. Le riviste specializzate non vendono, i gruppi d'avanguardia idem. Piuttosto, il rock si è impresso sulla pubblicità, sulla moda, lo si vede nelle acconciature, nel look». Cioè in bilico fra avanguardia e massificazione. Marzaduri: «Resta un'avanguardia. Anche se c'è un paradosso del rock, che consiste nell'essere una rivoluzione che agisce dentro i circuiti industriali di massa, e ne ha bisogno per esprimersi. Per cui anche Madonna è un'immagine rock, anche se mediata dal marketing». Brizzi: «Però l'essenza autentica del rock consiste in una dimensione residuale, resistenziale...». Eccoci qua, il rock è di sinistra. Marzaduri: «Sulla sinistra ci andrei cauto. Diciamo antagonista a un sistema consolidato, ma senza proposte inquadrabili politicamente. Da un certo momento in poi, la parola d'ordine più esplicita diventa il "No future" dei punk. Rifiuto della politica come guida, niente messaggi, scontro situazionista qui e ora». Una rottura nichilista. Mentre i padri del rock slittavano nella maniera. Brizzi: «Certo, i Rolling Stones hanno cominciato a rifare se stessi aggiungendo tecnologia. Oggi succede agli U2 di ripetersi per ragioni commerciali. L'industria tende a saturare le creatività». Qualcuno ha tenuto duro. Marzaduri: «Gente come Frank Zappa, gli Ultravox, i Sex Pistols. Oppure, ancora più radicali ed enigmatici, i Residents, di cui non si sono mai visti i volti, perché andavano in scena mascherati, con una negazione totale delle leggi dello show system». Brizzi: «Oppure i Clash, che per otto anni hanno tenuto la scena e la linea, senza flessioni e senza compromessi». Ma tutto questo non è settarismo? Brizzi: «In realtà durante gli anni Ottanta i luoghi della cultura rock, a partire dai centri sociali, non si sono richiusi su se stessi, anzi, si sono globalizzati. Hanno messo in circuito esperienze musicali internazionali». Marzaduri: «E anche italiane, se è per questo: solo pochi anni fa i Marlene Kuntz, un gruppo di Cuneo, erano radicalmente alternativi, ora hanno successo anche nel grande circuito, grazie al tam tam non ufficiale». Talvolta si ha l'impressione che dietro l'espressione "cultura rock" ci sia soprattutto un richiamo generazionale, il come eravamo. Marzaduri: «Un bamboleggiare con i miti del cambiamento? Il fatto è che alla fine degli anni Sessanta il rock era la colonna sonora dell'illusione. Con qualche fraintendimento, perché Woodstock non era il nuovo inizio, ma la chiusura di un'esperienza collettiva». Brizzi: «Difatti per reazione lo slogan punk fu "kill the hippies": una contestazione radicale praticata sul campo, alla faccia dei padri imbolsiti». Di tutto questo da noi non è filtrato molto. Marzaduri: «I precursori sono stati gli Area, e subito dopo gli Skiantos, senza i quali Elio e le Storie tese non esisterebbero. Anche i Pitura freska hanno intercettato una tendenza. Ma io mi sento abbastanza eclettico per dire che gli Avion Travel sono interessanti». Brizzi: «Mettiamoci i Cccp, poi divenuti Csi. Ascolto i Subsonica, i Timoria. Senza dimenticare Rino Gaetano, con il suo gusto per il nonsense». Si trovano tracce, fuori dalla musica, di questa cultura? Marzaduri: «Un romanzo come quello di Nick Hornby, "Alta fedeltà", dà un'idea popolare di che cosa significa il rock nelle vite individuali». Brizzi: «In Italia, Tondelli, che aveva il gusto di mettersi in gioco, lui che era già un caposcuola, per andare in caccia di nuovi sperimentatori. Ma anziché mettersi alla ricerca di romanzi con il Dna rock, vale la pena di cercare nella letteratura l'aspetto sperimentale, il ritmo, la tensione: tutte cose che si trovano nel "Super-Eliogabalo" di Arbasino, così come nel "Boccalone" di Palandri, in Tondelli, in Silvia Ballestra». Ma alla fine, c'è un esito politico del rock? Marzaduri: «Io sono un "natural born communist", alle spalle un padre con una storia classica di licenziato politico negli anni Cinquanta». Brizzi: «Ho sempre votato per Rifondazione. Capisco e accetto l'idea di un progetto politico, ma non quella del compromesso. Se il programma della sinistra moderata è uguale a quello della destra, mi tiro fuori e seguo l'unica politica che mi sembra praticabile, quella di una classe sociale dispersa, fatta di storie e conflitti che si affrontano "on the road"».
