L’Espresso
L'Espresso, 25/01/2001
Saranno sempliciotti, ma non sottovalutiamoli
Non abbastanza illuminata dai fari del pensiero di Fabrizio Rondolino, alla sinistra il "reality show" non piace. In effetti, la transizione da Bobbio e Foa a Pietro Taricone è una discontinuità filosofico-politica così disturbante da lasciare senza fiato tutti quelli del paese normale e del giacobinismo mite. Tuttavia se ne incuriosisce, la sinistra. Se ne sta lì, telecomando in mano, chiedendosi che cosa è successo. Con il dubbio che i quasi dieci milioni conquistati da Taricone nell'Uno contro tutti del "Costanzo show" siano alla fine un partito: fluido, scivoloso, imprendibile ma pur sempre un partito. Inafferrabile per tutti ma un po' più inafferrabile dalla sinistra e dalle sue categorie. Le consolazioni convenzionali hanno il difetto immanente di venire scalfite dalla continuità della presenza in video. La cultura in panni accademici concedeva infatti alla popolarità di Pietro, Cristina, Marina, Rocco e tutti gli altri un successo istantaneo ma effimero. Il tempo, l'inabilità, il dilettantismo, l'afasia avrebbero poi rimesso le cose a posto. Il modulo del marziano a Roma avrebbe riportato nell'anonimato i protagonisti del "Grande Fratello". Eppure il dubbio rimane, velenoso. Perché alla fine di uno sconvolgente esperimento socio-politico non resta solo la consapevolezza che chiunque può essere re per 100 giorni. E se poi quello impara? Se quella si toglie l'accento, se quell'altro migliora l'attitudine a stare in scena? In sostanza, che cosa succede, quali sono le implicazioni generali se accadrà di non riuscire a levarsi dai piedi i dieci piccoli italiani del Gf? Il Grande Dubbio si può riassumere così: d'accordo, l'"ordinary people", come dice Maurizio Costanzo, ha conquistato il peak time, sfondando i confini fra spettacolo e vita quotidiana. Se fosse tutto qui, poco male. Ma se invece la stessa "ordinary people", eccitata dal gioco, cominciasse a reclamare un analogo accesso all'area della politica e tutto il potere al popolo? Sarà una proiezione fin troppo anticipata, tuttavia, che brividi. Come se i partecipanti ai focus group di Rutelli si stufassero e chiedessero un posto da ministro. Via tutte le mediazioni, le famiglie politiche, la Bildung pubblica. Qualcosa in più anche rispetto alle ipotesi post-politiche del politologo Robert Dahl, che aveva ipotizzato un "minipopulus" composto da 1000 persone a caso, per affiancare le istituzioni rappresentative nella discussione di issue fondamentali. Se la task force dell'Italia media resiste in scena, la scena è aperta anche per tutti gli altri. Nel 1994 gli sfottò a Berlusconi si sprecavano. Lui si qualificò, nei confronti della politica, come "un sempliciotto". Lo schema c'era già: adesso ci sono le avanguardie.
L'Espresso, 18/01/2001
Premere o non premere?
Il pollice che sfiora il pulsante: premere o non premere? Premere: off. Si spegne il mondo, con il buio del display. Ma ogni mezz'ora riaccendere e verificare se ci sono messaggi. Ci sono quasi sempre. Involontaria delusione se invece no. Ri-off. Ah, l'Io diviso. Eliminare dal desktop il remote access del pc per evitare l'idea di connettersi. Solo una volta al giorno, si giura, per controllare la mail. Però ci arrivano dentro i titoli del "New York Times", e i consigli finanziari (anche una bambolina sexy da un sito di Hong Kong: boh). Eppure la promessa era stata di evitare la curva in tempo reale del Nasdaq. Già, ma se poi l'indice si impenna? Se collassa? Se rimane flat? Se torna la old? Non importa se ci si è già rifugiati nei Bot: nei grafici c'è online il turbocapitalismo di Luttwak, il landing Usa pilotato da Greenspan, le increspature sollevate dal Seattle people. A perdere una seduta si perde il trend. Cresce l'ansia. Il pollice che esita sul pulsante. On. Codice pin. L'icona sul display che dà l'ok. Digito ergo sum, filosofia wap. Ci sono messaggi? Ascoltarli, non ascoltarli... È il solito pirla. Che parla al solito schizofrenico. Non chiamate più. Sgraditi gli sms. Al massimo richiamo io, se proprio mi scappa. Staccare la tv, disdire le piattaforme digitali, gettare il palmare: palliativi. Al massimo, si guadagna il tempo sufficiente per progettare una vita alternativa, eco-compatibile, via dalla pazza mucca. Ma poi, dopo cinque giorni di Arcadia, che si fa nel weekend?
L'Espresso, 18/01/2001
Io, il pompiere Chicco
Si potrebbe cominciare così: «Chicco Testa, quanto ha contato la politica nella sua nomina all'Enel?». Ma lui schiva il colpo, come avrebbe fatto il suo bisnonno garibaldino, fa qualcosa a metà fra un tic e un sogghigno e ribatte: «Vuol dire se mi sento un lottizzato?». Benissimo, carte scoperte. Quarantotto anni, bergamasco puro «senza nessun parente sotto il Serio», famiglia cattolica piccolo borghese, scuole dai salesiani che lo sbattono fuori all'ultimo anno del liceo perché sessantotteggiava. Poi, laurea in filosofia alla Statale di Milano (tesi su Marx e la teoria della produzione, relatore il giovane Salvatore Veca, allievo di Enzo Paci). Un po' di Movimento studentesco, nel '72 l'iscrizione al Pci: lavoro politico nella sezione Carlo Marx di Porta Romana, dove c'era anche Giò Pomodoro, e nel giro Eva Cantarella, Guido Martinotti, il piacentinista Michele Salvati, la movimentista Bianca Beccalli. Quindi l'Arci, Legambiente, la politica nel Pci. Mettiamola così: che cosa c'entra uno con questo curriculum con un colosso industriale come l'Enel? «Alle spalle della mia carriera c'è una storia, che ha il suo centro nella Legambiente. È vero che ho sempre fatto quattro cose alla volta, l'insegnante, l'organizzatore culturale, il promoter di concerti, il segretario di sezione. Ma Legambiente è stata una scuola di sprovincializzazione. Il movimento verde cresceva in Europa e negli Stati Uniti, si creava il contatto dell'ambientalismo con la realtà e i temi delle società industriali avanzate. Barry Commoner, il primo Rifkin, le premesse dei discorsi successivi sullo sviluppo sostenibile». Siamo ancora lontanissimi dall'Enel. «Ero andato a Roma con altri milanesi per aprire la strada a Marco Fumagalli, che aveva battuto Walter Vitali, allora ingraiano, nella corsa per la Fgci del dopo D'Alema. Mi occupavo di politiche culturali con Lorenzo Sacconi. E cominciavo ad annoiarmi. Si lavorava con i disoccupati e i senzacasa, ma il piacere era nel fare le tre di notte in trattoria a discutere di letteratura e cinema. A quel punto, Enrico Menduni, che era diventato presidente dell'Arci e che stava lavorando per sganciarsi dal collateralismo con il Pci, mi invita a lavorare con il suo gruppo. Si fonda quella che allora si chiamava Lega per l'ambiente: fra i primi ci sono Laura Conti e Giovanni Berlinguer». Finora si capisce che si è trattato di un apprendistato lungo. «Cominciano ad arrivare Ermete Realacci, bravissimo studente di fisica fermatosi a due esami dalla laurea, Scalia, Mattioli... Un crogiuolo: a quei tempi c'è anche uno della Gialappa's. Poi la Melandri, Paolo Gentiloni...». Finalmente, è l'embrione del network Rutelli. «Lo chiami pure così. Passa il tempo, faccio la mia onesta carriera politica. Era stato Occhetto, vicesegretario di Natta, a convincermi a candidarmi per la Camera. Seguo tutta la transizione dal Pci al Pds, con relativi drammi, come quando al congresso di Rimini Occhetto non viene eletto in prima battuta e mi rimane il rimorso di non avere votato per lui perché ero corso ad