L’Espresso
L'Espresso, 13/04/2000
Amarcord Dc
Malgrado tutto, in area centrista c'è rimasto qualcuno che non vuole rifondare la Democrazia cristiana. E dire che Marco Follini, vicesegretario del Ccd, autore di approfondite esplorazioni dell'arcipelago dc, "moro-doroteo" per sua antica autodefinizione, poteva essere fra i protagonisti del remake. Invece il suo ultimo libro, "La Dc" (162 pagine, 18 mila lire), che esce oggi per i tipi del Mulino, è solo il requiem ispirato da «un dovere verso la nostra memoria, non ancora in pace». Con un ritratto della Dc, come specchio e guida del paese, capace di dire qualcosa anche alle mentalità più laiche e lontane dal cosmo politico cattolico. Ma si può davvero scrivere qualcosa di non scritto, sulla Dc? Per comprendere l'originalità della lettura di Follini conviene sovvertire l'indice del saggio e cominciare dall'ultimo capitolo: perché in quelle pagine, incombenti le metafore del processo pasoliniano («La Dc è un nulla ideologico mafioso») e del "Todo modo" di Leonardo Sciascia, c'è un tentativo inedito di spiegare le ragioni del crollo del partito-sistema, del partito-mamma, del partito-destino. Troppo meccanico, infatti, interpretare il crepuscolo dc con formule politologiche: certo, dopo il crollo del Muro, la sconfitta dell'"avversario cosmico", il Pci, implicava la fine della Dc come bastione, e quindi lo smarrimento «di una missione e di una sfida». Più interessante è osservare il contenuto antropologico, mentale, identitario, della crisi finale. A partire dall'apertura effettiva del Grande Processo, sotto i colpi del piccone cossighiano, sotto l'urto referendario, e l'impatto distruttivo di Mani pulite, la Dc semplicemente si rassegna: «Troppo debole per opporre al processo una politica; e troppo poco consapevole per opporvi una cultura». La Dc insomma «si lasciava andare». Non recitava l'atto di dolore sulle colpe, né tentava una rivendicazione dei meriti. Il partito era stanco: politicamente, ma soprattutto psicologicamente. Dato che il potere aveva surrogato il consenso, subì il fascino distruttivo dell'identificazione con l'aggressore: «Il tributo pagato al sentimento giacobino, il mito di una società civile buona e incorrotta, la vergogna e l'imbarazzo del potere e di una larga parte della propria storia». Con l'effetto di un'attrazione letale in cui «prendeva forma in maniera quasi inavvertita una Dc ansiosa di liberarsi da se stessa». Insomma un suicidio; o un'eutanasia. Comunque una liberazione. Una morte prolungata, in cui si decompone il partito-miracolo che aveva realizzato la coincidenza degli opposti. La Dc era stata, secondo Follini, il partito della società, dello Stato e della Chiesa. In ogni caso, irriducibile alle formule definitive come alle sintesi esclusive. Perché era un partito "doppio": composto per una parte dalla sua classe dirigente, toccata da bruciori ideali (Dossetti), da impazienze tecnocratiche (Fanfani e Mattei), dalla ricerca della mediazione (Moro); e per l'altra il partito del suo elettorato, cioè il popolo minuto, borghese, convenzionale, "doroteo", tragicamente deluso a suo tempo dal fascismo e spaventato poco dopo dalle ombre rosse di Togliatti. La doppiezza dc, unita alla sua vocazione al compromesso, entrò in sintonia con la doppiezza degli italiani: «Da un lato la faziosità, la partigianeria, il particolarismo, perfino la visceralità; dall'altro uno spirito più accomodante, una ricerca di senso comune, un bisogno di costruire argini entro cui lo scontro politico potesse trovare i suoi limiti». Era il partito "femmina", materno, indulgente, rassicurante; il cui ruolo in vesti maschili era tutt'al più quello manzoniano del conte zio e del conte duca, "troncare, sopire", con sapienze melliflue da volpe vecchia. Il processo finale ha messo allo scoperto tutte le facce della Dc: perso il mastice del potere, il partito-contenitore si è disgregato. «L'ultima assemblea democristiana decise all'unanimità che la Dc non esisteva più. Forse perché già da qualche tempo aveva preso a comportarsi come se, per l'appunto, non esistesse». Come ricorda Follini, il corrispondente di "Le Monde" Jacques Nobecourt aveva affermato: «La Dc non si definisce, si constata». Se non sapeva più esistere, non c'era nessuna ragione perché sopravvivesse.
L'Espresso, 06/04/2000
Dal socialismo al network
Pervasiva, irresistibile in ogni dimensione della vita contemporanea, la tecnologia ha una conseguenza ancora tutta da valutare: essere virtuali, alla Negroponte, equivale sempre più a essere reali. E non solo perché il software invade la quotidianità fino a trasformare oggetti d'uso come la lavatrice o il forno elettrico in sistemi di "e-cooking" di "net-washing", mentre il frigorifero è pronto a fare la spesa intelligente nel web. Ma perché le dotazioni tecnologiche plasmano i comportamenti, spalancando infinite possibilità di comunicazione, informazione, lavoro e intrattenimento. Appaiono già lontani i tempi in cui lo speaker repubblicano del Congresso americano, il radicale di destra Newt Gingrich, proponeva contro Bill Clinton nel "Contratto con l'America" forme vicarie di integrazione sociale, basate sulla partecipazione attraverso consultazioni via modem. Alla crisi della cittadinanza, aggredita da processi traumatici di esclusione, il neoconservatorismo d'Oltreatlantico rispondeva immaginando che perfino gli homeless potessero essere reintegrati nella comunità grazie a un computer: nella Rete, anche i dropout avrebbero riguadagnato in quanto "netizens" ciò che avevano perduto in quanto "citizens". Populismo virtualizzato, plebiscito permanente. Eppure, a pensarci bene, questa è la preistoria di Internet: perché presuppone centrali politiche strutturate, istituzioni di governo centralizzate, rapporti verticali fra politica e cittadini, mentre la logica della tecnologia contemporanea è largamente antimonopolistica e orizzontale. E difatti, nel recente vertice europeo di Lisbona, tutto lo sviluppo tecnologico è stato prospettato come un colossale e capillare strumento per intensificare la crescita economica, cioè per incrementare in modo geometrico il potenziale di ogni singolo nodo della Rete. Per molti versi la politica conosce una specie di cyber-crepuscolo: le masse si virtualizzano, e le decisioni avvengono a-narchicamente in qualsiasi punto del processo. Quelli che un tempo erano considerati i poteri forti vengono sterilizzati dai comportamenti praticabili grazie alle nuove opportunità di business: per un Renato Soru che crea Tiscali con i capitali dei fondi di investimento del Midwest, e che comunque sfugge ai santuari politico- finanziari nazionali, ci sono centinaia di migliaia di piccoli investitori che puntano sui titoli tecnologici, magari aprendo conti di trading online e pasticciando fra newsletter virtuali e boatos re-ali. Si potrebbe anche identificarla come una iperdemocrazia, quella della finanza virtuale, almeno finché la tendenza è al rialzo. Davanti allo schermo del trader fai-da-te, tutti i poteri classici, dalla Confindustria ai vecchi salotti buoni, si secolarizzano, perché più che l'alone del potere conta l'analisi tecnica o il Big Bingo sulle