Gli articoli
La Repubblica, 03/02/2010, R2 CULTURA
Francesco GUCCINI L’ AUTOBIOGRAFIA DI UN MAESTRO BEAT
Messer Francesco, nel senso di Guccini, sta per compiere (il 14 giugno) settant' anni, sotto il segno di miglior cantautore italiano vivente, e quindi è giusto che venga celebrato. Come si fa a non organizzare liturgie per uno che è nato con il beat e le canzoni di protesta, a cominciare da Dio è morto, epocale canzone per le generazioni dai Sessanta a oggi, per giungere alla sua cifra attuale, in bilico fra l' intimismo e gli inni civili. Quindi non deve stupire che oggi esca la sua autobiografia, scritta con il poeta e critico letterario Alberto Bertoni, intitolata Non so che viso avesse. La storia della mia vita (Mondadori, pagg. 228, euro 18). Si potrebbe dire che è un' autobiografia "per luoghi" nel senso che intercetta Pàvana, Modena, Bologna. E non è un caso che il libro gucciniano cominci proprio da Pàvana, il luogo ancestrale, dove i Guccini avevano e gestivano un mulino ad acqua, in uno «scoglio di poche case», sul povero ma non miserabile crinale dell' Appennino pistoiese. Luogo mitologico, e anche mitopoietico, cioè creatore di mitologie, perché i tempi lenti della montagna, accompagnati dal rumore del torrente Limentra, detto naturalmente "il fiume", sono particolarmente adattia creare storiee favole, qualcuna anche vicina alla verità storica. Come nel caso delle faide tra la famiglia Guccini e la famiglia Biagi (proprio quella progenitrice di Enzo), che si concluse, ai tempi dei tempi, con omicidi e truci tagli di teste, cose da veri banditi, perché per bolla pontificia era garantita l' assoluzione a chi portasse la testa del colpevole di un reato analogo a quello dei nuovi assassini. Ma il Guccini contemporaneo nasce più o meno in mezzo alla guerra, e non appena ha l' età della percezione si accorge di come il mondo intero sia entrato in casa: prima gli americani, e poi i brasiliani, vale a dire i soldati della seconda guerra mondiale (amatissimi gli americani con le loro riviste come Life e le sigarette). Il mulino di Pàvana diventa luogo magico e di eventi enormi, globali, trasferiti nella quotidianità montanara, dove poteva accadere che anni dopo la mamma di Francesco, Ester Prandi (morta un anno fa a 95 anni) potesse rispondere a chi le chiedeva se era contenta di avere un figlio cantautore: «Be' , cosa vuole mai, noi avremmo preferito che fosse diventato professore di storia». D' altronde, racconta Francesco, la madre è stata la sua prima insegnante di canto, perché cantava spesso canzoni italiane degli anni Trenta. E su un altro versante la nonna, nipote di un' altra nonna, istruita a "segnare" certe malattie cutanee, recitando la formula: «Sanguine risanguine, sangue germano e acqua corrìa, il sangue di quest' occhio lo porti via». È la nonna che gli regala la prima armonica a bocca e la prima chitarra. Quindi: «Già allora potevo scegliere solo se essere mago o cantautore». Poi ci sono i ricordi che accompagnano un artista per sempre, anche perché spesso rimangono accanto tutta la vita: come le chitarre, compagne di decenni: dalla prima, fabbricata da un falegname della montagna per cinquemila lire, alle tre Martin e alle due artigianali del liutaio modenese Masetti, oltre a una Trameleuc e una Eko, gentilmente fabbricate su misura in omaggio al cantautore. E poi la via Emilia, e Modena, il secondo luogo dell' educazione professionale e sentimentale, dove Guccini fa le sue prime prove di giornalista, il primo passo per diventare scrittore, a cominciare dal primo articoletto, dedicato ai cinquant' anni di vocazione di una suora, dal nome magnifico, Eustachio Maria Peloso («Certi nomi non si dimenticano»)... Salvo poi trasformarsi in orchestrale da balera, compresa la divisa «a scacchettoni variopinti», e conoscere il giro dei musicanti modenesi che in seguito avrebbero dato una sferzata addirittura "culturale" alla musica italiana, come Victor Sogliani, futuro animatore dell' Equipe 84, e altri sfaccendati come Alfio Cantarella futuro batterista sempre dell' Equipe, che cercavano una via musicale nella vita. Il seguito della vicenda umana di Guccini è bolognese, con la piccola epopea delle