assistere alla nascita di mio figlio. E quando nel 1993 Rutelli decide di correre da sindaco contro Fini, mi dice: "Se vinco, fai il presidente dell'Acea?". Mi conceda che è stata una buona scelta». Fuori le prove. «In due anni e mezzo, con Linda Lanzillotta, abbiamo fatto metà del lavoro di privatizzazione che poi è stato concluso da Paolo Cuccia. L'azienda era un ricettacolo di clientelismi e faceva zero utili da 20 anni. Il primo anno ha portato in casa 70 miliardi, quello successivo 150. E soprattutto è immediatamente diventata un modello per la privatizzazione delle municipalizzate». Ma Rutelli che ne sapeva delle sue eventuali doti di manager? «Con Francesco era nata una blanda amicizia, risalente a quando lui era capogruppo dei Verdi in comune, che si è via via rafforzata. Giochiamo a tennis prima di ogni elezione perché abbiamo deciso che porta fortuna. Io avevo avuto l'esperienza del governo ombra del Pci di Occhetto, con Visco, Bassanini, Napolitano, Cavazzuti fra gli altri». Già, ministro ombra di Occhetto per i lavori pubblici e l'ambiente. Un'esperienza mai decollata. «Ero un occhettiano acceso, e ci credevo, nel governo ombra. Quindi mi ci sono impegnato. Avevo fatto la campagna elettorale nelle Marche, un bel bagno nella realtà economica della cosiddetta Terza Italia. Ero in contatto con Giorgio Fuà e la sua scuola all'Istao, avevo conosciuto gli industriali marchigiani, Berloni, Della Valle, Guzzini, Merloni». È sufficiente frequentare gli industriali per imparare il mestiere? «Sono uno che impara alla svelta. Ascolto e faccio domande. Se non capisco me lo faccio spiegare di nuovo. Con l'esperienza dell'Acea, un'azienda da 1200 miliardi di fatturato, mi ero fatto le ossa sul campo. Molto meglio di un master in economia aziendale». Sicché con il governo Prodi la chiamano e le dicono: caro Testa, adesso dovresti fare il presidente dell'Enel. «Più o meno. Avevano fatto l'errore del "quaeta non movere", si erano incartati su qualche nomina come quella di Ernesto Pascale confermato alla Stet, e c'era in giro voglia di innovazione». Boiardi sì, purché siano i nostri. «Boiardi, boiardi... Ho avuto la fortuna di avere una triade di riferimento di grandi qualità. Prodi, Bersani e Ciampi, che pure avrebbe potuto guardarmi con diffidenza, dato che per l'Enel gli attribuivano come candidato un tecnico d'esperienza, Umberto Colombo. L'obiettivo era chiaro, quello della privatizzazione; ma c'è stata anche una sintonia umana eccezionale. Prodi era capace di telefonare a mezzanotte per chiedere: "Chicco, ma quel termocombustore, mi sai dire che rendimento ha?"». Lei naturalmente sapeva che cos'è un termocombustore. «L'ho imparato subito. All'Enel c'è una struttura dirigenziale con una cultura ingegneristica, molto formale, cresciuta in una logica rispettosa del servizio pubblico. Un buon ambiente, molto disponibile». Ma lei che cosa rappresentava all'Enel, il commissario politico di Franco Tatò? «Neanche per sogno. I rapporti sono stati chiari da subito. Anzi, a distanza di tempo gli ho detto: "All'inizio pensavo che io sarei stato l'incendiario e tu il pompiere. Ho l'impressione che i ruoli alla fine si siano rovesciati"». Perché, Tatò sarebbe un incendiario? «Un manager con la nevrosi del proprio lavoro, una riflessione continua sugli obiettivi e sui metodi, una tensione infernale». Capito: lui faceva il lavoro duro, e lei la rappresentanza. «Capito un accidente. Un lavoro durissimo per tutti. Perché non bisogna dimenticare che l'Enel in tre anni ha portato nelle casse dello Stato oltre 40 mila miliardi. Trenta con la tranche di privatizzazione, e il resto con i dividendi. Se si vuole giudicare dai risultati, questi sono i risultati». Quindi una situazione idilliaca dentro e fuori. Ma Prodi lo liquidano piuttosto alla svelta, nel 1998. «Io rimpiango i tempi di Prodi, per la qualità politica del suo governo e per la novità e il significato dell'Ulivo». Vuol dire che invece, con D'Alema, le cose sono andate peggio? Che non le telefonava la notte per sapere il rendimento dei termocombustori? «Conoscevo D'Alema fin dai tempi in cui ero nella Fgci, con lui segretario. D'Alema era più distante. Con Amato il rapporto è stato più facile, anche perché c'era una frequentazione da vacanze, lui ad Ansedonia, io con una casa in campagna vicino a Capalbio». Ecco s'avanza il Chicco Festa, come la chiamavano. «Battuta straziante, inventata da Maria Laura Rodotà. Che devo dire? Non sono un monaco. Certo, se al Goa c'è un bel gruppo, ci si va. E se c'è il concerto di Santana, ci vado e scrivo pure la recensione per il "Corriere"». Così Berlusconi le può dare del fanigottun. La scadenza del suo mandato è il 2002: che succede se il Cavaliere va a Palazzo Chigi? «L'Enel deve completare la privatizzazione, e quindi occorre che mercati e investitori non vengano scoraggiati da uno spoil system selvaggio. Berlusconi dev'essere consapevole che la società è quotata in Borsa, e che i mercati guardano con diffidenza a una politica che comanda sulle aziende, che impone logiche extraindustriali». Ma se il Cavaliere proprio non ne vorrà sapere di un ex comunista all'Enel? «Già, potrebbe insospetirsi per il potere dei soviet più l'elettrificazione. Niente programmi. Ma forse, più che verso la politica, a questo punto l'attrazione più forte per me è un ruolo nell'industria privata».
L'Espresso, 18/01/2001
Premiata ditta Francesco&Nanni
Muta, la sinistra attende l'ultima buona novella del suo san Francesco. Parlerà? Dirà qualcosa? Perché per De Gregori vale ciò che vale per Nanni Moretti: e cioè l'essere rimasti gli ultimi due fornitori di significati politici, non si dice di "programmi" ma comunque di semantiche riconoscibili in un orizzonte politicamente azzerato dal messaggio dei Lùnapop. Una volta che il paradigma è diventato «non c'è niente da capire», l'uno e l'altro, Nanni e Francesco, hanno provato a tradurre la politica lungo itinerari psicologici: più facile per Moretti, perché almeno poteva uscirsene dalle tortuosità dell'Ego e dalla sensiblerie progressista, e ripresentarsi poi nell'arena pubblica, prendere per i baffi il capoccia di turno e maltrattarlo. «Di' qualcosa di sinistra, D'Alema». Questo era già l'embrione di un manifesto politico: nel senso, letterale, di cantargliele chiare. Alla testa del movimento ci si poteva immaginare, con Moretti e De Gregori, certamente Michele Serra, forse Alessandro Baricco, e magari anche Fabio Fazio. Sinistra elegante quanto déracinée, più capace di sollevare audience che di mettere in moto le masse (ehm, l'elettorato). Solo che De Gregori nel frattempo, altro che chiare, gliele cantava ermetiche. L'ex collaboratore dell'"Unità" quando c'era "l'Unità", poi premiato produttore di olio biologico, ora sembra deviare le aspettative fin dall'annuncio del titolo: "Amore nel pomeriggio". Probabile intimismo? Si sa che c'entra anche Battiato, e se c'è Battiato siamo in area sufi, non Ds. Già l'ultimo disco, "Prendere e lasciare", aveva lasciato un fondo di perplessità, con quella commistione di un Agnus Dei da raccordo anulare e di melodie tipo la Montanara uhè. Fino a depositare il dubbio che alla crisi, al silenzio, all'ammutolimento, abbiano collaborato anche il morettismo, con tutte le fuoruscite e i rientri nell'interiorità, e il parallelo canto degregoriano che potrebbe anticipare tanto dignitosamente l'ineluttabile sconfitta che verrà. Macché su compagni: il clima è da buonanotte fiorellino.
