L’Espresso
L'Espresso, 02/11/2000
Io secchione? Piuttosto un bobbista
Il ministro giovane dice: «La mia è una storia normale», e non abbassa gli occhi di fronte a un'ombra di incredulità. Insiste minimizzando: «Solita trafila, la parrocchia, l'Azione cattolica, la politica negli organi collegiali della scuola». Benissimo, ma allora come si spiega la carriera di uno che a 34 anni regge il timone di due ministeri, l'Industria e il Commercio estero, e ora si trova ad affrontare anche le bufere dell'Umts? Enrico Letta, classe 1966, ha una buona e classica famiglia alle spalle: papà Giorgio, accademico dei Lincei, ordinario di matematica, venuto via da Avezzano per studiare e poi insegnare a Pisa. La mamma, una sassarese emigrata sotto la Torre per studiare, e un fratello minore che promuove l'università. Mentre a Roma tesse le sue reti il Letta storicamente più famoso, cioè lo zio Gianni, il gran diplomatico del Cavaliere («Polo o no, con lui ho sempre avuto un rapporto importante»). Nel suo mini romano, dove abita dopo la fine di un matrimonio tormentato dalla politica, libri dappertutto. Non solo saggistica: «Letture un po' casuali: mi piace Andrea De Carlo, leggo volentieri Montalbán, sul comodino ci sono le "Memorie di Adriano" della Yourcenar. Ultimamente ho scoperto Eric Ambler, "La maschera di Dimitrios"». Sotto la tv si intravede la videocassetta di "Mediterraneo" di Salvatores: «Ormai usurata: l'avrò vista 20 volte, è una storia che mi prende sempre». Di storie ci interessa la sua. Anche perché non ci sono in giro troppi ragazzini con una simile carriera alle spalle. «Non mi dia del secchione. Non sono mai stato uno studente fuoriclasse. Cinquantaquattro alla maturità, un 110 e lode in Scienze politiche nella Scuola Sant'Anna, strappato a fatica, perché partivo da 102. Risultati medio-alti ma non eccelsi. Fra l'altro, non sono ancora riuscito a concludere il dottorato di ricerca, su Maastricht: tutto fermo da quando mi hanno dato le Politiche comunitarie». Studi a parte, l'Enrico Letta politico nasce giovanissimo: la vocazione era precoce. «Ho cominciato nei primi anni Ottanta, al liceo. Credo che lì si trovi l'embrione della mia posizione attuale. Perché allora la divisione era semplice: da una parte c'era la sinistra, dall'altra i cattolici. Noi però eravamo in collegamento con l'Azione cattolica ambrosiana: in opposizione alla sinistra, ma anche con una netta separazione da Comunione e liberazione». Fin qui è una storia qualunque. Dove scatta il cambio di velocità? «All'università, e subito dopo. Fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta, mi ritrovo nelle organizzazioni europee della Dc, ed è una buona scuola. Nascevano i partiti europei, c'era la grande ispirazione cattolica e socialista di Delors, un clima in cui si avvertiva l'Europa nascente. Un po' per caso, per assenza di concorrenti, divento anche presidente dei giovani Popolari europei». Che effetto faceva, a poco più di 20 anni, il mondo visto da Bruxelles? «Un'esperienza colossale. Incontravo figure di riferimento come Kohl, Maertens, Lubbert. E ho potuto osservare più distintamente la crisi della Dc. All'inizio sembrava che Martinazzoli potesse farcela: Kohl aveva investito su di lui, era convinto che la tenuta della Dc fosse essenziale nel momento in cui decollava Maastricht. E io rischio addirittura di diventare il segretario generale del Ppe, quello che adesso è coperto da Alejandro Agag. Era in scadenza il mandato di Thomas Jansen, e Kohl si rivolse a Mino: "Indica uno dei tuoi. Ma che non sia uno dei vecchi". Martinazzoli fa il mio nome, la candidatura viene anche formalizzata, ma nel frattempo tracolla la Dc, e addio». Avviene negli organismi europei l'incontro politico della sua vita, quello con Nino Andreatta? «Sì, Andreatta lo incrocio a Bruxelles. Con il suo tipico modo di fare, con la sua nonchalance mi invita a lavorare all'Arel: "Letta, perché non fa una ricerca...". Tutto vaghissimo, ma Andreatta è uno choc intellettuale. Innanzitutto per la sua diversità rispetto agli altri dc. Per la sua dimensione etica, ma soprattutto per un disinteresse profondo per la politica e un'attenzione invece assidua alle "politiche". Un gusto anglosassone, ma tutt'altro che accademico. Andreatta poi è decisivo perché mi apre le porte dell'economia. L'Arel è una rete di incontri: con Angelo Tantazzi, Fabio Gobbo, lo stesso Romano Prodi. E sul piano personale soprattutto con il figlio di Andreatta, Filippo, anche lui attivo dalle parti del Ppe, con cui si sviluppa una grande amicizia e una discussione continua». Andreatta nel 1993 va al Bilancio e la chiama come assistente. Ma siamo ancora lontani dalle stanze del potere vero. «Quando Andreatta passa agli Esteri lo seguo, ed è un anno straordinario. Capirà, c'era di mezzo l'applicazione di Maastricht. Poi arriva Berlusconi e io ricomincio a pensare a me stesso. Nel 1996 mi trovavo con le valigie in mano, pronto a passare un anno alla London School of Economics, ma mi chiamano al Tesoro, nel comitato per la transizione all'euro». E poi dice che non è un secchione. Mentre i suoi coetanei fanno i giovani a vita, lei fa il lavoro oscuro dentro il Palazzo. «In realtà non mi sono mai negato qualche divertimento generazionale. I concerti rock, se capitava. Ho rincorso qua e là Elio e le Storie tese. Anche se il mio preferito è Francesco De Gregori, così rigoroso e sentimentale allo stesso tempo. Ogni tanto metto su i Dire Straits, per risentire la chitarra di Mark Knopfler, i Supertramp di "Breakfast in America"...». Quanto a sport? Trova il tempo per praticarne qualcuno? «Gioco a tennis, ho una grandissima passione per il basket, faccio windsurf...». Non insista: secchione sotto tutti i profili. «Mica tanto. Mi piace cucinare, cucina mediterranea, ma non le imporrei mai una cena preparata da me. Perché anche in cucina e nello sport ciò che conta sono i risultati. Dopo l'istituzione della sede milanese dell'Industria abbiamo festeggiato sfidando a calcetto il Comune di Milano, squadra mista di assessori e consiglieri. Partita al Palalido, dignitosa sconfitta per 5 a 3». Una vita da mediano? «Con tutto il rispetto per Oriali e Ligabue, io sono milanista: una fede nella memoria di Rivera, nel culto di Van Basten, nell'ammirazione per Paolo Maldini. Il calcio non è la politica, e Forza Milan non è un partito di destra». In politica, invece, passaggi rapidi: vicesegretario del Ppi di Marini, in chiave ulivista. «E proprio qui comincia l'ultima avventura sportiva, il bob». Non mi dica, anche il bob. «È una metafora. Avrei potuto citare "Blade runner", il mio film preferito. In sostanza parte una corsa che non sono più in grado di frenare. Allorché Prodi cade, e io penso anche adesso che sia in negativo l'avvenimento cruciale della legislatura, D'Alema recupera all'ultimo giro tre ministri di area ulivista: Micheli, De Castro e il sottoscritto. Ma si tratta delle Politiche comunitarie, qualche cosa che rientra nelle mie competenze. Invece nel dicembre '99, con il D'Alema bis, quando D'Antoni rifiuta il ministero di Bersani, l'Industria la offrono a me. Provo a prendere tempo, ma a un certo punto l'unica resistenza sarebbe stata quella di non giurare. Il bob ormai è troppo lanciato». Che cosa fa un giovane bobbista schierato in una corsa più veloce di lui? «Si sente tremare le vene e i polsi. L'unica è arrotolarsi le maniche. I miei amici, Tantazzi, Onofri, Gobbo, mi danno una mano. Scambio idee con il garante dell'energia, Pippo Ranci, parlo appena posso con Mario Monti, che conoscevo bene perché circolava spesso all'Arel. Al Tesoro c'è Amato, un altro allievo della Scuola Sant'Anna di Pisa. Di grande aiuto è l'esperienza fatta all'Arel due anni prima, con ricerche sulle privatizzazioni del settore elettrico, del gas, dei servizi pubblici locali. Mi chiudo in casa, e a cavallo fra Natale e l'Epifania come un disperato». Fra cinque mesi il bob si ferma. Che cosa c'è dopo la fermata? «Non ho mai chiesto niente, le cose mi sono sempre cadute addosso. Una vita di corsa implica anche rinunce, solitudini, affetti trascurati. E poi, a questo punto c'è un problema che trascende ampiamente la mia persona, ed è la sorte del centrosinistra. Vede, io ho un vecchio rapporto con i Democratici americani. Ero alla convention del Madison Square Garden nel 1992, insieme con Veltroni e Parisi. Le mie ultime vacanze estive le ho fatte a Los Angeles, sempre alla convention dei Democratici. Dagli americani ho imparato che oggi non serve a nulla guardarsi indietro, per dimostrare quanto si è stati bravi. Bisogna puntare sul futuro, sui programmi, sugli obiettivi. Forse Rutelli lo ha capito, ma chissà se l'ha capito il centrosinistra. Se non lo capisce, perde. Pessima cosa per l'Italia attuale». E per lei? «Mal che vada, io ho sempre una tesi di dottorato da finire».
L'Espresso, 19/10/2000
Lui sì che è un italiano vero
In teoria ci sarebbe un abisso a separare il ragazzo di Cinecittà Eros Ramazzotti, classe 1963, figlio di un manovale, dal suo alter ego che è una star mondiale, sul palco veste Armani, spopola fra gli stucchi dorati del Radio City Music Hall di New York, entusiasma gli stadi di tutta l'America ispanica e percorre trionfalmente l'Europa a fianco di icone come Rod Steward, Elton John e Jimmy Page. Già, ma in pratica l'abisso è stato colmato. E allora l'ipotesi di fondo è che la globalizzazione non sia un processo a senso unico. Se il ragazzo "nato ai bordi di periferia" riesce a farsi realizzare un videoclip da Spike Lee e poi da Tornatore, a duettare con la sublime tardona Tina Turner e in ultimo con l'argentea diva Cher, significa che dalla borgata profonda si può giungere alla dimensione planetaria. Come poi ci si riesca è un altro conto. Perché Eros non è un interprete epocale, non è un sex symbol, non è un performer rivoluzionario. Tuttavia, sarà la musica accattivante, il piglio melodico moderno, qualche drittata molto emotiva con Andrea Bocelli, gli arrangiamenti internazionali, il marketing, la deriva latina, ed ecco che ti ritrovi il ragazzo pasoliniano dentro il circuito dello star system, con milioni di copie vendute e delirii di folla. Forse uno dei segreti è nella sua naturalezza, la stessa che si tratti di piazzarsi in garage una Ferrari, di mettere su uno studio di registrazione futuribile, di inscenare il matrimonio show con la bionda Michelle Hunziker, oppure di vivere assiduamente la carriera e il mestiere come se il pop fosse una vocazione all'incrocio fra l'industria globale, i concerti in Mondovisione e un artigianato certosino. A differenza di altri campioni nazionali, da Zucchero a Vasco Rossi, Eros non insegue il blues e nemmeno il rock: insegue un'idea della musica come intrattenimento, senza intellettualismi o suggestioni politiche, ravvivata da passioni molto sentimentali. Ciò che conta sono le emozioni, in una "fusion" di tradizione e di ultimo trend. Ne vengono fuori canzoni nostrane con un suono da multinazionale: proposte con tanta partecipazione da imporre l'Eros come un autentico italiano d'Italia, provincia del mondo.