osterie (l' Osteria delle Dame in primo luogo), dove si faceva notte cantando, raccontando storie, improvvisando in ottava. E poi con il successo sanzionato dalla Locomotiva, la canzone dagli echi anarchici che lo studioso di musica Roberto Leydi definì confidenzialmente «la più grande canzone popolare del dopoguerra», scritta in una ventina di minuti, come se i versi venissero spontanei, dal ricordo di Pietro Gori degli anarchici di Lugano. Ancora adesso, quando conclude i concerti con la canzone che dice «Non so che viso avesse» e «gli eroi son tutti giovani e belli», il pubblico si lascia andare, piange, si commuove, e anche quelli che ormai da anni votano a destra alzano il pugno appena sentono le strofe sulla «bomba proletaria» e la «fiaccola dell' anarchia». Qui finisce, per ora, la storia di messer Francesco, rintanato con la sua giovane Raffaella a Pàvana. Aveva già scritto pezzi di autobiografia in Cròniche epafàniche, Vacca d' un cane e Cittanòva blues. Ora la storia si completa con la bella affabulazione di questo ultimo libro. A cui si aggiunge una seconda parte, di Alberto Bertoni, che ripercorre criticamente tutta la carriera discografica e musicale di Guccini, dai tempi gloriosi di Noi non ci saremo fino alle canzoni di indignazione civile come Piazza Alimonda. Il contributo di Bertoniè un sussidio imperdibile, filologicamente perfetto, capace di chiarire tutti i riflessi gucciniani, dagli anni del beat fino a oggi, allorché la consapevolezza "poetica" del fare canzoni è diventata più che mestiere, si è fatta vocazione. Con Francesco che è sempre lì, nel suo rifugio, a guardare libri e repertori, e a scrivere ogni tanto una canzone.
La Repubblica, 30/01/2010, R2
LEZIONI LATINO-AMERICANE
Per un politico occorre fare attenzione a maneggiare la letteratura latino-americana. L' altro ieri Walter Veltroni si è paragonatoa Garabombo, il personaggio di Manuel Scorza che ha il dono dell' invisibilità, quando presenta reclami alle autorità e scatena la lotta dei "comuneros" contro il latifondo. Veltroni è un conoscitore di varie letterature, e autore di diversi libri di narrativa. Per questo farebbe bene a ricordarsi del più grande romanzo della letteratura sudamericana dell' ultimo mezzo secolo, vale a dire Cent' anni di solitudine. In cui si dicono, fra l' altro, due cose fondamentali: una, che «le stirpi condannate a cent' anni di solitudine non avevano un' altra opportunità sulla terra». E qui siamo ancora sull' evocativo, solo metaforicamente collegabile alla politica. Ma c' è un capitolo che comincia con il colonnello Aureliano Buendía, il quale «promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte». Ecco: bisogna avvertire Veltroni che molto spesso narrativa e politica si intrecciano, e magari Garabombo riuscirà a far tesoro dell' invisibilità, ma il colonnello Buendía potrebbe sembrare lo specchio di un certo partito, qui in Italia.
La Repubblica, 29/1/2010, PRIMA PAGINA
QUEL LIBRO CHE SI È FATTO DA SÉ
LA STORIA di J.D. Salinger è in fondo la storia di una sparizione perfetta. Un libro, al massimo due, un' opera irripetibile e generazionale come Il giovane Holden ( The Catcher in the Rye ). E poi leggende, incontri segreti, rincorse, misteri. La vita nascosta dell' uomo di Manhattan, Jerome David Salinger, che aveva esordito sul New Yorker con un «racconto perfetto», Bananafish. Quindi viene la vicenda davvero epocale del giovane Holden Caulfield, il Bildungsroman di un newyorkese inquieto, giovane per definizione e per ontologia, di cui oggi resta soltanto l' aura da anni Cinquanta, il profumo di un' epoca. La storia breve e intensa, seppure senza inizio e senza fine, di un diciassettenne che vagabonda in un' America che deve ancora modernizzarsi ma sta cercando di farlo, a fatica. Ed è per questo che il giovane Holden trasmette una sensazione di provvisorio, se non di inutile. Gli è morto di leucemia un fratello, ha una sorella più piccola, è decisamente un outsider del circuito scolastico, che frequenta con risultati più o meno catastrofici. Salinger non ha mai voluto valorizzare il suo romanzo. Ha sempre rifiutato versioni cinematografiche o di altro genere. Il giovane Holden ha un titolo