L’Espresso
L'Espresso, 13/07/2000
La politica del centro-campo
Calcio, extrema ratio del dibattito politico-culturale. Inutilmente Silvio Berlusconi ha rimediato che contro Zoff trattavasi di argomentazione tecnica. Perfino i suoi alleati Fini e Casini hanno sentito il bisogno di differenziarsi da lui nel nome dell'identità italiana, con un occhio a Ernesto Galli della Loggia e Gian Enrico Rusconi. Inutile rimarcare che Walter Veltroni, giurando sull'album delle figurine Panini, si è scagliato contro il delitto di lesa patria. Quindi conviene prendere tutto sul serio. Per i cacciatori di indizi, si segnala che la guerra pallonara era stata preceduta da una prolungata polemica talmudistica (come avrebbe scritto a suo tempo Palmiro Togliatti) fra l'"Iceberg" quotidiano della "Stampa" e il "Riempitivo" di Pietrangelo Buttafuoco sul "Foglio": reo il quotidiano torinese di avere alzato l'invocazione "Forza, Italia" utilizzando una pudica virgola "interdentale" per pruderie antiberlusconiana. I segnali a base di virgole erano proseguiti per giorni, ed erano evidentemente di pessimo auspicio, visto che Zoff per una virgola, o una svirgolata, ha perso. Dopo di che, inutile chiedersi se la polemica sul calcio di destra e di sinistra (di destro e di sinistro?) ha un senso, fuor dalle virgole e dalle vongole. Certo che ha un senso. Da un lato, si è visto subito il calcolo del centro-sinistra, pronto a scagliarsi contro il fellone, nel nome del politically correct e dei buoni sentimenti. Dall'altro, c'è stata una nuova invenzione pop del Cavaliere. Il suo ruolo non consiste nel dare voce agli spiriti animali dell'Italia profonda? E allora si tratta di capire che cosa pensa questa Italia della quasi vittoria, cioè piena sconfitta, di Zoff. Uno psicologo realista informerà che più dell'amor fati, e della presunta riconoscenza per la finale europea, resterà per decenni nell'animo degli italiani un rancore di massa per chi li ha illusi e poi delusi. E allora qual è il calcolo politico migliore: sponsorizzare la splendida sconfitta e il grazie lo stesso? Oppure affondare metaforicamente il pugnale nella schiena del mancato vincitore? Sul rancore non si costruisce un governo, ma si può far passare gli altri per incompetenti. Il Berlusconi postprandiale può agire da "tennico", come lo chiamerebbe lo Stefano Benni di "Bar Sport", ammantato dal nome calcistico del suo partito; gli altri, il centro-sinistra, sostengono la tesi libresca del bello e perdente. All'inizio l'opinione pubblica pare preferire la retorica dell'arco costituzionale, sancita dai cavalierati di Ciampi, alle incazzature biscardiane di Berlusconi, argomentate dal filosofo Lucio Colletti. Ma sotto sotto, se fare politica significa interpretare gli umori del pueblo, mentre il centro-sinistra parla a nome del fair play, il Cavaliere sdogana la disillusione incarognita. Soliti dualismi del bipolarismo imperfetto. Per una virgola, Prodi perse il posto, con il famoso 313 a 312. Ormai si è affermato il criterio per cui l'importante è vincere, non interessa come. Allora, fuor dai moralismi, chi è il vincente, Berlusconi o Zoff? Il vogliamoci bene o il facciamogli del male? Senza aggiungere che il leader della destra ha lanciato anche un messaggio sottile. Non date retta a La Loggia e a Pisanu, che lo sostengono "perinde ac cadaver": rientrando in campo, il Padrone fa capire che si può essere in dissenso. Non sul modello tedesco, tramontato il Trap e inascoltato Sartori, non sul sistema francese, non sulla ricetta spagnola: ma sul gioco all'italiana, in Casa c'è libertà.
L'Espresso, 22/06/2000
Il potere del GOSSIP
La regola di base dice che la propensione al gossip È democratica, interclassista, equamente distribuita nella società. Una ricerca sociologica nei primi anni Novanta dimostrÒ infatti che lo spazio dedicato al pettegolezzo da un "junk paper" come il "Sun" e da un quotidiano di élite come il "Times" era identico. Sono curiosità che si possono trovare nella piccola bibbia in materia, pubblicata di recente dallo psicologo Sergio Benvenuto, "Dicerie e pettegolezzi" (il Mulino). Ma si può giurare davvero sulla democraticità del chiacchiericcio? In Italia il gossip, etimologia "god-sib", cioè cose da madrine, da comari, in francese commérage, idem come sopra, in spagnolo comadreo, e siamo sempre lì, sta diventando qualcosa in più che una concessione alla confidenza, un veniale peccatuccio sociale, un'infrazione compiaciuta del galateo: diventa uno stile di vita, uno strumento di potere, un canale d'informazione, una tecnica della politica. Rumours e boatos vengono raccolti, intensificati e diffusi da una megamacchina instancabile. Per certi versi il potere e la politica del gossip hanno origini rapidamente decifrabili. Tramontata l'epoca delle ideologie, era fisiologico che l'attenzione si rivolgesse ai singoli individui: la personalizzazione della politica non agisce solo coagulando il carisma weberiano di Silvio Berlusconi, ma anche esponendo tatticamente in pubblico gli amori di "Pier" Casini. Ottenuta la certificazione che il re, il moderno principe, cioè il partito, era nudo, la politica doveva spogliarsi anch'essa: anziché le ritualità congressuali, i giochi di alleanza, i veti e gli scambi, sono entrati in scena i comportamenti individuali: vale a dire la materia prima delle dicerie, delle voci, del gossip. Cadute le convenzioni precedenti, ecco allora un nuovo paradigma sociale. Se prima il codice collettivo privilegiava la riservatezza, adesso il segno di distinzione consiste nel padroneggiare le informazioni riservate. Ma il codice Cuccia, fondato sul mutismo, o il canone Andreotti, basato su un archivio minaccioso quanto impenetrabile, non è più valido. Chi detiene le news più esclusive ha un solo modo per dimostrare il suo potere: rivelarle. È per questo che i contenuti del gossip si logorano a velocità supersonica. Ciò che è nuovo ed eccitante oggi, fra poco sarà risaputo. La differenza di classe fra gli happy few e gli outsider, fra Cesare Romiti e il semplice lettore del "Corriere della sera", è segnalata da un ritardo medio di quarantott'ore nella conoscenza delle chiacchiere principali. La "gossip society" ha i suoi cronisti e i suoi archivisti, i suoi siti reali e virtuali. Se guarda al passato, ha i suoi testi d'obbligo nei libri di Ettore Bernabei e Paolo Cirino Pomicino. Se invece guarda al presente, ha un repertorio inesauribile, fra "ciacola" bassa e gossip strafico, nel ritratto italiano composto da Gian Antonio Stella nelle folte pagine di "Chic". Ma ha anche un'autentica istituzione mediatica, che è "Il foglio" di Giuliano Ferrara. Tutta la filosofia di questo quotidiano infatti è ispirata dall'idea dell'equivalenza dello scoop con il pettegolezzo. La stessa polemica sull'azionismo torinese è stata trattata da un lato come un'operazione politica intesa a sconsacrare l'antifascismo come ultima legittimazione della sinistra, ma dall'altro come la rivelazione del pettegolezzo definitivo sulla biografia di Norberto Bobbio. Si direbbe che del revisionismo di Renzo De Felice "Il foglio" abbia raccolto soprattutto il gusto per i particolari inediti, per i documenti coperti, oltre che quella divertita propensione alla maldicenza che il biografo di Mussolini ha trasmesso a diversi suoi allievi, non escluso un grande regista del gossip come Paolo Mieli. Per questo, se si dovesse identificare qual è la cifra distintiva del "Foglio", bisognerebbe segnalare la permeabilità dei ruoli fra chi scrive e chi legge, tipico schema delle comunità pettegole, dove si sparla e si è sparlati. Ma si potrebbe anche dire che la peculiarità del quotidiano dell'Apostata risiede esplicitamente nella rubrica "Alta società", attribuita a Carlo Rossella ma siglata solo con il simbolino di mazza e cilindro, in modo da concentrare tutta l'autorevolezza gossipara del giornale su quelle fulminee righe che parlano di contesse e marchese che ricevono, di terrazze e salotti esoterici, di convegni della classe imprenditoriale, di barche che si chiamano Ikarus e di locali dove la presunta classe dirigente si ingaglioffisce. Un ammicco. Un piacere elusivo. Un rinvio alla prossima puntata. La diceria, ricorda sempre lo psicologo Benvenuto, era la messaggera di Zeus, essa stessa divina. Oggi la divinità sociale si gioca in un continuum fra il trash e l'informazione riservatissima, in un circuito che comprende i divini mondani come Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, così come gli spigolatori di pettegolezzi da Roberto D'Agostino a Cesare Lanza. Per i primi c'è il sofisticato piacere di controllare i "si dice" non appena prendono a circolare; per gli altri il gusto di rivelarli pubblicamente, con una soddisfazione delatoria tutta post-ideologica, nel senso che prescinde da lealtà e solidarietà etico-politiche e che si riconoscono solo vincoli di cordata. Per questo è probabile che www.Dagospia.com, diventi non solo l'organo ufficiale del "net- tegolezzo", con D'Agostino come ideologo, testimonial e scoopista, ma un punto di riferimento per l'informazione tout court. Lo scoop su Sonia Raule direttore dei programmi di Tmc mostra già la tendenza: poiché Dagospia non ha il compito di verificare la fondatezza delle notizie, ma di rendere pubbliche le dicerie (che a priori non sono né vere né false: come dice Sergio Benvenuto «La diceria è una claque cognitiva»), può diventare il luogo di raccolta di tutte le spiate e le soffiate nazionali. Con il risultato probabile che insieme a dieci spettegolate di letto e di clan ci finisca anche l'anticipazione di qualche retroscena economico, un "gioco dell'Opa", oppure un insiding politico spifferato da amici o da nemici, per una modesta vendetta, per mettere un bastone fra le ruote o anche solo per il gusto di intervenire nel circuito mediatico. Spesso c'è una differenza molto sottile fra l'uso politico del pettegolezzo e il ricatto. Talmente sottile da risultare indefinibile. Andreotti cercò di tagliare la strada a Cossiga con il caso Gladio, cioè con un gossip di marca dc. Bettino Craxi giocò il suo "poker" contro Antonio Di Pietro ricorrendo a un dossier di pettegolezzi-carogna. I successi di Mani pulite furono accompagnati dai gossip concessi dagli ambienti giudiziari alla stampa. Ma ancor più che l'utilizzo combinatorio delle notizie e delle voci in chiave di potere, occorre considerare, come ha scritto lo specialista di "urban legends" Jean-Noël Kapferer, che «la diceria non convince né persuade: seduce». Così il gossip, quando è condiviso, scambiato alla pari, goduto in gruppo, plasma i circuiti comunicativi di una speciale "società di corte", non troppo diversa da quella di Versailles, descritta nei suoi riti quotidiani da Norbert Elias. Mentre quando è lasciato cadere graziosamente dal sovrano di turno, stabilisce immediatamente una dipendenza gerarchica, in quanto il possesso e poi la concessione dell'ultima diceria costituiscono uno status symbol. È l'ulteriore prova che oggi potere e conoscenza coincidono: anche se forse nessuno aveva pensato che questa coincidenza avrebbe fatto del gossip la risorsa strategica dell'Italia post-politica.