L'Espresso, 12/10/2000
40enni alla carica!
Intanto, una premessa: se il futuro è dei quarantenni, se come dice il quarantenne Francesco Rutelli sono loro la nuova risorsa italiana, il senatore Di Pietro è fuori gioco, visto che i suoi cinquant'anni sono caduti il 2 ottobre. Quindi, out. Meglio così, perché la generazione nata fra il Giubileo del 1950 e il "miracolo" di fine decennio è un club del desencanto, di tipi che non hanno fatto in tempo a immaginarsi al potere nel Sessantotto, qualcuno si sentiva già fuori tempo nel Settantasette, molti hanno marcato visita rispetto alle grandi avanzate del Pci: figurarsi se potevano sentire il fascino dell'Italia country dei valori. Il valore primario, semmai, è una vocazione individualista, con le lealtà di bandiera surrogate da un certo senso del clan; e con il timore notturno che gerarchie ed élite abbiano bloccato il potere: davanti a loro, infatti, c'è la gerontocrazia italica, con i sessanta-settanta-ottantenni inschiodabili; ci sono la tigna tattica di D'Alema, le filiere accademiche di Giuliano Amato, le sperimentate facoltà equilibratrici di Antonio Maccanico e Andrea Manzella, le professionalità dei Visco e degli Spaventa, la felpa dei grands commis. All'ultimo minuto Quindi, provarci: forse è un last minute per una generazione intera. Anche se come generazione è un gruppo eterogeneo. In politica le foto sembrano meglio identificabili, a partire dal ticket familiare Rutelli-Palombelli: lui surfista delle tendenze politiche prevalenti, fino alla candidatura alla premiership. Irresistibile: come lei, l'ex reginetta di Montecitorio, ora confidente pubblica, chanteuse gozzaniana nella sua rubrica e nel suo sito, con una impareggiabile miscela di piccole cose e grandi incontri, navigatrice della Roma che si piace (in attesa dello sbarco fra gli over 40 della trentottenne Melandri, oltre che di Alfio Marchini). Primo fra gli altri quarantenni è naturalmente Walter Veltroni. Frenano i riduzionisti: al massimo, un talento per la mediaticità. E invece anche una insospettata capacità di manovra, prima a fianco di Prodi, e poi da solo, assistendo imperturbabile al tracollo del cinquantenne D'Alema, quindi intrigando fino a riuscire nella più improbabile delle soluzioni, cioè l'autoesclusione di Amato. Già pronto a distillare un progetto dalle essenze blairiane: un touch di socialità, il senso giddensiano della modernity mediato da un climi letterari alla Baricco&Tamaro, un venticello moraleggiante alla Michele Serra, un soffio partecipe della sua Africa (e pensare che Occhetto incassava ironie per il suo Pds "amazzonico"). Nel centrosinistra, le altre figure si possono dividere su due modelli. Il primo, di gran lunga in testa malgrado concorrenti come Pietro Folena o Enzo Bianco, è Pierluigi Bersani: il postcomunista più amato dagli industriali, il "doroteo rosso" secondo i nemici ma anche gli amici, il filosofo finito a mettere mano nelle infrastrutture, il cattolico (di famiglia) cresciuto nel pragmatismo socialista, furbizia piacentina e lessico in stile new wave, "dobbiamo fare ancora un paio di privatizzazioni, altre tre o quattro liberalizzazioni, e rock'n'roll", che nelle Feste dell'Unità viene inteso all'istante come un eccetera. Mentre l'altro modello è Livia Turco, romanticamente cattocomunista, catastroficamente battuta alle regionali in Piemonte da un altro quarantenne, il forzista Enzo Ghigo (una sorta di Bersani del Polo, l'ala duttile rispetto alle rigidità alla veneta di Galan). Più che un individuo, la Turco è l'autobiografia di un pezzo dell'ex Pci, cioè la solidarietà finita a misurarsi dolorosamente con il governo, dal che il dramma di dover mostrare fermezza nelle espulsioni mentre il credo personale sarebbe l'accoglienza tout court. E il problema (insignificante nel partito ma insidioso al ministero e al "Costanzo Show") di un lato estetico penalizzante, poi risolto con coraggiosi ritocchi del coiffeur, e consigli discreti delle amiche sottosegretarie che ogni tanto provano a trascinarla dalla Mariella Burani. A destra, vige lo stile Fini, ovvero il doppiopetto postfascista evoluto in colletti e cravatte abbinati sul precario, attacchi alla "Triplice", dipietrismo rimangiato, senso comune nazionalpopulista: con gli Storace e i Gasparri a rappresentare le pulsioni cattoliche di destra, anti Gay Pride, nonché slittamenti nel folk che non dispiacciono a Lady Daniela. E che rendono complicata la vita a Pierferdinando Casini, teorico e pratico del centrismo sulla tonalità Biancofiore, cioè pericolosamente rétro, e pure al coetaneo Marco Follini, che comunque è l'autore del più definitivo epicedio sulla Dc come partito-mamma. Eclettici in economia Tutto piuttosto facile, finché si resta in politica. Bipolarismo netto, identità definite. Invece la mappa del potere generazionale diventa più frastagliata non appena si entra in economia. Certo, c'è il presidente della Confindustria, l'eversore dal basso di Carlo Callieri, cioè Antonio D'Amato, che non perde occasione per aprire il manuale liberista, sostenuto dai piccoli imprenditori, dal Nordest di Nicola Tognana, in esplicita contrapposizione ai vecchi poteri targati Torino. E sul versante opposto la carriera fino alla presidenza dell'Enel di Chicco Testa, simbolo di una sinistra euforizzata dalla conquista del quartier generale, poi terrorizzata dall'idea di dovere sloggiare, infine rivitalizzata dall'ingresso in campo del vecchio compagno di strada Rutelli. Ma queste contrapposizioni sbiadiscono non appena entrano in scena i poliedrici, gli eclettici, i "nouveaux". Da che parte sta Diego Della Valle, con le sue folgorazioni di marketing, già pronto a scarpinare in borsa con le Tod's? E quale sarà il pensiero politico di Renato Soru, l'inventore di Tiscali, cattolico praticante e ospite nel gennaio scorso al congresso Ds del Lingotto, la new economy come religione, così indifferente all'old power che interrogato su Hdp risponde: ci sono ottime spremute d'arancia? Varrà la pena di informarsi sulle affiliazioni politiche del genovese bocconiano Alessandro Profumo, il deus ex machina di Unicredito, definito prodiano ma rivelatosi soprattutto per le sue fulminee campagne acquisti? No, meglio concentrarsi sul loro essere figure di snodo, personalità di rete, imprenditori, tecnici, manager che possono permettersi di esercitare la loro technicality con una prudente indifferenza rispetto alle parti politiche. E anche i consiglieri del principe cambiano: mentre D'Alema contava sull'abnegazione intellettuale di Nicola Rossi, che si era calato "totus tuus" a Palazzo Chigi, oggi una figura di riferimento potrebbe essere quella del torinese Domenico Siniscalco, editorialista del "Sole 24 ore", consigliere d'amministrazione Telecom per conto del Tesoro, direttore della fondazione Eni "Enrico Mattei" (parola d'ordine modernista, "sviluppo sostenibile"): attivo già nella squadra di Amato nel 1992, all'epoca della finanziaria monstre, poi connesso gli ambienti governativi, al Tesoro, a Palazzo Chigi. Uno che sfugge alle sigle, ma che incarna alla perfezione il consulente della post-politica: relazioni personali, amicizie, collaborazioni, ma niente vincoli esclusivi di appartenenza. Il segreto, insomma, consiste nell'essere nodi di una rete possibile. Come Ilvo Diamanti, il politologo vicentino che perlustra il territorio fra la politica e il tessuto industriale del Nordest, e che dovrebbe essere il primo analista che il romano Rutelli dovrebbe incontrare per non arretrare davanti alle vertigini nordiste. Quell'altra rete che tiene insieme buona parte dei quarantenni del giornalismo di tendenza italiano, da Giuliano Ferrara a Gad Lerner, con la partecipazione esterna di Enrico Mentana, la tessitura diplomatica di Lucia Annunziata, le punzecchiature di Gianni Riotta (mentre più isolato e istituzionale, anche se alla fine più stylé, è il modo in cui interpreta la sua direzione al "Corriere della sera" Ferruccio de Bortoli). Quarantenni, comunque, eccoli qua. Magari incerti su quale sarebbe il modello estetico: lo stile hard boiled di Marco Tardelli o il genere baby face di Giorgio Gori? La voracità di Luca Barbareschi o il sarcasmo di Vittorio Sgarbi? Il baudismo di Carlo Conti o il dinamismo di Paolo Bonolis? Tuttavia disponibili, pronti a giocarsela, come l'accortissimo Gori che giunto al bivio professionale ha scommesso la carriera a Canale 5 con il "Grande Fratello". O come Roberto Giovalli che ha fatto la sua acrobazia, dalla direzione della polista Italia 1 alla criptoulivista Tmc. Tutti con la percezione che la partita è cruciale. Perché se vince il sessantaquattrenne Berlusconi, lo spazio è occupato per tutti, anche per i colonnelli del Polo. Mentre se vince la banda Rutelli, per i versatili di centrosinistra è sicuramente l'occasione della vita; ma anche per i quarantenni del centrodestra c'è una inconfessabile prospettiva in più.