anodino, in italiano, e difficilmente comprensibile in inglese (dovrebbe significare, secondo la versione italiana accreditata, «il terzino nella grappa»). Ma ciò che conta, nel romanzo, è il clima, l' atmosfera, ciò che le pagine raccontano come sottinteso, il parlato come senso implicito. Ed è per questo che il romanzo di Salinger è diventato un volume d' affezione, cioè di culto, noto in tutto il mondo, conosciuto come un libro imperdibile. Lo si conosce anche senza averlo letto. E in effetti è così: Il giovane Holden è una macchina inesorabile, un libro di cui è difficile raccontare la trama, perché in realtà non c' è trama, ma che lentamente si insinua nella psicologia di chi legge e in questo modo va alla scoperta di un' America ancora ingenua, ricca più che altro di alberghi da due soldie di piccoli locali in cui si incontrano vecchie compagne di scuola. È per questo che il libro ha avuto il suo spettacolare esito generazionale, con i padri che hanno regalato il romanzo ai figli, in una specie di reciproca educazione sentimentale metropolitana attraverso la quale intere generazioni hanno imparato a conoscere l' America dei Cinquanta. Si trattava di un continente ancora leggermente polveroso, dove insegnanti e studenti si incontrano e discutono, parlano fra di loro, mentre fuori dall' edificio scolastico la vita si muove secondo i suoi ritmi. Ma è sufficiente l' elemento biografico, o autobiografico, a spiegare il successo mondiale del Giovane Holden? (Salinger era consapevole di questa caratteristica del suo romanzo: «È stato un sollievo parlarne alla gente»). Probabilmente no. Il romanzo di Salinger rappresenta un mezzo miracolo, un «caso» irripetibile, la storia di un libro che a mano a mano si è fatto da sé. E che non vuole saperne di perdere carisma negli anni. Per quale ragione infatti un libro del genere dovrebbe trasmettersi nei decenni: solo perché è una testimonianza d' epoca? Oppure perché è il ritratto di una società che ha imboccato la via del cambiamento (psicologico e mentale ancora prima che sociale e comportamentale). In realtà The Catcher in the Rye è una specie di romanzo antropologico, che si accontenta della durata di un weekend, e per questo non ha bisogno di vicende eccessivamente complicate. Salinger descrive alcuni frammenti di vita, e sarebbe il caso di rintracciare tutto questo nelle forme del suo slang formidabile: come nei suoi racconti, buona parte del fascino del libro nasce infatti dal linguaggio dello scrittore. Un lessico che mima la lingua giovanile, e la fa sentire viva, nelle sue espressioni più efficaci. Qualcosa che generalmente si perde nelle varie traduzioni, ma che con una conoscenza anche soltanto approssimativa dell' americano risulta di eccezionale humour, più divertente ed efficace della story stessa. La trama si svolge sullo sfondo di una New York grigia, Holden frequenta locali discutibili, amiche un po' affrante. Il romanzo apparirebbe come una storia solo di parole, se non ci fosse il profilo della città a fare da protagonista,e soprattutto il modo in cui i ragazzi della metropoli giocano la loro vita. Nel tempo, regalare il romanzo di Salinger è diventato un gesto riconoscibile, che rappresentava,e ancora rappresenta, un modo per dimostrarsi eccentrici, fuori dai conformismi. Ma si può ancora cercare in Salinger una verità sulle generazioni e sull' America? Oppure il romanzo è diventato un oggetto di archeologia, che racconta storie e Americhe che non ci sono più? Non è facile dirlo con sicurezza, anche se a rileggere oggi Il giovane Holden sembra di avvertire qualcosa di invecchiato. Il che, forse, è anche la ragione del suo fascino perdurante. Volendo, si legge il romanzo di Salinger come un autentico classico, una storia senza nessuna sbavatura, in cui ogni parola è essenziale, ogni battuta è perfetta, ogni piccola storia internaè di precisione memorabile. Si legge ancora, The Catcher in the Rye? Oppure si contempla, e si adora, come un oggetto a cui rivolgere il tributo dell' età adulta verso l' età dell' adolescenza? L' unica certezza, dopo la scomparsa di Salinger, è che il mondo di Salinger non scompare: rimane qui, in un libro, in un piccolo mondo.