L'Espresso, 22/06/2000
A tutto c’è un Limiti
Paolo Limiti? C'È chi dice trash, chi dice nostalgia, chi parla di "tv delle mummie". Aldo Grasso lo tumulÒ come il direttore di «un karaoke dell'oltretomba». Intanto, perÒ, mummie o no, il suo programma per la festa della repubblica, "Evviva il 2 di giugno", con Albertone che faceva il compagnuccio della parrocchietta, la Lollo che faceva la Lollo, il collegamento da mitomani con il Quirinale, e l'Inno di Mameli in esecuzione integrale, ha raccolto il solito diluvio di ascolti. Con i suoi eventi al di sotto del kitsch, la tv di Limiti rappresenta a modo suo un fenomeno nazionale. Non si vede infatti chi altri potrebbe allestire ogni giorno, nel sacrario di "Alle 2 su Raiuno", una simile liturgia del revival, con tutte quelle reliquie, quei feticci, quei reperti. Un trattato in diretta di antropologia dell'audience. Ma potrebbe anche essere, ipotesi più colpevolizzante, un ritratto iper-realista della società italiana contemporanea. A fare il sociologo in studio, con il suo "pensiero unico" messo a punto in decine di programmi, Limiti si diverte. A 60 anni, dopo gavetta, esperienza, successo, 300 testi di canzoni alle spalle, riesce ancora a scoppiare in risate che dovrebbero essere contagiose. A suo modo, è un professionista. L'eventuale "professionista de che?", sarebbe una domanda dettata da un sussiego malevolo. Critici più generosi hanno detto che fa una tv pessima, ma la fa bene. Anzi, "alla grande". Parla in inglese con gli ospiti, traducendo freneticamente i suoi superlativi, unico grado dell'aggettivo che riconosce (definizione preferita: "incredibile"). Ci può essere Joan Collins, la cara vecchia perfida Alexis di "Dynasty", oppure Darlene Conley, la favolosa cellulitica Sally Spectra, elefantessa mangiauomini in "Beautiful". Lui le tratta come sacerdotesse dell'eros, indifferente alle ingiurie del tempo, alla mole, al silicone. Con la stessa partecipazione sentimentale con cui si fa raccontare l'autobiografia di Sandra Milo o l'amore coniugale di Orietta Berti con il bravo Osvaldo, fra imitatrici e prestigiatori, giornalisti e presunti scrittori. Per una sorta di superiore cinismo, o per fiuto peculiare, Limiti dà l'impressione di condividere fino all'ultima goccia i gusti del suo pubblico. L'Italia siamo noi. Fratelli d'Italia. Parenti d'Italia. Viva l'Italia. I suoi idoli sono gli idoli delle attempate in studio, con i loro mariti soddisfattissimi di gravare sui conti dell'Inps. Ma lui è anche il pastore del suo gregge, la guida che lo orienta, lo indirizza, lo richiama, lo istruisce, lo catechizza. Accanimento senile, è stato detto; ma potrebbe essere pedagogia nazional-popolare distillata in tv, familismo amorale mediatizzato, identità nazionale coagulata dalla filosofia del rotocalco. Proust e Pampuria Infatti trasmette senso comune, Limiti. Una carriera condotta quasi interamente fra radio e tv gli ha conferito una magica sintonia bernabeiana con quell'immensa platea che pensa i pensieri di tutti. Quale sarà il più grande tenore vivente? Ma Big Luciano, naturalmente, il supremo maestro new age Pavarotti, con un pensiero reverente al Dalai Lama. E di conseguenza il più grande soprano in circolazione? Katia Ricciarelli, con un saluto al grande Pippo. In prima fila sulle poltroncine dello studio tv può esserci Nilla Pizzi, "la regina della canzone italiana", ancora capace di sgolarsi con le canzoni del dopoguerra. Ma sicuramente non manca la moglie americana, Justine Mattera, una mascherina di Marilyn Monroe, di solito un po' intristita dal vitalismo schiacciante del Paolissimo, da sempre affascinato dallo spettacolo erotico dell'ambiguità. Il quale fra un raptus poetico e l'altro, una citazione di Cocteau sulla morte, o di Proust sulla madeleine, non disdegna di conversare in prosa con Pampuria, la pelosa cagnetta- pokémon del programma. La specialità di Limiti sono gli aneddoti. Di qualsiasi cantante, attore, regista, uomo di spettacolo, scrittore, poeta, lui è in grado di estrarre dal repertorio un episodio, un fatterello, un frammento di vissuto. Gli episodi sono in genere insignificanti, ma anche questo serve a segnalare un tono di verità. L'Italia è indotta a pensare che se l'onnisciente Limiti, che ha conosciuto tutti e tutte, racconta delle inezie, vuol dire che non sta bluffando: cioè non usurpa ruoli epici, magari ha incontrato tante volte la povera Dalida e la straordinaria Mina, ma al massimo hanno preso un caffettino. Come numero più oliato, la rivelazione: «Voi non lo sapete, non ci crederete, adesso ve lo dico io, ma questa canzone Mina non la voleva fare». A sentire Limiti, non si poteva portare un capolavoro alla Tigre che quella borbottava mamì e mamù, e faceva le smorfie. Poi i volonterosi la convincevano a non fare l'impulsiva, e lei seppure recalcitrante entrava in studio, e tirava giù alla prima prova un'incisione alla diotifulmini, con i tecnici che alla fine singhiozzavano per l'emozione. Lacrime, lacrime vere, brividi autentici, «pelle d'oca, signori». Limiti ha fatto uno speciale di successo, su "Viva Mina!", in cui questa storia l'ha raccontata almeno 10 volte. Sempre con la voce che sottolineava la soddisfazione impagabile di poter rivelare come anche i mostri sacri in fondo sbagliano, eccome, sono anche loro esseri umani, e sbaglierebbero di più se non ci fossero dei fessi che si impegnano a rimediare ai loro istinti e ai loro capricci. Ha poi un suo gusto archeologico, che gli permette ogni tanto di estrarre qualche preziosità, per stupire i criticonzi: ma lo sapete che a metà degli anni Venti, quando la Fiat lanciò la 509, commissionò una marcetta pubblicitaria nientemeno che a Riccardo Zandonai? Lui sì che lo sa, e la fa eseguire dalla sua orchestra e dal cantante di giornata, con l'aria di dire: beccatevi anche un po' di cultura. E una nota a piè pagina sulla "Francesca da Rimini". Operazione Amarcord Ma dove il professionismo di Limiti non ha rivali è nel repêchage dei minori della canzone italiana degli ultimi 40 anni. Volete Donatello, l'efebo che cantava "Malattia d'amore", e chissà dov'era finito? Eccolo qua, con 20 chili in più e il pizzetto machista. E che ne dite di Tiziana Rivale, che vinse a sorpresa nel Festival del 1983 e poi si disperse in California e uscì dal giro? Pronti via, la Rivale si piazza al centro dello studio per cantare a distesa, camicette di latex, spacchi vertigo, aria da material girl che si è lasciata un po' andare, ma insomma può anche piacere di più perché come sex-symbol sembra piuttosto trattabile. E insomma ci sono tutti e tutte, miracolati e sacrificate: Rita Pavone con l'aria sempre incazzosa verso tutto il mondo della tv, Mario Zelinotti che cantò con Little Tony "Cuore matto" per ripiombare nell'anonimato, Anna Identici che dopo le sue storie tristissime è divenuta uguale a un'istitutrice svizzera di quelle inflessibili, Gilda Giuliani che s'impegna con caparbietà per dimostrare che se avesse avuto un briciolo di fortuna poteva diventare la Mireille Mathieu italiana. Avete nella memoria qualcuno degli anni spensierati? Da Limiti c'è. C'è "l'idolo incontrastato dei juke box" Betty Curtis, c'è il flebile Piero Filippini, c'è "il cantante Dino", ci sono i New Trolls o almeno ciò che ne resta, e i Giganti, e Piero Focaccia, e Dora Moroni. Per questo gli speciali di Limiti sono imperdibili. Oltre a quello storico su Mina ne ha fatti sulla lirica, su Sanremo; e poi su Dalida, Wanda Osiris, Julio Iglesias, la Lollobrigida, Milly, la Callas, Marilyn Monroe, la Ricciarelli, Lucio Battisti (provocando l'ira dei fan battistiani sui newsgroup internettiani per la cifra monnezzara dello show), e naturalmente su Claudio Villa. Perché su quest'ultimo può scatenarsi, visto che ha in squadra la figlia naturale (sentenze e ricorsi permettendo) del reuccio, Manuela Villa, un po' chiatta ma con certi lunghi guanti rossi che andrebbero bene per Jessica Rabbit; che si dedica a impressionanti duetti virtuali, con Claudio da un aldilà in bianco e nero e la ragazza a colori, roba da pelle d'oca o da scongiuri immediati. Ne viene fuori un Satyricon involontario, che ha molto, fin troppo, dell'Italia media di oggi. Una combinazione di tipi e di approcci dove tutto è livellato, privo di scale di valore. Se pensiero dev'essere, che sia debolissimo. In cui l'alto e il basso si equivalgono. Qualcuno si scandalizza, all'idea che la festa della Repubblica stia al livello del Disco per l'Estate. Ma forse l'unico vero peccato di Limiti, golosamente confessato, è di esporre integralmente la società italiana, con i suoi gusti e le sue preferenze esattamente come sono, come li sente lui e come sono diventati dopo anni di frullato tv. Spogliato delle ultime inibizioni, suffragato dall'audience, Limiti spiattella ogni giorno l'Italia che si intrattiene con se stessa, con i casi clinici di famiglia, con i suoi affetti deliranti, gli esperti da bar e le proprie cattive abitudini: un'Italia al cubo.