L'Espresso, 05/10/2000
Io, l’ultimo socialista
A passeggio per piazza Sordello a Mantova, un vecchio marxista può permettersi civetterie inattese: «Questa è una città ricca, ma non ricchissima. Non c'è un negozio di Ferragamo, al massimo c'è Emporio Armani». Sorpresa: la merce non è solo feticcio, e un materialismo eterodosso può fare i conti con l'economia della griffe. Eppure Eric J. Hobsbawm, 83 anni, un successo mondiale a metà degli anni Novanta con "Il secolo breve" rifiuta senza esitazioni l'etichetta dell'eterodossia. E insiste e scandisce: «Per me il pensiero di Marx è stato una guida nella ricerca, perché stabilisce un punto di vista e un ordine di priorità nello studio dei fenomeni storici. Sarebbe miope cercare di inquadrare la vicenda della seconda metà del Novecento, che so, attraverso l'analisi delle strutture familiari». E allora, tutto il diluvio di approcci sociologici? La storia anonima, la storia sociale, la storia delle mentalità? «Benissimo, ma il marxismo possiede un vantaggio implicito: riconosce la multidimensionalità della vita umana. Mentre fissa una gerarchia, si rivela duttile, articolato, complesso». Sta' a vedere che potrebbe esserci un futuro, per il socialismo, a dispetto dell'egemonia del pensiero unico: anche nella conclusione del "Secolo breve", Hobsbawm scriveva che il compito centrale all'alba del nuovo millennio non è di esultare davanti al cadavere del comunismo sovietico, ma di aggredire i difetti intrinseci del capitalismo. Che cosa implica all'atto pratico, un lavorio critico dall'interno o una suggestione romantica di superamento del sistema di mercato? «Nessun romanticismo. Dobbiamo considerare che l'idea, sacrosanta, del cambiamento della società è stata alterata dal conflitto ideologico. Abbiamo attraversato un secolo di guerre di religione laiche, se è lecita questa espressione, che hanno deformato le interpretazioni. Bisogna tornare alla radice del problema, senza preconcetti». Però non vorrà negare che il confronto tra sistemi c'è stato, c'è stato il conflitto geopolitico, c'è stata la guerra fredda. «Sono stati plasmati due modelli contrapposti, l'economia socialista e l'economia di mercato, ma il capitalismo non era e non è un blocco unico. L'Austria liberaldemocratica era un paese più statalizzato dell'Ungheria comunista. La separazione era tutta politica. Adesso la cortina di ferro è caduta, ma proprio perciò la combinazione di Stato e mercato si può riconoscere più facilmente. Sottolineo la varietà dei capitalismi per uscire dal fondamentalismo teologico del mercato puro, dal dogma della mano invisibile: in realtà c'è sempre una combinazione di elementi. Sicuramente non avremo più economia senza mercato. Ma neanche mercato senza politica. La possibilità dell'azione politica si esplica proprio sul crinale fra l'economia di mercato e l'azione pubblica». Vuol dire che potrebbe tornare un revival socialista? Curioso, anche François Furet, dopo avere sottoposto ad autopsia l'idea comunista, concludeva "Il passato di un'illusione" scrivendo che la democrazia, con la sua sola esistenza, «fabbrica il bisogno di un mondo che venga dopo la borghesia e il capitale». Non sarà che il revisionismo più radicale conduce di nuovo dalle parti dell'utopia? «Furet era un grande ideologo, ma anche uno storico eccellente. Noi possiamo constatare facilmente che la maggioranza dell'umanità non decide, bensì subisce le decisioni. Senza un'utopia concreta, senza il "principio speranza" di Ernst Bloch, rimane solo un orizzonte di incertezza. Nell'Ottocento e nel Novecento, attraverso gli ideali politici si creava anche la fiducia nello strumento politico, in un'organizzazione capace di approssimare l'ideale». Ma sono gli unici a promuovere il cambiamento. Non sarà che il tramonto delle visioni rivoluzionarie ha svuotato anche i partiti di ispirazione cristiana e liberale? Di più, che anche le socialdemocrazie abbiano perso spessore, dal momento che la loro forza consisteva in una risposta riformatrice alla sfida comunista? «Proprio così. Dietro il vecchio ideale del liberalismo, nell'Inghilterra dell'Ottocento, c'era un ideale di fratellanza tra i popoli e di pace universale fra le nazioni. Oggi, la visione del liberismo fondamentalista non ha dietro di sé una vera utopia. La felicità come sottoprodotto della crescita economica non può mobilitare le coscienze». E allora "what is left", che cosa rimane, e che cosa rimane a sinistra: la Terza via di Tony Blair e del suo guru Anthony Giddens? «La Terza via è solo un concetto topografico. Un tenue alone di sinistra permane, poiché i blairiani hanno coscienza che non c'è solo il capitale e la crescita, e che i problemi sociali rimangono. Ma la Terza via non è una politica». Ciò nonostante un realista si chiede se sia meglio vincere le elezioni con Blair o perderle con manifesti di purezza ideologica. «Meglio attrezzarsi per vincerle con una politica coerente. Da subito il programma del New Labour si è concentrato su un solo punto: la rielezione». Un'ambizione naturale e legittima per qualsiasi partito: anzi, a suo modo una legge della politica. «Certo, tutti i poteri tendono a diventare permanenti, e la struttura democratica si preoccupa di rendere questa ambizione impraticabile. Ma i grandi governi riformatori, quelli che hanno inciso davvero sulla società, hanno avuto un progetto, lo hanno realizzato, e quando sono caduti il progetto non è morto. I laburisti di Clement Attlee, nei due anni dopo il 1945, hanno gettato le basi della vita nazionale per quarant'anni». Venne definito un programma "ciclopico" di nazionalizzazioni e di servizi sociali. Qualcosa che adesso verrebbe giudicato un incubo statalista. Ci sarebbe da chiedersi oltretutto se lo schema dell'impatto dei governi sulle strutture sociali vale anche per la contro-riforma di Margaret Thatcher. Come risposta, un sogghigno: «Il problema della Thatcher è che il suo progetto è riuscito in modo eccessivo». Eh sì, la Lady di ferro che diceva: «Quella cosa chiamata società non esiste». Una tesi socio-politica rivelatasi profezia, dato che la dimensione collettiva sembra evaporata dalla vita pubblica. Mentre le principali esperienze politiche del Novecento ponevano l'accento sulla politica di massa, oggi prevale un modello comportamentale tutto basato sull'individualismo. «Il tema cruciale dell'età contemporanea è che dietro la superficie dell'individualismo c'è la sostanza della società del consumo. Però così si rischia di sostituire al cittadino il cliente del supermercato. Questa è la distruzione della dimensione sociale dell'uomo. È vetero-socialismo sostenere che la disgregazione dei sistemi sociali crea incertezza e demoralizzazione? So bene che il miglioramento economico è stato straordinario: l'Italia è irriconoscibile per chi la ricorda com'era negli anni Cinquanta. Ma tutto ciò ha corroso i legami sociali. Abbiamo perso le vecchie carte per navigare, e non sappiamo dove andiamo». "Il secolo breve" si concludeva con un richiamo al ridisegno delle mappe, per non rischiare il buio. Nel suo ultimo libro Hobsbawm parla invece di gente «ai margini della storia»: si risentono gli inni del Primo maggio, ma anche il sound delle orchestre di Count Basie e di Duke Ellington, il sassofono di Sidney Bechet. Perché non c'è solo l'ideologia, nella storia non ci sono solo i testi sacri: c'è anche l'esperienza viva di ciò che è popolare. La scommessa è che il popolo esista ancora, anche se non lotta più: ci vuole la tenacia dello storico per immaginare un nuovo ciclo collettivo, sotto questi cieli. Insomma, l'ottimismo di un uomo che ha scavalcato il secolo breve, e non vuole restarne prigioniero: forse, dell'ultimo socialista.
L'Espresso, 28/09/2000
Vincere all’italiana
Un po' si capisce, l'improvviso entusiasmo nazionale per le vittorie italiane in Australia: ormai le pagine sportive sui quotidiani sono una boccata d'aria fresca. Notizie contro dichiarazioni, prestazioni effettive invece di programmi-promessa e sondaggi. A Sydney sembra realizzarsi il vecchio mito di Olimpia, con le gare che prendono il posto della guerra incivile sulle mogli e sui figli, o del dibattito sull'infinita traversata di Sergio D'Antoni. Tracce di familismo amorale permangono, se è vero che fra le medaglie di Massimiliano Rosolino qualcuno infila anche l'orgoglio napoletano del papà Salvatore proprietario di ristoranti, un raider che di australiane ne ha sposate due, e a cui si può attribuire una specie di ratto degli antipodi. O si può ammirare il calabro-novarese Domenico Fioravanti, prima medaglia d'oro italiana nel nuoto olimpico. Roba da inorgoglire Carlo Azeglio Ciampi, e anche il gaudioso ministro Giovanna Melandri: anche se sotto sotto l'ammirazione per l'uomo rana deriva soprattutto dal fatto che il pescatore di trote Fioravanti è uno di noi, che dice «il nuoto è una noia mortale» e che avrebbe cominciato ad allenarsi seriamente solo pochi mesi fa. Insomma, il dogma sarebbe: vincere è bello, ma vincere all'italiana è più bello. Il mio doping sono gli spaghetti, ha detto Fioravanti, e tutti hanno voluto capire che ciò che conta è una canagliata del talento, non l'applicazione ossessiva, non il martirio quotidiano: ci sono voluti 104 anni per salire alla fine sul gradino più alto del podio. E come c'è riuscito, con un metodo feroce? No, con la capacità tattica, con il dono aureo dello stile, con la suprema economicità della naturalezza (d'altronde, il tecnico del nuoto Alberto Castagnetti, silhouette panciuta e maniglioni ai fianchi, come farebbe a predicare sacrifici?). Ah, l'italianità: non si vince quasi mai in modo normale. Ci vuole il dramma, il fachirismo, la fatica disumana, la secchioneria riverita ipocritamente, l'estenuante giro in pullman di Prodi, la conoscenza dei dossier tipica di Amato. Oppure, la nonchalance del genio, la trovata del fancazzista che azzecca l'ultima interrogazione, il colpo al Superenalotto, la fulminea sintesi mediatica di Rutelli. Così, ci si ritrova ipnotizzati dalla televisione, a chiedersi se l'Italia è diventata un paese moderno anche grazie agli spadisti azzurri che rovesciano il risultato all'ultimo assalto (e i francesi che si incazzano) e che cosa significa invece la medaglia d'oro nel judo del napoletano Giuseppe Maddaloni, e quella di bronzo del "fucile di Dio", il ciellino o giù di lì Giovanni Pellielo, che dice «la coscienza del peccato dipende dal livello di santità che ha ciascuno», frase per cui occorrerebbe una glossa di Don Giussani o un referendum di Formigoni. Il piacere di trasformare in epopea l'infinita varietà umana nazionale è irresistibile. Italiano è l'eroismo, italianissima è l'improvvisazione. A guardare senza moralismi, si vede che alla fine non c'è uno schema "nazionale". Vincono i normali, gli estremi, i moderati, gli ossessi, i bravi ragazzi, le canaglie, i calmi, gli esagitati, quelli del Vangelo e quelli della playstation.