L'Espresso, 08/02/2001
Rimedio dal sapore antico
I cattivi ragazzi in realtà hanno l'aria di perbenisti generici. La "generazione di sconvolti" mitizzata da Vasco Rossi, ma anche la "generazione senza padri né maestri" descritta da Luca Ricolfi e Loredana Sciolla agli inizi degli anni Ottanta, sembrerebbero un residuo storico. Gli "sprecati", i "ragazzi senza tempo", i "suoni nel silenzio", la "generazione in ecstasy", tutte le categorie apocalittiche suggellate dalla professione sociologica sbiadiscono in un alone indistinto. L'unica certezza è che non traspaiono tracce di rivolte consapevoli, generazionali o politiche, ma neanche famigliari o scolastiche. In un clima psicosociale di bonaccia perdurante, Berlusconi attrae, ma piace Fini, sarà perché "parla bene", e anche Rutelli se la cavicchia. Le frange marginali vistosamente maleducate fanno notizia e increspano la tendenza, ma le grandi percentuali del comportamento dei "baby sboomer" appaiono innanzitutto come la conseguenza fisiologica del disimpegno dei loro genitori. Il disimpegno l'hanno assimilato con merendine, hamburger, playstation e vacanze in camper. Politica in dosi omeopatiche, o al massimo per prescrizione televisiva. Religione quel tanto che basta per non dichiararsi del tutto scristianizzati (non sta bene, i genitori non avranno più certezze, e molti di loro non hanno fatto neppure in tempo a pigliare il Sessantotto, ma si sono fatti prudenti sulla trascendenza). D'altronde, osservato senza moralismi, il telefonino dilagante non è uno strumento esclusivamente di consumo, bensì un surrogato portatile delle infrastrutture: si comunica compulsivamente per noia o per piacere, ma anche per tenere sotto controllo l'organizzazione quotidiana, in una società che i padri si sono dimenticati di modernizzare. Anche per questo continuano a imperare gli oggetti e le figure della rassicurazione collettiva, dalle chat-line agli sms, dalla mamma alla monogamia. A farci caso, un altro sociologo, Franco Garelli, aveva sottolineato opportunamente che nelle società europee più evolute la casistica inverte la tendenza: l'età media del primo rapporto sessuale sale, e la fedeltà di coppia viene riconsiderata come valore. Governare le nuove leve con il ripristino del sette in condotta significa pensare rimedi convenzionali per una situazione inedita: il sistema di premi e sanzioni tende a fallire perché il premio è inadeguato o irrilevante, mentre l'aspetto punitivo è già implicito nella lentezza della scuola rispetto alla velocità esterna. Senza dimenticare che il conformismo spensierato dei 16 anni si trasformerà successivamente in una vendetta, allorché apparirà chiaro che dietro l'indifferenza passiva per le convenzioni non ci sono soltanto devianze saltuarie, episodi di violenza, sballi feroci, spirito di gang. C'è anche, molto più diffuso, l'accumulo progressivo di conoscenze e competenze originali: terrificanti per il potere dei padri e dei fratelli maggiori, domani, quando le convenzioni non schermeranno più la competizione.
L'Espresso, 08/02/2001
Martini o Ruini ormai pari sono
Il cardinale, ha detto qualcosa il cardinale? La sinistra smarrita attende la parola di un principe della Chiesa. La destra che aspetta il trionfo giura ortodossia. Dietro il profilo imponente di Wojtyla, sono due le figure che si stagliano politicamente nella Chiesa: Camillo Ruini e Carlo Maria Martini. Al presidente della Cei si attribuisce il ruolo di capofila dei "neointransigenti", mentre il presule di Milano è stato visto a lungo come il punto di riferimento dei "conciliatori". Traduzione: Ruini è il vessillifero di una Chiesa che non vuole più compromessi e rapporti politici preferenziali. Martini invece è sempre stato visto come l'esponente illuminato dell'episcopato: un uomo abituato a collocare il magistero all'interno di un tessuto di valori da confrontare e da condividere con altri settori della società. Destra e sinistra: la distinzione non era infondata. Il presidente della Cei si sarebbe mostrato subito scettico sull'esperienza politica dell'Ulivo, nella convinzione che il movimento di Prodi avrebbe solo fatto da facciata al potere vero, quello post-comunista. Viceversa, al cardinale di Milano avrebbero guardato in trepida attesa coloro che nei suoi discorsi trovavano l'eco costante di una critica radicale al berlusconismo. Ma la Chiesa è un'istituzione troppo complessa per queste semplificazioni. Lo si riscontra nel saggio di Sandro Magister "Chiesa extraparlamentare" (editore L'ancora del mediterraneo, 114 pagine, 18 mila lire, in libreria in questi giorni). Dopo avere ripercorso la vicenda del cattolicesimo