L'Espresso, 11/01/2001
La vita è il mio talk-show
In principio i due mondi erano proprio distinti: di qua la vita, di là la televisione. Ma alla lunga la separazione è saltata e i confini sono diventati permeabili. La realtà televisiva ha cominciato a inglobare la realtà. C'erano state avvisaglie, come il film manifesto di Peter Weir "The Truman Show", ma si trattava di una storia in cui la finzione coinvolgeva il protagonista ignaro, mentre tutti intorno a lui collaboravano per rendere credibile il mondo artificiale gestito dal deus ex machina mediatico Christof. Adesso i ruoli sono diventati fluidi. Non c'è più nessun innocente al centro dello script: siamo tutti potenzialmente dentro uno schema. È questa la tesi sostenuta da Paolo Taggi, docente alla Cattolica, autore e regista tv, che ha appena pubblicato il saggio "Vite da format. La tv nell'era del Grande Fratello" (Editori Riuniti). Non esiste più l'universo classico. Esiste la "realiticità", un cosmo ibrido tuttora in espansione, in cui il Big Brother equivale al Big Bang, in cui si può essere contemporaneamente spettatori, giudici e protagonisti. Ma non si tratta neppure di un mondo simulato. È un pianeta retto da una «sceneggiatura invisibile», da scoprire nel momento in cui la si interpreta. I suoi protagonisti possono essere gli eroi del "Grande Fratello", che poi tornano nella vita reale, per essere presi d'assalto dai fan (come è accaduto a Marina La Rosa al Motorshow di Bologna) e rientrare nel format televisivo del Maurizio Costanzo Show o di "Buona domenica". Dice Taggi: «La realiticità è per noi l'idea che la televisione si è fatta di una realtà che lei stessa ha creato, oltre lo schermo». Una tv al cubo? «Un PostContinente possibile». Forse un "orbis tertius" borgesiano, tutto reale e tutto artefatto. Altri capisaldi di questo mondo triplo? Di sicuro, scommette Taggi, "Bar": «Un programma svedese che secondo me supera lo stesso "Grande Fratello"»: i giovani protagonisti devono gestire un vero multilocale nel centro di Stoccolma. «C'è il bar, il ristorante, lo spazio dance. I ragazzi abitano al piano di sopra. La vita pubblica del bar viene filmata a colori, con camere nascoste o dichiarate: ma chiunque entri sa che si tratta del bar ripreso in tv. La vita "di retroscena" viene invece raccontata con camere nascoste, anche se dichiarate; alcune, a raggi infrarossi filmano nel buio della notte». Tutto questo in attesa dei naufraghi di "Survivor", della nuova edizione del Gf, e di tutti i loro cloni possibili. Ma nel frattempo si è assistito a continue pratiche parziali della "realiticità". Da "Furore", un karaoke in cui si trasmette «l'insostenibile leggerezza di essere lì», a "Quelli che il calcio", dove Fabio Fazio ha sostituito lo spettacolo calcistico facendo vedere mamme, zie, fidanzate, e praticando con successo "il dosaggio dello stupore". Senza parlare di produzioni come "Chi l'ha visto?", «un film vero che non finisce mai», oppure l'amore da sognare o da rivivere di "Per tutta la vita". Non è più la televisione che si appropria della vita; è la vita che si adatta alla tv. La storia si è disintegrata, rimane solo il programma. E il programma, dice Taggi, siamo noi: se siamo dentro un talk show, meglio saperlo.
L'Espresso, 04/01/2001
Una vita da Indro
Per lui, nato il 22 aprile 1909, l'oroscopo dice: «Spirito polemico, battuta mordace, successo conquistato con la parola e gli scritti, vivacità intellettuale fino a tarda età» ("Sirio", maggio 1994). Come tutti gli oroscopi tardivi, realizzati a fatti compiuti, è perfetto. Il giovane scrittore toscano che aveva compiuto i suoi esordi sull'"Universale" del fascista rivoluzionario Berto Ricci, ha travalicato gloriosamente secolo e millennio. Ed oggi vive circondato dalla stima amorosa di migliaia di lettori. 1) Con in genitori a Fucecchio nel 1915. Il tepore della sua famiglia piccolo borghese, ma soprattutto l'educazione antropologica di Indro in Toscana: "Nel resto d'Italia si fanno gli scherzi, da noi le burle". Senza lo strapaese della Valdarno inferiore e di Firenze, si capirebbe poco del milanese Montanelli. Sicuramente non si comprenderebbero gli scambi di lepidezze con Giovanni Spadolini e qualche elettrico duello polemico in punta di lingua con Giovanni Sartori. 2) Militare in Abissinia nel 1936. Lui lo dice: nel fascismo ci ha creduto. «È colpa nostra se, spiritualmente equipaggiati per costituire squadre d'assalto, il destino ci ha poi soltanto riservato il ruolo di guardie svizzere dell'ordine costituito?» ("L'Universale", 1933). E dopo che Mussolini, chiudendo la rivista, aveva "décapité l'aile gauche du fascisme" (Nenni), è andato in Ao, per seguire la stella dell'Impero. Notevole disfida, mezzo secolo dopo, con Angelo Del Boca sull'uso dei gas: «Io non li ho visti». 3) Inviato nel 1940. Freelance nella guerra di Spagna. Inviato dal "Corriere" nei Balcani, in Finlandia, in Norvegia. Corrispondente di guerra dappertutto. Anticonformista com'è, provoca immancabilmente casini. Gli articoli dalla Spagna sollevano un putiferio: espulso dall'ordine, esiliato. Nasce il Montanelli antiregime, una specie di spadaccino del giornalismo d'azione, costantemente sui luoghi. Grande divertimento e terribili paure. 4) Di ritorno da Budapest (con Matteo Matteotti, Ilario Fiore, Matteo De Monte e Luigi Saporito). Se il Cinquantasei è rimasto impresso nella coscienza pubblica lo si deve anche a lui, e ai suoi reportage dall'Ungheria insorta contro il comunismo. Livido e magnifico teatro, la Budapest della repressione rossa, per l'inviato di punta Montanelli. Una scena davvero da giudizio di Dio, con gli insorti che combattono a viso aperto, senza camuffarsi e sapendo che cosa li attendeva a munizioni finite. Ma senza compiere nessun tentativo di dissimulazione. L'epica giornalistica della libertà. 5) "I sogni muoiono all'alba". Era un talento che non rifiutava nessuna esperienza, dalla pamphlettistica alla storia, dalla prova "di genere" alla fiction storiografica. Con Longanesi aveva fatto il "nègre" d'eccezione interpretando Quinto Navarra, usciere del Duce ("Memorie del cameriere di Mussolini"). Anche la regia poteva essere un approdo. "I sogni muoiono all'alba" (1961) con Lea Massari e Aroldo Tieri, era tratto da una pièce teatrale sul dramma d'Ungheria. 6) Fondazione del "Giornale nuovo" nel 1974. Fortebraccio lo irrideva come "Il Geniale". Passerà alla storia come l'organo della borghesia italiana spaventata dai comunisti e da Piero Ottone. E nobilitata dal turarsi il naso montanelliano, nel 1976, per continuare a votare Dc. Ma a guardarci dentro meglio, con quelle collaborazioni di prestigio, da De Felice a Feitö, poteva già essere un foglio liberale (forse, a rileggerlo oggi potrebbe darci la sorpresa di essere meno animoso dei suoi tardi epigoni attuali). 7) Ferito dalle Br nel 1977. Quasi lo storpiano, identificandolo come il cerimoniere della repressione, delle maggioranze silenziose, del moderatume, del regime. Lui ha la fortuna di non tirare fuori la pistola. E quindi i gambizzatori lo trasformano suo malgrado in un eroe, benché la Milano superdemocratica snobbi anche le pistolettate delle Brigate Rosse e lo consideri a maggior ragione un vecchio reazionario, che se incappa in qualche pallottola, chissà, ci si può anche brindare sopra. 8) Di nuovo al "Corriere", dopo la chiusura di un altro giornale da lui fondato, "La Voce". Il gusto dell'Avvocato gli offriva "La Stampa", il genio di Paolo Mieli gli cedeva il "Corriere".Torna nelle stanze da cui era uscito nel 1974. Come se niente fosse ricomincia a dispensare editoriali. Fra una laurea honoris causa e una polemica sull'eutanasia, cerca di dimenticare che il suo vecchio amico-nemico Berlusconi vincerà, e concede ancora qualche riconoscimento alla Sinistra. 9) Con Colette Rosselli. Uno se lo immagina eternamente single, cinico sulle donne ancor più che sugli uomini. Invece, dopo il primo matrimonio, eccolo al fianco di una "magistra elegantiarum", conosciuta sotto l'eteronimo di Donna Letizia, l'unica vera dispensatrice di bon ton dopo Irene Brin. Sono in meno a sapere che Colette, dama raffinatissima mancata nel 1996, è una brava pittrice e una scrittrice sofisticata.