L'Espresso, 14/09/2000
PRODINO
Il partito del realismo osserva con sufficienza l'"autocandidato" Francesco Rutelli. La parola d'ordine è prendere tempo: lasciare che Giuliano Amato incassi gli effetti della finanziaria, che venga fuori il suo profilo di uomo di governo. A quel punto, dicono i realisti, Rutelli si sgonfia. Svanisce il mistero gaudioso della coppia Beautiful. Dopo avere invaso i media, il ticket dei Cicciobelli smette di bamboleggiare. Il sindaco di Roma e il suo consigliere non proprio occulto, Lady Barbara, si riveleranno una coppia di palloncini colorati per la sagra dei dilettanti: la politica è un'altra cosa. Ma il lancio di Rutelli non è solo "l'americanismo senza America" su cui ha ironizzato il gauchiste Cesare Salvi. Alle sue spalle c'è il network ulivista, e una cometa che si chiama Romano Prodi. Il verbo prodiano si confronta con Bruxelles, si misura con le analisi di Arturo Parisi, prende corpo nel circuito dei vecchi collaboratori del Professore, gioca di sponda con Walter Veltroni, lambisce tutti coloro che dall'"ottobre nero" del 1998 si sentono vedovi dell'Ulivo, viene elaborato dal pool di sindaci del Nord-est coordinato dal primo cittadino di Venezia, Paolo Costa. Per capire qualcosa in più della Rutelleide occorre auscultare il network. Ecco che cosa si capta. Ed ecco perché il sindaco di Roma sarebbe la buona novella. Innanzitutto, lo schema Rutelli ha una storia. Gli apostoli dell'Ulivo si incontrano a fine giugno a Camaldoli, al seminario della rivista dehoniana "Il Regno". Ci sono Prodi, Abete, Castagnetti, Enrico Letta. C'è Giovanni Bazoli, ultima e inconclusa invenzione politica dell'uomo che con un gioco di prestigio lanciò Prodi, cioè Nino Andreatta. E c'è Rutelli. Nasce lì l'idea meravigliosa? Niente verbali, nessuna conferma sulla trama. Però si ragiona, si discute, si fanno ipotesi. Sta di fatto che, due mesi dopo, l'ingresso in campo di Rutelli viene accolto con sorrisi di soddisfazione stampati sul viso. Anche se Giuliano Amato giura immediatamente di essere amico di Prodi da trent'anni, il network comincia a fare i conti sulla possibilità che Francesco diventi davvero il Prodino. Le domande che si incrociano fra Prodi e i prodiani sono cruciali: Rutelli è in grado di rimobilitare gli ottantamila attivisti dispersi dei Comitati per l'Ulivo? È capace di guadagnarsi quella credibilità, nell'economia e nell'università, che era l'atout del Professore? E a parte il successo di Tor Vergata, riuscirà a riprendersi il consenso cattolico di base che aveva fatto da "valore aggiunto" all'Ulivo? Le risposte del network prodiano aprono spiragli, a partire dai numeri. La premessa è che Berlusconi vede lievitare i sondaggi perché non ha un competitore. Il 36 per cento vantato da Forza Italia è il prodotto di un vuoto. Quindi non è troppo tardi per costruire un candidato. Nelle analisi di Parisi c'erano due possibilità di ripartenza: o un accordo politico contrattato fra gli otto partiti del centro-sinistra, oppure una ricomposizione dell'alleanza attraverso la scelta della leadership, per varare quel "nuovo inizio" di cui parla Rutelli (e che tanto dispiace ad Amato). Quanto al circuito cattolico, il sindaco di Roma deve lavorare molto, perché ha buoni rapporti con il volontariato, ma poco altro. In compenso, per ciò che riguarda la gerarchia le preoccupazioni sono minori, perché Ruini e Sodano staranno attenti a non sbilanciarsi (semmai, lo faranno solo con un'operazione "last minute"). Nello scenario dei prodiani, la candidatura di Rutelli avrà serie conseguenze sui partiti del centro-sinistra. I Ds friggono, perché la loro leadership è divisa fra uno "sconfitto forte", D'Alema, e un "vincitore debole", Veltroni (anche il ds Michele Salvati lo scrive in un articolo in bozze per la rivista "Reset": «Nei Ds ci sono due strategie senza leader, la sinistra e i "liberal"; e ci sono due leader senza strategie, D'Alema e Veltroni»). Ma Veltroni verrebbe rafforzato dalla scelta di Rutelli; e Baffino non può rischiare: se appoggia un Amato perdente, esce dal gioco. Inoltre, se Rutelli sfonda si registrerà un riassestamento generale del puzzle ds: anche Veltroni lascia capire che l'attrazione di un leader vincente, dopo la paranoia dello sconfittismo, investirà perfino amatiani indiscussi come Bersani, Fassino, Melandri. I popolari non hanno troppe scelte: Castagnetti ha tentato una sua onesta resistenzina, chiedendo a Parisi di qualificare Rutelli come leader del centro e ricevendone il solito rifiuto, mentre anche gli esponenti più legati all'identità di partito, Mattarella, Franceschini, Soro, sembrano essersi convinti: «Rutelli è l'unico che dà l'idea che si riparte». Franco Marini, che conserva una presa sui settori importanti del Ppi, quelli che portano voti, pare possibilista. Quanto ai disegni di Sergio D'Antoni, la diagnosi dei prodiani è infausta: «Ha perso il giro». Serpeggia ottimismo, nei vecchi ulivisti, malgrado "l'accelerazione pericolosa" della loro candidatura-creatura. Amato si può mettere di traverso? Non è detto. Nelle conversazioni con Bruxelles si scommette sulla praticabilità di uno scambio onorevole: candidatura a Cicciobello contro mano libera a Giuliano per realizzare un finale di governo pirotecnico e passare di nuovo alla storia, come nel '92. Basterà? Amato è un realista anche lui e sa controllare la propria irritazione. Ha già ammesso: «Non si può andare in battaglia subendo il generale». Ergo, giocherà le sue carte ma senza barricate. Il network gli apre implicitamente la via dei grandi incarichi internazionali. Senza trascurare che la sua figura di tecnico-politico risulterebbe preziosa in caso di risultato elettorale in pareggio. Insomma, alla "convention degli eletti" reclamizzata da Veltroni si deve arrivare a giochi fatti. E solo a quel punto, a incoronazione avvenuta, Prodi potrà uscire dal suo riserbo europeo, contemplare Cicciobello e annunciare al mondo: «Questo è il mio figlio prediletto, e in lui mi sono riconosciuto».
L'Espresso, 07/09/2000
La resa dei conti
Approdato domenica scorsa alla Festa dell'Unità di Gallipoli dopo avere risalito di bolina le 27 miglia di mare da Leuca al suo collegio elettorale, Massimo D'Alema ispirava pensieri maliziosi sulla sua nuova carriera di pirata della politica: vita di corsa, alla ricerca di nuove prede, di altri tesori, di ulteriori capitani coraggiosi. Invece il comandante dell'Ikarus ha morso il freno, e dopo avere diagnosticato che il problema non è la forza di Berlusconi ma la debolezza del centro-sinistra si è concesso solo un sovrano: «Non voglio iscrivermi all'accademia dei rancorosi». Niente destino occhettiano, per Baffino. Ma se è vero che i grandi sommovimenti politici, come i terremoti, sono annunciati da modeste anomalie sismografiche, l'indizio di quale sarà il prossimo evento tellurico lo ha dato il suo ex portavoce, Fabrizio Rondolino: il quale in un'intervista a Claudio Sabelli Fioretti su "Sette" si è prodotto in un autodafé distruttivo. La sua insolenza incendiaria ha incenerito un intero catalogo di care memorie: Veltroni, «un uomo di potere e basta», la sinistra italiana, «un ente inutile», Folena, Mussi, e gli attuali collaboratori di D'Alema, un corteo di mediocrità. Quanto a Giuliano Amato, un giudizio inappellabile: «Un vero voltagabbana». Il centro-sinistra si prepari. La sua sorte si chiama resa dei conti. Potrà avvenire a sconfitta elettorale maturata, allorché il sorriso letale di Berlusconi darà la stura a un vortice di recriminazioni e di ambizioni deluse. Ma la resa dei conti potrebbe anche verificarsi prima, con una guerra non dichiarata di tutti contro tutti. E con il rischio che il centro-sinistra attuale, che aveva ricevuto il battesimo della furbizia con l'operazione D'Alema-Cossiga, finisca i suoi giorni ricevendo l'estrema unzione dell'indecenza. Il primo livello della faida riguarda naturalmente il duello per la candidatura fra Giuliano Amato e Francesco Rutelli. Il bizantinismo del "patto" di non belligeranza fra i due non riesce a nascondere che la tregua, posticcia e a termine, è stata siglata in assenza del convitato Di Pietro. Perché il sindaco di Roma ha una possibilità teorica di ricucire con l'ex magistrato; il capo del governo, nemmeno quella. Inoltre Rutelli può mettere sul mercato il successo incassato con la settimana dei papa-boys, e sventolare sondaggi che lo darebbero come l'unico in grado di lottare alla pari con Berlusconi. Dal canto suo, Amato ha due carte da spendere, una pregiata e l'altra leggerissima. La carta buona è la legge finanziaria, con la quale può cercare di spendere in chiave elettorale il dividendo del risanamento dei conti pubblici. La briscolina virtuale è la spinta a una legge elettorale proporzionale, che gli consentirebbe di riaprire una "entente" con Fausto Bertinotti (oltre che di movimentare una parte dei 150 seggi del Nord che con il Mattarellum sarebbero ingoiati dalla Casa delle libertà, con relativa ecatombe di candidati martiri). «Competition is competition», aveva detto Romano Prodi lanciando l'Asinello contro D'Alema. Ma la "competition" fra Amato e Rutelli può avere effetti da incubo all'interno della coalizione. Perché nel loro confronto si rispecchia l'ormai tradizionale irriducibilità fra la concezione ulivista e quella realista di un'alleanza contrattuale fra Ds e centristi. Fra il partito di Veltroni e gli orfani di D'Alema. Fra l'imprimatur sindacale di Cofferati e le frange liberalizzatrici. La scelta rappresenta insomma un passaggio cruciale, tale da lasciare inferocite le fazioni. Tutte già pronte a fare la fronda. E nella prospettiva di una batosta, a scatenare la vendetta. Va da sé che la postazione più fragile dello schieramento è occupata da Pierluigi Castagnetti. Per il segretario dei Popolari si preparano giorni inquieti: se acquista realtà la profezia di Berlusconi secondo cui il Ppi è sulle soglie della sparizione, Castagnetti è atteso al varco non solo dagli ultrà centristi come Ortensio Zecchino, ma anche dalle truppe marsicane di Franco Marini, e dall'ombra di Sergio D'Antoni, mentre il padre nobile Ciriaco De Mita ha già steso il suo epitaffio: «Castagnetti non mi ha deluso per il semplice fatto che non lo votai». Ma nemmeno fra i Ds c'è bonaccia: mentre D'Alema corsareggia con l'aria di chi naviga in mari superiori, e continua a pensare, per il post-catastrofe, al suo "partito personale", si approssima il giorno dei lunghi coltelli in cui Walter Veltroni si troverà schierati contro i supporter ministeriali di Amato (i super-governativi Bersani e Fassino), oppure viceversa i cultori frustrati della "gauche plurielle" come il jospiniano Cesare Salvi e tutta la sinistra interna Ds, incluso Antonio Bassolino inutilmente candidato proprio da Salvi. L'accademia dei rancorosi citata da D'Alema si preoccuperà poi, al momento buono, di presentare il conto ad Arturo Parisi, reo di avere pubblicizzato la scarsa popolarità di Amato rispetto a Rutelli (in caso contrario, il conto a Enrico Boselli, rimasto l'unico a considerare l'attuale premier come uno specchietto socialista, lo presenteranno revanscisticamente i socialisti apparentati con il centro-destra, Martelli, De Michelis e Bobo Craxi). Implacabile, la logica della ritorsione. Ma anche prevedibile in uno schieramento che non ha regole istituzionali per la selezione delle leadership, e che quindi rimane incastrato dentro automatismi oligarchici. Ah, com'è lontana l'America delle contrapposizioni politiche e personali brucianti, risolte dalla catarsi delle primarie. Già, proprio le primarie, con la mobilitazione di leader e di elettorati, di protagonisti e di comprimari. Strano che questa extrema ratio sia evaporata. Perché non c'è tempo, certo, non c'è modo, non c'è metodo, non è aria, e ciò che è reale è razionale. E quindi, per il popolo del centro-sinistra, se il centro-sinistra ha ancora un popolo, non resta che prepararsi ad assistere allo spettacolo delle vendette.