La Repubblica, 24/01/2010, POLITICA E GIUSTIZIA
BOLOGNA, LA CRISI SOTTO LE DUE TORRI E SFUMA LA MORALITA’ EMILIANA DEL PCI
PRIMA di analizzare la contorta vicenda di Flavio Delbono sarà meglio capire chi è e che cos' è il sindaco di Bologna. Subito dopo la Liberazione, Giuseppe Dozza si toglieva il cappello di fronte a tutti i concittadini che incontrava. ERA il sindaco «di tutti» a cui si ispirò Giorgio Guazzaloca lanciando la propria candidatura «a 360 gradi», seppure di destra tradizionalista. Dopo di lui, rimangono nella memoria i sindaci «storici», come Guido Fanti e Renato Zangheri, sindaci eterni, immutabili perfino nella fisionomia, a cui non si può ricondurre nessuna caratteristica che non sia il comunismo. Era il comunismo emiliano. Un pragmatismo senza pari nel rapporto con l' economia e un' ortodossia studiatissimae prudentissima sul piano ideologico. Il tutto mediato da facce di legno che rendevano immutabili volti e corpi, e rendevano perfettamente credibili quei volti immobili come depositi di moralità socialista, credibili per sempre e per tutti. Così quando arrivò Sergio Cofferati, fu fin troppo facile scherzare sul Cinese («è come comprare i tortellini in Svezia» disse Luca Cordero di Montezemolo»), ma l' aspetto principale fu che Cofferati fece una campagna a tappeto, dalle polisportive ai partigiani e alle associazioni di donne, accompagnato dalla moglie, rapidamente liquidata per stanchezza matrimoniale dopo la facile vittoria elettorale. E poi, evviva. Si era mai visto un sindaco con una compagna, Raffaella Rocca, di venticinque anni più giovane? In una città non morale, figurarsi, ma certamente moralista? Bastava attendere il successivo turno elettorale, con tanto di primarie, per essere soddisfatti: ecco a voi Flavio Delbono, giovane, prodiano, di sinistra ma non comunista, notoa tutte le istituzioni pubbliche che ha frequentato per la sua propensione irrefrenabile per l' altro sesso. Tanto che quando si comincia a parlare del suo passaggio dalla vicepresidenza della Regione alla poltrona di Palazzo D' Accursio, qualcuno storce il naso con l' ambiente di Romano Prodi: «Non è che gli piacciono troppo le donne?». Ma dai, che cosa vuoi che sia, rispondono dal Pd, dove non ci sono candidati alternativi. Inoltre lo qualificano come cattolico, viene dalla Margherita, sembra avere tutti i requisiti in regola per la moralità prodiana. Per la verità, Delbono convive con una signora bene, Cinzia Cracchi, elegante sul genere Prada, occhiali sempre vistosi, pantaloni alla grande. Ma per giungere a questo legame informale, Delbono ha dovuto lasciare la prima e la seconda moglie (quest' ultima mentre era incinta, dice il gossip bolognese). E poi, mentre era in Regione, darsi a una vita goliardica, fatta di assunzioni clientelari (diciamo così) e di viaggi più o meno di lavoro, in Messico, a Santo Domingo. A cui si aggiunge una incomprensibile storia di bancomat, di auto blu, e piccole spese sulla carta di credito della Regione, che Delbono ieri ha cercato di spiegare al procuratore Morena Piazzi in un lungo colloquio (mentre Delbono si dice in grado di spiegare tutto, il procuratore continua a contestargli il reato di truffa aggravata). In un altro momento, e in un' altra situazione politica, a Delbono avrebbero già chiesto (e da lui ottenuto) le dimissioni. Figurarsi: Bologna, ovvero la capitale della questione morale. La città dove Pertini tenne stretta la mano a Zangheri dopo la strage del 2 agosto 1980. Ma non solo: Bologna come simbolo assoluto della moralità comunista e del suo modello alternativo rispetto al malgoverno romano. Oggi questo simbolo cade mediocremente e forse tragicamente per alcune storielle prive di peso ma drammaticamente importanti perché coinvolgono la psicologia dei cittadinie la loro identità. Perché sono le due Torri a crollare, il profilo della città, il senso di una diversità su cui si è formata l' immagine di Bologna. A parlare con i cittadini di Bologna si avverte un senso di scoraggiamento, come se fosse avvenuto qualcosa di irrimediabile, ma anche di prevedibile. Stiamo tornando nella normalità, sembrano dire i mugugni della gente di fronte alle domande sul caso Delbono. Anzi, ai tentativi di domanda. Gianfranco Pasquino, politologo, che si candidò alle primarie facendo perdere a Delbono quel due per cento virgola qualcosa che impedì al primo competitore e vincitore designato Flavio Delbono di vincere al primo turno, scrive in questi giorni che chi ha responsabilità pubbliche deve essere il più trasparente possibile, portatore di etica. Non è neppure una vendetta. E semplicemente la dimostrazione che il Pd, erede del Pci, non è mai stato in grado di autogestirsi. Il vecchio Pci era un blocco di potere che non permettevaa nessuno di trovare strade diverse o alternative. Nel Pd invece ci sono numerosi nuclei che tentano di gestire il potere a loro volta. Sarà un vantaggio perché ciò significa la fine dello stalinismo, ma è uno svantaggio perché questo rappresenta la perdita di controllo dei dirigenti sul partito. Segretari di sezione, di federazione o di qualsiasi cosa imperversano sui quotidiani, senza che il loro ruolo sia mai stato chiarito. Basta leggere le cronache locali per osservare il calvario per tutto ciò che rappresenta la scelta delle candidature alle regionali. Ma soprattutto per avere la sensazione di una netta distanza fra la città e la sua nuova classe politica. Nei salotti, intanto, la borghesia bolognese ridacchia sulle ultime tragedie della sinistra. Un ceto che aveva sempre scelto la sinistra per opportunismo e per abitudine si trova a sghignazzare grazie ai regali di una classe dirigente malcresciuta. C' era l' abitudine, in tempi elettorali, di ritrovarsi nelle migliori case di Bologna, in compagnia di Andreatta, Prodi e un po' di supermanager (Gnudi, Clò). Era il luogo in cui si formavano le opinioni; si discutevano i problemi del paese, si generavano amicizie. Adesso anche quella Bologna tace. Si è indebolita come il Partito democratico. Dovrà trovare un nuovo referente politico. Ma per Bologna, la grassa eccetera, dov' è il partito nuovo capace di sostituire le parole, e soprattutto i silenzi e l' etica, di quel partito che veniva da lontano?