nuove quotate (al punto che nascono anche nuove regole, nuovi comandamenti e nuovi peccati, se è vero che un parroco di Como ha invitato i fedeli ad astenersi dalla febbre di massa per le e.Biscom, «almeno durante il periodo della Quaresima»: qualcosa di simile a un "fioretto" tecnologico-finanziario contro la corsa all'arricchimento). Gli effetti sulla politica "old" sono potenzialmente immensi, anche guardando dentro i confini nazionali. E non solo perché la libertà tecnologica è individualistica, e tende a sfuggire ai criteri di regolazione su cui da noi si è costruito l'equilibrio politico (si fa la concertazione, nella Rete?). In una prospettiva di lungo periodo, infatti, i sistemi di comunicazione sembrano favorire coloro che sanno dimostrare adattabilità, flessibilità, inventiva, creatività: e secondo alcuni, da Tommaso Padoa-Schioppa a Marco Tronchetti Provera, dopo avere fallito nella dotazione infrastrutturale pesante, l'Italia si trova di fronte alla chance insperata di poter correre alla pari, e non da "late comer" nel mondo leggero dei cellulari, dell'e-commerce, delle cablature, dei portali, del "business to business". Sotto questa luce, anche i temi più conflittuali dei rapporti fra politica ed economia risultano significativamente ridimensionati. Per esempio, mentre il nomadismo professionale fa svanire la carriera unitaria e la fedeltà aziendale, la stessa discussione sulla riduzione dell'orario di lavoro, spostata dalla "old economy" al versante postindustriale, non riguarda più soltanto la sfera delle relazioni sindacali o il rivendicazionismo fordista di Fausto Bertinotti: è piuttosto uno degli elementi che fanno da sfondo alle nuove modalità di consumo: consumi più sofisticati, compresi naturalmente il consumo di informazione, intrattenimento, conoscenza, richiedono come risorsa essenziale il tempo libero. Si alterano i parametri, franano i termini di riferimento. Al punto che viene il sospetto che la Third Way alla Blair, accusata di leggerezza postmoderna, sia alla fine la sola risposta possibile da sinistra al virtualizzarsi della società: anzi, forse il solo progetto praticabile in politica mentre l'individualismo internettiano sta trasformando il socialismo in un network, la comunità in una folla solitaria.
L'Espresso, 23/03/2000
Meglio Detroit che i berluschini
MartedÌ mattina, quando i mercati hanno cominciato a ballare, e i titoli Fiat si sono inabissati, il big Deal con la General Motors ha cominciato paradossalmente ad assumere contorni più comprensibili. Nelle ore precedenti c'era stato un coro quasi unanime sulla storicità dell'avvenimento. Perché sembrava effettivamente che il management di Torino fosse riuscito a quadrare il cerchio: cioè a globalizzare l'auto italiana, con un accordo di respiro atlantico, mantenendo però le posizioni di comando in Italia. La singolarità di un patto industriale imperniato su una "competizione cooperativa" fra Torino e Detroit passava in secondo piano rispetto al sollievo generale per non avere assistito al verificarsi dell'ipotesi più traumatica, la "soluzione tedesca", cioè la cessione secca dell'intero settore dell'auto. In realtà, dietro lo schermo delle technicalities contrattuali, si nasconde una delle decisioni più essenzialmente politiche che Gianni Agnelli si sia trovato a prendere nella sua carriera. L'Avvocato aveva di fronte a sé il turbinare del Grande Gioco. Davanti al suo sguardo si stendeva l'orizzonte delle fusioni colossali, dei merger globali, la furia nichilista del capitalismo del Duemila. Avrebbe potuto prendere atto della tendenza, giudicare improbabile la capacità di resistenza della Fiat nel mercato totale, e seguire il consiglio degli iper-realisti. Vendere. Incassare i soldi della Daimler-Chrysler, passare la mano, uscire dall'auto e puntare su fruttuosi business alternativi. Poteva essere una prospettiva interessante per un bottegaio. Ma con tutto il suo soave cinismo, con tutta la sua capziosa nonchalance, Agnelli non è mai stato né un mercante né un padrone di bottega. È stato un politico purissimo. Nel corso della sua vita si è caricato di responsabilità paraistituzionali: ha incarnato lo spirito societario e aziendale come la maschera di un ruolo pubblico di governo. Poteva liquidare la Fiat, dopo averne festeggiato da poco il centenario? Poteva assumersi la responsabilità di abbandonare al suo destino l'azienda simbolo dell'Italia industriale? Sarebbe stata un'abdicazione. Una specie di fuga a Pescara con l'addio cinico dell'ultimo sovrano. Ragion per cui, giunto alle soglie degli ottant'anni, nel trovarsi a fronteggiare la scelta più drammatica della sua vita, l'Avvocato ha preferito ancora una volta l'immagine alla sostanza. Sapendo che questa volta immagine e sostanza potevano anche coincidere. Sotto il suo regno, non era possibile estinguere il simbolo di un primato morale. Se il Grande Gioco contemporaneo è uno scacchiere dove imperversano i parvenu dell'internettismo, gli inventori di escamotage tecnologici, gli effervescenti della telefonia, l'auto invece è la pesantezza novecentesca: la grande fabbrica, le relazioni con il sindacato, le masse operaie, le crisi e le rinascite che hanno coinvolto e scandito straordinari mutamenti sociali, politici e civili. In sostanza, sarebbe un esercizio certamente malizioso ma alla fine deludente considerare l'accordo con la General Motors alla stregua di un'acrobazia del management torinese per mantenere le posizioni. Si tratta evidentemente di un'operazione difensiva, di qualcosa che a suo modo delude le aspettative di quella gamma di operatori che si auguravano una robusta dose di pirotecnica finanziaria. Ma nello stesso tempo è anche lo sforzo maggiore che il Lingotto potesse produrre per non snaturare la Fiat. Paolo Fresco e Paolo Cantarella hanno puntato sul presente, nella consapevolezza che scommettendo sul futuro l'azienda torinese si sarebbe dissolta nel meccanismo globale. Una linea del genere non sarebbe stata sostenibile senza una regia carismatica. Basta prendere nota della determinazione con cui Agnelli espone i contenuti dell'accordo per valutarne la portata politica generale. Malgrado l'ormai notissima opzione di "put", «non ci passerà per la testa di vendere». Le voci di un disaccordo con Umberto presunto favorevole a una cessione integrale sono «una balla assoluta». Quanto ai livelli occupazionali, resi potenzialmente problematici dalla cooperazione nei motori e nella componentistica, non c'è «nessunissimo pericolo per la manodopera». Proprio quel superlativo, "nessunissimo" dà l'idea di sintetizzare il ruolo avuto dall'Avvocato nella vicenda. Non poteva, confessa al direttore della "Stampa", ritirarsi nell'isola di Tonga portandosi dietro miliardi di marchi.Quindi l'ideologia, se si può chiamare così, dell'accordo con gli amici americani Jack Smith e Richard Wagoner si identifica con esattezza sul profilo storico, politico ed esistenziale di Gianni Agnelli. È un sacrificio di qualche pezzo pregiato, che cerca lo stallo dato che non si può perseguire una vittoria esclusivamente economica e mercantile. Per questo, pur lasciando filtrare alcune riserve, la politica