L'Espresso, 24/08/2000
I bugiardi? Governo, giornali e …
Chissà, adesso che con il burattino nasuto ci si mette anche Roberto Benigni, ci sarà da porsi domande di una certa profondità sull'attrazione esercitata da Pinocchio per gli italiani. Tanto per chiarire, restando nei dintorni di Benigni, meglio il vecchio "sventrapapere" o il naso telemetrico del burattino di legno? Il simbolo fallico lasciamolo evidentemente al Bignami del freudismo. Invece, l'attrazione per la bugia, per la menzogna, per la dissimulazione, quella sì, sembra del tutto irresistibile per la platea nazionale. Un po' singolare, questa attrazione, perché in sé il libro di Collodi è un racconto micidiale, fatto apposta per atterrire grandi e piccini. Altro che pinocchierie sociologizzanti per Gadmaniaci, secondo le inclinazioni del neodirettore del Tg1 Lerner. Quando appare la Bambina o Fatina o Sorellina o Mammina dai capelli turchini, e dice: «In questa casa non c'è nessuno. Sono tutti morti... Sono morta anch'io», un brivido di puro orrore promana dalla pagina. Qualcuno per reazione si chiede se la buona Fatina non sia sotto sotto una scema teenager post-punk: e in quel caso dovrebbe mostrare il piercing sulla lingua, e cantare "Vamos a bailar" di Paola e Chiara. A pagine chiuse, di tutti i personaggi si salva solo Pinocchio, proprio perché è genuinamente irresponsabile, sa resistere a tutto fuorché a tentazioni, tira sempre a fregare Geppetto, svende l'abbecedario, e soprattutto sventola le sue bugie: colossali, sonore, ingenue, subito scoperte e punite. Pinocchioni, pinocchietti, bugiardi, bugiardoni e sbugiardati d'Italia non possono quindi negarsi all'identificazione solidale con il loro fratello archetipico. Attraverso Pinocchio si svela un'antropologia. Quella del paese in cui l'informazione viene considerata una fabbrica di panzane, e quanto al Governo vige lo schema secondo cui fatto l'inganno, trovata la legge, come dice il ministro Cardinale. Quella dei concorsi taroccati. Quella di Alex Del Piero, cocco di mamma Juve e studente del Cepu a Urbino. Quella semidimenticata di Tangentopoli e di Mani pulite, ai tempi in cui i sospettati facevano la fila davanti agli uffici del pool per liberarsi la coscienza con la stessa piangente voluttà esibita dal burattino quando viene scoperto (dalla Fatina turchina o da Ilda la Rossa) in menzogna flagrante. Ma anche l'antropologia di Antonio Di Pietro, eccessivamente attratto dai Balocchi (e comunque finito candidato al Mugello, forse non lontano dalle botteghe dei Mastro Ciliegia e dei Mastro Geppetto). Mentono tutti tenacemente, i professionisti della dissimulazione che affollano l'Italia politica. Mettiamo pure agli atti Giulio Andreotti, che delle avventure collodiane è una specie di sintesi suprema, perché è insieme il burattino e il burattinaio, il Gatto e la Volpe, la Lumaca («le lumache non hanno mai fretta», nel senso del tutto s'aggiusta), e anche un esperto coltivatore del Campo dei miracoli, nel quale a seminare cinque monete ne crescerebbero duemila (preveggente allegoria dell'uso del debito pubblico durante gli anni Ottanta; oppure anticipazione dei capital gain nella new economy). Ma non fa specie, oggi, trovare Paolo Cirino Pomicino, alias Geronimo, nei panni del Grillo-parlante? A nessuno verrà l'uzzolo di dar mano al martello di legno e di stecchirlo sulla parete? Per la verità, era già tutto scritto. In un paese che fa di tutto per assomigliare alla pinocchiesca città "Acchiappa-citrulli", non fa specie che alla fine, dopo la scoperta del più colossale intreccio di corruzione politico-economica che sia emerso nei paesi avanzati, siano finiti alla sbarra proprio gli inquirenti: d'altronde, a Pinocchio era già successo di vedersi derubato delle sue monete d'oro, di denunciare il furto e di ritrovarsi condannato alla prigione da un giudice che la sapeva lunga (e che perciò si staglia nella letteratura nazionale di fianco a quell'altro simbolo nazionale che è l'Azzeccagarbugli). Poi, le equivalenze sarebbero abbastanza automatiche. Quel Mangiafoco chi sarebbe se non Luciano Pavarotti, con quella «barbaccia nera» e il «vocione d'orco gravemente infreddato in testa?». Pavarotti ha anche il vantaggio supplementare che unisce la stazza di Mangiafoco e l'inclinazione all'insincerità di Pinocchio: riscattata dal pentimento e dal versamento degli zecchini d'oro nelle mani di Mastro Ottaviano. Tuttavia la barbaccia ce l'avrebbe anche Andrea Bocelli, invischiato nel fisco pure lui, e quindi il melodramma si complica. Il dilemma su chi sia oggi la Balena è risolto dal fatto che secondo il testo collodiano trattavasi di Pescecane, pesce contro mammifero, senza nessun riferimento alla Dc. Ma a sua volta l'Osteria del Gambero Rosso sarà un tempio dello slow food o una fregatura neo-nouvelle-new-cuisine dove con una qualche supponenza daranno al cliente (come danno in effetti a Pinocchio) «uno spicchio di noce e un cantuccino di pane»? Quindi è meglio limitarsi a identificare i bugiardi senza farsi ingannare dalle parole, ma osservando i tratti fisiognomici, mettendo a fuoco ogni possibile sintomo della crescita nasale. Silvio Berlusconi è il candidato principale allo sbugiardamento, ma a leggere bene, il Cavaliere per quanto pinocchiesco nel profilo, non è Pinocchio: «È il conduttore del carro?», si chiede infatti Collodi accingendosi a descrivere colui che trasferisce i ragazzi nel Paese dei Balocchi: «Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole...». È lui o non è lui? Ma certo che è lui: la larghezza è l'effetto Caraceni, il sorriso prestampato è risolutivo, all'Omino manca solo il suo libro "L'Italia che ho in mente". E di fronte a lui, a questa identificazione perfetta, svaniscono lentamente nell'ombra gli altri Pinocchi della politica nazionale: Francesco Cossiga, sì, ha guizzi pinocchieschi, propensioni allo scherzo da prete, ma in fondo prevale l'inclinazione a diventare il bravo ragazzo-chierichetto tutto dottrina sociale della chiesa. Walter Veltroni, assomiglia al Pinocchio studioso, il burattino che ogni tanto fa il secchione e a scuola ce la mette tutta. Gianfranco Fini è uno che ha tentato il salto acrobatico da Lucignolo direttamente al ragazzo per bene, così come ha fatto D'Alema, da vecchio bolscevico, figlio di un dio minore, direttamente a capo del Gran Teatro dei Burattini. Ci sarà chi vedrà ascendenze gattovolpesche nella coppia La Loggia-Pisanu. Talvolta, di notte, si sente dentro la tv il cri-cri-cri di Giulio Tremonti. Eppure il personaggio più collodiano sarebbe sicuramente Umberto Bossi, perché anche lui è una sintesi di Lucignolo, di Pinocchio, dei ragazzi inciuchiti dai Balocchi, e che potrebbe tentare l'impresa di trasformarsi, con un rito celtico a rovescio, da ottimo ragazzo beat in pessimo burattino di legno. Ma il dibattito, per ora, investe più che altri il ticket del centro-sinistra, cioè la Volpe e il Gatto, Giuliano Amato e Francesco Rutelli, il dottor Sottile e il Mammone giubilare. Decideranno i sondaggi, dice l'asinello Arturo Parisi, pericolosamente prossimo a diventare pelle di tamburo. Come il Tonno collodiano, alla sua coalizione depressa Amato dovrebbe rispondere: «Quando si nasce tonni, c'è più dignità a morire sott'acqua che sott'olio». Ma l'indicatore più preciso, credete a Collodi, sarà la chioma di Barbara Palombelli: se apparirà una sfumatura turchina, cominciate a pensare che l'azzurro d'Italia potrebbe non essere solo quello del partito-azienda di Berlusconi, o dell'azienda-partito di Colaninno, ma quello del partito-famiglia del Duo di Roma.
L'Espresso, 17/08/2000
Fatti mandare da Migliacci
Guarda le squinternate che strillano per i premiati Lùnapop con la distrazione smagata di quello che ne ha viste troppe per stupirsi. Osserva con curiosità professionale il premiato rocker di Correggio Luciano Ligabue, maestro cantore di Lele Oriali, e benevolmente scuote la testa: «Continua a voler vivere da mediano: ma è una star, e lo sa». È fine luglio e l'hanno chiamato ad Aulla, al premio Lunezia per i testi delle canzoni, a ricevere il riconoscimento alla carriera. Perché in Italia c'è sua maestà Mogol, e su un trono a fianco c'è Franco Migliacci, classe 1930, una vita per la musica leggera. Per le ultime schiere del pop il suo nome è un'eco della memoria, ma Migliacci svolazza effettivamente dalle parti delle leggende. Fin dal momento dell'ispirazione estrosa di "Volare". Impossibile non chiedergli qual è il segreto di un successo mondiale. «Sulle canzoni ho una teoria in tre punti. Primo: possono nascere dalla cronaca, dalla realtà, come "Pasqualino marajà", ma anche "Che sarà", cioè "Paese mio che stai sulla collina", che era l'immagine della nostra casa di Cortona, vista con gli occhi di chi se ne va; oppure "C'era un ragazzo" in cui insieme a Mauro Lusini ho scritto il mio risentimento per una guerra che rifiutavo». Ci vuole versatilità per spaziare dal Pasqualino innamorato della bella indiana Kalì alla guerra del Vietnam che stoppa i Beatles e i Rolling Stones. «Sa che mi sono emozionato quando D'Alema l'ha cantata in tv con Gianni Morandi?». Ma non dimentichiamo la teoria paroliera: «Punto secondo: certe canzoni sono il pensiero di ciò che vorremmo che fosse. Tutti i brani d'amore sono così, da "In ginocchio da te" di Morandi a "Ancora" di Edoardo De Crescenzo. Amore eterno, un desiderio frustrato ma che illude sempre». Infine: «Punto tre: ciò che potrebbe essere. Una realtà alternativa: se la ricorda "Tintarella di luna"?». E come no, una siderale invenzione d'autore: "Tin tin tin, raggi di luna", come se il chiarore notturno si sciogliesse in una pioggia di monetine. «Ecco, proprio così. Scritta in tre quarti d'ora, per Mina, perché Modugno non l'aveva voluta». Allora ricapitoliamo. Francesco "Franco" Migliacci, padre cortonese maresciallo maggiore nella Guardia di finanza, nato per caso a Mantova ma fiorentino a tutti gli effetti. Iscritto a ragioneria: «Perché nel dopoguerra servivano geometri e ragionieri. C'era da ricostruire il paese, e quindi ci volevano quelli che mettevano su le case e quelli che facevano i conti. Ma io avevo in testa lo spettacolo. Invece di studiare andavo a fare il teatro vernacolare. D'altronde, visto che anche Modugno era un ragioniere fallito, ci dev'essere di mezzo il destino». Sbucano sempre fuori i baffi di Modugno. Inevitabile. «Insomma, scappo da Firenze nel 1952, e mi presento a un concorso a Tirrenia, dove Gioacchino Forzano aveva riaperto gli stabilimenti chiusi per la guerra. Donne stupende, uomini magnifici, tutti che imitavano gli americani. Io, un niente. Roba da far cadere le braccia. E invece vinco. Particina in un film con Nino Taranto». Un sogno che comincia? «No, la produzione che fallisce». Sì, ma Modugno? «Mi danno una partecipazione in un film di Francesco De Robertis, "Carica eroica". A me tocca la parte di un attendente, toscano ovvìa. Il pugliese Modugno interpreta l'attendente siciliano, minchia. Il marketing di allora richiedeva le parti regionali». Nascita di un sodalizio. Un giorno Modugno lo invita a Fregene con due ragazze, ma poi lo scarica perché di ragazze ne è rimasta una sola (che sarebbe poi la futura moglie Franca Gandolfi). Migliacci per la delusione si scola una bottiglia di Chianti, e al risveglio rimane stregato da una riproduzione di Chagall sul muro, "Le Coq Rouge". Butta giù un incipit: «Di blu mi son vestito per intonarmi al cielo». L'idea sembra interessante, ma la metrica non sta nella musica. «Ci ho messo sei mesi per capire come si costruisce una canzone. Ma alla fine è venuta fuori "Nel blu dipinto di blu". Ammessa al Sanremo del 1958 con 99 voti su 100 della giuria selezionatrice. Un delirio, nell'Italia eccitata dal boom, con la gente in teatro che impazzisce, ride, piange. Ventidue milioni di copie vendute nel mondo dal solo Modugno. Ma la prima vera sostenitrice di "Volare" era stata Virna Lisi, in compagnia con noi. E la consacrazione venne da Massimo Mila, che disse: "Modugno non è una voce che canta: è un uomo che canta"». Eppure Mimmo voleva fare l'attore. «Andiamo anche in America: vicino a Los Angeles incontriamo Elvis Presley che ha inciso una nostra canzone, "Io". Quando gli stringo la mano, mi tremano le gambe. Un altro mondo: sul marciapiede si incontra Cary Grant, fuori dagli studios si vede Alfred Hitchcock che si porta dietro un cartoccio di sedani. Alla Paramount la faccia di Modugno piace, e gli dicono: "Resta qui, ti facciamo diventare un grande caratterista". E lui quasi si offende, perché si considerava il