La Repubblica, 23/01/2010, R2 CULT
NIENTE EPOS, SIAMO AMERICANI
Si dibatte molto, in Italia, sull' esclusione di Baarìa, il film di Peppino Tornatore, dai Golden Globe, cioè dal giro degli Oscar. Sontuoso, visionario, Baarìa. Un' esperienza visiva su uno scorcio della nostra storia. Emozionante, per molti versi, anche se nelle sale italiane il film di Tornatore ha realizzato soltanto 25 milioni di euro, contro i 35 previsti dal budget della Medusa. Quindi c' è un problema. Sontuoso, visionario, Baarìa. Una esperienza visiva totale. Ma forse troppo barocco per il cinema di oggi e per gli spettatori contemporanei. Tanto da fare anche pensare che per entrare nel circuito degli Oscar occorra un film più sobrio, più realista, insomma, un ritorno non a Novecento di Bertolucci bensì al neorealismo di De Sica. Forse gli americani dell' Academy dagli italiani si aspettano dei film all' italiana. Semplici, per l' appunto realistici. Se gli mandiamo l' epos, quelli nemmeno capiscono.
La Repubblica, 16/01/2010, R2 CULT
FRANCESCO GUCCINI UN GIOVANE DI SETTANT’ ANNI
Fra poche settimane uscirà l' autobiografia di Francesco Guccini, e ci sarà modo di riparlarne a dovere. L' autore di Dio è morto sta per compiere settant' anni e viene celebrato dall' Osservatore Romano, che riprende una sua intervista, decenni dopo che la Radio Vaticana trasmise senza inibizioni la sua canzone. Ora Francesco tenta l' impresa memorabile di restare giovane per sempre. "Forever young", come Bob Dylan, oppure come gli eroi della Locomotiva, che sono «tutti giovani e belli». Di tutti i cantautori italiani, infatti, Guccini è il più anziano e contemporaneamente il più giovane: viene direttamente dall' epoca beat, ha scritto canzoni post-atomiche come Noi non ci saremo; e per non essere consegnato soltanto alla musica pop ha scritto alcuni libri notevoli ( Croniche epafaniche è il frutto di un Meneghello, minore ma non troppo). Ci voleva un' intuizione notevole per inventarsi un' altra vita, oltre quella del cantante. Guccini, oltre a essere diventato un maestro dei cantautori, ha costruito altre vite, per se stesso e per gli altri. Per tutti quelli che gli vogliono bene, l' autobiografia sarà un' occasione per conoscerlo ancora meglio: per una conversazione più intima, per una confessione in più.
La Repubblica, 14/01/2010, LETTERE, COMMENTI & IDEE
Promesse fiscali e politica artificiale
FINO all' altro ieri sembrava che la riforma fiscale fosse ormai all' ordine del giorno. L' intervista di Berlusconia Repubblica, con la conferma delle due aliquote su cui ha fissato storicamente la sua politica tributaria (o per meglio dire i suoi annunci), sembrava un autentico programma di governo, oltretutto presentato con una certa tranquillità. Dopo una stagione tutta basata sulla giustizia, e quindi su uno stress continuo delle istituzioni, passare alla politica fiscale costituirebbe in realtà un elemento di pragmatismo. Si può discutere a volontà se di questi tempi sia opportuno un ritorno alla politica "supply syde", con il taglio delle tasse di ascendenza reaganiana. Ma intanto si uscirebbe dalla follia quotidiana delle discussioni senza senso, e si entrerebbe in una cultura legata all' empirismo, ai fatti concreti. Sembrava, per l' appunto. Perché con una delle sue migliori prestazioni, ieri Silvio Berlusconi ha annunciato che il taglio delle tasse è un lavoro «davvero improbo», e non ci sono possibilità serie di condurlo a termine almeno prima di un anno. Strano: i conti pubblici erano di cattiva qualità anche negli ultimi mesi; non c' erano serie possibilità per una riforma incisiva al livello tributario. Quindi bisognerebbe chiederea Berlusconi quale modalità abbia trovato per inventarsi lì per lì una nuova mitologia. Quali nuovi aperture avrà identificato. Adesso bisognerebbe sapere se ci si trova di fronte all' ennesimo teatrino preelettorale o se Berlusconi ha effettivamente una strategia. Se siamo in presenza del solito exploit, e della consueta "politica artificiale", siamo davanti a un imbroglio, soprattutto nei confronti dei ceti maggiormente bisognosi di una riduzione fiscale. Se invece si tratta di una strategia, dovremo aspettare le prossime mosse del capo del governo. Per vedere se Berlusconi sta scherzando, come suo solito, oppure se sta facendo sul serio, ai danni di tutti noi.