L'Espresso, 08/06/2000
Torino al singolare
Spifferi gelati, nel caldo maggio tori-nese, musi lunghi e sguardi obliqui nei corridoi dell'università, e poi iniziative catacombali per ritrovare il filo di una chance politica dopo il crollo di Livia Turco alle regionali. Ma soprattutto, dovunque si vada, chiunque si veda, c'è la sensazione che qualcosa si stia incrinando, nella vecchia capitale subalpina: una rete di convenzioni, una trama di solidarietà, il compromesso fra borghesia e classe operaia sigillato moralmente dalla cultura azionista. Il saggio di Angelo d'Orsi "La cultura a Torino tra le due guerre" è arrivato nella comunità accademica torinese come una sassata. D'Orsi era già considerato l'enfant terrible dell'università: ex direttore di "Nuvole", rivista della sinistra indignata, alle spalle una storia di amicizie e di rotture con i gobettiani di estrema sinistra, Marco Revelli e Giovanni De Luna. Vent'anni di ricerca, una mole documentaria impressionante, tre-anni-tre di attesa da Einaudi; e all'uscita, con l'anticipazione sulla "Stampa" una polemica bruciante, attizzata dal "Foglio" di Giuliano Ferrara contro il canone dell'antifascismo etico: cioè il "criterio metafisico" impersonato da quella che Ezio Mauro, quando dirigeva il giornale degli Agnelli, chiamava «la costituente torinese», numi tutelari Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone. Prima di criticarlo puntigliosamente sulla prima pagina della "Stampa", Bobbio in una telefonata a d'Orsi si è lamentato perché nel libro «mancano le idee». E dopo avere concesso «il mio giudizio nettamente positivo su questa sua opera di scrupolosa e rigorosa documentazione», Bobbio è passato alle vie brevi: «Angelo d'Orsi commette l'errore di confondere il comportamento pratico, spesso biasimevole, della maggioranza degli intellettuali, con le opere che nonostante il distintivo all'occhiello scrivevano negli stessi anni». Confusione imperdonabile, conclude il maestro. Ma non c'è un sentore di ipocrisia in questo galateo della distinzione tra vita e opere? Non c'è un riflesso agiografico? «Sta di fatto che in questa città verticalizzata, separata, divisa», commenta Bruno Manghi, ex cislino, in seguito uno dei cervelli free lance del gruppo prodiano ai tempi dell'Ulivo, «si sente in giro la voglia di fare i conti con un'élite di "democratici eccellenti", che alla fine sembrano incarnare lo spirito di una comunità castale». «È soprattutto la crisi di una generazione, con i prevedibili problemi di ricambio», dice Domenico Siniscalco, economista, membro del consiglio d'amministrazione Telecom, editorialista del "Sole 24 ore": «Ma è anche l'indizio di una Torino chiusa, dove nessuno è profeta in patria se non le autorità canonizzate, fatta di cittadelle separate, incomunicabili, che non sa offrire opportunità alle generazioni nuove, alle specializzazioni inedite». Intanto, sembra venire meno un connettivo: anche se, riflette il politologo Gian Enrico Rusconi, la ricchezza culturale torinese ha pochi riscontri nelle città universitarie italiane. Un tris di storici come Valerio Castronovo, Nicola Tranfaglia, Massimo Salvadori, filosofi con la durezza razionalista di Augusto Viano o con la felice eccentricità "post" di Gianni Vattimo, economisti neokeynesiani come Terenzio Cozzi, liberali come Mario Deaglio, una scuola sociologica che ha in galleria Luciano Gallino, Arnaldo Bagnasco, Loredana Sciolla, Franco Garelli; e poi istituti di ricerca come la Fondazione Agnelli, il Centro Einaudi, l'attività del Goethe Institut. «Ma allora», si chiede Rusconi, «se c'è tutta questa ricchezza, se sullo sfondo c'è la presenza e il lavoro delle grandi istituzioni silenziose, come il Cottolengo, che sono la testimonianza di una cultura solidarista storicamente pervasiva, se insomma c'è un potenziale terreno di coltura, perché la comunità culturale non esplode, perché non si accende di slanci, dove sono gli "start up"?». La risposta più fredda potrebbe essere che gli allievi non sono stati all'altezza dei maestri. «L'azionismo», sostiene d'Orsi, «è diventato il codice di riferimento esclusivo perché è l'unica identità che Torino sia riuscita a darsi». Ma era una identità parzialissima. Bobbio, ad esempio, la fabbrica non la vedeva nemmeno. Il mondo di Primo Levi, "La chiave a stella" e l'operaio Faussone gli erano del tutto estranei. Lo stesso accordo tra la Fiat e la General Motors, con lo psicodramma del "put" e del "call", è stato accolto con un senso diffuso di smarrimento. Cioè una perdita di senso che ha attraversato tutta la società, senza distinguo fra destra e sinistra. Silenzio, mutismo. Anche perché mentre Cesare Romiti esternava, Paolo Cantarella tace. Tacciono anche le istituzioni della cultura industriale, come il Politecnico, perché malgrado tutto sono un corpo separato: «La West Point del capitalismo industriale», secondo Giuseppe Berta, storico alla Bocconi, direttore dell'archivio storico della Fiat: «Una scuola dura, pesante, a suo modo efficace, ma divisa dalla città». Difatti il Politecnico è un'isola, gestita con sapienza dal rettore Rodolfo Zich, classe 1939, un tecnico di grandi doti politiche, sempre a caccia di risultati rilevanti: accordi di collaborazione con imprese multisettoriali, commesse di ricerca nelle aree "high-tech", grandi flussi di risorse finanziarie, l'insediamento di gruppi come la Motorola e la Colt. «Siamo una città puntiforme, a macchia di leopardo», sostiene Franco Garelli, sociologo specializzato e sui fenomeni religiosi e sulla questione giovanile: «Anche le iniziative di solidarietà di cui è costellata Torino sono tutte attribuibili a personalità singole». Il Gruppo Abele è don Luigi Ciotti, prete di strada e di establishment; Il Sermig, l'arsenale della pace, fondato nel 1964 per esercitare la fraternità e "tentare di vivere la radicalità del Vangelo", è Ernesto Olivero; fuori Torino la comunità di Bose, con i suoi monaci, è la personalità di Enzo Bianchi. «Esistono anche altre esperienze di interesse cruciale, centri di volontariato internazionale molto attivi come il Cisv, che realizzano progetti per il Terzo mondo e per l'educazione allo sviluppo», aggiunge Garelli. Ma anche la Chiesa va compresa fra le "istituzioni silenziose" a cui accenna Rusconi? Il nuovo vescovo, monsignor Severino Poletto, si è insediato il 5 settembre 1999: filiera sodaniana, 67 anni, esperienze ad Asti e a Casale, mostra uno stile manageriale, e punta molto sulla mobilitazione dell'associazionismo. Ha tenuto a presentarsi come figlio «di un'umile famiglia di agricoltori», altro che aristocrazie cittadine, e ha cominciato a dedicarsi agli oratorî e ai poveri. Da Prarostino, la borgata pinerolese che è il suo buen retiro, Manghi offre un giudizio sfumato sul successore del cardinale Saldarini: «Il vescovo si muove bene, con un pragmatismo intelligente, ma bisogna ricordare che Torino è una città di santi, non di associazioni». Mentre Berta eccepisce che le facce della città sono infinite: «Di quale Torino parliamo? Della capitale italiana dell'esoterismo, con le 115 sette censite da Massimo Introvigne? Del paese provinciale, che cullava il dialetto come cifra di distinzione, e in cui la modestia berseziana dell'"esageroma nen" veniva riscattata dal senso del dovere? Oppure della città postmaterialista ai Murazzi del Po, dove ci sono i locali e i centri sociali più trendy, in cui vanno gli scrittori come Giuseppe Culicchia, e che fanno da sede sperimentale per l'arte post-povera, fumettara, di quelli che un giorno o l'altro finiranno nella collana "Stile libero" di Einaudi?». Magari, aggiunge Siniscalco, si potrebbe guardare con più attenzione a quel po' di new economy che effettivamente circola, agli "incubator" delle nuove imprese iper-leggere, a esperienze come quella di Vitaminic, fondata con l'aiuto di Elserino Piol da Gianluca Dettori, Adriano Marconetto e Franco Gonella, presto diventata la maggiore piattaforma musicale online del mondo, prossima alla quotazione in borsa. Oppure, come segnala di nuovo Manghi, si è chiusa da un pezzo l'epoca in cui gli operai avevano "fatto" il Pci, trasformatosi da un pezzo nel partito degli intellettuali e dei quadri. Approfondisce Berta: «Certo, quando l'avvocato Agnelli sentiva parlare di cultura, il suo sguardo scattava immediatamente a sinistra, come per un riflesso condizionato. Come ha scritto nei primi anni Ottanta Giuseppe Bonazzi, un sociologo attentissimo alle vicende Fiat, nella lotta di classe c'era un "meta-regolatore", il Partito comunista. La Fiat aveva un interlocutore stabile che non era necessariamente il sindacato: quando Cesare Romiti, Carlo Callieri, Cesare Annibaldi, dovevano gestire le crisi sindacali, sapevano che dall'altra parte c'era, inconfondibile, il compagno Piero Fassino, "responsabile fabbriche del Pci". C'era il Leviatano comunista, che così come poteva scatenare il conflitto era anche in grado di sedarlo». Oggi È diverso. Quando allude alla situazione torinese, d'Orsi parla di estrema «pochezza» della classe politica. Manghi scuote la testa: «Abbiamo alle spalle cent'anni di denatalità, un problema tamponato con l'immigrazione nei primi anni '60, che però adesso è tornato a un punto critico. La società torinese è anziana e attraversata da molte paure. Ci sono più di 125 mila persone sopra i settant'anni, su 900 mila abitanti. Dunque non serve a nulla lo "sviluppismo", la promessa delle grandi opere. Qui si dà valore alle strade pulite, all'ordine pubblico». La diagnosi rispecchia ciò che scrisse Luciano Gallino nel 1990, con una vena fra il sociologico d'antan e il positivista macabro: «Da un decennio esatto detto sistema emette morti in quantità assai superiore all'immissione di nati vivi...». Il 26 giugno alcuni di questi intellettuali e politici torinesi si troveranno insieme nella saletta di un hotel del centro. Tema dei congiurati: come liberare Torino e il Piemonte da una competizione politica atrofizzata, fondata sullo scontro di ideologie impoverite. L'idea di fondo è che è inutile vincere le elezioni se poi non si riesce a governare. Quindi, in vista della fine del mandato di Valentino Castellani, nel 2001, gente come Manghi, Berta, Garelli, il Saverio Vertone rientrato nell'orbita Ds, il costituzionalista Franco Pizzetti, e altri fra cui il deputato diessino- liberal Sergio Chiamparino, provano a rimescolare le carte. Forse con l'ipotesi di una lista civica: una specie di "monopolarismo" che escluderebbe solo le estreme. Sarebbe il contrario esatto del principio azionista, nessun nemico a sinistra e nessun amico a destra. «È vero», replica Manghi, «ma la realtà dice che a Torino il centro-destra vince nei quartieri popolari, mentre il centro-sinistra è maggioranza solo nei quartieri della borghesia comme-il-faut». Resterebbe da identificare un candidato sindaco: Rinaldo Bertolino, l'attuale rettore di Palazzo Nuovo? Molto abile, bravo navigatore, non adatto a generare entusiasmi di massa. Rodolfo Zich, il rettore del Politecnico? Grandissimo imprenditore di cultura, conosciuto però più all'estero che a Torino, sarebbe il candidato ideale. Anche per evitare nomi da establishment come quello di Evelina Cristillin, la patrona delle Olimpiadi invernali 2006, moglie del capo dell'Ifil Gabriele Galateri di Genola, simpatie diessine. Invece, ammicca Giuseppe Berta, ci vorrebbe uno scatto di fantasia... Vattimo? Chissà, ma è troppo per conto suo, anche se ha avuto un ruolo importante in quell'operazione prettamente universitaria che fu l'invenzione politica di Castellani, nel 1993. Eccola qui, invece, la possibile candidatura choc: quella del presidente dell'Ascom, Giuseppe De Maria. Un immigrato calabrese: «Finalmente uno che non ha studiato al liceo D'Azeglio», uno che aveva il chiosco dei fiori al cimitero. Uno degli "homines novi": però decente, dicono tutti, affidabile, che non è andato alla guerra contro Castellani. Un colpo di vita e di vitalità. Anche se questa guazzalocata progettata a sinistra rappresenterebbe la radicale negazione dell'aristocrazia socio-culturale cittadina. L'azionismo e il pensiero unico borghese forse lo colpirebbe più De Maria, dal basso, che non altri saggi di Angelo d'Orsi, o altri documenti che saltassero fuori sulle compromissioni dei maestri. Un uomo in carne e ossa: e non le silhouette elegantemente morali che finora hanno scritto e interpretato il decalogo politico e civile della Torino progressista.