perfetto latin lover». Rottura con Modugno. «Per lui avevo scritto "Libero", "Selene", "Addio addio", con cui Mimmo rivinse a Sanremo in coppia con Claudio Villa nel 1962. Era istintivo, generoso, infiammabile. Aveva una sua cultura. Ci si trovava a piazza del Popolo e si discuteva per ore. Io, Pavese, Moravia, e Sartre, perché l'esistenzialismo, allora, era irresistibile. Lui Pavese, Sartre, il suo Sciascia. Personalità enorme, ingombrante. "Tintarella di luna" era rimasta nel cassetto due anni: quando la sentì dai Campioni, il gruppo che accompagnava Tony Dallara e che poi avrebbe avuto come chitarrista Lucio Battisti, cominciò a sfottermi: "Fai bene, dalle pure agli altri, le canzoni". Alla lunga, ho cercato una strada mia». Successi rotolanti con Gianni Meccia, "Il barattolo", e con una Milva piuttosto fatale, "Quattro vestiti". Finché un giorno non lo chiama Nanni Ricordi dalla Rca e gli dice: «Vieni qui, c'è qualcosa che devi ascoltare». Erano i provini di un ragazzino che imitava Adriano Celentano, ma con che passione. «Così decidiamo di vederlo. Siamo nel bar della Rca, e in controluce si vede arrivare il giovanissimo Gianni Morandi, una specie di bambino che dondola sulle ginocchia, le braccia lunghissime, le mani enormi. Decidiamo di provare a lanciarlo, solo che nessuno voleva scrivere per uno sconosciuto. Allora ho trovato una canzone di un emigrante, un tale che si faceva chiamare Tony Dori, e taglia e cuci abbiamo messo insieme con Mario Cantini, un funzionario della casa discografica, "Andavo a cento all'ora"». Sorpresa, 60 mila copie. «Avevo capito che in America avevano cominciato a puntare sul mercato degli adolescenti. Erano venuti fuori i cantanti per i giovani, Paul Anka, Neil Sedaka. E allora con Morandi, per battere il ferro, mettiamo subito in cantiere "Fatti mandare dalla mamma", che più generazionale non si poteva». E poi un diluvio: la "trilogia", orchestrata da Ennio Morricone, composta da "In ginocchio da te", "Non son degno di te", "Se non avessi più te". E anche qualche scarto verso l'impegno, con il Vietnam e "Un mondo d'amore": «Quando l'ha cantata Joan Baez all'isola di Wight, dopo "C'era un ragazzo", anche qui, quasi svengo per l'emozione». E vogliamo parlare di Rita Pavone, di "Come te non c'è nessuno" e "Che m'importa del mondo"? Di Fred Bongusto e di "Una rotonda sul mare"? Ma con Morandi c'era una sintonia particolare, testimoniata anche dal musical che Migliacci avrebbe scritto per lui, "Jacopone da Todi". Il fatto vero però è che in quel periodo Migliacci è il cacciatore di successi, il talent scout, quella figura professionale nuova che è il "produttore". Nada, i Ricchi e Poveri (proprio con l'inno nazionalpopolare "Che sarà" diffuso in tutto il mondo latino da José Feliciano), e soprattutto Patty Pravo: «"La bambola" fu proposta in successione ai Rokes, a Little Tony, alla Cinquetti. La madre di Gigliola inorridì: "Mia figlia non è una bambola!"». Scalata continua alla hit parade. «La crisi venne annunciata dal beat, poi approfondita dai cantautori. Rottura epocale: Morandi in fondo al tunnel, la Pavone oscurata. Eppure ci sarebbe stato spazio per tutti. Ho dato a Gianni la canzone del ritorno, "Uno su mille", che è diventata la sua sigla. Ho scritto una commedia musicale su Pinocchio per Enzo Cerusico. Ho fatto fare il primo disco a Renato Zero. Quando mi è venuta voglia, ho messo giù le parole di "Mazinga" e "Heidi". Se resiste la passionaccia, si può fare tutto. Di recente ho scritto con Morricone il "Cantico del Giubileo", eseguito da orchestra e coro dell'Accademia di Santa Cecilia, in cui con una certa incoscienza ho riassunto duemila anni di cristianesimo: "Venne Gesù e amore fu storia infinita". Anche i cardinali sono rimasti soddisfatti di questa sintesi». Cattolico, credente, osservante? «A modo mio». Politicamente? «Ho sempre simpatizzato a sinistra. Per noi Balilla il crollo del regime fu una delusione terribile, la fine degli ideali: ne occorrevano degli altri e mi sono affezionato a chi poteva offrirli. Ho conosciuto Gianni Rodari, a cui piaceva come disegnavo, che mi ha fatto fare un "piedino" sul "Pioniere", il Corrierino dei piccoli comunisti. Non cambio idea, anche se nel frattempo è cambiata la sinistra». Ci sarà stato pure qualche buco, nella sua storia professionale. «Io mi vanto di saper riconoscere un successo all'impronta. Ma all'inizio non avevo capito le potenzialità di Fred Bongusto: ho recuperato più tardi con "Una rotonda sul mare". Il fratello di Celentano, Alessandro, mi aveva segnalato Al Bano, e non ci ho creduto. Colpa mia. Eros Ramazzotti ha raccontato di essere stato scartato da me, ma io non ricordo di averlo mai visto, e lui non ha specificato i particolari di questo incontro». E il panorama attuale? «Mi piace sempre Vasco Rossi, fin da quando fece "Vita spericolata" a Sanremo nel 1983 e mi accorsi che respirava l'aria nuova. I fuoriclasse si vedono subito. Anche se ho puntato su qualcuno come Scialpi, che era bravo ma fragile. Seguo quelli che hanno ironia, Daniele Silvestri, Samuele Bersani. Se riascolto Paolo Conte mi commuovo». Nell'era dei Lùnapop si fa fatica a trovare un nuovo Modugno, un nuovo Morandi. Non è che anche il vecchio drago rischia di restare fuori dal giro? «Senta, alle spalle ho una carriera lunghissima. Ho scritto anche una canzone per Alberto Sordi: "Te cianno mai mannato a quer paese...". Se non hanno più bisogno di me, mi ci mandino. Al paese si sta bene. Sa, paese mio che stai sulla collina... Eccetera».
L'Espresso, 10/08/2000
Utopista e gentiluomo
Sarebbe uno degli eretici, degli estremisti, dei reazionari, degli inattuali dell'urbanistica italiana. Tutto in una sola persona. Un insidioso rompiscatole che quando parla delle città non trova di meglio che citare Ivan Illich e il problema dell'acqua, e poi il cardo e il decumano, e infine l'allineamento delle stelle che presiedono da lassù all'assetto urbano: eh sì, Pier Luigi Cervellati non è il tipo facile. Ha appena pubblicato un libro sottile e provocatorio, "L'arte di curare la città" (Il Mulino), che completa un trittico avviato con "La città post-industriale" e proseguito con "La città bella": tutti saggi ispirati a una visione in dichiarata controtendenza. Perché gli piace immensamente manifestare tutta la sua antipatia per le auto, i parcheggi, l'alta velocità, le innovazioni che peggiorano il male. Così, quelli che non lo amano lo considerano un antimoderno. In compenso qualcuno lo stima anche fuori dalla sinistra. Lui, l'autore di quel monumento "socialista" che fu il recupero del centro storico di Bologna la Rossa, è stato chiamato a realizzare il piano regolatore di Latina dal sindaco più di destra che ci sia in Italia, Ajmone Finestra. Che gli ha detto: «Professore, so che lei la pensa diversamente da me, ma so anche che non le piacciono gli affari torbidi. E allora sappia che io ho un solo nemico: la speculazione». Ma come può un "utopista" lavorare in un settore così delicato e sensibile a interessi tanto robusti? Nel suo studio bolognese in Strada Maggiore, in parte fondale di teatro e in parte paesaggio dechirichiano, di fronte a uno dei suoi diletti manichini a grandezza d'uomo, Cervellati apre il suo catalogo di malizie: «Non è detto che un'amministrazione di sinistra sia sinonimo di buona amministrazione». Sembra un messaggio rivolto a Giorgio Guazzaloca, l'eversore. «Malgrado la mia fama di idéologue, ho alle spalle il piano regolatore di Palermo e di Catania, città non esattamente facili. Bologna? Forse si è ritrovato il filo tra le parole e le cose, fra la teoria e la pratica. È una politica moderata? Mi sembra piuttosto la premessa di una politica più attenta alle esigenze civiche». Ma è difficile lavorare oggi con le amministrazioni pubbliche? «Non si riesce più a stendere i piani regolatori, perché i sindaci vogliono esercitare direttamente le loro scelte: è scomparso il dibattito, e l'elezione popolare accentua i rischi antidemocratici, il decisionismo personalistico, l'opacità dei rapporti oligarchici». Ma soprattutto, sostiene Cervellati, il problema di fondo è un passaggio di fase brutale. Scrive: «I luoghi sono diventati "non luoghi". Le città sono diventate "agglomerati"». Tradotto da un sociologismo apparentemente apocalittico, si tratta della fine dell'identità urbana: parcheggi, aeroporti, ipermercati, svincoli, autogrill, megadiscoteche riempiono ogni spazio vuoto, creando una periferia senza confini. E fuori dalle città trionfa "Villettopoli", la distesa infinita delle case unifamiliari, la città "a bassa densità", la conurbazione, il paesaggio invaso da una superfetazione babelica. Già, ma di chi è la colpa? «Troppo facile intentare processi ai cattivi maestri. Alle spalle c'è una storia culturale: abbiamo cominciato tardi a leggere Mumford, senza considerare che scriveva negli anni Trenta. Con vent'anni di ritardo, nei Cinquanta, si è pensato che il futuro fosse il suburbio. Bruno Zevi, con la sua capacità organizzativa e mediatica, ha fatto dell'architettura organica di Mumford il paradigma ufficiale. Con il risultato che abbiamo prodotto città pessime, malgrado il lavoro e gli sforzi intellettuali di uomini come Leonardo Benevolo, che resta un grande urbanista, o come Italo Insolera, che ha sempre cercato di integrare l'urbanistica in una cultura, con un forte senso critico verso la modernizzazione». Ma a suo avviso il vero cattivo maestro è stato soprattutto lo "sviluppismo": «Perché il paese è passato direttamente dal premoderno al postmoderno: non ha conosciuto la modernità, ma solo la modernizzazione. E lo sviluppo, espressione di grande indeterminatezza, è stato il cavallo di battaglia di ogni forma di speculazione edilizia. Le università sono ancora succube di questa visione, con le loro facoltà poco qualificate, e i loro troppi architetti, male preparati». Riecco lo studioso rétro, l'imputato di passatismo: «Quelli che mi accusano di arcaismo vogliono strade, spazi di espansione urbana, e per argomentare le loro accuse sostengono che con il recupero produrrei sostanzialmente falsi storici. Mentre bisogna capire che non ci può essere soltanto la spinta a innovare: per progettare una città occorre conoscerne la storia e saper conservare; e il restauro significa prima di tutto restituire la qualità a un luogo». L'idea di fondo è che non si può utilizzare una formula per una città di tre milioni di abitanti così come per una di 300 mila o di 30 mila. Per Cervellati ci vuole un'urbanistica non elitaria, popolare, capace di soluzioni specifiche. Altrimenti il modello è inevitabilmente quello delle grandi opere, il ponte sullo Stretto, gli appalti smisurati. «Fa piacere invece sapere che l'ultimo piano di New York ha bloccato il grattacielismo, e si è concentrato sulla riqualificazione urbana. C'è la globalizzazione? Benissimo. Ma allora occorre capire che nel mercato totale la competizione si può fare solo con la qualità, non con quelle cose che Pasolini chiamava omologazione e Arbasino omogeneizzazione». E allora, per uscire dalle colate di cemento, dal traffico, dalle soluzioni sempre uguali destinate a lasciare problemi sempre insoluti, che cosa si può fare? L'utopia non basta. «All'utopia non voglio rinunciare, perché è un metro di giudizio della realtà. Io sono affezionato all'idea della "città di città". Mi si è confermata visitando New York, Città del Messico, le megalopoli. Occorre decentrare, valorizzare i borghi, mantenere quelle entità urbane che si sono formate storicamente, sapendo che sono cresciute insieme al lavoro degli uomini, ai loro comportamenti, alle loro abitudini. Insisto sulla concezione della città "bella". Dove la bellezza è un'insieme di caratteri che non può essere eliminato o stravolto, pena una perdita collettiva». Mentre parla, Cervellati sfoglia il suo ultimo progetto bolognese: il recupero del gasometro, una struttura industriale degli anni Trenta vicina alla ferrovia. Erano cinque, i gasometri. In uno di essi, Cervellati ha disegnato una sala polifunzionale, una city hall da 1.200 posti. Nel più grande, che cade a pezzi da anni e che sembrava destinato a diventare un garage, ha progettato un museo della città. Alle pareti, su diversi livelli, tre "panorami" con la Bologna medievale, rinascimentale, moderna. E in cima, a 360 gradi, il panorama visibile e reale della città attuale. In un'esercitazione di archeologia industriale, una città ideale. Una città di città. Il passato confrontato con il presente. Forse, la traccia di un'utopia celata ma non cancellata dalla storia.