italiana ha dato il suo consenso, da Ciampi a D'Alema e Amato, da Berlusconi a Cofferati. Ha offerto il plauso a un proprio pari, al senatore a vita, al genio tutelare del capitalismo famigliare che ha deciso di interpretare con gesti sovrani la parte di ultimo campione di un capitalismo nazionale. Così, la soluzione dell'affare Fiat getta una luce inedita anche sul Gioco Piccolo, quello che ha portato all'elezione di Antonio D'Amato al vertice della Confindustria. Certo, la spettacolarità della caduta della candidatura torinese di Carlo Callieri è stata fuori dell'ordinario. Ma lo show di un insieme di settori imprenditoriali che sono riusciti a disarcionare il favorito e a insediare l'underdog sembra a questo punto soltanto l'altra faccia, quella domestica, dell'attacco al trono. Che sia finito il tempo in cui l'alto patronato torinese poteva fungere da supergiuria delle nomine è indubbio, lo hanno detto con brutale chiarezza i 96 imprevisti voti riversati dagli industriali sull'antipapa. Ma un'interpretazione tutta politicista, intesa come la revanche della destra e dei "piccoli" contro il politically correct filogovernativo della Fiat, non spiega appropriatamente il ribaltone di viale dell'Astronomia. Anche le sibilanti confidenze attribuite all'Avvocato («Hanno vinto i berluschini») non vanno interpretate come un'espressione di disprezzo ideologico verso gli esponenti del nuovo capitalismo tardoliberista. Piuttosto come l'esorcismo verso i rampanti, verso i ruspanti, verso l'inedita alleanza fra industrie ex pubbliche e i "nuovissimi", fra manager semi-privatizzati e kingmaker della marca di confine a Nordest. Verso coloro che hanno deciso insomma che per entrare nel gioco più grande occorreva sacrificare il re. Forse accorgendosi, tutti coloro, e forse non senza sod-disfazione aggiuntiva, che il regicidio confindustriale implicava non solo l'emancipazione dalla malleveria dinastica di Torino, ma la sconfessione di uno stile, di un approccio, di un metodo, perfino di un lessico. Concertazione, stabilità nelle relazioni industriali, o antipatia verso i temi della liberazione fiscale, abitudine ai disfunzionamenti sistemici del paese: tutto l'universo di pensiero torinese è stato scardinato. E soprattutto è stata sconvolta l'idea cardine dell'agnellismo: quella di un apparato industriale che ruota intorno e insieme alla Fiat, condividendone le scelte e dunque anche le designazioni. Questa rottura del sistema tolemaico significa implicitamente il ridimensionamento della stella fissa: in chiaro, la decisione che d'ora in avanti, nel Grande Gioco, ognuno può giocarsela da sé, senza patronati. Il sistema Agnelli alla fine, ha perso in Italia perché gli altri giocatori, Cesare Romiti in testa, hanno sentenziato che la regola torinese non occorre più, che è un intralcio, che conviene liberarsi di tutti i condizionamenti dettati dalle affiliazioni. E nel Grande Gioco prova a resistere, anziché ad attaccare o a smobilitare, per restare fedele non tanto alla logica d'impresa, bensì a una logica politica intrisa di tradizione. Può esserci, in questa scelta, l'eco di passioni aristocratiche che talvolta hanno sfiorato, sulla scia di ragioni stilistiche, l'etica civile; anche se oggi c'è da chiedersi se questa sfera di dignità e obbligazioni pubbliche, di fronte alla radicale anomia dei mercati, abbia ancora corso, e se abbia qualche chance.
L'Espresso, 16/03/2000
Cavalier Sorriso e capitan Miracolino
In superficie, la campagna per le elezioni regionali è tutta un gioco di aggregazioni nel centro- destra e nel centrosinistra, con gli inevitabili attriti che nascono allorché si tenta di mettere insieme ciò che è incompatibile (come è avvenuto nel Polo con i radicali) o quando gli alleati minori avvertono come un danno il peso e l'ingombro dei Ds (vedi la Bassolineide con i popolari). Ma se si ha la pazienza di guardare sotto le increspature, e al di là del fatale 16 aprile, ci si accorge che è già in corso la grande campagna delle politiche. E che questa campagna, sottotraccia ma rilevabile, si basa sul faccia a faccia tra due protagonisti, Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi: due uomini, due strategie, due parole d'ordine rivolte alla società italiana. Il capo di Forza Italia ha rilanciato la strategia del grande sorriso. Il presidente del Consiglio si aggrappa alla performance economica, alla scia della ripresa, al "miracolino". Berlusconi sparge l'ottimismo del vincitore. Anche se non perde occasione per riproporre i suoi slogan anticomunisti, contro «quell'ideologia che ha prodotto solo terrore, oppressione e miseria», e che ha come conseguenza «l'ostilità all'iniziativa privata, alla sua logica e ai suoi protagonisti, rimasta intatta nei precordi della sinistra italiana», gli scenari che il leader forzista prospetta all'opinione pubblica sono virati in azzurro. Si rivolge "coeur in man" ai giovani, alle piccole imprese estranee all'establishment, all'Italia del privato e della tv, ai professionisti, agli artigiani e ai pensionati, per comunicare un messaggio e uno solo: avremmo in mano la ricetta per fare del nostro paese una terra radiosa e solo un regime occhiuto e "illegittimo" impedisce questa prospettiva di serenità e ricchezza per tutti. Le convinzioni del Cavaliere sono ferree. Sarebbe riuscito a fare da garante all'alleanza con Emma Bonino, se Marco Pannella non ci si fosse messo di mezzo. Avrebbe distinto sottilmente tra valori ideali e programma politico in modo da estinguere sul nascere i conflitti fra i cattolici proibizionisti del Polo e i libertari della droga legalizzata, fra maggioritari e proporzionalisti, fra opposte interpretazioni della bioetica. La formula di base della sua estesa alleanza è naturalmente quella economica: aznariana, spagnola, liberalizzatrice. E soprattutto popolare, con il formidabile richiamo anti-tasse siglato dalla griffe del fiscalista Giulio Tremonti: «no tax area» per i ceti più bassi, il 23 per cento di imposizione fino a 200 milioni di reddito, un'aliquota massima del 33 oltre i 200. E poi, giù un radicale sfoltimento dalle imposte (otto tasse in tutto), leggi speciali per svincolare le grandi infrastrutture, delegificazioni, semplificazioni, sburocratizzazioni. D'Alema e Vincenzo Visco dicono che sono avventurismi economici? Per Berlusconi sono «la nostra ricetta, che tutti conoscono»: l'unica in grado di indurre il paese alla resurrezione. Possibile? Realistica? Praticabile? Oppure l'enunciazione di una politica economica "by magic"? Nessuno fra gli economisti di tendenza ha ancora valutato il programma polista. A fondamento del manifesto politico di Forza Italia per ora c'è il sorriso di Berlusconi, quella straordinaria fiducia in se stesso che gli fa dire, con rimpianto compiaciuto: «Pensate a che cosa avrei potuto fare, in questi tempi di esplosione delle nuove tecnologie, al ruolo di protagonista che avrei potuto avere nella nuova economia mondiale». Anche nel glorioso e splendente 1994 andava così. Il milione di posti di lavoro era stato percepito dal fiuto dell'imprenditore ed evocato dalla fiducia che lui avrebbe suscitato nelle categorie. La "flat tax" di Antonio