L'Espresso, 01/06/2000
Sulla zattera dei sinistrati
Con una miscela di fascinazione e di sgomento, dopo la catastrofe referendaria i Ds assistono al trionfo di Silvio Berlusconi. Il sentimento dominante lo esprime bene il filosofo Biagio De Giovanni: «Il centro-destra, a modo suo, trasmette qualcosa di consistente alle passioni, al senso comune, agli interessi dell'Italia: altro che partito di plastica». E Michele Salvati, intellettuale dell'ala riformista, commentando il populismo folgorante del Cavaliere: «Non si può confessarlo in pubblico, ma i più spregiudicati fra i diessini, quelli abituati a valutare la politica con il realismo dei vecchi maestri, sono affascinati dall'abilità politica del Cavaliere. Perché non sbaglia una mossa, perché punta sul suo obiettivo e lo persegue senza scarti, ignorando anche gli inciampi con gli alleati». Difatti è cronaca: elezioni europee, elezioni regionali, referendum. E in mezzo l'accordo con Umberto Bossi, vale a dire la virtuale desertificazione del Nord. Prima ha abbattuto D'Alema; poi ha schiantato Veltroni. La scoperta di questo Berlusconi "totus politicus" è una delle sorprese sconvolgenti per l'establishment della sinistra. Mentre la leadership Ds si attardava a ripensare le regole, il Nemico conduceva la sua campagna distruttrice, indifferente alle contraddizioni interne al Polo, concentrato solo sul risultato. Per gli eredi della realpolitik togliattiana è uno smacco. Soprattutto per gli oppositori storici dell'uninominale, come Giuseppe Chiarante, fautore in tempi non sospetti del modello tedesco, che adesso si sono visti scavalcati da Berlusconi. I vecchi del Pci come Pietro Ingrao hanno messo sale nella piaga: «Questi referendum non mi piacevano, non ero d'accordo con le proposte che contenevano e non sono andato a votare». Dal suo fortino rifondazionista, salvatosi brillantemente dall'abrogazione, Fausto Bertinotti assesta i suoi colpi con una vena di sadismo: «Alle prossime elezioni i Ds rischiano l'implosione». La sinistra del partito ha rialzato la testa, per segnalare che il partito, come sintetizza Ersilia Salvato, «non ha più il polso della situazione». Il primo a parlare senza eufemismi era stato, dopo il tracollo delle regionali, Piero Fassino, sottolineando che il centro-sinistra aveva smarrito il contatto con l'elettorato del Nord. Ma oggi lo stato della coalizione sembra il male minore: il problema è nel partito. Secondo Piero Ignazi, il politologo che nel 1992, con il saggio "Dal Pci al Pds", aveva monitorato il faticoso passaggio al postcomunismo, i Ds scontano un ricambio generazionale profondo, che li ha privati della compattezza interna e dei canali tradizionali con la società. Regge, anche se faticosamente, il "partito emiliano", che sui referendum ha fatto assemblee, volantinaggi, riunioni con le associazioni di categoria, senza andare tuttavia oltre un quorum stentato, poco sopra il 50 per cento, a Reggio Emilia e a Modena. Al punto che un diessino solido e tetragono al cupio dissolvi, il vecchio soldato Mauro Zani, tornato da Roma per rimettere in sesto la Bologna progressista terremotata da Guazzaloca, ha aggiunto con la sua ruvida ironia: «I nostri sono disciplinati: votano come dice il partito, quando il partito non sbaglia». I governativi, i "ministeriali" del partito tentano di respingere il riflesso pavloviano della sinistra che si ripiega su se stessa. Cioè la tentazione di correre verso la sconfitta elettorale ora e subito, con il ritorno all'opposizione "sociale" e alle mobilitazioni di massa. «è l'idea di fondo della sinistra del partito», commenta ancora Salvati, «che sotto sotto pensa ancora che il capitalismo è una brutta bestia, e quindi sente il richiamo delle lotte di minoranza. Magari sperando in qualche catastrofe del Dow Jones, che esponga la faccia cattiva del mercato, oppure nell'apparizione di qualche movimento tipo Seattle, che movimenti la situazione italiana». Ma anche se le critiche all'"ipergovernativismo" diessino sono diffuse, cova anche un certo malcontento per come la formazione del governo Amato ha liquidato Luigi Berlinguer e Rosy Bindi, vale a dire gli autori delle due riforme più radicali, su due arene strategiche come scuola e sanità. Altre interpretazioni fanno discendere la crisi diessina dal congresso del Lingotto: che era riuscito a imperniare il partito intorno al capo della "new ideology" (Veltroni), al capo del governo (D'Alema), e al capo del socialismo (Cofferati), ma aveva lasciato senza soluzione il problema di un'alleanza politica competitiva. Con la perfida complicazione che adesso i principali esponenti della coalizione sono quasi tutti beneficiari della ventata anti-maggioritaria, da Mastella a Castagnetti. E che diventa sempre più incombente l'ombra di Sergio D'Antoni, possibile sdoganatore di un centro a mani libere. In sostanza, mentre i cultori del maggioritario, come Arturo Parisi e i Democratici, vedono svanire i loro disegni, e sono costretti a tentare di riunire qualche frammento dello spezzatino politico centrista, il dilemma principale riguarda l'equilibrio politico del partito. Sergio Cofferati si gode il doppio successo nel referendum sul reintegro («una barbarie», aveva fulminato: ed ecco qua, quorum mancato e plebiscito contro la Confindustria): ma al momento la sponda dentro i Ds per lanciare un programma politico "old labour" sembra ancora troppo modesta. Veltroni ha visto spezzarsi il filo che univa maggioritario e rilancio della coalizione, giungendo a offrire le sue dimissioni dalla segreteria. Commenta Ignazi: «Una sconfitta è una sconfitta, ma ai leader si chiede anche la capacità di resistere. Altrimenti che si fa, a ogni battuta d'arresto si abdica?». E la riapertura veltroniana su legge elettorale e par condicio? «Un automatismo che rischia di sembrare la mossa dello sconfitto in cerca di un appoggio sul terreno avversario». E allora, per cercare di intuire qualcosa sulle prospettive del partito, non resta che scrutare le intenzioni di D'Alema. Che in nome dell'"aut quorum, aut nihil" si era impegnato strenuamente sui referendum. Ma che se ne sta in disparte, a coltivare scenari intellettuali per un futuro dai tempi non ancora accertabili. «I tempi lunghi sono necessari per un partito che deve ritrovare se stesso», sostiene Ignazi. «A suo tempo, il successo di Tony Blair e del New Labour è sembrato un Blitzkrieg, ma in realtà l'elaborazione culturale e programmatica per il rilancio del partito era stata avviata già nel 1985, da Neil Kinnock. D'Alema, oltretutto, ha bisogno di tempo perché deve metabolizzare l'impressione di essere stato inferiore alle aspettative come premier, e la fragilità dimostrata dopo le elezioni regionali». Ma nel frattempo? Per Salvati il partito è diviso e incerto: «Ci sono due schieramenti che si guardano in cagnesco, la sinistra e i modernizzanti. E in mezzo il gruppo di D'Alema, poco amato perché il suo riformismo pragmatico veniva sentito come un esercizio cinico. Così, se non prevale un orientamento, tutti penseranno a prepararsi alla lunga traversata». Perché il più modernizzante di tutti è il Cavaliere. Arrivederci al dopo-Berlusconi, insomma.
L'Espresso, 25/05/2000
L’ultimo referendum
Comunque vada, domenica 21 maggio si chiude un'epoca. Sipario. Finisce la lunga stagione in cui si È pensato che l'intervento sulle regole potesse cambiare in meglio anche i contenuti della politica italiana. Si conclude con una rassegnazione malcelata, che sembra investire anche i promotori storici dei referendum, da Mario Segni a Emma Bonino. Stanchezza, disillusione, insofferenza. Oltretutto, dopo lo sfoltimento operato dalla Corte costituzionale i sette quesiti sottoposti alla consultazione hanno perso il carattere di un giudizio di Dio fra liberisti e antiliberisti. Anche per questo, i referendum residui hanno l'aria di sette nani politici. Quelli sulla giustizia sembrano lasciati al confronto tra corporazioni avverse, quelli sul sindacato e il licenziamento assomigliano a una partita tra la Confindustria e Cofferati. Neppure il finanziamento pubblico scatena passioni antipartitiche. Resta sul tappeto, a dividere le forze politiche, il quesito sull'abrogazione della quota proporzionale: ma l'emozione che il principio maggioritario suscitava nel 1993, allorché fu interpretato dai cittadini come una leva per scardinare i partiti della Prima Repubblica, è tristemente svanita. L'aspetto più preoccupante non riguarda nemmeno il grande dubbio relativo al raggiungimento del quorum. Concerne piuttosto la sfiducia verso lo strumento referendario e, in modo ancora più insidioso, verso la possibilità di trasformazioni incisive del sistema politico. Il comportamento di Silvio Berlusconi, autore di una lenta quanto amplissima virata dalla "religione del maggioritario" al miracolismo neoproporzionalista, un risultato (pessimo) lo ha ottenuto: quello di togliere consistenza e credibilità alla riforma elettorale, facendola diventare di nuovo oggetto di uno scontro fra i partiti. Altro che atteggiamento "bipartisan". I referendum, secondo il capo della "Casa delle libertà", sono una truffa, una malevola invenzione dei comunisti. Per potergli rispondere adeguatamente, bisognerebbe che i suoi avversari avessero le idee chiare, specialmente nel centro-sinistra. Perché l'approfondimento del sistema maggioritario non è un semplice mutamento regolamentare, che lascia tutti a mani libere. Il referendum ha un senso se si accetta una tendenza non tanto bipolare quanto esplicitamente bipartitica. Spiantato l'Ulivo, tentativo embrionale verso questa prospettiva, parlare di maggioritario non ha senso se non implica una riprogettazione di schieramento. Quindi occorre andare di nuovo al nocciolo, e sapere che non si vota per Veltroni contro Berlusconi, o viceversa per Fini contro i cespugli centristi: si vota per afferrare, probabilmente per l'ultima volta, la scia di un cambiamento di sistema. Se il referendum elettorale fallisce, tutta l'iniziativa finirà ancora una volta nelle mani dei partiti; e a quel punto sarà inutile lamentarsi della frammentazione, della conflittualità interna alle coalizioni, delle smanie centriste o neodemocristiane, e anche dell'impossibilità di completare la razionalizzazione del sistema politico. Detto questo, occorre dire che lascia ammaliati, se non sgomenti, la capacità di Berlusconi di politicizzare fino all'autismo ogni aspetto della discussione istituzionale. Il cavaliere ormai è convinto che il rifacimento delle regole non serve più. Quale sia il calcolo del leader di Forza Italia è presto detto: a suo giudizio il bipolarismo esiste già nei fatti, e quindi non vale la pena di legarsi le mani con alleanze troppo vincolanti, con partner egoisticamente orientati a chiedere seggi sicuri prima di avere dimostrato con i numeri la propria consistenza elettorale. Sull'onda di questo calcolo, Berlusconi ha abbandonato perfino i referendum su temi come la separazione delle carriere agitata dal suo partito contro i "giustizialisti". È sicuro di poter vincere le prossime elezioni con qualunque sistema vengano disputate. E perciò non vuole costrizioni. Il sistema ri-proporzionalizzato, oltretutto, aprirebbe opportunità deliziose: potrebbe favorire la caduta del confine fra il centro-destra e il centro-sinistra, consentire la formazione di un blocco neocentrista, che a sua volta potrebbe avvertire l'attrazione di un Polo trionfante. Non bisogna mettere limiti alla provvidenza. Ciò che dovrebbe stupire è l'incoerenza che regna nella Casa delle libertà. Il dissenso tra Fini e Berlusconi potrebbe essere archiviato come una diatriba accademica, ma ci ha pensato la tessera numero due di Forza Italia, Antonio Martino, insieme con pochi altri testimoni liberali, a rivendicare l'antica vocazione maggioritaria, e quindi a segnalare con visibile sconforto la mutazione genetica del partito. Pura testimonianza, probabilmente. Nella prossima campagna elettorale, lunga o corta che sia, che il governo Amato entri in crisi o no dopo il 21 maggio, il Polo e la Lega si ricompatteranno verso l'unico obiettivo che interessa a Berlusconi e ai suoi partner. Cioè la conquista del potere. Senza infingimenti di decoro istituzionale o di eleganza riformista. Ciò che è difficile da comprendere, piuttosto, è come mai una coalizione così contraddittoria come la Casa delle libertà possa ottenere i consensi che ha ottenuto il 16 aprile alle regionali. La risposta più semplice è che sia proprio l'ampiezza dell'offerta politica a soddisfare il pubblico: dove si trova una simile varietà di liberali e di antiliberali, di cattolici e di anticlericali, di europeisti e di nazionalisti, di moderati e di estremisti? Già, ma ciò che è funzionale alla raccolta del consenso potrebbe rivelarsi inadeguato sul piano del governo, come accadde nel 1994. A meno che il plebiscito berlusconiano nasca dalla convinzione cinica che, riconquistate le stanze del potere, il Polo si distinguerà proprio per l'assenza di governo: cioè perché lascerà via libera agli "animal spirits" delle partite Iva, dei padroncini, dei flessibili della new economy. Di tutti coloro che hanno una voglia matta di libertà intesa come il più sbrigliato "laissez-faire": di fronte al quale il voto al referendum, con il suo appello alle regole da condividere, potrebbe assumere il profilo non tanto di una speranza, quanto di un estremo antidoto.