L'Espresso, 03/08/2000
Vamos a bailar compañeros
Inutile produrre teorie troppo sofisticate sui tormentoni canori estivi, su quelle canzoni che suonano come una condanna sonora. Al massimo si possono registrare mode, filoni, addensamenti del gusto, fissazioni del pensiero. Per dire: frollate debitamente le Spice Girls, cioè le squinzie british della globalizzazione, dimenticati gli Aqua e il pop infantilistico, adesso "va" tremendamente la Spagna, e tutto ciò che suona ispanico. Istruzioni per l'uso: la movida è alle spalle e non c'entra niente il successo planetario delle politiche liberal-popolari di José María Aznar. L'idea primigenia, da cui è stata partorita anche la portoricana del Bronx Jennifer Lopez, è nelle interpretazioni erotico-pop di Madonna, così materialmente attenta al mercato dei latinos, con le sue canzoni e i clip dove mischiava sincretisticamente isle bonite, sesso, crocefissi e sudori. Ma la lingua spagnola, almeno per gli italiani, deve avere un'attrazione particolare, una sonorità familiare, qualcosa di intrinsecamente irresistibile. El pueblo unido. Adelante. Un, dos, tres, allez, olé. Ci dev'essere anche l'imprinting remoto di "Cuando calienta el sol", che tutti gli italiani hanno cantato in coro e malmenato nei karaoke, attoniti di fronte a quelle strane parole che dicevano «es tu cara, es tu pelo» (o forse erano proprio quelle parole fraintese che facevano «mi cuerpo vibrar»). Così che nei primi anni Ottanta anche la versione postnucleare di "Cuando calienta el sol", ossia "Vamos a la playa", perpetrata dai falsi gemelli italo-punk Michael e Johnson Righeira, procurò una stagione di tormenti ineffabili, tenuto conto che questo inno da delirio dell'ultima canna parlava di similtragedie sfiorate dal "viento radioactivo" e lambite dall'"agua fluorescente", un'Hiroshima in versione dance (e in seguito: "No tengo dinero", quando la Spagna non era ancora così ruggente). Dieci anni più tardi un'altra coppia, gli 883 di Mauro Repetto e Max Pezzali, avrebbero movimentato l'immaginario e le famiglie con il cartoon di sub-eroi "Hanno ucciso l'uomo ragno", che vedi caso è stato inciso anche in spagnolo ("Han matado a l'hombre araña", in una «típica noche de perros del Bronx», e chissà dov'era Jennifer Lopez). Oppure sono affinità elettive e basta: loro hanno il giudice Garzón che la mette giù dura con Berluscón, noi avevamo avuto il cabarettista Pietro Campagna e il suo rap "Di Pietro let's go". Cosicché l'ultimo sbancatore di classifiche è il fragoroso Tonino Carotone, alias Antonio de la Cuesta, ex cantante di Kojón Prieto y los Huajalotes, che la stampa spagnola definisce talvolta con tipica moderazione hidalgica "el inmenso". Come sanno tutti, il suo hit si intitola "Me cago en el amor", che per la penisola ha una sonorità suggestiva, anche se dovrebbe significare all'incirca "chissenefrega dell'amore". Con l'aggiunta di un pizzico di intellettualismo, perché il trentenne Carotone, obiettore di coscienza, ex punk, tira robustamente al kitsch, ed è un compañero del ribelle Manu Chao, francese ma etnico-globale, con cui è anche stato in tv da Celentano. L'improntitudine del Carotone è smisurata e progettuale, visto che si ispira fin dallo pseudonimo a Renato Carosone, di cui ha citato "Tu vuò fa' l'americano", ma soprattutto che ama svisceratamente gli idoli italiani degli anni Sessanta, cioè Mina, il Molleggiato e Rita Pavone, e ha un'adorazione per l'ombelico della Carrà. Peccato per l'assenza del flautato Nico Fidenco, «ti voglio cullare, cullare...». Saremmo nell'età che gira intorno a "Sapore di sale" (con Paoli massacrato in un rifacimento antimilitarista proprio dal Carotone, «no soy terrorista, no soy pacifista») e a "Una rotonda sul mare" di Fred Bongusto, passa attraverso "Luglio" di Riccardo Del Turco e nel Sessantotto trova una specie di manifesto intimamente reazionario in "Ho scritto t'amo sulla sabbia" dei neoromantici Franco IV e Franco I («Una bambola come te, io l'ho sognata sempre»). Comunque, bei tempi spensierati almeno finché sulle labbra tue dolcissime c'era un profumo di salsedine, secondo l'ideologo delle estati spiaggiaiole Edoardo Vianello. Ma il grammelot italo-spagnolo di Carotone è solo l'episodio di un serial. In una colonna sonora affollata da la copa de la vida, la vida loca, da Ricky Martin e dal figlio d'arte Enrique Iglesias, non si può dimenticare il passaggio del tedesco di padre ugandese e madre siciliana Lou Bega, con quel "Mambo n. 5" che riesumava il favoloso Perez Prado degli anni Cinquanta. Mancava poco e si risentivano nell'aria le sinuosità di Don Marino Barreto jr., «Aaaaarrivederci», parodizzato allora apocalitticamente da Umberto Eco («Aaaaalienazione...»). E lasciamo pure perdere il succes-so stratosferico della Lambada e della Macarena, che fu ballata persino da Rosy Bindi e Gerry White. Dimentichiamo anche la colonna sonora del "Ciclone" di Pieraccioni, con le Estrada e le Forteza scatenate sulle chitarre di un gruppo veneto. Resta il fatto che di fronte alle esuberanze ispaniche, ultimamente gli italiani se la sono cavata così così. Il ragazzo Alex Britti ha riempito l'estate scorsa con "Mi piaci" (nella versione spagnola, naturalmente "Me gusta"). E vabbè. Con il "Supercafone" er Piotta ha fornito il programma della sua "robba coatta", ma ha immediatamente esaurito il repertorio. Sembrava che dovesse sfondare Michael Chacon con la tremenda Banana, unico frutto dell'amor, ma si è ammosciato forse per overdose pubblica. Gli ispanici restavano in agguato. Le premesse erano state poste dal trionfale "La Flaca" dei catalani Jarabe De Palo, riapparso nel 1999 dopo tre anni dall'uscita per sbancare con il suo travolgente romanticismo habanero. Inutile opporgli Niccolò Fabi e "Vento d'estate", tormentino ritmato tendenzialmente sfigato. Infatti i Jarabe De Palo, guidati dal giovane Pau Donés, hanno avuto un altro colpo di genio e hanno imposto la vera canzone programmatica dell'estate 2000, cioè "Depende": «Que el blanco sea blanco, y que el negro sea negro, que uno y uno sean dos... depende». Colori e aritmetica relativizzati con una strizzata d'occhio. Sarà velleitario tentare di attribuire ai tormentoni estivi la capacità di incollare come una carta moschicida frammenti dello Zeitgeist. Eppure, questo pensiero debole e ammiccante sembra appropriato in modo micidiale alla fragilità delle convinzioni attuali. Sei diventata nera o sei rimasta bianca? Siamo di destra o di sinistra? «Depende». In modo che, volendo, si può mettere insieme una visione, o una fusion, che comprende il subcomandante Marcos, Maradona, Sepúlveda e il novantatreenne Compai Segundo, e che occhieggia al trash italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, fino al Tuca Tuca compreso. Tanto, gli innovatori votano a destra, nel Messico e forse anche nell'Italia dei tormentoni. E contro la globalizzazione, contro il Grande Hermano neoliberale, si può organizzare una vocale e dispettosa "lucha" contro l'egemonia anglosassone, nel pop e nel mercato. Con canagliate, ghignate, trovate gaglioffe. Al confronto, gli Inti Illimani erano campioni di rigorismo politico. Adesso, c'è il giulivo "Vamos a bailar" di Paola e Chiara. Insomma, se il vostro slogan è ancora no pasarán: come sempre, ha dda passà l'estate.