La Repubblica, 09/01/2010, R2 CULT
OLTRE IL CINEPANETTONE
Dopo tante discussioni, anche molto intellettuali e colte, sembra chei fatti parlino più chiaro delle idee: alla resa dei conti i cinepanettoni stanno andando malino, il botteghino non risponde, il pubblico tradisce. Viene voglia di tirare un sospiro di sollievo: niente nuovi dibattiti su Natale a Beverly Hills, o sull' estetica di Pieraccioni, mentre sono consentiti accenti di sorpresa per Sherlock Holmese soprattutto per Hachiko, il «cane-panettone» con Richard Gere. Tutto questo mentre si aspetta con leggera angoscia l' arrivo di Avatar, di cui si dovrebbe sapere praticamente tutto, dato che si sono viste tutte le immagini, e quindi non sembrerebbe necessario andare al cinema per vedere quelle orrende facce in tre dimensioni. Ma figurarsi: il mercato mondiale ha già stabilito da tempo che Avatar deve battere tuttti i record di incasso, e quindi non c' è speranza.A meno che il pubblico, con un gesto collettivo di intelligenza critica, non tradisca ancora; e non consegni anche Avatar nella quarta dimensione, quella del flop.
La Repubblica, 04/01/2010, PRIMA PAGINA
IL PONTEFICE E IL MINISTRO
NELLA sua semplicità, il discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI rappresenta una delle analisi più radicali sulla società e l' economia contemporanea. Il futuro, ha detto il Papa, dipende dall' uomo, e non dai «maghi» e neppure dagli economisti. SEPPURE importanti, le previsioni economiche non possono ipotecare il domani. Sembra quindi di sentire nelle parole del Papa una diagnosi senza appello verso gli specialisti, che si tratti di astrologi o di economisti, accomunati in una identica luce di non credibilità. Forse nelle parole del pontefice c' è anche un tratto sottaciuto di ironia, dal momento che accomunare «maghi» ed economisti ha un sapore un po' sarcastico. E quindi potrebbe esserci una traccia di "relativismo cattolico", in cui le specifiche professionalità (qui ci limitiamo agli economisti) non sono affatto assolute. Anzi, la sapienza secolare della Chiesa induce a considerare lo sviluppo sociale come un processo difficile da cogliere, complicato, non riducibile a modelli astratti. L' invito quindi è a considerare i temi della crescita e dello sviluppo in modo sostanzialmente scettico. Il bene comune deriva dall' insieme delle azioni umane, e contiene larghi spazi di imprevedibilità. Dunque è logico, secondo Ratzinger, trattare il processo dell' economia in modo tutto empirico, senza considerarlo un insieme vincolante di dogmi. Maghi ed economisti. Sullo sfondo si può avvertire benissimo anche il senso del fallimento delle previsioni economiche, cioè l' incapacità degli studiosi di leggere e interpretare la grande recessione in cui siamo ancora calati. Con tutto il rispetto per le specifiche parti in causa, sembra di riascoltare l' eco della polemica innescata a suo tempo da Giulio Tremonti contro gli specialisti di economia (« Silete, economisti», ossia, state zitti, dal momento che non ne avete azzeccata una). E infatti il ministro dell' Economia non ha evitato di far suo il discorso di Ratzinger, commentandole addirittura al Tg1. Ora, in un paese normale ci si aspetterebbe che quando il Papa parla da Papa, i ministri evitassero di utilizzare le sue parole per riaccendere le loro personali battaglie. Naturalmente il Papa non pensava alle polemiche italiane e non sarà il caso di trarre dalle sue parole una formula per poter uscire dalla crisi. La stringatezza delle sue espressioni allude a un orizzonte in cui tocca a ogni individuo, a ogni persona, spendersi per migliorare le condizioni generali di vita. Per capire quali sono i criteri di fondo della dottrina sociale della Chiesa, basta leggere qualche riga dell' enciclica Caritas in veritate: «Il mercato, se c' è fiducia reciproca e generalizzata, è l' istituzione economica che permette l' incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri». Ma non è detto che il mercato da solo possa sempre farcela. «Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell' equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica». La visione «umanistica» di Ratzinger potrà apparire datata, fuori dal tempo, nell' epoca dei derivati, degli hedge funde dei mutui subprime. Ma se non altro ha il merito di restituire la concezione economica a una dimensione