L'Espresso, 18/05/2000
Ginettaccio, il pedale di Dio
Nell'archivio ciclistico di Daniele Marchesini, professione storico, c'è di tutto: articoli di giornali specializzati, cartoline illustrate, réclame d'epoca. Anche un foglietto del cantastorie bolognese Marino Piazza (ovvero Piazza Marino, il poeta contadino, autore anche di un "Attentato a Togliatti"), che celebrò nelle sue strofe il Ginettaccio «intramontabile campione». Leggende di un'Italia senza tv, da cantare nelle piazze e nelle sagre. Appassionato di ciclismo, classe '48, l'anno fatale della sconfitta del Fronte popolare, degli spari di Antonio Pallante e della salvifica vittoria di Bartali al Tour, Marchesini insegna Storia dell'Italia contemporanea all'Università di Parma. Nel 1992 fece qualcosa di insolito per un accademico: dato che stava progettando un libro sul Giro d'Italia, chiese a Carmine Castellano (il direttore di corsa del dopo-Torriani) di poter seguire la corsa dal vivo. Quell'avventura ciclistica ha fatto da sfondo alla stesura di "L'Italia del Giro d'Italia", un saggio pubblicato dal Mulino nel 1996, seguito nel 1998 da "Coppi e Bartali", con i due campioni interpretati come due facce dell'identità italiana. C'era Bartali, al Giro del 1992? «Come no. Maglietta e berrettino, guidava una Golf bianca, con una grande scritta "Bartali" sulla fiancata. Era molto consapevole di essere un personaggio: avvertiva intorno a sé l'ammirazione di tutto l'ambiente, che nel ciclismo è molto rispettoso dei valori espressi in una carriera. Tuttavia questa consapevolezza si manifestava non come arroganza, ma come generosità schietta verso gli altri, con la disponibilità a stare in mezzo alla gente». Vuole dire che la leggenda non ha deformato l'uomo? «Ciò che si diceva di lui era tutto vero: era cattolico fervente, terziario carmelitano, devoto della Madonna. Bigotto, invece, no. Teneva a confermare l'idea di essere un buon cristiano, un solido capofamiglia, marito e padre senza grilli per la testa, a differenza evidentemente, come diceva ai tempi della grande rivalità con Fausto Coppi, di quell'altro, "l'altro", "quello là", quello della Dama bianca». E sotto il profilo della politica? «Ha sempre sostenuto che lo stemma dell'Azione cattolica era l'unico distintivo che avesse messo all'occhiello in tutta la sua vita. La sua prima visita al papa risale al 1938, quando fu ricevuto da Pio XI. Anche se Togliatti lo aveva in simpatia, nel febbraio del 1949, quando donò la sua seconda maglia gialla a papa Pacelli, "L'Unità" gli scrisse addosso un corsivo malevolo intitolato "Datti all'ippica": scherzi del post 18 aprile». Un democristiano purosangue, in fin dei conti. «Mai stato iscritto alla Dc. Al massimo, c'è stato un suo impegno a favore della candidatura di Vincenzo Torriani, il patron storico del Giro. Nella campagna elettorale del 1958, la mattina dell'11 maggio la Dc organizzò una manifestazione a Milano, in Piazza Duomo, con Amintore Fanfani. Al pomeriggio il movimento giovanile dc promosse al velodromo Vigorelli una iniziativa a sostegno di Torriani, con la presenza di ciclisti famosi come Aldo Moser, Antonio Maspes, e con un corteo di nobili glorie fra cui campeggiava proprio Bartali. Torriani comunque non fu eletto». Evidentemente il carisma di Bartali non era politico, anche se Montanelli lo definì "il De Gasperi del ciclismo". «La contrapposizione politica fra Bartali e Coppi era artificiosa. I due schieramenti erano davvero trasversali. Nel registro all'ingresso della casa di Bartali a Firenze si trova anche la firma di un tifoso comunista che gli ha lasciato scritto, con orgogliosa passione, "Sei il Togliatti della strada"». Chissà che piacere, per uno che dedicava le vittorie al papa e alla Madonna del Carmelo. «Il suo cattolicesimo è stato quello di alcuni italiani che l'hanno sempre inteso come distanza dal potere. Sotto il fascismo, l'appartenenza cattolica mostrata esplicitamente era anche un contrassegno di opposizione, o perlomeno di non subordinazione al regime». Strano impasto d'uomo, con lo spirito rivolto al cielo e nello stesso tempo così radicato alla terra, duro, corrugato. «Il faccia a faccia politico fra bianchi e rossi è stato un potentissimo fattore simbolico, che ha disegnato su Bartali il profilo del crociato. Quella del ciclista di Dio, ardito della fede, era una fama che poi veniva amplificata dal passaparola. Tanto è vero che quando alla fine degli anni Quaranta abbandonò la Legnano e creò una propria squadra, la Bàrtali, si diffuse la voce che anche la marca della bicicletta utilizzata, Santamaria, fosse un omaggio alla Madonna. È una leggenda che viene ancora confermata perfino dagli annali della "Storia d'Italia" Einaudi. In realtà, Santamaria era più laicamente il cognome di un ingegnere di Novi Ligure». Eppure sotto la pelle del ciclista di Dio c'era un uomo di appetiti genuini. «Anche se può sembrare incredibile per il ciclismo "scientifico" di oggi, Bartali non era un monaco dell'atletismo. In corsa era un fachiro. Ma fuori gli piaceva mangiare e bere bene; e si era sempre concesso qualche sigaretta, anche prima e dopo le gare. Lui si proponeva come un atleta a pane e salame, vantandosi di non essere mai ricorso ai sostegni della chimica. Quindi anche nella sua tolleranza per i piccoli piaceri non da atleta, come il fumo e il vino, veniva esibita l'immagine di un corpo sano, e che proprio perché integro, non intaccato dalla farmacia, poteva concedersi certi modesti vizi. Altri tempi, altro ciclismo. Con Marino Piazza che strillava: "Centoventi corridori / nel gran lungo gir di Francia..."».
L'Espresso, 11/05/2000
La fortezza comunista
A leggere i verbali della direzione del Pci pubblicati in questo numero dell'"Espresso" sembra di precipitare in una preistoria del nostro paese. La stenografia toglie pathos alle parole dei protagonisti, ma fissa in modo oggettivo abitudini di pensiero, stili di argomentazione, dubbi indotti da un dramma cruciale e irrigidimenti dettati dall'autoconsapevolezza di un partito investito dalla missione di rappresentare la consistenza dello Stato. Ciò che colpisce a prima vista è l'immediatezza con cui la tragedia personale di Moro viene liquidata. Nel momento in cui si ha notizia dell'agguato di via Fani, il leader dc scolora da individuo a problema politico. Ogni ipotesi di salvezza svanisce di fronte alle questioni strategiche. La leadership comunista si trova di fronte a un dilemma duplice: deve fronteggiare la Dc, all'interno della solidarietà nazionale, qualificando il Pci come il partito della tenuta istituzionale; e nello stesso tempo sente l'obbligo di mobilitare la società per sterilizzare la sfida brigatista. Ecco perché ricorrono continuamente le parole d'ordine della mobilitazione, della vigilanza "di massa", della compattezza del partito. Ma nello stesso tempo serpeggia l'ombra di un uso strumentale della tragedia: non tanto per cinismo, quanto per un'autorappresentazione che assegna al rigore del Pci il ruolo centrale nella resistenza di uno Stato che "non può e non deve" essere identificato soltanto con la Dc. Tutto ciò si esemplifica dopo il ritrovamento della prima lettera di Moro. Il regista del compromesso fra Dc e Pci viene immediatamente dequalificato al rango di una non esistenza. Sotto la guida di un taciturno Berlinguer, si affronta la pratica negando ogni qualità politica al suo messaggio. Moro a quel punto è un frammento in un meccanismo che inesorabilmente lo schiaccia. Fino alla conclusione del dramma, il Pci appare come un fortilizio che si compatta grazie alle sue logiche esclusive. Fuori ci sono i guerrieri rossi, organizzati ed efficienti. Fuori c'è la Dc, un ventre molle spaventato e imprevedibile. Dentro, all'interno della fortezza comunista, c'è invece un partito che si racchiude in se stesso. Un partito che non ha informazioni significative sugli avvenimenti, ma che dà fondo alla propria strumentazione e da quella non esce. È il partito della fermezza: ma anche dell'immobilità, che mentre si sforza di essere il titolare della resistenza istituzionale, si configura come un'isola in un passato.