Martino era stata crivellata dagli esperti, ma il "penso positivo" era stato immediatamente realizzato con i provvedimenti di Tremonti sulla detassazione degli utili reinvestiti, che per la destra sono rimaste un totem indiscusso della politica del Polo e per gli economisti della sinistra anche liberal un esempio di misure "pro ciclitiche", superflue se non dannose. Insomma, tutta la macchina di persuasione di Berlusconi si basa sulla creazione di aspettative, garantite da lui medesimo in quanto eccezionale suscitatore di energie. Il Cavaliere sorride, promette un governo con personalità strabilianti, si propone come esempio di decoro istituzionale (come quando censura D'Alema per il suo impegno elettorale: «Quando ero a Palazzo Chigi, mi guardai bene dall'intervenire nella campagna elettorale europea», dimenticandosi che era candidato in tutte le circoscrizioni e che portò a casa tre milioni di voti). Sempre più sicuro, sempre più convinto. Ma anche convincente? D'Alema, nei suoi precordi, non sorride affatto: per lui i progetti berlusconiani restano «ricette miracoliste». Anzi, non si limita a non sorridere: digrigna. «In questo paese i dati non hanno molto successo». In sintesi, i dati, anzi, «i risultati straordinari» del centrosinistra, quelli che hanno tolto l'Italia dall'ingrato ruolo di «Cenerentola dell'Europa», sono un deficit all'1,9 per cento, la disoccupazione ridotta dello 0,5 (con l'opportunità di limare un ulteriore un per cento nel 2000), puntando al pareggio di bilancio nel 2003, anno in cui potrebbe verificarsi anche il riequilibrio del debito pubblico al livello del Pil. Retorica "boomish", irride Tremonti. Propaganda di regime, «uno scenario irreale, surreale», ironizzano Berlusconi e i berlusconiani. Secondo economisti del Polo come Antonio Marzano e Renato Brunetta i numeri dalemiani sarebbero frutto dell'oppressione fiscale. Per D'Alema invece il mini-boom è la premessa del miracolo grosso. Manca per la verità ancora un dato, quello della crescita: l'1,4 spuntato nel 1999 è banale, visto l'andamento caldo dell'economia mondiale. Ci vuole qualcosa di politicamente spendibile. Prima della sua malattia, Nino Andreatta lo aveva detto con la consueta verve provocatoria: «Per avere una chance politica abbiamo bisogno di una crescita al 4 per cento». Sembrava il libro dei sogni. Ma ora le cifre ufficiali prevedono per il 2000 un ritmo del 2 e mezzo. E le stime, o le aspettative, sembrano modificarsi al rialzo, anche in seguito all'impennata dell'ultimo trimestre dell'anno scorso. Il 3 per cento non appare più un miraggio. Se un manager carismatico come Marco Tronchetti Provera sostiene che la new economy favorisce l'adattabilità, l'inventività, la fantasia delle imprese italiane, se c'è un proliferare di nuove imprese anche nel Mezzogiorno, se anche il governatore Antonio Fazio abbandona le litanie su pensioni e flessibilità, e comincia a metterla sul positivo anche lui, perché porre limiti alla provvidenza? E vogliamo parlare dei mille fuochi di Borsa, del vorticare dei capital gain, del fervore del mercato attivato dalla Internet-euforia? Già, e allora dov'è il bug, per D'Alema e il centrosinistra? Perché ci dev'essere qualcosa che impedisce al governo e alla coalizione di piazzare sul tappeto l'atout della crescita, e di giocarsi per bene il miracolino annunciando l'arrivo del miracolone. Infatti, mentre il Cavaliere benedice e sorride, nell'alleanza di governo ci si accapiglia su tutto, dal tfr alle candidature, e alla selezione della premiership. E così il miracolino di avvio 2000, insieme con le promesse di restituzione del boom fiscale, soffoca tristemente fra le diatribe di coalizione. «Siamo degli specialisti dello spreco politico», si sente dire nel centrosinistra. Infatti, diaspore silenziose avvengono nei popolari verso Forza Italia; a sinistra della sinistra, Fausto Bertinotti insiste a richiedere misure fantapolitiche. Ma salvo trovate da cortile come le elezioni anticipate, c'è ancora un anno per disputarsi le spoglie del rilancio economico. In questo frattempo, riuscire a non argomentare pubblicamente in modo efficace una prestazione di successo sarebbe un miracolo nel miracolo. A rovescio, naturalmente. Certo, di imprese al contrario, anche nella sua storia recente, la sinistra ne ha già combinate tan- te. Ma oggi c'è una posta implicita in più. Perché chi mette le mani su "questo" miracolo è destinato a tenerselo stretto a lungo. Chi perde paga: e soprattutto pagherà per un'eternità, senza più sorrisi né aspettative di miracoli.
L'Espresso, 09/03/2000
Peggio le tribune d’onore o le curve degli ultrà?
Damiano Tommasi, centrocampista della Roma, la mette sull'"I have a dream": «Vorrei vedere due squadre, insieme al centro del campo, vincitori e vinti ugualmente sereni, salutare il pubblico al triplice fischio come si usa in qualsiasi teatro alla fine dello spettacolo». Purtroppo non è possibile. Perché anche il calcio, come potrebbe dire un grande antropologo come Clifford Geertz, è l'esatta e imbarazzante riproduzione del conflitto fra mondo globale e mondi locali. Nella realtà mondializzata e interdipendente, nell'universo della new economy, il calcio infatti è un tassello della megamacchina, materiale per il trattamento mediatico, dove non importa se sei bianco e tendenzialmente coatto come Totti, nero e bionico come Davids, giallo e sponsorizzato come Nakata. In questo dominio della tv analogica e digitale, le differenze etniche e culturali sono svanite. Si archiviano facilmente le magliette pro Milosevic del serbo Mihajlovic così come le trovate umanitarie di Batistuta per il bambino malato e tifoso. Ma si dà il caso che l'iper-calcio attuale conviva con il tifo razzista degli ultrà, con le croci runiche, con il razzismo delle curve, con la richiesta di forni crematori per gli ebrei o di colate laviche per le squadre del Sud. Dove il lessico dominante è davvero quello dell'allenatore del Bari Eugenio Fascetti, che attacca i "negri" che sputano in faccia agli avversari sangue potenzialmente infetto, e dove il rumore di fondo è dato dai cori dei laziali contro il "negro" Van Gobbel del Feyenoord. Razzismo? Sì, ma più che altro come scontro di fazioni. Il nostro "negro" è un prodigio di classe, di fisicità, di dinamismo creativo: il vostro è un intruso, sporco e magari portatore di retrovirus. Quindi i decreti governativi contro gli striscioni razzisti sono un palliativo pedagogico. Perché come a suo tempo l'antisemitismo era il socialismo degli sciocchi, l'indecenza intollerante dei "buuuh" dà voce a un residuo di vocazione tribale, in cui si esprime l'ultima e distorta appartenenza comunitaria. Mentre le squadre diventano compagnie di mercenari, la sola identità calcistica residua è quella del tifo organizzato e haiderizzato. Dato che non è possibile abrogare il mercato, non sarà meglio abrogare i tifosi? Perlomeno bisognerebbe uscire dall'equivoco delle tribune piene di establishment e delle curve popolate di clan incanagliti: senza che l'élite politico-economica si ponga il problema che con la sua presenza nei posti d'onore, in fondo, possa legittimare i comportamenti di quelle tribù.