L'Espresso, 20/07/2000
Che disgrazia essere sacra
Sarà il venticello di profezie, ma per qualcuno su Roma grava una maledizione. Si riassume in una formula, il "carattere sacro" della città eterna, sancito dall'articolo 1 del Concordato del 1929. Un'espressione equivoca, vuota giuridicamente e destinata a produrre grattacapi infiniti, anche dopo che il carattere "sacro" sarebbe stato declassato a "significato particolare" con la revisione concordataria del 1984. È questo il leitmotiv del saggio che Francesco Margiotta Broglio ha pubblicato nel sedicesimo annale della "Storia d'Italia" di Einaudi, "Roma, città del papa" (oltre 1.200 pagine curate da Luigi Fiorani e Adriano Prosperi). Il contributo di Margiotta Broglio, posto a conclusione del volume, si intitola "Dalla Conciliazione al Giubileo 2000". L'autore non è solo un analista, ma un protagonista delle vicende concordatarie: per diciotto anni, dal governo Spadolini in poi, è stato consulente di Palazzo Chigi per i rapporti con il Vaticano (con una sola interruzione, i sette mesi di Berlusconi, a cui rivolse un disincantato "non possumus"). Romano di razza, insegna diritto ecclesiastico a Firenze, è una singolare figura di laico che ha un paio di santi in genealogia, oltre a una processione di porpore. Dietro la sobrietà del titolo c'è una storia intera: quella dell'intricato rapporto fra la "civitas" cattolica e la capitale profana, fra la religione e la laicità, fra la Chiesa e lo Stato. Infatti il malaugurio comincia presto: alla vigilia della Conciliazione, il gesuita padre Tacchi Venturi si rivolse a Mussolini a nome del segretario di stato cardinal Gasparri, per segnalare che l'impudico "tabarin" si era preso una rivincita insidiosa, dato che in certi cinema di Roma, negli intervalli dei film, si esibivano sul palco donne discinte, "incentivo piuttosto che schermo alle impure brame della concupiscenza". È una curiosità d'epoca che torna ironicamente d'attualità dopo le iniziative vaticane contro il World Gay Pride e l'"epopea frocia" di Imma Battaglia e Vladimir Luxuria. Ma che il "carattere sacro" di Roma fosse una rogna da subito lo ebbe ben chiaro Mussolini: che difatti cercò ben presto di contrastare la primazia papale e di svaporare l'aroma di incenso sparso dal Concordato sulla città santa. Siglati i Patti lateranensi, e celebrati i matrimoni "concordatari" di Umberto di Savoia con Maria José e di Ciano con la primogenita del duce Edda, Mussolini si preoccupò soprattutto di ripristinare le fascistiche priorità: "Roma è sacra perché fu la capitale dell'impero". Anzi, il capo del regime cercò di consacrare altri luoghi come santuari del culto fascista: il Vittoriano diventa l'"Altare della patria", con il Milite Ignoto a rivaleggiare con la sacralità dei papi, mentre piazza Venezia, "cuore del fascio e della patria", entra in diretta e "oceanica" competizione con piazza san Pietro. Questa sorda lotta per il primato sarebbe durata a lungo, punteggiata ora dagli sdegni di Pio XI nel maggio 1938, in occasione della visita di Hitler, per avere visto "inalberare a Roma, il giorno della Santa Croce, l'insegna di un'altra croce che non è la Croce di Cristo", ora invece dal sostegno di padre Gemelli nel decennale della Conciliazione, che aveva celebrato il "ritorno alla tradizione e alla missione cattolica da parte dello Stato italiano". A fascismo caduto, il "carattere sacro" di Roma doveva proporre altre insidie. È vero che dopo la fuga a Pescara il papa resta l'unica autorità metropolitana, il "defensor civitatis"; ma nella città aperta gli alleati portano l'insidia dei loro protestantesimi, e la liberazione fa riemergere impulsi anticlericali, se è vero che il referendum del 2 giugno 1946 fu interpretato anche in chiave anticonfessionale. Nenni annotò nei "Diari": "Abbiamo fatto la Repubblica non solo contro il Quirinale, ma anche contro il Vaticano". In realtà, commenta Margiotta Broglio, "il Vaticano si mantenne fondamentalmente neutrale". Piuttosto, la preoccupazione della Santa Sede era la nuova Costituzione. Ma la Costituente trasferì nell'articolo 7 i Patti lateranensi, costituzionalizzando la grana del "carattere sacro". La sconfitta del Fronte popolare il 18 aprile 1948 fu un'altra grande rassicurazione. La cosiddetta scomunica ai comunisti completò il quadro: Roma era stata riconsacrata. Due milioni e mezzo di pellegrini accorsero per il giubileo del 1950, culminato con la proclamazione del dogma dell'assunzione della Madonna. Eppure questa Roma clericale non nascondeva un fondo di disincanto. Commenta Margiotta Broglio: «Chissà se la città è mai stata veramente cristiana. C'era una fede di facciata; e una religione che aveva funzionato come strumento di controllo sociale». Un paganesimo romanesco, un'indifferenza truccata dalle genuflessioni? Fatto sta che all'inizio degli anni Sessanta, quando "sulla città sacra sta per planare l'enorme cappello da prete di Anita Ekberg nella "Dolce vita" di Fellini", la Roma dei caffè e di via Veneto ha già assistito al primo striptease, quello della turca Aiché Nanà al "Rugantino", che infrange il divieto degli spettacoli lascivi, istituito in ossequio al "carattere sacro" (naturalmente, il locale venne chiuso). All'indomani dell'elezione di papa Roncalli, Giovanni Spadolini aveva auspicato un "Tevere più largo", fra la Roma papale e la Roma repubblicana. Ma più ancora della distinzione fra lo Stato italiano e la "teocrazia ierocratica" di cui aveva parlato il giurista Pietro Agostino D'Avack, era piuttosto la modernizzazione violenta della città che provvedeva a spegnere il brusio della sacralità. In una ricerca sulla religiosità dei romani, il gesuita Émile Pin aveva rilevato che le processioni erano state ormai espulse dal traffico automobilistico, mentre i trentasei mesi del Concilio erano scivolati via nell'indifferenza: del Vaticano II "i romani non hanno capito nulla; del resto non vi hanno partecipato che albergando e nutrendo i padri e il loro seguito". Malgrado questo "lento divorzio", l'anatema del "carattere sacro" aveva colpito ancora nel 1965, quando il prefetto vietò la rappresentazione del dramma di Rolf Hochhuth "Il Vicario", un'opera che riapriva il dilemma dei silenzi di Pio XII di fronte all'Olocausto. E di nuovo si fece sentire nel 1970, allorché la Santa Sede trasmise al governo italiano una nota secondo cui l'approvazione della legge Fortuna sul divorzio avrebbe vulnerato gravemente «una solenne convenzione internazionale». Erano già cominciati i lavori della commissione per la revisione del Concordato presieduta da Guido Gonella. Da sacro che era, il carattere di Roma veniva degradato a "particolare". Tuttavia la sconsacrazione di Roma sarebbe stata messa allo scoperto più vistosamente dal voto dei romani al referendum sul divorzio del 1974. Ricorda Margiotta Broglio: «In Italia, l'elettorato disse "no" all'abrogazione con il 59 per cento dei voti; a Roma, nella diocesi del papa, venne raggiunto un dirompente 68 per cento». Proprio alla vigilia del Giubileo del 1975, indetto da papa Montini dopo molte perplessità vaticane. Il tormento del "carattere sacro" avrebbe toccato un diapason drammatico nel 1981, con l'inaudita violenza dell'attentato di Ali Agca a Karol Wojtyla, alla persona del pontefice "sacra e inviolabile" secondo il Trattato del Laterano. Sarebbero poi occorse sette "bozze", dal 1976 al 1983, per arrivare alla revisione concordataria, conclusa nel 1984 sotto il governo Craxi. Prima il carattere sacro divenne "particolare", poi sbiadì nel "particolare significato" di Roma. «Ma è un significato», commenta Margiotta Broglio, «che non riguarda tutti, bensì solo la cattolicità: il legislatore lo dice con chiarezza». E tuttavia, il "carattere sacro" era destinato a colpire ancora. È vero che quando il cardinale Poletti promuove nel 1987 un'indagine sulla diocesi capitolina, Roma, come le altre metropoli italiane, è una città a-religiosa. Ma c'è Wojtyla, con il suo carisma. Si può parlare della rievangelizzazione di Roma come frontiera del papato di Giovanni Paolo II? Dice Margiotta Broglio, dopo avere messo in luce il ruolo di Wojtyla nel riportare Roma al ruolo di "caput mundi": "Se non è riuscito a ri-sacralizzare Roma, è certamente stato capace di ri-battezzare il Primo Maggio, con una messa rock per centomila persone, con seicento concelebranti e settanta cardinali nella piana di Tor Vergata". Al punto che dentro il sindacato si sono sentiti scippati. Storie di un "giubileo senza città", aperto dal papa «con qualche concessione (di troppo) felliniana nei paramenti in stile Missoni». In cui però, all'inizio del 2000, il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, chiede di impedire durante l'anno santo il World Gay Pride, nel nome della "città sacra, o città particolare, come si dice oggi", quasi che la formula integralista del '29 e quella relativizzatrice attuale fossero equiparabili. Il Tevere torna a farsi più stretto. Iscritto dal papa in un disegno mariano e provvidenziale, Ali Agca è stato graziato da Carlo Azeglio Ciampi, e ha ringraziato il potere vaticano: il segretario di Stato Sodano, il sostituto Giovan Battista Re e il cardinale Ratzinger. Piero Badaloni si è giocato la rielezione alla presidenza della Regione Lazio per i dissapori seguiti alla decisione del Consiglio regionale di accettare le unioni di fatto. La scadenza del Giubileo dei detenuti è diventato il fulcro della polemica politica fra Polo e centro-sinistra sull'amnistia. Ma al di là del conflitto innescato dalla festa dell'orgoglio omosex, rimane l'immagine di una città che anche durante il Giubileo non è riuscita a trovare una lineare convivenza istituzionale fra lo stato laico e il Vaticano. In cui è stato notato che, tra forzature, pressioni decisionistiche, contrasti fra i poteri statali, "gli interessi della città del papa sono ancora una volta superiori alle leggi dello Stato". Sotto la regia, come annota Alberto Ronchey riportando una frase di Alberto Asor Rosa, del sindaco Rutelli, "protagonista epocale, zelante non meno che sorridente come si conviene al suo destino storico di "sindaco del Giubileo". Nella testa, rintocchi di campane celesti". E sullo sfondo resta anche, ancora più drammatica, la separatezza fra la città degli establishment religiosi e laici, da una parte, e dall'altra, lontana, dimenticata, la città delle borgate pasoliniane. Il "luterano" Pasolini, conclude il laico Margiotta Broglio, che addita lo scandalo di una fede borghese vissuta «nel segno di ogni privilegio, di ogni resa, di ogni servitù», e che fa pronunciare al disperato poeta l'estrema condanna, per cui «la Chiesa è lo spietato cuore dello Stato». Un verdetto che dentro il sortilegio del "carattere sacro" identificava con la sua eticità ereticale l'instrumentum regni, il volto irriformabile del potere. Un giudizio apocalittico, ormai inattuale. Eppure, osservando da un lato il tripudio liberatorio della festa gay, e dall'altro l'"amarezza" di Karol Wojtyla per "l'affronto" subito dal Giubileo, colpisce perlomeno l'incomunicabilità fra due mondi, e quindi fra le due città: come se l'incombere permanente della sacralità impedisse a Roma di divenire davvero moderna, cioè tollerante più che indifferente, laica invece che solo scettica.
pagina
di 66