politico dalla fine dell'Ottocento al tramonto della Dc, Magister esamina la situazione successiva alla di-sintegrazione del partito cattolico. E dissolve molte illusioni. È vero che esistevano due linee fondamentali. Da un lato la «formidabile coerenza» di Ruini nell'applicare la linea di Giovanni Paolo II, una Chiesa che parla dal pulpito rifiutandosi di stringere legami con i partiti: fino ad apparire più interessata al «campo selvatico dei cattolici senza investitura» raccolti in Forza Italia e guidati dal «clericale agnostico» Berlusconi. Dall'altro, l'insofferenza di Martini verso l'universo berlusconiano. Ma questa semplificazione poteva funzionare finché esisteva il progetto ulivista, che raccoglieva insieme la tradizione del cattolicesimo progressista e l'orrore dossettiano per la «babilonia etica» della destra. Allorché nel '98 si avverano le previsioni più pessimistiche sul Prodi "strumentalizzato" dal postcomunista D'Alema, le differenze iniziano a sfumare. «I due cardinali», dice Magister, «sono tra loro più vicini di quel che appare». Quella fra Ruini e Martini si rivela alla fine una «concordia discors», in cui gli obiettivi sono condivisi anche se permangono differenze nei metodi. Entrambi guardano alla politica domestica come a un terreno in cui i contratti sono a termine. Niente catechismi di voto, niente più precettistica elettorale. I conti con la politica si fanno momento per momento. Peccato che il centro-sinistra non si sia accorto che tutta la Chiesa sta applicando un solo modello: è il modello Wojtyla, è il modello Ruini, che è anche il modello Martini.
L'Espresso, 01/02/2001
Così Bossi diventa un’inutile appendice
La trattativa sui collegi? Una sceneggiata. Tutto prevedibile: le manfrine sui seggi, le ipotesi sui ministeri in contropartita, la complicata ricucitura con Albertini data in garanzia, l'accantonamento degli entristi socialisti come atto di buonsenso. Fini e Casini giurano continuamente che le differenze fra Polo e Lega si annullano metafisicamente nel programma politico già sottoscritto. L'accordo fra Berlusconi e Bossi è blindato, e Formigoni ripete che «Forza Italia e Lega sono molto simili»: cioè troppo simili per andare allo scontro, oggi e domani. Fin qui siamo alle ovvietà e agli esorcismi. Perché non serve a niente ripetere che l'elettorato di Berlusconi e Bossi è identico: si tratta piuttosto di vedere se i due elettorati sono talmente identici da rendere inutile la presenza del Carroccio. I sondaggi accarezzati dal Cavaliere mostrerebbero che, anche senza il trust con la Lega, il Polo nelle regioni settentrionali perderebbe alla Camera non più di una decina di seggi. Va da sé che rischiare è inutile, e dunque il patto elettorale ha una sua funzione. Ciò non toglie tuttavia che in prospettiva il tema politico strisciante di Forza Italia sarà: come liberarsi del fastidio leghista. Fatti tutti i conti, esistono due metodi. Il primo è silenzioso, di-screto, avvolgente. Una morte dolce. Cinque anni di governo del Polo, tutti concentrati sulla figura di Berlusconi, l'impresario d'Italia, l'uomo delle grandi opere, l'operaio supremo, potrebbero condurre allo stadio terminale anche alleati più in salute della Lega. Con il probabile effetto booming del meno tasse per tutti, ci vorrà poi poco a convincere gli elettori del Nord che la Lega è un'appendice inutile. Il secondo metodo invece è traumatico. Verrà buono se Bossi si accorgerà alla svelta che l'Italia stregata da Berlusconi tenderà a guardare la Lega come una carovana mediocre, anzi, ancora peggio, superflua. In situazioni analoghe, Bossi si è divincolato dalla stretta e ha fatto saltare il banco. Questa volta invece, malgrado tutte le assicurazioni in contrario, il banco potrebbe farlo saltare Berlusconi. Se alle elezioni si avrà la vittoria, anzi lo sfondamento, della Casa delle libertà, non ci sono vincoli di lealtà che tengano: numeri permettendo, anziché aspettare che Bossi scompigli l'interno di famiglia potrebbe convenire dargli lo sfratto preventivo. È naturale che per arrivare a questa conclusione occorrerà l'impegno del centrosinistra, con una campagna rinunciataria in cui i suoi «mezzi leader in declino e aspiranti leader in affanno» (Gian Enrico Rusconi) contribuiscano alla disfatta. Con una conseguenza anomala: perché una Lega emarginata anche dal Polo, consegnata all'estremo margine destro dello schieramento politico, non sarebbe recuperabile al gioco delle alleanze. Diverrebbe una roccaforte di estremismi, simmetrica a Rifondazione comunista: la garanzia involontaria dell'inamovibilità del Cavaliere.
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