L'Espresso, 21/12/2000
Natale in casa Rutelli
Il punto limite è Natale, con l'albero, la grotta e i pastori, ma l'alternativa è quella del diavolo: o il bambino Rutelli riesce finalmente a nascere, oppure gli elettori si lasceranno prendere dalla sindrome «nun me piace 'o presepio». Quindi: inventarsi qualcosa, un'idea, un progetto, un programma, una comunicazione. Altrimenti il candidato s'affloscia e la partita si fa impossibile. Che la corsa sia ad handicap non è un mistero. La parte più ulivista dell'Ulivo, il clan di Camaldoli che lo ha lanciato contro Amato, ammette che per ora Francesco Rutelli è al trotto. Non è più immobile, ma ancora non galoppa. Dopo l'imprimatur, Romano Prodi da Bruxelles esprime qualche inquietudine: per tenere aperta la prospettiva politica prodiana, occorre che Rutelli faccia un risultato decente. Ma il presidente della Commissione europea, reduce dal recupero d'immagine di Nizza, non può spendersi visibilmente (gli ha dato un sostegno simbolico, con la moglie Flavia "inviata" nel Comitato dei 20, una delle strutture politiche di elaborazione del programma). Adesso tocca a Francesco. Senza soldi, diffidente verso le ipotesi di lanciare un "fund raising" all'americana, tenuto a stecchetto dai partiti alleati, Rutelli deve tentare di imitare l'esperienza prodiana senza avere dalla sua la dote di Prodi, cioè le entrature nel mondo accademico e nell'establishment economico. Tutti i maggiori istituti di ricerca concordano sul fatto che il candidato del centro-sinistra è "in sospensione". Perlomeno non ha ancora perso. Ma dopo il boom mediatico iniziale, Rutelli è divenuto un'incognita. Mentre Berlusconi ha lasciato una traccia nell'opinione collettiva, con la guerra urbana dei manifesti, il leader del centro-sinistra non ha ancora avviato una strategia coerente di comunicazione. Al momento, la sua è una presenza-assenza. Secondo uno specialista come Nando Pagnoncelli, direttore dell'Abacus, le chance rutelliane sono ancora integre: ormai gli elettori decidono nelle ultime due settimane prima del voto (come avvenne con il sorpasso di Prodi nel 1996); il Nord verrà effettivamente desertificato dal combinato Polo-Lega (all'Ulivo resterebbe la miseria di una decina di seggi), ma le elezioni si vincono al Sud. E il Sud è tendenzialmente governativo, con la finanziaria di Amato che si farà sentire. Di qui il dogma ecumenico-geografico di non farsi scappare nessun voto meridionale, né quelli di Antonio Di Pietro né quelli di Sergio D'Antoni. Piuttosto, Rutelli sconta ancora il peso di una coalizione frammentaria. Adesso il leader dei Democratici, Arturo Parisi, lascia filtrare l'idea ottimistica che oggi «la Margherita assomiglia più all'Asinello di quanto l'Asinello non assomigli alla Margherita». Una capziosità politichese? Di sicuro Parisi ha preso atto che la situazione fra i Ds non è ribaltabile con invenzioni politiche spettacolari. Il realismo consiglia di puntare su quell'oggetto botanico ancora misterioso che è la Margherita, con Rutelli capolista, in modo da sviluppare il più possibile la parte non diessina della coalizione. Al di là delle dichiarazioni di facciata, infatti, per Rutelli i Ds sono un problema serio. Nel partito è in corso una distribuzione delle parti per resistere come entità politica in caso di sconfitta. Con l'ipotesi di Walter Veltroni al Campidoglio e la certezza di Massimo D'Alema a comandare nel partito. In area prodiana sogghignano: «La preoccupazione principale di Veltroni è di socializzare le perdite». Certo è però, come fa notare l'eversore di Dario Fo, Michele Salvati, che la filiera D'Alema-Amato rappresenta in prospettiva un blocco d'ordine neo-socialdemocratico, altro che ulivismi. Non c'è dubbio che, se la sinistra perde male, c'è un dividendo negativo da ripartire. E quindi Rutelli non può contare sulla generosità diessina. Il sacro egoismo di partito avrà automaticamente la meglio sulle prospettive di coalizione. I prodiani lo pungolano ad abbandonare la mansuetudine: «Deve smetterla di fare la faccia buona: i problemi non si risolvono esibendo la bontà, ma affrontandoli a muso duro». Entro Natale, dunque, Rutelli deve a ogni costo impattare l'opinione pubblica, fare emergere il suo progetto politico, proporsi come leader che fa scomparire i conflitti fra i dieci piccoli indiani dell'alleanza. Ha fatto lavorare alacremente i suoi sherpa sul programma, anzi, sul manifesto politico, la "Lettera di Francesco Rutelli agli elettori" che segnerà la sua ripartenza. Il presidente di Legambiente Ermete Realacci come tessitore, l'ex occhettiano Iginio Auriemma come autentico factotum della stesura (fra l'altro è l'autore del pamphlet sul Pci-Pds-Ds "La casa brucia", titolo sempre d'attualità). Poi i contributi degli economisti Nicola Rossi, Paolo Leon e soprattutto Paolo Onofri (recuperando parte del lavoro svolto a suo tempo dalla commissione per la riforma del welfare, in particolare i "piani di vita personali", con sanità e previdenza flessibilizzati). Infine gli interventi tecnici del quartetto ministeriale Bersani-Letta-Fassino-Visco. Prima delle tecnicalità, comunque, la questione più drammaticamente urgente consiste tuttavia nell'individuare un set di idee-forza: di slogan, di punti chiave che si fissino nella percezione comune. In modo da saldare con un cortocircuito comunicativo la propria leader-ship con l'elettorato. Allora, punto primo: il lavoro, la «piena e buona occupazione». Dimezzare la disoccupazione in cinque anni, tenendo il rapporto con il sindacato ma lavorando anche con politiche sul lato delle imprese, puntando a sviluppare le forme nuove di occupazione. Flessibilità, articolazione territoriale, con l'idea di fondo che l'occupazione è un tema di unità nazionale, essenziale per reintegrare il Mezzogiorno. Punto secondo: la sicurezza. Sicurezza contro la criminalità, per spegnere l'allarme sociale provocato dall'illegalità, cercando di colmare il divario rispetto al "law and order" su cui punta vocalmente una destra «forcaiola nelle piazze e ipergarantista in politica». Punto terzo: «una vita di qualità». Cioè una proposta di riqualificazione collettiva, che comincia dal rie-quilibrio ambientale, ma che investe anche i temi della sanità, delle pensioni, della burocrazia, della condizione urbana. In sintesi, Rutelli si trova nelle condizioni di dover stabilire il punto di equilibrio fra continuità e discontinuità. Tra il valorizzare l'attività di governo degli ultimi cinque anni e puntare sul "fresh start". In ogni caso, facendo in modo che il candidato e le sue parole chiave diventino tutt'uno, e che facciano dimenticare agli elettori gli spettacolini del caravanserraglio che ha alle spalle. Prima che l'Epifania tutte le feste si porti via.