esplicitamente più semplice e umana. Qualcuno nei mesi scorsi ha accusato Ratzinger di una visione «teologale» del processo economico e sociale, soprattutto nel momento in cui la gravità della crisi sembrava richiedere una analisi puntuale dei nessi cruciali dell' economia contemporanea. In sostanza è parso ad alcuni che nell' elaborazione intellettuale del pontefice ci fosse soprattutto una certa astrattezza filosofica. Eppure proprio l' aspetto dottrinario delle sue elaborazioni, come ha ricordato Gianfranco Zizola, ha irritato i cattoliberisti americani come Michael Novak, che dalla Caritas in veritate si sarebbero aspettati un più deciso pronunciamento a favore del mercato e della concorrenza. Benedetto XVI invece ha sottolineato gli aspetti gratuiti della vita associata e dell' agire economico, a cominciare dal dono. Ad ascoltare con attenzione le parole di Ratzinger si avverte una continuità storica e filosofica che proviene dalla Scolastica e dal Medioevo e si configura come una scienza perennis, di solito indifferente alle ultime evoluzioni delle teorie specialistiche. È una disciplina più semplice, addirittura più ingenua, che tuttavia va alla ricerca di una propria irriducibile verità. Il silenzio degli economisti, dei maghi, degli stregoni, è un guizzo di ironia. Ma contiene una dose di verità che, nel clima delle grandi rivelazioni fallite, si rivela con la forza di un antidoto intellettuale.
La Repubblica, 2/1/2010, R2
IL DIVO E LE POESIE DI LEOPARDI
Certo che ci voleva una bella determinazione per chiamare Dustin Hoffman dall' America nelle Marche per fargli recitare L' infinito di Giacomo Leopardi. Un' operazione promozionale che dal 20 gennaio riempirà di spot i canali televisivi. Ma ne valeva la pena? Vedere un anziano divo americano che mastica e rimastica i versi del poeta di Recanati e che quando sbaglia la pronuncia esclama «Managgia!» può anche essere divertente, visto una volta. L' insieme tuttavia è piuttosto disarmante, e visto alla lunga potrebbe diventare insopportabile. Senza avere visto la performance di Hoffman sembra che i critici si siano divisi. Gli uni hanno parlato di provincialismo, gli altri di sprovincializzazione. Misteri schizofrenici della critica telepatica. Lo spot, senza troppa fantasia, recita: «Le Marche le scoprirai all' infinito». Nel frattempo, di qui all' infinito, Dustin Hoffman esibisce il suo giubbotto un po' esaurito, la sua allure un po' invecchiata, il suo stile fin troppo «ammerecano». E per finire con una lieve volgarità, quanto sarà costato alla Regione il protagonista del Laureato? A occhio, una cifra «ove per poco il cor non si spaura».
L'Espresso, 08/04/2010, TELEVISIONE
Simpatico Coriandolo di Edmondo Berselli
L'ispettore Coliandro viene interpellato ogni volta, al primo approccio, "Coriandolo", provocando la sua immediata irritazione. È un funzionario di polizia fuori dagli schemi, diretto da Manetti & Bros, che fa un uso sconsiderato del turpiloquio. Come molti protagonisti di polizia contemporanei, questo poliziotto, una creazione dello scrittore Carlo Lucarelli che è andato in onda il 19 e il 26 marzo, è un perfetto figlio dei suoi tempi: parla male, lavora peggio, e miracolosamente riesce a saltarci fuori ogni volta, che si tratti di storie tradizionali o sataniche. Ciò nonostante Coliandro non è antipatico. È un poliziotto moderno, di quelli che assomigliano più ai delinquenti a cui dovrebbero dare la caccia che non ai loro colleghi. Gli stessi luoghi che frequentano sono problematici, con poche luci, spesso con suoni da discoteca, frequentati da ragazze facilmente disponibili. Coriandolo, alias Coliandro, alias l'attore Giampaolo Morelli, se la cava mica male, anche se talvolta dà l'idea di riuscirci a malapena, in mezzo alla strana fauna che frequenta e che talvolta lo minaccia. Posto in seconda o terza fascia, Coliandro va tenuto a distanza dai bambini, se non si vuole che imparino un linguaggio da scaricatori di porto (o semplicemente da salotto normale, dove si parla con il linguaggio della borghesia qualunque). Tuttavia ha un tocco "noir" che può attrarre molto, perché porta le storie al livello della quotidianità e le fa apparire "vere". Sicché "Coriandolo" è un buon esempio di poliziesco moderno, televisivamente ben fatto, leggermente ansiogeno: ma questo per un "noir" dovrebbe essere normale.