L'Espresso, 02/03/2000
L’Italia che canta è l’Italia che conta
Chi vince? E chi se ne frega, chi vince. L'importante è esserci, farsi vedere, mostrarsi, sorridere. Farsi vedere anche da tutti gli sfigatissimi che aspettano assiepati sulla passerella sistemata davanti al teatro Ariston, e che non pagherebbero mai diecimila lire per un concerto dei cantanti in gara, ma siccome guardare è gratis fanno urletti quasi convinti quando riconoscono una faccia nota. Qui a Sanremo non è il caso di fare gli schizzinosi. Malgrado la nonchalance di quelli, fra i cantanti, che ostentano di disinteressarsi al risultato del voto delle giurie, dalla prestazione su quel palco dipendono carriere, rinascite, vendite, ricollocazioni sul mercato, presenze televisive. Se toppi lì, puoi uscire dal Barnum. Se ti va bene, ci puoi rientrare. La posta è elevata. E quindi tutti sono gentilissimi con tutti, con le radio minori, con gli scocciatori, con le telefonate in diretta delle casalinghe che dicono tranquillamente «sei un mito», e con quelle del padroncino di turno che fa chiamare dalla segretaria (ma forse è la moglie che dà una mano nell'aziendina) per poter dire a Gianni Morandi che ha tutti i suoi dischi, compreso l'archeologico "Go kart tuist". Complice un sistema di voto da delirio, un sistema a due turni prima con il voto popolare di una giuria Abacus e poi con una giuria "di qualità" che potrebbe ribaltare il giudizio del popolo, non si sa che fine farà Morandi. È arrivato da vincitore, sulla scia di una iperpromozione mediatica, con i giornalisti che hanno accreditato i boatos di un pezzo da leggenda, grazie anche alla produzione di Eros Ramazzotti, improvvisamente divenuto un genio della musica leggera: ma per non saper né leggere né scrivere il suddetto popolo ha detto boh. Il sistema di voto trova difensori convinti solo nella pattuglia Rai, nel suo Saccà-Maffucci, ma i loro argomenti sembrano una difesa d'ufficio del Mattarellum condotta da Casini o da Mastella. Conflitto d'interessi. Oltretutto dopo la prima serata i risultati del voto pop non vengono forniti (Fabio Fazio annuncia solo i primi tre della classifica, la bambola triste Gerardina Trovato, la bambola allegra Irene Grandi, gli scongelati Maria Bazar, senza un dato che sia uno), e i dietrologi cominciano subito a pensare a quali micidiali casini potrebbero combinare nella serata finale i giurati "de qqualità". Nell'attesa, ci si accapiglia sul poco: il sindaco di Sanremo, il forzista Giovenale Bottini, spalleggiato dal coordinatore nazionale di Forza Italia Claudio Scajola, litiga con la Rai perché la Rai non è andata a cena con lui. I cronisti se la prendono con Michele Serra perché ha definito la sala stampa una «suburra». Ma in genere tutti vanno d'accordo con tutti, si fanno i complimenti a vicenda, e quando si incrocia Sergio Bardotti, paroliere d'annata e membro influente della commissione selezionatrice, gli si dice che quest'anno il livello medio delle canzoni è molto, molto alto, così lui è soddisfatto. Si può vedere lo storico direttore di "Sorrisi e canzoni", Gigi Vesigna (di cui tutti hanno dimenticato la sfortunata avventura del "Telegiornale", il defunto quotidiano che aveva il vivente Antonio Di Pietro come garante dei lettori), che fa i complimenti ad Alice, stilizzatissima fino all'immobilità, e quest'ultima che familiarizza con i simil-amburghesi Subsonica, nel nome dell'avanguardia e della coscienza trendy. I popolari di fascia medio-bassa come Ivana Spagna, Mietta o Gigi D'Alessio fraternizzano fra loro, e si confermano a vicenda quanto sono bravi, perché la regola di Sanremo è che ogni cantante ha i suoi fan, e quindi va rispettato, come per una specie di patto consociativo o di Cencelli canoro. Nel frattempo la critica esalta gli Avion Travel, dei guaglioni stropicciati che ogni volta rifanno Napule in salsa brechtiana, e anche Samuele Bersani, forse perché ha presentanto una canzone che sfiora forse involontariamente il dodecafonico. Soprattutto, vanno d'amore e d'ac-cordo i Tre presentatori, Fazio, Pavarotti e Teocoli: anche se ci sarebbe da giurare che sulle note della sigla, il pucciniano e fatale "Nessun dorma" strillato da Big Luciano (ineluttabilmente definito da Fazio «la più bella voce del mondo», oh yes), qualcuno della Rai abbia fatto scongiuri. Perché mai citare il sonno di fronte a una platea di venti milioni di ascoltatori con l'occhio già cadente alla seconda apparizione delle gengive di Inés Sastre? Vanno d'accordissimo anche con Jovanotti, che mobilita energie di alta consapevolezza politica con un rap in cui, in quanto affiliato da tempi non sospetti a Jubilee 2000, chiede a D'Alema di darsi da fare perché si abbatta il debito dei paesi del Terzo mondo: «Presidente del consiglio io mi rivolgo a lei/ promuova un incontro del G7 e lo dica agli altri sei...». Già, eravamo quattro amici al bar. Quanto a Teocoli, alias Avvocato Prisco, alias Cino Ricci, alias Valentino Rossi che purtroppo è uguale a Cino Ricci, ormai è candidabile a tutto. Basta che ci sia un programma con una certa sfumatura di rischio o un certo rischio di flop, ed ecco Teo e le sue Macchiette. Infallibile. Ormai manca solo una candidatura a premier e poi è fatta: qualcuno ci pensi. Nel backstage, lo staff della Rai fa i complimenti alle tette di Alessia Marcuzzi, ride per i Fichi d'India, che sarebbero niente più che i nevrotici Brutos del Duemila, segue con complice compiacimento lo stile di Fazio e le sue timidezze, dicono, davanti alle telecamere. Dopo di che, uno si potrebbe davvero convincere che è tutta una Nashville delle ipocrisie, una enorme parrocchia precipitata fra noi dagli anni Cinquanta, e mediatizzata in modo compulsivo dalla complicità dei media. Ecco a voi il grande carnevale, con i sosia dei sosia, i nani, le ballerine, perfino la componente socialista rappresentata da Caterina Caselli e dal premiato alla carriera Tony Renis. E che fuori, nel mondo reale, la "gggente" abbia invece un occhio più critico, più disincantato, più scettico, insomma più normale o semplicemente più scocciato. Invece no. Lasciamo pur perdere che il Polo prenda sul serio le rapperie di Jovanotti e protesti aspramente contro il presunto "spottone" dalemiano. Ma se si accende la radio, e si ascoltano le telefonate della società civile, ci si può rendere conto che ormai il paese reale è infetto come la sua capitale Sanremo. Pochissimi che chiamino per dire, no, guardate, il festival è stato una vaccata, il re è nudo, Pavarotti sembra il nonno del Re di bastoni, e le canzoni oddìo. No, sono tutti omologati, figli del bipartitismo imperfetto Rai-Mediaset, pronti a fare da platea al Maurizio Costanzo Show, e quindi dicono compuntamente che il livello quest'anno era alto e che mamma mia è difficile scegliere, e che gli Avion Travel, ah che arte, anche se a loro piace di più la coppia tardissimo-trucidissimo-romantica composta per l'occasione da Mariella Nava e Amedeo Minghi. Ecco allora che se qualcuno pensava che solo là, nel paese dei fiori, esistesse il regno del conformismo, e delle mezze parole, e della conventio a non escludere nessuno, eccolo smentito. Le radio popolari che organizzano votazioni via Internet, cioè su un campione di pubblico tecnologicamente avanzato, fanno sapere che il più votato sarebbe il tradizionalissimo e non tecnologico Morandi. Insomma, la verità è che non c'è alibi. Non per stramenarla con il paradigma della sociologia da talk show secondo cui il Festival sarebbe uno specchio dell'Italia, o viceversa, ma il fatto è che Sanremo e l'Italia coincidono. Semplicemente. È l'Italia contemporanea che ha imparato a dire: mi piace questo ma non mi dispiace neanche quello, e complimenti per la trasmissione, auguri per il disco e saluti alla Marcuzzi. È l'Italia che dice «sono sereno» di fronte al rischio della galera o di fronte alla sconfitta all'Ariston. È l'Italia che canta, è l'Italia che conta.