L'Espresso, 07/12/2000
A tutto Totò
Chi è, alla fine, Totò? «Un sogno dentro un sogno», conclude Marco Giusti nella prefazione a "Totò si nasce (e io modestamente lo nacqui)" in cui ha raccolto per Mondadori il Totò memorabile. Cioè tutto. Le battute dei film, dalle più celebri alle meno ricordate; ma anche le dichiarazioni, le interviste, le partecipazioni televisive, gli sketch, le riflessioni, le poesie, le canzoni, i ricordi. Con un ampio materiale inedito o dimenticato che rivive nel video allegato al libro. Accostati, anzi blobbati senza distinguere tra la verità e il cinema, fra il teatro e la vita, i due Totò, il guitto e il principe, il poeta sentimentale e il nobiluomo presunto, continuano a sognare una propria identità esclusiva. Con la conseguenza che i limiti di realtà e finzione vanno debitamente a catafascio. Lo spettacolo è totale. Che sia Fellini a parlare di Totò, o Totò a discutere di Fellini, cambia pochissimo. Che il principe Antonio de Curtis commenti le fatiche di Pasolini per tenerlo nel solco delle battute scritte sta a dimostrare che in scena o sul set Totò è Totò, incorreggibile anche di fronte al testo intoccabile di "Uccellacci e uccellini". Dopo di che, si tratta di evitare un'agiografia ulteriore. Di fenomenologie di Totò ce n'è in abbondanza. Tanto per dire, dopo il testo canonico di Goffredo Fofi, che ne aveva identificato la carica rivoluzionaria, un paio d'anni fa ci si è messo anche un intellettuale sofisticato, Roberto Escobar, con un saggio che interpretava Totò come archetipo della condizione esistenziale italiana. Filosofia di Totò, strati antropologici rimescolati per spiegare l'immortalità di una maschera: credevate che fosse un'antologia? Citazioni a iosa? Battute peregrine? Un Karl Kraus del cazzeggio? Macché antologia: è un'ontologia, un discorso sull'Essere. Per questo si scopre gente insospettabile che sa a memoria l'intera filmografia: un anglista di prestigio internazionale come Piero Boitani, autore di libri bellissimi sul mito di Ulisse, è capace di intrattenere una tavolata per ore citando Totò e imitandolo alla perfezione. E in Totò ci dev'essere una qualche modernità connaturata, quindi non solo provinciale, se di recente un ciclo di film a New York ha suscitato entusiasmi anche negli americani. Moderno, forse, per una schizofrenia continuamente ricomposta. Il comico più importante dell'anteguerra, talmente potente da potersi permettere di "parlar male di Mussolini", che nel dopoguerra si costruisce il mito del grande borghese. L'eversore del linguaggio e del senso, irresponsabilmente ilare, che si autodefinisce «un funerale di prima classe», tristissimo, desolato, un mortorio. Con quella doppiezza irrinunciabile che nel 1950 lo induce, lui monarchico, conservatore, "di destra", a scrivere una lettera aperta a Oscar Luigi Scalfaro, pubblicata dall'"Avanti!": «Ho appena appreso dai giornali che Ella ha respinto la sfida a duello inviataLe dal padre della Signora Toussan, in seguito agli incidenti a Lei noti. La motivazione del rifiuto di battersi da Lei addotta, cioè quella dei princìpi cristiani, ammetterà che è speciosa e non fondata...». Nel caso, si sa che Scalfaro aveva maltrattato in un ristorante una signora troppo scollata per i suoi gusti: ma quel che conta è che sotto la superficie conformista del principe de Curtis viene sempre fuori qualche tratto di insofferenza, un "ma mi faccia il piacere", un gesto che tradisce un che di libertario, un impulso anarchico. Doppio, talmente doppio da poter dire «Io non amo Totò», e giù insulti verso quel suo compare così irritante: «La maschera di Totò, ebbene, io la disprezzo». Eppure consapevole di essere, grazie alla maschera, un personaggio pubblico, continuamente ripreso dai cinegiornali, idolatrato dal popolo, oggetto di devozione nel mondo dello spettacolo. Lo stesso Pasolini, dopo che il grande Totò aveva sbagliato la battuta per 22 ciak consecutivi, e chiedeva ansiosamente «sono andato bene?», dimentica ideologie e teoremi, e amorevolmente gliela accorcia. (Mentre Totò risponde con un dito nell'occhio: «Questo Pasolini, pasolineggia un po' troppo. Siamo arrivati a metà del film e non ho ancora capito che razza, che schifezza di film stiamo facendo»). Gli esperti di audience dicono che tra i film coevi i suoi sono gli unici ancora in grado di reggere la prima serata. Sarà perché gli anni Settanta sono stati una fucina di totomani, che hanno trasmesso l'adorazione anche ai ragazzini, dando il via a una catena di san Totò. Oppure perché se facendo zapping si cade dentro un film scatta irresistibile il desiderio di risentire la dettatura a Peppino della lettera alla malafemmina: «Signorina, veniamo noi con questa mia addirvi...», o il gay-nonsense di "Totò e Cleopatra": «Scusami, invece di darti sei schiavi traci, ti ho dato sei schiavi froci». E quindi qualcuno potrà ancora commuoversi alle parole sentimentali dell'orazione funebre di Nino Taranto a Napoli: «Addio Totò, addio amico mio. Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore...». Solo che, come ricorda Giusti commentando il finale del libro, il discorso era rivolto a una tomba vuota. Il funerale vero, al principe, l'avevano fatto a Roma. Il funerale «parte napoletano e parte no, pèo» era stato allestito, come era inevitabile, per il suo doppio.
L'Espresso, 30/11/2000
La scuola che Cambia
Scusi, c'è il professore? No che non c'è. E non cercatelo in sala docenti. Dieci anni fa la prima indagine Iard sugli insegnanti italiani aveva mostrato il sorpasso numerico delle donne anche nelle superiori. Raggiunto il 2000, la femminilizzazione si è accentuata «in tutti gli ordini e i gradi del nostro sistema scolastico». I maschi sono esemplari sempre più rari, forse in via di estinzione. È il primo dato che balza agli occhi dalla seconda indagine sulla scuola italiana svolta dall'istituto milanese. Condotta per conto del ministero della Pubblica istruzione, la ricerca ha coinvolto un campione nazionale di 7 mila 400 insegnanti statali e non statali, dalla materna ai licei. È stata coordinata da un pool di esperti composto da Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Giancarlo Gasperoni, ai quali si sono aggiunti otto sociologi specializzati in materia scolastica. Ne sono derivate 450 pagine di sintesi ("Gli insegnanti nella scuola che cambia" si intitola il volume curato da Alessandro Cavalli), che il Mulino manda in libreria in questi giorni, e che propongono una mappa dell'universo scolastico italiano, essenziale nel momento in cui la scuola vive con molte inquietudini l'ampio processo di riforma che la sta investendo. L'indagine dice che per il genere maschile l'ultimo rifugio sono le scuole superiori, dove gli uomini resistono ancora sull'argine del 45 per cento. Ma per il resto le donne esondano. Trascurando la scuola materna, dove sono la totalità del corpo insegnante, nelle elementari superano il 93 per cento, e nelle medie inferiori oltrepassano il 70. La prima conclusione è brutale e poco femminista: queste percentuali suggeriscono che la "desiderabilità sociale" della professione di insegnante si è ulteriormente ridotta. Si aggiunga che queste schiere di donne non abbondano di giovani. Oltre la metà degli insegnanti è nata prima del 1953, sicché fra i paesi sviluppati l'Italia è agli ultimissimi posti per numero di docenti sotto i 30 anni. Commenta Antonio Schizzerotto, che ha curato la parte della ricerca sulla condizione sociale: «Non si può dire con certezza che la composizione per età costituisce un ulteriore indice di declino sociale dell'insegnamento. Tuttavia è intuitivo che un gruppo professionale di età matura non fornisce un'immagine particolarmente dinamica e attraente». A questi aspetti si aggiunge l'abbassamento del livello sociale