L'Espresso, 31/03/2010, PORTE GIREVOLI
Dove porta la svolta di Fini
I partiti cambiano in genere in due modi: dall'alto e dal basso. Dall'alto stiamo assistendo alla secessione silenziosa del "partito" di Gianfranco Fini rispetto al Pdl: segmenti di classe dirigente cercano di trovare occasioni di potere, in una fase che appariva bloccata, e invece si è mossa sulla iniziativa del presidente della Camera, che non ha perso una sola opportunità per differenziarsi dal berlusconismo. Evidentemente Fini aveva legittimi interessi personali, un'età che gli consente di proporsi come un leader, e un'idea di destra che poteva sembrare più moderna e istituzionale di quella rappresentata dal populismo berlusconiano. L'esperimento di Fini è culturalmente interessante quanto di respiro poco ampio. Il respiro corto non riguarda l'assetto culturale, voluto dal presidente della Camera, quanto la forza reale messa in campo. Un ennesimo partitino avrebbe poca fortuna. I migliori progetti possono avere destini poco brillanti se non c'è dietro l'intendenza, e Fini non sembra avere dietro di sé grandi masse al seguito; la sua operazione finora ha tutta l'idea di una esperienza culturale, legata alla sua fondazione. È servita soprattutto a differenziare la fazione finiana in modo da intralciare il potere di Berlusconi, ma non è chiaro come possa evolversi in futuro. D'altronde Fini è un politico puro, di quelli che Berlusconi detesta e ha sempre detestato. Lo si è visto in ogni occasione pubblica, a cominciare dalle posizioni assunte da Fini sull'immigrazione, o sul rapporto fra le istituzioni, a cominciare dalla difficile relazione con il Quirinale. Quindi la manovra di Fini, sempre ammesso che sia ancora in piedi e operante, è esplicitamente politica: tende a spostare equilibri, a creare nuovi aggregati e soprattutto a formare la leadership politica del presidente della Camera. Si tratta di una tipica operazione di trasformismo politico, che dovrebbe mettere in crisi il Pdl e soprattutto il "patronage" dispotico di Berlusconi, che in questo momento sembra essersi concesso l'autorizzazione a spadroneggiare (come si è visto con la manifestazione a Roma conclusasi in piazza San Giovanni). Molto più complicata è la situazione "dal basso", dal momento che è la Lega, un movimento che acquista forza ogni giorno, a condurre le danze. Stando a ciò che spiegano i politologi e i sondaggisti, potrebbe darsi che in tutto il Nord, Emilia-Romagna per ora esclusa, la Lega di Bossi potesse sopravanzare il Pdl. Tutto ciò movimenterebbe gli equilibri politici nel centrodestra, tenuto conto che la Lega non è soltanto un movimento di destra, o non lo è su alcune tematiche di governo e in relazione alle società del Nord. Forse può risultare sorprendente che la parte più sviluppata del Paese abbia deciso di affidarsi al movimento più folclorico della nostra politica, ma va considerato che la Lega ormai è un partito di governo ed esercita con orgoglio la propria funzione. Berlusconi in questo momento dovrebbe forse essere preoccupato più dal travolgente successo leghista che non dalle manovre di Fini. Ciò che si agita nel cuore del Nord, e sembra in grado di tracimare oltre il Po, in tutta l'Emilia e la Romagna, si presenta come un movimento confuso ma efficiente sul territorio. La sua leadership è saldissima, i suoi ministri a Roma si sono fatti vedere con chiarezza, a cominciare da Roberto Maroni. Rozza ma efficace, la Lega sembrava un movimento residuale, destinato a essere fagocitato dalle frange berlusconiane; è accaduto esattamente il contrario, e ciò mette in luce la fragilità implicita nel blocco di centrodestra. Spetterebbe alla sinistra riformista mettere in luce, si sarebbe detto una volta, le contraddizioni del centrodestra; ma per ora non si riesce a vedere una strategia chiara. Pier Luigi Bersani e i dirigenti del Partito democratico sono tutti impegnati nella campagna elettorale delle regionali. È vero che quel risultato influenzerà molto, in termini strategici, i destini del Pd, e anzi è probabile che un esito meno sfavorevole del previsto darà un po' di spinta ai democratici; ma in questo momento si tratta in primo luogo di interpretare i nuovi schemi politici che si stanno creando: l'impoverimento con acquiescenza, cioè senza opposizione, e i fenomeni di perdita del lavoro legati alla globalizzazione. In entrambi i casi la lotta politica con la Lega sarà a coltello. E quindi converrà prepararsi.
pagina
di 151