L'Espresso, 11/05/2000
L’Italia al tempo degli 883
Uno arriva alla Marton, la società di produzione di Claudio Cecchetto situata nella perife- ria di Milano, in una villa patrizia che è tutta un tripudio del postmoderno, tra affreschi e maxischermi, stucchi ottocenteschi e divani in acciaio, e pensa: qui dobbiamo essere nel pieno della nuova tendenza. E se il trend è: soldi, consumo, tecnologia, immagine, new economy, tombola del centrodestra, allora per deduzione Massimo "Max" Pezzali, voce e anima degli 883, potrebbe essere l'aedo pop dell'Italia di Forza Italia. «Ma figurarsi», si schermisce lui. «Come faccio a simpatizzare per Berlusconi? Oltretutto sono disperatamente interista...». Timido, un po' teso: e si capisce allora perché quasi si strangolava dall'emozione quando è finito sul palcoscenico di "Francamente me ne infischio" a cantare "Ciao ragazzi" con Adriano Celentano, la passione di suo padre (e il papà, in quel momento lì, ha capito che il ragazzo ne aveva fatta, di strada). Non strizza più gli occhi perché nel settembre scorso si è fatto il laser, che gli ha tolto cinque-sei diottrie di miopia, «una roba che, giuro, cambia la vita». Dopo di che il trentatreenne Pezzali è tornato ingrassato di quattro o cinque chili dalle 20 date del tour italiano del suo gruppo. Il tour è stato il solito successo. Grandi città e provincia, palazzetti con 4 mila paganti al colpo. Nord e Sud, pubblico giovanissimo accompagnato dai genitori, ma anche trenta-trentacinquenni un po' ritardatari che ormai non si vergognano più della "Weltanschauung" di Max, perché «ci hanno sdoganati». Adesso, dopo una dieta rigorosa, gli 883 sono in attesa di ripartire, a metà maggio, per una serie di concerti promozionali in Germania, «dalla Baviera in su», dato che la loro nuova casa discografica (la Wea) è convinta di poter trasmettere la sindrome 883 in tutta Europa, dopo che loro hanno sbancato in Italia a suon di cinque milioni di dischi venduti e alla faccia dei critici che facevano le smorfie solo a sentirli nominare. A vederlo, Pezzali non sembra uno che si sia montato la testa. Si è concesso una Audi TT, un coupé da 70 milioni, ma niente di più. Continua ad abitare a Torre d'Isola, un piccolo comune a due passi da Pavia, proprio nel parco del Ticino, in un complesso edilizio semipopolare insieme con i genitori. «Dev'essere la mentalità ereditata dalla mia famiglia. Prudenza, pochi esibizionismi. Mi ripeto sempre: potrà anche arrivare il periodo di magra, in cui non venderò più lo straccio di un disco e mi guarderanno con compatimento. Ma almeno non avrò fatto il fenomeno, quello che fa il divo coglione». Tanto per dire, i suoi genitori hanno ancora il negozio con l'insegna "Fioraio" nel centro di Pavia. Classica famiglia della provincia bianca: il padre che lavora fin da adolescente e che a un certo punto si mette in proprio sperandi di non affogare nei debiti; la madre, figlia di un coltivatore diretto, che faceva la segretaria a farmacologia, e poi è entrata anche lei nel negozio di famiglia. Cattolici, democristiani, poi attratti dalla Lega, e infine diffidenti verso Berlusconi, storcendo il naso perché il cavaliere si presenta come il campione dei piccoli commercianti, ma loro lo percepiscono come quello delle grandi catene commerciali, che i piccoli alla fine li frega. Dalle benedettine a Vasco Figlio unico, Max ha tutte le caratteristiche per essere un perfetto esempio di italiano post: del post-dopoguerra, del post-Sessantotto, del post-Settantasette, della post-politica. Elementari dalle benedettine: «Ricordo il giorno del rapimento di Moro, l'atmosfera luttuosa, con le suore che si aggiravano con addosso l'espressione fisica della tragedia. Eravamo bambini, mica sgamati come adesso, ci fece un'impressione terribile». Poi il liceo scientifico al Copernico, meno esclusivo del Taramelli, «un asilo da cretini» con professori in costante complesso di inferiorità e quindi più feroci: ogni anno una sofferenza atroce con la matematica e anche una bocciatura in terza. L'iscrizione a Scienze politiche, con un unico esame in Sociologia. Infine, scoraggiato dall'insuperabile esame di Statistica fino a farsi venire l'esaurimento nervoso e dire addio all'Alma Mater. A raccontare come ha cominciato a fare musica non ci si crede. Con un suo amico e compagno di banco, l'extrabiondo Mauro Repetto, e grazie alle mance natalizie derivanti dalla distribuzione dei fiori per le feste, si erano comprati le prime tastiere e la batteria elettronica della Roland. Max fanatico per la voce calda dei Wall of Voodoo di Stan Ridgeway, Repetto più mercantile, Duran Duran e dance nera. Bisogna dire subito che il biondo Repetto, a Pasqua del 1994, se ne sarebbe filato in California a inseguire una sua avventura cinematografica; poi a New York, e adesso è a Parigi, ha fatto la guida turistica, lavora a Eurodisney, scrive sceneggiature, fa l'impresario, insomma, è uno che ha rinunciato con un'alzata di spalle al mucchio di soldi chiamato 883. Devono essere passati due anni dall'ultima telefonata. Ma agli inizi, seconda metà degli anni Ottanta, i due erano inseparabili. E senza sapere niente di musica, si erano subito messi a fare canzoni, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non come i loro coetanei, che di solito tentano l'avanguardia, l'house, l'acid, la techno, la jungle, tutta roba inascoltabile: «Macché: primo, facevamo musica per imparare a usare tastiere e computer; secondo, a me è sempre piaciuto fare canzoni, fatte e finite, perché nel mio genoma dev'esserci ben piantata la melodia italiana. Mi piace Vasco Rossi, Eugenio Finardi per cui ho fatto quasi una malattia al tempo dei movimentismi e dei primi centri sociali, il De Gregori di "Rimmel", il Battisti ermetico che faceva sperimentazioni con anni di anticipo sugli altri. E così dopo un paio di rap piuttosto artefatti ho messo giù "Come mai", una canzone maledettamente romantica». Già: quella che a distanza di anni sarebbe risultata un successo delirante con le ragazzine che si fanno venire le lacrime agli occhi non appena Max attacca: «Le notti non finiscono all'alba sulla via...». Sembrerebbe il ritratto tipico del conformismo nazionale. «Vero fino a un certo punto. Perché come per tutti, a un certo punto, è scattata la rivolta generazionale. Rispetto ai miei genitori, e alla loro mentalità secondo cui non cambia mai niente, ogni cosa si ridimensiona e alla fine tutto torna sempre uguale, malgrado i computer e l'Euroflora che va online, io non avrò una grande coscienza politica ma mi sembra di sentire ancora l'eco di un'idea secondo cui qualche cosa può essere cambiato. Sono ingenuo? Ma no, sono una via di mezzo. Sono ancora condizionato dalla mia formazione cattolica, sono un po' centrista, un po' di sinistra moderata». Da Marx al punk Dunque dove sareb- be la famosa rivolta? «È arrivata prima: avevo 14 anni, leggevo "Frigidaire", ero innamorato di Andrea Pazienza e di quella banda lì. Nello stesso tempo avevo cominciato a frequentare il circolo operaio di "Lotta comunista" che come livello iniziatico sembrava Dianetics, virato sul marxismo-leninismo e sulla militanza di sinistra. Una sinistra molto vecchia, molto sospettosa. Ti guardavano storto solo perché eri giovane. Riuscivano ancora, all'inizio degli anni Ottanta, a portare l'eskimo. Chissà dove lo compravano. Poi c'è stata l'epoca del punk, in cui invece grazie al cielo c'era pochissima teoria: ero il classico miope con fondi di bottiglia davanti agli occhi, e quindi fare il punk voleva dire affermare una personalità. Si andava a Milano, al Virus, e a Piacenza, e soprattutto a Bologna, che era la capitale morale del movimento. Ma anche a Pavia, ad esempio per la performance dei Chelsea Hotel, quattro gatti a vederli, con il cantante che prese a tagliuzzarsi le vene e venne portato via dalla Croce verde... Un paio di volte, per curiosità, sono anche andato a vedere che cosa facevano quelli del Fronte della gioventù, ma era solo un trip per cui uno si alzava fascista la mattina e al pomeriggio decideva di fare il nazi, e io ho detto questi sono fuori come un balcone, e me ne sono andato senza salutare». Il fatto è che il mondo vitale di Pezzali è rimasto quello di sempre, della provincia, del bar Dante fuori dalla cinta muraria, e con i tavolini d'estate, immortalato in alcune canzoni come "La dura legge del gol", "La regola dell'Amico", "Rotta per casa di Dio", frequentato con gli amici di sempre. Ovvero Francesco Bertolotti, alias "Cisco", coscienza storico-critica del bar, tornitore in un'azienda meccanica di Binasco. Oppure "Apo", cioè Claudio Apone, contabile in un'agenzia di assicurazioni, e "Yeye", diploma di geometra, una storia di sette anni di tossicodipendenza risolti con una radicale terapia in comunità, accolto dagli altri come un trionfatore, uno che ce l'ha fatta, una vita ricostruita nel settore agricolo. A parte il bar, Max si alza alle dieci e mezzo, e lavora a casa con le sue tastiere nella sua stanza. In studio di registrazione, a Bresate, gli danno una mano gli altri componenti della factory 883, Pier Paolo Peroni (amico di Jovanotti, ex programmatore di Radio DeeJay) e Marco Guarnerio (fonico-arrangiatore), mentre il pallidissimo Cecchetto, quello che li ha tolti dall'anonimato chiamandoli dopo avere sentito una loro cassetta, è lo stratega, quello che sovrintende alle operazioni complessive, dal packaging al lancio. Perché gli 883 sono effettivamente un prodotto industriale, rivolto al mercato: con l'aggiunta di un atteggiamento scanzonato, da buona compagnia, che riesce a frullare insieme il professionismo con il dilettantismo, il calcio con l'immaginario giapponese. Dalla discoteca allo stadio Con il risultato che pezzali, men- tre prima era considerato trash puro, è stato recuperato. "Famiglia cristiana" ha scritto che la sua ultima prova, "Grazie mille", contiene un senso quasi religioso della vita. E lui sembra fare di tutto per confermare l'idea di essere uno dei tanti che però parla a nome di tutti. Il figlio di una provincia lombarda che si rivolge a una provincia italiana apparentemente eterna: «Anche in questi tempi di New economy, io, che pure sono curiosissimo, e ho cominciato a trafficare con Internet sei anni fa, mi rendo conto che in provincia tutto arriva filtrato e come in ritardo. Il mio timore è che la provincia e la metropoli si stiano allontanando, altro che omologazione. Di fronte a Tokyo, a New York, noi restiamo sempre dei ragazzi italiani, che hanno paura a entrare in un locale, che sentono la distanza». Perché in provincia si guarda con diffidenza alle novità. La depositaria ideologica di famiglia, cioè la mamma, ha come dogma che le cose si ridimensionano sempre. Lui tradurrebbe: «Stessa storia, stesso posto, stesso bar», come il libro che ha scritto. Trading online? Ma neanche a parlarne. Il mattone. I bot. Avventure nisba. Quando il Nasdaq collassa, la mamma, che ha rifiutato con una smorfia le proposte di investimento azionario della banca locale, lo prende in giro: «Eh, Massimo, t'è vist i tecnologici? T'è vist el to Internet?». Lui scrolla le spalle. Non sembrerebbe assatanato di danaro. È solo uno che ce l'ha fatta, anche se in un settore improbabile. «Sono sempre quello che è cresciuto a pane e fumetti, i Supereroi, Alan Ford di Magnus & Bunker, e anche Tex Willer e Zagor, fino a Dylan Dog di Tiziano Sclavi, che oltretutto è di Broni, proprio qui dietro casa. "Hanno ucciso l'uomo ragno", o "Nord Sud Ovest Est" nascono proprio dai fumetti». E naturalmente quello che andava per discoteche, dove lui ha imparato a fare il sociologo sul campo, a osservare le coppie che «si baciano come nei film, poi si tradiscono dopo un'ora» ("Nella notte"): «C'erano due discoteche, a Pavia, il Docking per i fighetti, e il Celebrità, poi ribattezzato Matisse, più girato sul rock. Ci si andava un paio di volte la settimana. La discoteca era il luogo in cui entravi in contatto con la città, perché venivano quelli di Milano, o per meglio dire dell'hinterland, a farti concorrenza con le tipe. Uno scontro fra provinciali. In ogni caso la discoteca era anche un luogo che veniva interpretato come un palcoscenico. Capirai, in provincia ci si conosce tutti, tutti sanno che fai la parrucchiera o il meccanico, eppure tu vai nel locale e fai la divina o il dark». Cultura? «Tutte le mattine il "Corriere", la "Provincia pavese" e naturalmente la "Gazza", perché il calcio è la mia antropologia. Libri, pochi. Mi piacciono gli spaccati storici. Impazzito per "Fatherland" di Robert Harris, cioè di un'idea di storia parallela, di che cosa poteva succedere se Hitler avesse vinto la guerra. Romanzi ancora meno, l'ultimo che ho letto è il "Bastogne" di Enrico Brizzi. Molto Bukowski, a suo tempo, e molto Stephen King, anche adesso». Ultimamente lo sguardo fenomenologico di Pezzali ha lasciato il campo a una vena più intimista. Le canzoni sono diventate più romantiche: «Ma è anche per reazione a tutto l'insieme dei fallimenti amorosi che si vedono in giro. Adesso, quando qualcuno che conosciamo si sposa, si aprono subito le scommesse. Tempo quattro mesi e quella torna a dormire dai suoi. E grande soddisfazione cinica quando accade davvero. Fatto sta che nel mio giro non conosco nessuno, dico nessuno, il cui matrimonio sia durato più di tre anni. Non c'è più il problema della sopravvivenza, l'idea che il matrimonio era un un progetto di vita. Si riconosce che ci si è rotti le palle, e via». Al punto che l'ideologia di famiglia, che prima faceva regolarmente la classica domanda «quand'è che ti sposi, Massimo», adesso si è rassegnata alla sua vita più o meno da single, sospirando «eh, chissà, forse fai bene, con le ragazze che ci sono in giro oggi...». Così lui si è fabbricato una specie di rimpianto morale per la coppia stabile, un affetto quando vede due dei vecchi tempi insieme col bambino: «Perché penso che sarebbe bello, o che poteva essere bello, e che al loro posto potevo esserci io. Una miscela di nostalgia e di disincanto: «Dettata anche dal fatto che sento molto il problema della velocità del cambiamento, e dell'adeguatezza del mio cervello ad assimilarla. Siamo cresciuti in un'epoca in cui la carta geografica non cambiava mai, e in Italia cambiavano i governi ogni tre mesi ma la sostanza no, restava uguale: in fondo era rassicurante». Quando la vita era più facile, ha scritto in una canzone che si chiama "Gli anni". Mentre adesso? «Adesso, eh, adesso è tutto diverso».