delle famiglie d'origine. Dice il coordinatore dell'indagine, Alessandro Cavalli: «Non solo i figli, ma ormai anche le figlie delle classi dirigenti percepiscono la prospettiva di diventare insegnanti come una forma di declassamento, e quindi tendono a scartare questa opportunità». Per la verità sono gli stessi docenti a sentirsi un ceto in declino, che fa parte di un carrozzone burocratico, il quale tende a trasformarli in una classe polverosamente impiegatizia, sempre meno riconosciuta socialmente. In ogni caso, si riduce la distanza sociale fra docenti e studenti provenienti dalle classi medio- basse, e si registra un aumento della stessa distanza fra docenti e studenti della classe medio- alta. La professoressa rischia di venire squadrata dall'alto in basso dai rampolli di una borghesia per la quale gli insegnanti scivolano ai margini dell'area sociale del prestigio. Le aule sono sempre più grigie e il successo non rientra più nei meccanismi scolastici. Con qualche conseguenza quasi di tipo castale: ad esempio, sul "mercato matrimoniale" l'insegnante risulta poco attraente come partner da coloro che si situano o puntano ai vertici della scala sociale: se insegni non ti sposo. I dati dello Iard sottolineano che ciò vale soprattutto per i maschi. Ma anche le donne appaiono in seria difficoltà: se il 42 per cento delle insegnanti è sposata o convive con uomini appartenenti alle classi dirigenti, la maggioranza ha trovato un partner nella classe media impiegatizia o nella piccola borghesia urbana; e la scomposizione per età mostra un vistoso andamento al ribasso: quasi la metà delle professoresse sopra i 50 ha sposato un imprenditore, un dirigente, un libero professionista; sotto i 35 anni, la quota delle privilegiate scende a meno di un terzo. Professoresse da buttare, quindi? Si sentono frustrate, il mestiere è senza mobilità, la spinta al cambiamento è debole, e il fatalismo sulla propria posizione pubblica porta a una visione pessimista della società: a loro giudizio si affermano valori che dicono di di-sprezzare (la ricchezza, l'apparenza, l'immagine esteriore, il successo), mentre crollano quelli a cui sono legate, cioè l'onestà, la serietà, l'impegno, l'attaccamento al lavoro. Fin qui, il quadro sarebbe avvilente. Ma secondo Cavalli è con questa «maggioranza silenziosa» che bisogna fare i conti, sia nella gestione quotidiana sia nell'applicazione delle riforme, se l'obiettivo è una scuola in grado di favorire lo sforzo di modernizzazione del paese. Quindi occorre che l'identikit sia preciso. Ecco qua. La professoressa tipo è un essere ai confini della schizofrenia. Delusa dall'insegnamento ma senza avere mai nemmeno pensato di cercare un altro lavoro. Propensa ai consumi culturali, che appaiono in crescita, ma con la plateale eccezione del calo della lettura dei quotidiani (quasi che l'attualità politica segnalasse implicitamente la marginalità della scuola). Ipercritica sulle propria formazione professionale ma diffidente verso l'aggiornamento e la sperimentazione. Consapevole che la riqualificazione passa inevitabilmente attraverso l'introduzione di strumenti di valutazione, ma indisponibile a che questa valutazione sia compiuta dall'esterno. La medesima schizofrenia si nota nell'atteggiamento verso la stagione di riforme che si è aperta nella seconda metà degli anni Novanta. In particolare, sulla rivoluzione copernicana rappresentata dall'autonomia degli istituti non c'è un consenso generalizzato sulle modalità della sua realizzazione. Eppure l'autonomia suscita un'aspettativa notevole, perché lascia intravedere la possibilità di uscire dalle strettoie dei programmi ministeriali per modulare l'insegnamento su esigenze specifiche del contesto sociale e degli allievi. Alla fine, la scuola la salveranno o l'affosseranno le professoresse. Le "vestali della classe media", come le avevano definite 30 anni fa in uno storica ricerca Marzio Barbagli e Marcello Dei, intendendole come tutrici del cosmo di valori della classe egemone. Ma allora, sotto il cielo del Sessantotto, la società era da descolarizzare, secondo il provocatorio manifesto di Ivan Illich: oggi, svanite le rivoluzioni e in bilico le riforme, si tratta di sottrarre le vestali ai templi diruti della loro routine, e di investire sulle loro ambizioni non ancora del tutto frustrate.
L'Espresso, 30/11/2000
Io ballo coi libri
Come ci si trova, a 43 anni, a dirigere la casa editrice di Benedetto Croce? Bisogna chiederlo all'erede di Vito, cioè a Giuseppe Laterza, universalmente detto Pepe. Responsabile della "varia" (come si dice in gergo per distinguere la saggistica dallo scolastico), di una delle più canoniche case editrici italiane. Una tradizione pesante alle spalle. E un mestiere ereditario per uno che in una vita parallela dice che avrebbe fatto volentieri il dj (in casa ha un mixer semiprofessionale); e che di tanto in tanto si fa prendere dalla frenesia del ballo: come all'ultima Fiera di Francoforte, quando è capitato a una festa di Seuil, e si è scatenato. Laterza, una volta gli editori non si comportavano così. Erano principi o monaci. «Non sono un editore da oleografia, con la missione sempre in testa. Appena posso esco con le bambine, per correre insieme al cane. Un po' di tennis, qualche romanzo. E non era scritto nel destino che sarei diventato un editore. Anni fa c'erano altri richiami: la politica, la ricerca economica». Lei in politica? Ma non era predestinato all'azienda di famiglia? «Andavo al liceo Tasso, scuola politicamente calda di Roma, non solo pariolina. Erano egemoni Lotta continua e il Movimento studentesco: io mi sono iscritto alla Fgci, con Veltroni segretario della Federazione giovanile romana». Molto convenzionale, molto istituzionale, molto da classe dirigente in pectore. «Se è per questo, fin da allora ero "quel socialdemocratico di Laterza". La politica mi interessava perché per carattere il mio modo di ragionare si sviluppa nel confronto. Non mi va di meditare in solitudine». E il Pci in quel momento era la parte giusta. «In verità, alle soglie dell'università ho mollato. Volevo occuparmi di storia economica, mi sono iscritto a economia, e ho incontrato Federico Caffè, con cui più tardi mi sono laureato». Ma la politica ha rifatto capolino alla svelta. «Nel '77, con la contestazione di Luciano Lama da parte degli autonomi. Ci si chiede come reagire all'autonomia. Allora entro nella sezione universitaria del Pci, dove c'è un bel gruppo di "figli di": Jolanda Bufalini, Franca Chiaromonte, Guido Ingrao, Laura Pecchioli, Pietro Reichlin, Antonia Trentin». Quanto all'essere "figlio di", neanche lei scherzava. «Gliel'ho detto, in quel momento le carriere non erano programmate. Che io sappia, a parte Franca Chiaromonte, nessuno è rimasto in politica». Mentre lei nell'editoria c'è entrato, e dalla porta principale. Se ne occupava già allora? «Andavo ogni anno a Francoforte con mio padre. Studiavo parecchio, e mi sarebbe piaciuto restare nella ricerca, ma ero impaziente nei passaggi analitici e tendevo a saltare velocemente alle conclusioni. Nel frattempo mio padre ha convinto me e mio cugino Alessandro, che adesso è amministratore delegato dell'editrice e si occupa dello scolastico, che si può produrre cultura fuori dall'università». Vito è stato un padre ingombrante? «Rappresenta la parte razionalista della famiglia. C'è anche un ramo meno prevedibile, quello di mia madre, che viene dai Chiarini, una famiglia fiorentina che ha spaziato dal circo al cinema. Con tutto il suo rigore, mio padre non ha mai imposto nulla. Tant'è che mio fratello Federico è diventato musicista, abita sul lago di Bracciano, vive di musica jazz. È lui che ha ereditato il Dna della famiglia materna. Mio padre invece è sempre stato razionale, un salveminiano, un