L'Espresso, 17/02/2000
Giovani soli, senza padri né utopie
Se qualcuno ha in mente le tradizionali organizzazioni giovanili di estrema destra, lasci perdere: esisteranno ancora giovani inquadrati in formazioni politiche legate ai partiti di destra, o attivi in qualche esoterico gruppo dell'antagonismo noir; ma per identificare l'immagine contemporanea del "giovane di destra" conviene dimenticare il mondo politico ufficiale e mettere sotto osservazione i comportamenti diffusi. Oggi infatti la partecipazione a esperienze politiche è un fenomeno minoritario, dal momento che sfiora meno di un quarto della popolazione fra i 18 e i 29 anni. Anzi, la prima ragione per cui una parte del mondo giovanile può essere definita tendenzialmente "di destra" deriva dal fatto fisiologico che si è molto attenuata la partecipazione a esperienze che plasmavano alcuni momenti della crescita personale e che erano riferibili a una cultura di sinistra; e che nella vita quotidiana, nelle scuole, nelle università, nel lavoro, la rivendicazione di appartenenza progressista non è più una distinzione qualificante. Al massimo, gli intellettualini di sinistra riappaiono nelle occasioni canoniche, cioè nelle occupazioni o nelle autogestioni scolastiche, di solito esponendo un pensiero "new age" contro la globalizzazione, il mercato, il privato (e forse senza accorgersi che contro il tardissimo capitalismo una certa destra funziona altrettanto bene della sinistra, De Benoist come Alain Caillé). Ma la tendenza non è lì, la vita reale è altrove. La tendenza va individuata ad esempio mettendo a fuoco che nel giugno scorso, a Bologna, nel ballottaggio fra la candidata del centrosinistra Silvia Bartolini e il candidato appoggiato dal Polo, Giorgio Guazzaloca, oltre il 70 per cento del voto giovanile si è riversato su quest'ultimo. Vale a dire che in una comunità civica animata da una lunghissima tradizione di sinistra, la defezione è stata altissima. Ma si poteva anche segnalare che la socialità progressista non era più trendy da tempo, e che le indagini sul campo avevano messo in rilievo già da almeno un decennio «l'assenza sostanziale di ogni forma concreta o ideale di solidarietà nella rete di valori dei giovani dell'Emilia- Romagna». Dunque per capire perché i giovani pendono a destra occorre fare un passo indietro. Innanzitutto, dire "destra" non significa una visione estremistica, da ultrà, da coatto. Nella società media non ci sono nemmeno giovani haideriani, più o meno connotati in termini nazionalisti o xenofobi. In secondo luogo occorre uscire dagli stereotipi classici, quelli che vedono l'età giovanile come una condizione di "disagio", suscettibile di reazioni politiche in controtendenza verso le idee e i governi in corso. Sostiene Franco Garelli, un sociologo torinese che ha offerto con assiduità analisi del mondo giovanile: «L'indebito ricorso al termine disagio è l'espressione degli imperativi culturali prevalenti nella società italiana. Qui l'idea dell'accompagnamento, dell'apprensione, del sostegno, della comprensione, prevale nel modo di considerare i giovani». Se non c'è disagio, anche le etichette nichiliste con cui da una ventina d'anni vengono ritratte le nuove generazioni vanno interpretate diversamente. Nel 1980 Loredana Sciolla e Luca Ricolfi parlavano di giovani «senza padri né maestri», mentre qualche anno dopo lo stesso Garelli alludeva a una «generazione del quotidiano", cioè immersa nel contingente, e via via le definizioni si sono moltiplicate, quasi tutte sul leitmotiv della perdita di senso, di dispersione nella frammentarietà: «generazione senza ricordi», «senza tempo», «suoni nel silenzio», «generazione di sprecati», «generazione in ecstasy». Ci manca solo Vasco Rossi, con la sua vecchia e urlata «generazione di sconvolti, senza santi né eroi», per arrivare alla perfetta coincidenza fra sociologi e rockstar, fra analisi e autoconsapevolezza. La conseguenza è che di fronte a un panorama simile riesce difficile immaginare la tenuta delle idee e dei simboli politici prevalenti tra la fine dei Sessanta e per tutti i Settanta. L'antifascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza, le grandi masse, i lavoratori hanno l'apparenza di oggetti di modernariato. Oggi tutto ciò che appare collettivo tende ad andare fuori corso; perfino il volontariato assume fisionomie locali e specifiche, talora isolate, non riproducibili, poco inclini a dialogare con le istituzioni. Anche prendendo le distanze dagli stereotipi apocalittici (quelli che vanno per la maggiore: il disagio, l'idea della giovinezza come prolungamento infinito dell'adolescenza, un'irrimediabile passività sociale), Garelli riconosce che da un punto di vista culturale i giovani d'oggi sono assai più distanti dalla generazione del Sessantotto di quanto quella generazione fosse distante dalla precedente. I boys della rivolta sessantottina credevano nella politica, e condividevano con i loro padri perlomeno l'idea base dell'agire pubblico, quella del cambiamento. Oggi un terreno comune non c'è, il relativismo è completo, chissà dov'è finita la fede nel partito o nell'utopia. Nella ricerca di qualche punto di riferimento, i giovani d'oggi mettono ai primi tre posti, nella classifica delle istituzioni meritevoli di fiducia, le forze dell'ordine, l'Unione europea, la chiesa cattolica. Vale a dire la polizia, i tecnocrati e i preti. Paradossale o no, per i nipotini della grande festa rivoltosa di tre decenni fa? Ecco allora che un altro esploratore della società contemporanea, Ilvo Diamanti, con l'occhio puntato sulla destrutturazione comunitaria del Nordest, parla di «una generazione poco visibile e poco amata». Che diventa "di destra" perché non sa dove guardare. Al punto che non si capisce neppure se gli inni "di sinistra" del rock system nazionale (tipo Il mio nome è mai più, della banda Jovanotti-Ligabue-Piero Pelù) vengano recepiti e acclamati dagli stadi come un manifesto della sinistra che verrà, quella oltranzista e irriducibile alla moderazione, oppure come uno sberleffo qualunquista verso il politically correct delle sinistre moderatine, tutte unificate dalla guerra santa del Kosovo. D'altronde, per restare nell'intrattenimento popolare, chi potrebbero essere i guru dei "nuovi" giovani: il sessantenne Francesco Guccini, riscopritore della sua passione giovanile per Che Guevara? Una band massimalista, castrista, ed esplicitamente rétro come i Nomadi? I rapper nel circuito autoreferenziale dei centri sociali? E