L'Espresso, 04/05/2000
Cercasi Prodi disperatamente
Vietato illudersi che si possano replicare formule che in un passato anche recente avevano l'alone del successo. La mutazione della politica italiana rende impraticabile il continuismo. Perché l'onda lunga della trasformazione sociale impone un cambiamento radicale nelle strategie e nei programmi del centro-sinistra. Altrimenti, tenendo fede a un'idea stereotipata della politica, si cade dentro la "sindrome Martinazzoli": cioè si individua una personalità ispirata, intellettualmente sofisticata, che alla fine si rivela drammaticamente perdente contro lo sbrigativo Formigoni di turno. È per questo che il centro-sinistra si trova in un vicolo cieco. Perché sotto sotto continua a pensare di opporre al dilagante Berlusconi attuale dei competitori che non hanno chance. Tutti selezionati in base al criterio che sia possibile rintracciare un filo tra il passato e il presente, e che l'opinione pubblica sia disposta ad accogliere e votare un candidato per la sua capacità di impersonare un legame fra la tradizione della Repubblica e un avvenire politicamente secolarizzato. Favole belle, che preludono a illusioni letali. Se si guarda la galleria dei protagonisti, la sensazione è che l'unico schema sia il "tutti a casa". Oggi per il centro-sinistra il "primum vivere" significa soprattutto sgombrare il campo dalle aspettative sbagliate. Meglio il realismo: a costo di non salvare nessuno. WALTER VELTRONI. Caduto D'Alema, si poteva pensare che il suo alter ego ulivista fosse in "pole" per tentare la leadership solitaria. Veltroni rappresenta una delle più acrobatiche passerelle tese fra la storia nobilmente minoritaria della Prima Repubblica e la cultura dell'Ulivo mondiale. Ma le sue visite alle tombe di monsignor Dossetti e di don Milani, insieme ai pellegrinaggi nella casa torinese di Norberto Bobbio (sconsolatissimo quest'ultimo, perché gli italiani si sono consegnati ai barbari), costituiscono un omaggio intellettuale che l'Italia della new economy o del Nord-Est/Far West si rifiuta persino di comprendere. Così, il "mai stato comunista" di Veltroni assomiglia a una giustificazione più che a un programma, e le sue proiezioni africane sembrano un tentativo di acchiappare la globalizzazione dalla parte delle buone intenzioni anziché dell'enrichissez-vous, come invece fa la destra, che ha meno fisime e quando pensa all'Africa progetta di detassare le missioni, perché all'Africa ci pensino loro. MASSIMO D'ALEMA. Lo schian- to del leader Massimo, del Migliore reincarnato, del "comunista più intelligente e affidabile" (secondo Berlusconi) è stato tale da proiettare al di là del prevedibile le sue possibilità al rilancio. Ma lui non se n'è dato per inteso: poche ore dopo la batosta ha cominciato a rilasciare dichiarazioni contro la nuova partitocrazia (forse dimenticando che è stato lui, a suo tempo, a scommettere sulla Cosa 2, cioè il partito, contro la propria coalizione, vale a dire l'Ulivo), e tentando una velleitaria candidatura a capo degli innovatori contro i conservatori: come se in questo momento schierarsi per il maggioritario contro Berlusconi, e insistendo ostinatamente sulle regole anziché sui contenuti, significasse davvero essere progressisti. L'illusione di D'Alema è che sia possibile cercare una riscossa cavalcando una spinta riformatrice che era viva fino al 1998 (anno della caduta di Prodi), e che anche lui ha contribuito a insabbiare. CACCIARI, BASSOLINO, RUTELLI. Ogni volta che la politica va in crisi si rispolvera la storia che bisogna ripartire dal basso, dai sindaci, dal territorio. Ma Cacciari non era quello che si lamentava, dopo la seconda trionfale elezione dei sindaci ulivisti, dell'assenza di un'opposizione, e se ne diceva angosciato? Adesso l'ha trovata, l'opposizione. Dal canto suo Bassolino accarezza l'idea di poter diventare il salvatore del centro-sinistra, confortato dai riconoscimenti di Berlusconi, che non rinuncia alla possibilità di scegliersi l'avversario più comodo. E per Rutelli, il presunto "Prodi bello", si avvicina l'ora in cui si capirà che l'Ulivo può fare acclamare un sindaco, mentre è molto più improbabile che un sindaco possa rivitalizzare l'Ulivo. EMMA BONINO. A rigore non ha molto da spartire con il centro-sinistra. E quindi se ne parla di striscio, data l'infausta idea di D'Alema, pochi giorni prima del voto per le regionali, di chiedere ai radicali il voto disgiunto, chiamato opportunisticamente "voto utile". Un'improvvisazione dettata probabilmente da sondaggi (sbagliati) che attribuivano alla lista Bonino percentuali vicine alle due cifre. Mentre in realtà, come ha ripetuto un vecchio gourmet della politica come De Mita, la Bonino era una "bolla elettorale". Smaltita l'euforia delle europee, la fanciulla e il vampiro, Emma e Marco, sono tornati ai loro valori standard. Restano liberali, liberisti, libertari, maggioritari, "americani": ma il bluff per trasformare una minoranza in un'egemonia è ormai stravisto.