liberale di sinistra, affezionato alla sua figura di editore delle pubblicazioni degli Amici del "Mondo"». Non avrà imposto nulla, ma diciamo che è riu-scito facilmente a portarla nella casa editrice. Preparando la successione in famiglia. «Sono entrato nel 1980, e sono stato spedito in redazione. Training dal basso. Poi tre anni all'ufficio stampa. Come redattore non ero il massimo; i libri mi piaceva soprattutto progettarli». L'hanno mai guardata come il figlio del padrone? «Appena entrato, legato com'ero alla mia cultura di sinistra, partecipavo perfino alle assemblee sindacali. Ho smesso perché era buffo, ma mi sono liberato presto del problema del nome. Semmai, ho sviluppato l'aspetto collegiale della casa editrice, in un rapporto stretto con i redattori». Quali sono stati i suoi primi interlocutori, nell'ambiente culturale? «Sono numerosi, ma quelli con cui si è sviluppato immediatamente un rapporto sono stati Andrea Giardina, l'antichista che ora è sulla cattedra di Santo Mazzarino, e Andrea Boitani, economista della Cattolica a Milano». C'erano degli incontri formali con i consulenti? «No, non abbiamo mai avuto comitati di lavoro. C'erano persone particolarmente vicine, che offrivano un contributo assiduo. Lucio Colletti e Tullio Gregory per la filosofia, oltre naturalmente a Eugenio Garin, che era stato il maestro di mio padre. Per la storia contemporanea Rosario Villari, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto. Tullio De Mauro per la linguistica. E poi altre figure, che non erano consulenti veri e propri ma il cui parere era prezioso: Paolo Sylos Labini, Nello Ajello, Leonardo Benevolo. Sulla storia medievale Jacques Le Goff e Georges Duby ci hanno seguito da vicino». Lei è la negazione vivente della ribellione contro i padri. Non c'è mai stata nemmeno un'ombra di competizione con Vito? «Discussioni sui programmi, sui titoli, sulle scelte, sempre; ma scontri veri e propri mai. Quando non era convinto di un progetto, alla fine concludeva: "Se ci credi, vai avanti". Cioè prenditi le tue responsabilità». E lei se le è prese. Assistente della direzione, direttore generale con Vito amministratore delegato... «Finché mio padre e suo fratello Paolo hanno lasciato tutte le cariche e siamo subentrati nel consiglio d'amministrazione io e Alessandro. Un cambiamento significativo perché mi ha portato a occuparmi del mercato e dei costi, a misurare le idee con i conti». È cambiato anche il privato? «Avevo avuto le normali passioni della mia generazione. Leggevo i manoscritti, ma mi concedevo gli Stones, Eric Clapton, i Credence, i Jethro Tull. Di recente sono stato con le bambine ai concerti di Jovanotti, delle Spice Girls, di Zucchero». Casa e famiglia. O meglio, casa editrice e famiglia. «Troppo inquadrato, dice? Il contrappeso è mia moglie, con il suo carattere imprevedibile. Per una napoletana come lei, l'unica concessione alla tradizione è la pizza della domenica sera: la prepara, e tutti insieme la mangiamo guardando una cassetta in tv. Il film più visto degli ultimi anni è "La vita è bella" di Roberto Benigni. E anche "Quattro matrimoni e un funerale", perché ho una passione per la campagna inglese». Eccolo, il borghese perfetto. Ma che tipo di editoria aveva in mente, quando è arrivato al vertice? Laterza è stata identificata a lungo come l'espressione di una sinistra "ufficiale". «E si sbagliavano. Abbiamo pubblicato Hobsbawm e De Felice, un socialista non pentito e il primo dei revisionisti. Non ci sono mai stati recinti. Forse mio padre non avrebbe pubblicato, che so, il libro di Marcello Veneziani "Comunitari e liberal", perché Veneziani è un intellettuale esplicitamente di destra: da parte mia qualche pregiudizio è caduto, altrimenti non avremmo deciso di pubblicare il pamphlet di Gianfranco Pasquino "Critica della sinistra italiana". E neanche l'intervista a Di Pietro di Giovanni Valentini, dato che nei salotti il nome dell'ex piemme è impronunciabile». Tutti gli editori si nascondono dietro qualche libro non ortodosso. «Ma alla fine la figura dell'editore conta, nella varietà dei programmi, nel tentativo di dare un'impronta di cultura moderna. Abbiamo appena pubblicato un saggio di Sylos Labini sullo sviluppo, molto in linea con la tradizione laterziana. Ma a gennaio uscirà un libro di Paolo Mastrolilli, il corrispondente di "Avvenire" da New York, che è la storia di due hacker. E poi un saggio di Silvano Serventi e Françoise Sabban sulla pasta. Anni fa non l'avremmo neppure pensato». Che cosa sono, episodi di ricreazione dalla politica? «Sono episodi del tentativo di combinare una dimensione italiana con quella internazionale». Con la pasta? «Con un saggio sulla cosa più italiana che esista, scritto da un italiano che sta a Parigi e da una sinologa dell'École des Hautes Études. Dai tempi della "Storia delle donne", curata per noi da Duby e Michelle Perrot, la fisionomia europea della casa editrice è molto cresciuta. Il pubblico è cambiato, le culture si sono diversificate. Conta la curiosità, la percezione di interessi che si rinnovano». E quindi addio ai messaggi politicamente corretti. «Oggi le militanze editoriali non avrebbero senso».
L'Espresso, 23/11/2000
ROSSO Guccini
Interno bolognese, quartiere Cirenaica, via Paolo Fabbri naturalmente al 43. Una voce stentorea: «Nel fosco fin del secolo morente / nell'orizzonte cupo e desolato / già si alza l'alba mi nacciosamente / del dì fatato...». Francesco Guccini sorride soddisfatto della propria memoria mentre declama gli endecasillabi di un canto anarchico che potrebbe essere l'antesignano della "Locomotiva". I giorni e gli anni se ne sono andati, lasciando alle spalle i tempi eroici di "Folk Beat n. 1", i libri, i romanzi, i fumetti, "Radiofreccia", gli amici che non ci sono più come Bonvi, il disegnatore di "Sturmtruppen", Victor Sogliani, il bassista lungagnone dell'Equipe 84, e Augusto Daolio, il cantante dei Nomadi, l'Eric Burdon della Bassa; o che invece si ritrovano ancora sotto casa per i riti serali da Vito. Oggi "Culodritto", ovvero sua figlia Teresa, ha 21 anni ed è iscritta al Dams. La vecchia partner chitarristica, Deborah Cooperman, vive nel Veneto con il marito, hanno un negozio di articoli musicali, lei dirige un coro locale e ogni tanto rispolvera in pubblico il suo fingerpicking da prestigiatrice. La compagna giovane, Raffaella, che come lui ha studiato con l'italianista Ezio Raimondi, sta facendo un dottorato di ricerca su Gadda. Proprio Raimondi, dopo avere assistito a un concerto del suo vecchio allievo a Bologna, gli ha detto: «Guccini, mi piacciono le sue canzoni perché sono etica che si fa politica». Insomma, riconoscimenti, onori culturali, una cooptazione nell'intellighenzia, ora consacrata dalla collocazione nel catalogo Einaudi. Guccini, a sessant'anni può confessarlo: lei ci ha sempre marciato, con la fiaccola dell'anarchia e la giustizia proletaria, con quelle parole che incendiavano i palasport. «Li incendiano anche adesso, se è per questo. Selve di pugni alzati. Ma l'anima socialista e libertaria era autentica. Anche se il socialismo non veniva dalla famiglia: madre carpigiana e democristiana; padre liberale e montanaro quando i liberali erano i padroni, e lui un semplice impiegato alle Poste. Nel '48 il voto di famiglia fu ovviamente alla Dc. L'unico rivoltoso vero, l'anticlericale classico, diffidato dalla polizia fascista, per attività sindacale durante la costruzione della diga di Pàvana, era il mio prozio, che ho fatto diventare il protagonista di una mia canzone, "Amerigo"». Vuol dire che lei non ha mai inseguito la rivoluzione? «Non sono mai stato un estremista, non è nella mia cultura. E neanche comunista, perché il Pci allora era il partito dell'Urss, figurarsi. Ho votato socialista a lungo, ma la matrice