su ben altro versante, qualcuno riesce a vedere in giro un idolo pop più adorato dalle folle giovanili di papa Wojtyla? Tutto questo per dire che il mondo dei giovani vive la sinistra soprattutto come un'assenza. Nemmeno i "new leader" come Tony Blair riescono a lanciare messaggi riconoscibili, e l'universo simbolico di Walter Veltroni, con don Milani, Dossetti e Bobbio, rimane inaccessibile. Gli studiosi cattolici come Pier Paolo Donati sostengono piuttosto che la necessità di vivere in una società eticamente neutra, "che trasforma le scelte etiche in questioni tecniche", impone ai giovani un atteggiamento streetwise, in cui si circola per strada con estrema circospezione, attentissimi a ciò che avviene a ogni incrocio. Insomma, dentro la «società-risiko» descritta dal sociologo Ulrich Beck, ognuno si attrezza come può, in solitudine, senza nessuno che faccia da maestro o da tramite. Appare inutile replicare auspicando visioni «repubblicane» o puntando sulla «religione civile», come indicano studiosi di sinistra come Maurizio Viroli e Gian Enrico Rusconi. Sul piano degli atteggiamenti di massa, scegliere una prospettiva di destra significa semplicemente adattarsi alla pressione dei circuiti di consumo. Di fronte al grande mercato, ma anche in una festa rave, l'unica chance strategica è quella individuale. Insieme con la disgregazione delle agenzie di socializzazione tradizionali, dalla scuola pubblica all'esercito di popolo o alla fabbrica fordista, si afflosciano anche tutte le strategie collettive. Non è un caso che le esperienze di sinistra più radicali, come quella degli squatter, puntino sulla separatezza, anziché sulla richiesta di integrazione. Una volta tagliato il legame con le organizzazioni sociali primarie, e in attesa di vedere se il Seattle movement farà scuola, è naturale che venga tagliato anche quello con la sinistra, che è la meno attrezzata per fornire carte e mappe a una gestione individualista della vita. I giovani diventano di destra, quindi, perché l'atteggiamento di destra è il vero unique mood nel mondo del Duemila. Dentro contesti in cui la socialità si azzera, e in cui il tabù residuale della solidarietà risulta annichilito perché nessuno sa essere solidale né con chi esserlo, l'adesione a una prospettiva individualistica equivale all'assimilazione di una prospettiva di destra. Colpisce che le indagini demoscopiche realizzate dalle grandi imprese o dalle associazioni imprenditoriali mettano in luce, nei settori giovanili interpellati, atteggiamenti favorevoli alla flessibilità, al rischio, al lavoro atipico, con disponibilità al cambiamento e alla mobilità, alla formazione continua e alla competizione permanente. Quale può essere per questi giovani il richiamo politico e sindacale? Insomma, o la sinistra riesce ad allestire in politica "macchine desideranti" capaci di sollecitare pathos e consenso, come ha cercato di fare Anthony Giddens con Blair («lottare contro la povertà, attaccare gli squilibri di potere, agire per la conservazione della natura, creare la nuova tecnologia del sapere»), trasformando la old style social-democracy in un rap postmaterialista, oppure non ha grandi speranze. Nel momento infatti in cui l'unica strategia da definire è quella relativa alla conquista di un oggetto del consumo, cioè quando un comportamento potenzialmente pubblico viene ridotto a una scelta di efficacia tecnica, personale e privata, il pensiero "di destra", c'è poco da fare, diventa irresistibile come un riflesso condizionato.
L'Espresso, 10/02/2000
Vi conquisterò con Forza Dc
Forza Italia È a un bivio. Il Polo, nel suo insieme, anche. Per il sistema politico italiano si può prospettare un rimescolamento complessivo. Tutto dipende dalle scelte che verranno compiute prossimamente da Silvio Berlusconi. Il quale ha aperto una fase movimentista: un passo avanti, uno di lato, un rilancio, un'esitazione. Ma in fondo alla strategia (e alla psicologia) berlusconiana forse non c'è più un'Italia maggioritaria e liberista. C'è la proporzionale e un fantasma centrista, con l'attrazione magnetica di un modello neodemocristiano. Ha davvero un futuro una svolta simile? Sicuramente ha un passato, una storia. Eccola. Al capo del centro-destra l'osso del maggioritario rimase in gola il 21 aprile 1996. Già: perdere non fa piacere a nessuno, e meno che mai a un "addict" del successo come Berlusconi: non poteva piacere né al presidente del Milan pluriscudettato né al trionfatore politico del 1994, cioè all'uomo che dopo le gioie sublimi del campionato, delle coppe e dell'audience aveva scoperto le estasi della "religione del maggioritario". Andò troppo storta, nel 1996. Il Polo si presentò in campagna elettorale convinto di riprendersi a mani basse ciò che gli era stato sottratto per via ribaltonesca, e per qualche tempo quelle aspettative sembrarono solo in attesa della conferma. Romano Prodi, la maschera alla bolognese, il "simpatico ciclista", la controfigura inventata dal togliattismo di D'Alema, non reggeva i faccia a faccia in pubblico e in tv. L'Ulivo appariva come una coalizione tenuta insieme soprattutto dal tentativo di allestire un cln antiberlusconiano: per motivi etici, per problemi estetici, e magari anche perché "questa volta non faremo prigionieri", secondo l'icastico programma di Cesare Previti. Invece, il Polo vinse "alla grande" quasi tutte le battaglie e i sondaggi, e perse la guerra. Riuscì anche a rastrellare più voti, rispetto all'Ulivo, ma venne sconfitto nei collegi: a riprova che le candidature nell'uninominale non dovevano essere così convincenti, e che la sua credibilità come coalizione risultava problematica. Il disamore per la formula maggioritaria cominciò a manifestarsi ben presto. Malgrado la quadruplice etichetta catch all inventata nel 1996 per tenere insieme tutti gli spiriti del centro- destra (Polo per le libertà, il buon governo, la solidarietà, le riforme), Berlusconi cominciava a sentirsi stretto nei vincoli del bipolarismo reale. Perché il bipolarismo ha un aspetto intrinsecamente fastidioso: tende a mettere l'opposizione in un angolo. La costringe a un grigio lavoro di contrasto, a una partita opaca. Il Polo assisteva semi-impotente alla mobilitazione pubblica realizzata da Prodi e Ciampi sull'euro, alla bonifica dei conti pubblici, alla prospettiva di un paese in via d'uscita dalla sindrome emergenziale, e presto in grado di redistribuire quote di benessere. Intollerabile. Per questo il comportamento del centro-destra