L'Espresso, 27/04/2000
T’adoriam Silvio divino
Travolgente, micidiale, irresistibile Berlusconi, proprio come ai vecchi tempi del Milan trionfante di Gullit e Van Basten, o nelle radiose giornate intorno al 27 marzo 1994. Lo si può chiamare ironicamente "Cavalier Traballa", come fa talvolta il politologo Giovanni Sartori sottolineando i suoi ondeggiamenti in dribbling sul filo della legge elettorale. Si può infilzarlo come ha fatto Arturo Parisi, il piccolo leader dei Democratici ridotti al lumicino, nel salotto di Bruno Vespa, ridicolizzandone l'autismo anticomunista. Si può deprecarne la furbizia elusiva, visto che ha rifiutato il faccia a faccia televisivo con Massimo D'Alema. Mentre coloro che conservano un'i- dea illuminista della politica possono anche levare lamenti per il modo in cui ha trasformato la consultazione regionale in un'ordalia politica. Eccetera eccetera. Ma alla fine, dopo la spallata del 16 aprile, sarà meglio interrogarsi sulle ragioni profonde della vittoria berlusconiana. Anche per provare a capire se il debordante successo alle regionali può diventare il trampolino di lancio per la campagna di liberazione finale, quella delle elezioni politiche. In cui si assisterà ineluttabilmente al grande ritorno, ai danni degli usurpatori. Ci sono tutte le premesse, per la verità. Eppure il cavaliere non è cambiato. È sempre lui, inceronato, con i suoi doppiopetti squadrati, con l'eterno sorriso stampato sul volto o digrignante quando accusa le "sinistre" di brogli. I suoi avversari continuano a pensare che sia il capo di un partito di plastica. Ha suscitato ironie con il "kit del candidato", provvisto di orologi, cravatte aziendali e manuale di retorica forzista. L'invenzione della "cafonave", come l'ha chiamata Michele Serra, sembrava il suggello simbolico di una visione politica fra lo show e la crociera, un "love boat" per platee televisive corrotte nel gusto dai serial Mediaset. E allora che cosa è accaduto? Dove è cambiato lo schema? Dal 1996 a oggi il centro-sinistra avrà pure commesso numerosi errori, taluni follemente autodistruttivi, ma in ogni caso ha portato a casa risultati sostanziali. L'approdo europeo, in primo luogo. Che aveva creato le condizioni per passare dall'epoca dei sacrifici a quella del rilancio economico. Tassi d'interesse ai minimi, inflazione bassa, crescita ancora lenta ma in promessa di accelerazione. Era difficile perciò immaginare spazi che consentissero al Polo di incunearsi giocando sulla qualità della sua proposta politica "virtuale". Sarebbe stato legittimo invece pensare che l'abitudine, se non il consenso, al governo, avrebbe sterilizzato il forcing del Polo. Invece no. Berlusconi è riuscito a imporre il proprio "modello". A convincere la maggioranza degli italiani che la coperta del Polo può stendersi confortevolmente sull'intera società nazionale. Che la "Casa delle libertà" è la residenza naturale per la maggior parte dei cittadini dell'Italia che ha virato la boa del secolo (e soprattutto dei tormentati anni Novanta). Agnelli dixit Un miracolo. O, meglio, un secondo miracolo, un miracolo ulteriore dopo quello del 1994, reso ancora più clamoroso dal fatto che allora il creatore di Forza Italia poteva presentarsi sulla scia del nuovo, mentre adesso il suo modello è composto di materiali risaputi. Della riscossa berlusconiana, in realtà, c'erano stati segnali e indizi, per chi voleva coglierli. Per esempio, la sintesi attribuita all'Avvocato Agnelli dopo l'elezione in Confindustria di Antonio D'Amato («Hanno vinto i berluschini») interpretava con un sottofondo di stizza ma anche di intuito un coacervo di sentimenti diffusi nel mondo imprenditoriale. Tuttavia, malgrado l'affiorare di una sbrigativa voglia di trattare più rudemente con Palazzo Chigi, e nonostante un evidente risentimento contro i vincoli della concertazione e i freni sindacali, sembrava improbabile che si potesse manifestare una corale volontà contraria al centro-sinistra. Già: che cosa offre infatti Berlusconi all'Italia contemporanea? Offre una miscela eterogenea, composta di passato e di presente. Il passato è quello para-quarantottesco, fondato su un anticomunismo così veemente da apparire fuori tema e fuori tempo. Non solo: al passato sono da ascrivere anche le sue propensioni verso il sistema proporzionale, dopo essersi esibito come fervente adoratore del maggioritario. E passatista, a rigore, appare anche l'impegno a ricostruire un centro politico simil-democristiano. Quanto al presente, c'è in campo tutta la sua fantasia economica. Ispirato dai programmi liberalizzatori del leader popolare spagnolo Aznar, il leader di Forza Italia è riuscito a trasformare una promessa in una realtà effettuale. Nelle sue parole, la "ricetta" di Forza Italia assume la consistenza di un programma rigoroso e infallibile, destinato a resuscitare le energie depresse dal centralismo post-comunista. Una simile combinazione ideologico-programmatica sarebbe sembrata implausibile fintanto che il centro-sinistra poteva mostrare una "mission" esplicita, quella del risanamento dei conti pubblici in chiave europea. È diventata invece un'arma letale nella bonaccia fiacca che ha impaludato il governo D'Alema. Ma bisogna aggiungere che non solo il centro-sinistra, una volta disseccato l'Ulivo, è entrato nel piattume, ma è stata buona parte della società italiana ad abbassare le braccia: come se non desiderasse altro che il ritorno al laissez faire domestico, dopo gli impegni imposti dall'Europa. Il popolo delle partite Iva Il gran ritorno di Berlusconi viene celebrato infatti mentre si chiude macchinosamente la parentesi di mobilitazione pubblica durata da Tangentopoli all'ingresso nell'euro. Sotto il profilo politico, con il ritorno all'ovile della Lega si ricompone una delle fratture che avevano attraversato il corpo dell'Italia democristiana. L'aggregato elettorale del Polo, a questo punto, si sovrappone quasi esattamente a quello del vecchio pentapartito. Ecco un ceto politico di democristiani senza troppi preti, di socialisti senza socialismo, di liberali senza ubbie veteroliberali. Che al Nord si identifica con il popolo delle partite Iva, con l'antistatalismo leghista, con le pulsioni di una piccola borghesia ipersensibile ai richiami della "libertà", a cui si promettono fragorose riduzioni fiscali e la prospettiva dell'"enrichissez-vous". E che nel Mezzogiorno si avvale dell'apporto nazionalpopolare di An, forse non più essenziale ma comunque ancora utile. A smontare la costruzione ideologica del Polo rimangono in tavola gli elementi sparsi di una macchina politica totale. Un supermarket che offre "valori" cattolici, liberalismo "sturziano", libertà economico-imprenditoriale in versione antistatalista, insofferenza per le regole, disattenzione per i diritti, severità verso l'immigrazione, mano dura sul problema della sicurezza, moderazione nelle enunciazioni ed estremismo nei modi. Il modello politico di Berlusconi è una combinazione assolutamente postmoderna. Sfonda perché è postmoderna l'Italia di oggi, in cui le ideologie e le tradizioni culturali sono state disciolte dal potentissimo solvente della televisione e dei consumi. Per contrastarlo, non basta né il "partito del premier" né qualche trovata di coalizione: occorre ritrovare il filo per comprendere in profondità la società italiana, al Nord come al Sud, senza distinzioni.
L'Espresso, 27/04/2000
Non ci resta che il referendum
«È una sconfitta che viene da lontano. Prevedibile, anche se adesso diranno che col senno di poi è facile dare giudizi. Ma soprattutto è la prova che non tutto si può risolvere con il professionismo politico, con la tattica, con le furbizie». Michele Salvati, una delle anime liberal dei Ds, alterna lucidità nell'analisi e scoramento intellettuale di fronte allo sfondamento del Polo alle regionali. Vuole dire che l'insuccesso del centro-sinistra il 16 aprile era inevitabile? «Il senso di questo risultato non si capisce se si guarda solo al mancato happy end. Occorre considerare che l'eccezione vera, autentica, nella vicenda politica italiana fu il 1996, cioè la vittoria di Prodi e dell'Ulivo. D'Alema ha ragione a rivendicare quell'esito come il proprio capolavoro. Era riuscito a dividere il blocco di centro-destra, a partire dal ribaltone, e quindi a indebolire il campo avversario. Inoltre l'invenzione del-l'Ulivo aveva mobilitato risorse nella società. Un miracolo. Ma le eccezioni, come i miracoli, hanno la pessima tendenza a non ripetersi». Per questo lei si aspettava la botta? «C'è quel proverbio anglosassone secondo cui si può imbrogliare una persona cento volte, o cento persone una volta, ma non cento persone per cento volte. Il che significa, tradotto nella politica di casa nostra, che dopo avere sconfitto Berlusconi e il Polo grazie a una superiore capacità di interpretare la legge elettorale e la logica di coalizione, desistenza con Rifondazione comunista compresa, quelli del centro-destra hanno imparato il metodo. Giulio Tremonti ha ricucito con la Lega, sono stati fatti accordi con Pino Rauti...». Solo un problema di ingegneria politica? «Sono stati commessi errori, anche gravi. Dal punto di vista della strategia si è lasciato passare troppo facilmente il ricongiungimento della Lega con il Polo». Forse non era politicamente decente recuperare il Bossi come "costola della sinistra". «Non era necessario cercare un accordo a tutti i costi. Occorreva la capacità politica di inserirsi fra la destra e Bossi, attraverso programmi e provvedimenti politici che qualificassero il centro- sinistra mostrando la strumentalità del corteggiamento forzista». Significa che occorreva sfidare la Lega sul piano dei contenuti? «Proprio così. Era opportuno pagare un prezzo in termini di federalismo. Se il centro-sinistra fosse stato capace di mostrare originalità sul piano istituzionale, sarebbe stato molto più complicato per la Lega scegliere "Berluskaiser"». Probabilmente a sinistra si pensava che la Lega fosse una forza residuale. «L'errore principale è consistito nel pensare, in modo ultra-razionale, che l'ingresso nell'euro e la prospettiva dell'unificazione europea togliessero di mezzo il problema della Lega. Bisognava capire che la politica italiana è composta da due blocchi cristallizzati, e che ogni tassello che una parte riesce ad aggiungere può costituire un vantaggio irrecuperabile». Quindi D'Alema ha commesso un errore di sottovalutazione. «Probabilmente si è convinto che bastasse un'idea di buon governo, il prestigio recuperato sul piano internazionale, il via libera dell'establishment, a trasmettere un messaggio capace di creare consenso generale. La sottovalutazione consiste nel non avere circoscritto problemi specifici. Per esempio, nel non avere saputo guardare al Nord. Il che implicava un progetto esplicito di decentramento, l'avvio di un programma di grandi opere infrastrutturali, l'identificazione del problema della sicurezza dei cittadini». Può essere che il presidente del Consiglio non avesse fiducia nella propria maggioranza? «D'Alema ha pagato tutti i pedaggi possibili all'"ottobre nero" del 1998, quando fu liquidato Prodi. È in quel momento che si esaurisce la spinta riformista del centro-sinistra. Ma si erano perse occasioni significative anche in precedenza: il lavoro compiuto dalla commissione Onofri sulla riforma dello Stato sociale era finito nel cassetto. Vale a dire che un intelligente programma di ristrutturazione del welfare è stato lasciato cadere». C'era di mezzo il rapporto con il sindacato. «Lo showdown con il sindacato doveva essere fatto nel primo anno di legislatura, in modo da affrontare il conflitto da posizioni di forza. Adesso è tardi». Quali chance rimangono al centro-sinistra, ammesso che si arrivi alla fine della legislatura? «Qualche spazio c'è ancora, ma è sempre più risicato. Bisognerebbe produrre iniziative politiche di forte effetto simbolico. Un intervento secco sulle telecomunicazioni, con la privatizzazione almeno parziale della Rai. Una politica nitida nei confronti di quei segmenti di settore pubblico che bloccano la vita del paese come nei trasporti. Invece ci sono timidezze: anche l'ultima legge sugli scioperi pubblici, pur essendo un passo nella direzione giusta, debole». Ma si può fare in un anno ciò che non si è fatto in quattro anni? «È difficile, ma l'alternativa è l'inerzia. Quando si perde emergono immediatamente due linee: ci sono quelli che dicono che si è stati sconfitti perché non si è stati abbastanza riformisti, e quegli altri che sostengono che non si è stati abbastanza socialisti, e che si è persa identità. Se aggiungiamo che nella maggioranza la componente centrista è particolarmente friabile, le difficoltà vengono fuori tutte». È uno scenario da incubo. Viene da chiedersi se in questo incubo D'Alema avrà un ruolo. «La domanda brutale è se D'Alema ha ancora qualche carta come leader dello schieramento di centro-sinistra. Con il realismo che anche il presidente del Consiglio apprezzerebbe, si può rispondere dicendo che lo scontro fra Berlusconi e D'Alema lo abbiamo già visto. È avvenuto il 16 aprile, ed è finito come è finito. Credo che si stia completando un processo di ricomposizione del sistema politico, che ci riporta tendenzialmente al periodo precedente gli anni Novanta». Si è persa un'occasione storica? «Per adesso possiamo solo riscontrare che la debolezza di D'Alema sul piano pubblico non significa che qualcun altro possa fare meglio nel confronto con il centro-destra. Non è detto che con qualcun altro come candidato premier si vada a vincere facilmente. L'occasione storica era quella di fissare in modo permanente la coalizione, l'Ulivo, per sottrarre il paese a una fatale antropologia moderata. Questa occasione è stata persa, anche se potremo assistere a rilanci e a promesse di resurrezione ulivista». Sono illusioni? «Peggio, potrebbero essere illusionismi. Al centro-sinistra rimane una sola carta da giocare, quella del referendum elettorale del 21 maggio. Perché se si sbriciola lo schema bipolare e salta il confine con il centro, la partita è finita. Dunque, D'Alema deve aggrapparsi alla zattera del referendum, con tutti i rischi che questo comporta. Perché in un sistema bipolare D'Alema può perdere ancora. Ma, in un sistema neo-proporzionale, D'Alema è condannato alla sconfitta. Ritorneremmo nel bipartitismo imperfetto, con una simil-Dc eternamente centrale, e un post-Pci di nuovo ai margini. Con tanti saluti non solo all'ipotesi di una sinistra competitiva, ma anche all'idea di un paese capace di modernizzarsi in modo decoroso».
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