culturale più sentita è l'azionismo, i Rosselli, il socialismo liberale. Anche il Sessantotto l'ho percepito nell'aria, ma avevo già 28 anni, e nessuna voglia di estremismi». E adesso? «Semplice, adesso voto Ds. Con il fastidio di vedere quelli che ai tempi della contestazione mi criticavano perché non ero abbastanza rivoluzionario che ora prendono lo stipendio di Berlusconi e fanno le campagne per Forza Italia». Mentre lei insiste romanticamente con il Che. «Ma Guevara è un mito ormai fuori dalle appartenenze politiche. Le è mai capitato di sentire la pelle d'oca per un canto proletario? Si può essere conservatori e commuoversi sentendo una canzone operaia, e allo stesso modo emozionarsi per la storia del Che. Capita anche a gente che nei concerti alza il pugno chiuso e magari si scopre dopo che ha votato per Forza Italia». Irresistibile Guevara. Solo che lei racconta quella storia ai ragazzini che si affollano ai suoi concerti, e per i quali il Che è un'immagine su una maglietta. Molto postmoderno. «Le canzoni dicono delle cose, si fanno ricordare. Pensi che "Il vecchio e il bambino", una canzone dedicata all'olocausto nucleare, ora la insegnano a scuola, è finita nelle antologie. Roba da vergognarsi come ladri. Anche perché io non mi sono mai considerato un autore politico: le mie canzoni nascono dalla quotidianità». E dai miti: a partire dall'America. «In America ci sono stato la prima volta nel 1970, l'ultima l'anno scorso, e giuro che non ci torno più: proibizionismo sulle sigarette, sulla birra se guidi... L'America è stata un mito fortissimo anche se di terza mano: Steinbeck, Dos Passos, Caldwell, attraverso Vittorini e Pavese. Gli unici libri di autori italiani li leggevo alla biblioteca dei postelegrafonici di Pàvana. Ma l'innamoramento vero era venuto nell'autunno del '44, quando erano arrivati gli americani in carne e ossa». Quando comincia invece l'innamoramento musicale? «Comincia con il jazz tradizionale, il dixieland, da adolescente. Poi viene il cool jazz, molto esclusivo. Ma a un certo punto arrivano quelli della musica nuova: i Platters con "Only you", ma soprattutto il rock, Bill Haley, Gene Vincent, Elvis Presley». E lei, come tutti, si mette a suonare. «A suonare e a comporre musica, prego. Opera prima, una fotocopia di "Only you". Poi capitava un amico che ti diceva: ho conosciuto uno che con la chitarra sa fare l'assolo di "Be bop alula". Da restare annichiliti, perché quell'assolo era un giudizio di Dio: ed eccoci in gruppo a battere le balere. Ci si fa un repertorio. Il mio è sterminato, da "Signorinella pallida" a "Rock around the clock"». Poi appare Dylan, e vi strega tutti. «In effetti il primo Dylan ha esercitato la seconda grande influenza sulla mia vita musicale. La prima era stata quella dei francesi: Brassens, Brel, "Ne me quitte pas" che fu un'esperienza sconvolgente. Allora si ascoltava molta musica, e si provava i tutti i modi a rifarla». Perché, adesso di musica non ne ascolta più? «Ma neanche per sogno». Se cito i Rem, gli U2, i Radiohead lei rimane indifferente? «Come un catatonico. Ascolto qualche amico, Vecchioni, De Gregori, e Vinicio Capossela, che a suo tempo ho aiutato a entrare nel giro. Ma soprattutto mi piace la roba argentina. Il tango, che è diventato una passione grazie al Flaco, alias Juan Carlos Biondini, il mio chitarrista. Se vuole, le espongo la mia teoria sulle analogie fra il lunfardo, la lingua del tango, e il dialetto modenese». Ma intanto mi faccia capire come passa le giornate, quando non è in giro per i suoi tre o quattro concerti al mese. «Leggo. Passo alla libreria Feltrinelli di piazza Ravegnana e saccheggio, o mi faccio saccheggiare, che è lo stesso. Gli ultimi libri comprati? Pansa, "Romanzo di un ingenuo", in cui trovo qualche storia che mi è vicina; poi Marta Boneschi, "Senso", l'ultimo Montalbán, il romanzo milanese di Gino e Michele». Vita da casalingo. «L'ideale per scrivere. No, non canzoni, per quelle c'è tempo, e adesso comunque non esiste neppure il progetto di un nuovo disco. Invece, per tenere viva la vecchia passione mi sono messo a tradurre in dialetto pavanese una commedia di Plauto, la "Casina", una storia di due schiavi che corteggiano la stessa ragazza. L'idea sarebbe di metterla in scena, perché è tutta un gioco degli equivoci, e viene bene, con quella lingua fossile che è il dialetto. Solo che non riesco a finire, perché siamo in chiusura con Loriano Macchiavelli, è il terzo romanzo scritto insieme, dopo "Macaronì" e "Un disco dei Platters"». Soliti amici, solito giro... «Aggiunga pure che non ho il cellulare e neanche la patente, se vuole farmi passare per reazionario. Ma non creda che la mia vita sia una lunga e lenta disillusione. Io mi sento combattivo, non sono per niente incline alla rinuncia. Cari amici, non vi attrae la politica di adesso? Vi fa schifo il centrosinistra? Mi dispiace, ma io gioco con le carte che sono sul tavolo. Se c'è Rutelli si vota Rutelli. Gli estremismi, i romanticismi politici, i rivoluzionarismi, quelli vanno bene qualche volta in una canzone». E il lunfardo? «Se sai il modenese con il lunfardo te la cavi. C'è una fratellanza linguistica. Il problema vero è che la musica argentina è tutta in levare, e ti fa venire il cervello sincopato, per noi che non siamo abituati, e suoniamo il tango in battere come il liscio. No, mi creda: in politica come in musica bisogna capire che i tempi possono cambiare».
L'Espresso, 16/11/2000
Silvio e Walter in salsa yankee
Se vince Gore..., sospirava Walter Veltroni a chi gli chiedeva impressioni sulle possibilità di rimonta di Francesco Rutelli, candidato appena inventato. Inutile chiedergli che cosa c'entrasse con le faccende italiane la vittoria del gelido Al. Nella visione del segretario Ds, un successo democratico sarebbe stato la prova della continuità del ciclo clintoniano. Una ventata globale che avrebbe rafforzato implicitamente tutte le esperienze della sinistra "new": la "neue Mitte" di Gerhard Schröder, il blairismo postlaburista, e anche le declinanti fortune del nostro Ulivo. Può indurre al sospetto l'idea che le fortune dell'Ulivo dipendano dall'unzione del clintonismo: e il sospetto più disarmante è che il centro-sinistra non riesca a trovare altra identità se non situandosi in una corrente politica mondiale, sotto la bandiera di un progressismo generico ma universale. Vale a dire: in Italia l'alleanza ulivista non ha ancora espresso un suo programma, e nel frattempo si dilania fra Francesco Rutelli e Sergio Cofferati, mette insieme spezzoni artificiali di sistema politico, sembra seriamente intenzionata a giocarsi l'eredità del 1996: ma si sente comunque in franchising dentro una corrente ideale planetaria. L'uso italiano delle elezioni americane è ovviamente una forzatura. Tuttavia è risultata ancora una volta sorprendente l'automaticità delle prese di posizione, ricalcate meccanicamente sull'asse destra / sinistra. Mai che un polista si sia sbilanciato in un giudizio a favore di Bill Clinton e quindi della continuità modernista dei democratici. L'equazione fra Al Gore e Francesco Rutelli è ancora largamente imperfetta, ma a destra l'identificazione di George Bush jr. con Silvio Berlusconi è attraente fino a diventare irresistibile per la Casa della libertà. Il populismo benevolo, il "compassionate conservatism", la propensione antitasse, le venature anticentraliste sovrappongono infatti il Texas a Roma. Soprattutto l'ultimo Berlusconi, singolare miscela di liberismo e di economia sociale di mercato, di conservazione e di cambiamento, sembrerebbe un bushista perfetto. Nella speranza di trasformare il risultato americano, cioè il frenetico fotofinish, in un Forza Bush all'italiana, possibilmente in un plebiscito.
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