ha oscillato vistosamente fra atteggiamenti bipartisan (la missione in Albania, la guerra del Kosovo, l'elezione di Ciamp)i, e irrigidimenti aventiniani, quando il governo decideva di procedere a marce forzate (ad esempio sulle leggi finanziarie). Ma il punto critico della questione era esplicitamente politico. Era possibile fare saltare il confine bipolare? Non si poteva spezzare il vincolo della formula maggioritaria? In altre parole, qual era la strada per andare effettivamente oltre la divisione in due blocchi, in modo da riportare nella parrocchia comune dei moderati gli elettori centristi rimasti nel recinto di sinistra? Mentre Gianfranco Fini teneva duro sul rito bipolarista, Berlusconi cominciava a intingere la mano nell'acquasantiera proporzionale. Tanto più che dopo la crisi del governo Prodi nel 1998 era apparso evidente che le capacità di autoconservazione della maggioranza ex ulivista erano più salde del previsto. Lo sbarramento a destra teneva; Francesco Cossiga si era impegnato in un sovrumano disegno politico che in un futuro imprecisato avrebbe portato alla ristrutturazione del sistema politico in chiave europea, ma intanto si alleava con D'Alema, trascinandosi dietro spezzoni del centro-destra. Occorreva quindi un progetto diverso. Con l'intuito che anche i più fieri avversari gli riconoscono, il Cavaliere aveva avvertito una brezzolina revisionista. In fondo, la prima Repubblica aveva già conosciuto un bipartitismo, ancorché imperfetto, quello fondato su Dc e Pci. Svanita la foga "novista", smorzatasi l'onda alzata da Mani pulite, attenuatasi la fede salvifica nel dogma maggioritario, si delineavano le condizioni per il progetto "tutti a casa". I moderati con i moderati, le sinistre con le sinistre. Ecco allora l'idea sparigliatrice. Ci voleva una simil-Dc, una Dc del Duemila. L'adesione al Ppe costituiva un ottimo viatico. Il mancato quorum del referendum antiproporzionale nella primavera 1999 rappresentava un complemento insperato quanto benaugurante. Già nelle azzurre giornate del 1994 Berlusconi digrignava quando lo definivano di destra: "di centro, Forza Italia è di centro". Il capo del Polo era pronto per la sua seconda grande operazione politica dopo l'invenzione di Forza Italia. Una Dc senza preti e sacrestie, una Dc patrimoniale, secolarizzata e pubblicitaria. E non solo: dato che nella prima Repubblica il sistema Dc implicava una costellazione di alleati, occorreva anche ricomporre il mosaico del pentapartito. Un settore cattolico era già in casa, con il Ccd di Pierferdinando Casini, marchio di garanzia post-dc. Una quota di socialisti era presente anch'essa. Sciolto dai suoi gravami giudiziari, il senatore a vita Giulio Andreotti rilasciava dichiarazioni di studiata cura verso Forza Italia. La scomparsa di Craxi, con l'esplosione mediatico-politica del lutto per la morte, la "Repubblica dei partiti", era un richiamo della foresta. E infine anche Giorgio La Malfa si faceva rilasciare dal suo congressino il mandato ad aprire a Berlusconi. La strada verso la nuova Dc è complessa, anche perché lo schema bipolare sarà pure stato annichilito dai comportamenti politici effettuali, ma è stato assimilato dall'elettorato. Quindi Berlusconi sfoggia due facce. Da un lato sorregge l'alleanza di centro-destra, cercando di allargarla. In questo senso, l'accordo con Umberto Bossi per le regionali di aprile sarà pure, come ha scritto Indro Montanelli, "una machiavellatina di borgata", ma da un altro punto di vista è la ricostituzione del "partito dei produttori", è la pacificazione con la provincia settentrionale, è il ceto medio più la televisione. Dall'altro lato, Silvio continua il lavoro in vista della "sua" Dc. Grande freddo verso il nuovo referendum antiproporzionale. Gelo verso i referendum "sociali". Scarsa enfasi sul mercato e le liberalizzazioni. Spot rivolti alle famiglie e ai giovani, segnali alla gerarchia ecclesiastica, sguardi d'intesa verso il cattolico liberale Antonio Fazio. Ci siamo dimenticati che la Dc classica è stata a suo modo un partito pro labour? No, naturalmente. In questo senso, sulla strada della democristianizzazione rimangono due ostacoli: uno robusto, quello dei referendum, e l'altro fastidioso, cioè Gianfranco Fini. Chissà, forse la "vecchia" Forza Italia si sarebbe tuffata a pesce dentro i referendum sul lavoro, esibendo i Tremonti e i Martino, nel nome di un liberismo euforico; mentre la "nuova Dc" non può farsi imbrigliare in una posizione neoconservatrice à la Thatcher o, si parva licet, alla Bonino. Quanto a Fini, malgrado le ripetute dichiarazioni di compat-tezza del Polo, c'è verso di lui una strategia di breve periodo, nella quale An risulta un portatore di voti essenziale, e una di più lungo periodo, in cui la destra è un accessorio. Il capo di An infatti è troppo cocciutamente bipolarista, troppo referendario, troppo schematicamente decisionista (vedi il suo blitz referendario). Così il Cavaliere gli fa pervenire messaggi obliqui, con i risultati di sondaggi sempre più nefasti, sotto il 10 per cento. Nel frattempo, Berlusconi sommerge l'Italia di numeri, con dati che innalzano Forza Italia oltre la soglia del 30 per cento. Ma nella realtà è di fronte a un compito che va al di là degli appuntamenti elettorali contingenti. Dopo essere stato il fragoroso innovatore, si accinge al compito della grande e totale restaurazione. Il partito neodemocristiano, da miraggio che era, si staglia come una profezia capace di autoadempiersi. Si tratta di vedere se il "regime", le sinistre e i loro impauriti alleati di centro avranno voglia di mettersi di traverso e di tenere duro sulla trincea bipolare. O se la sirena centrista, moderata, proporzionalista farà risuonare una canzone irresistibile. E se la paura della sconfitta non consiglierà di ritagliare il potere anziché disputarlo. Perché a quel punto Berlusconi non sarebbe più il "competitor" di D'Alema o di chi per lui, il virtuale capo di un eventuale prossimo governo di centro-destra, bensì il regista supremo, il demiurgo di qualcosa più grande di lui, più grande del bipolarismo, più grande della contrapposizione destra/sinistra: vale a dire il Padre Pio in grado di miracolare, resuscitandone le spoglie sconsacrate, un partito in cui si riflette la forza e la debolezza dell'Italia, il suo eterno centrismo, il suo perenne desiderio di riconoscersi in un partito sistema, in un'estesa, tiepida e benedetta Italian Family.
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