PANORAMA
PANORAMA, 04.01.1996, SPECIALE 1995
SIAM CONTENTI DI ESSERE SECONDI
Millenovecentonovantacinque, suggerimenti per la cerimonia di premiazione. Si apre inevitabilmente con la politica e l'oscar spetta naturalmente all' Oscar, l'uomo del Colle, l'externator soft, stile qui alludo e qui eludo, ma comunque una capacità di regia da fare invidia ad Antonioni: effetto blow up, partita a tennis senza palline, gioco parlamentare senza maggioranze e senza opposizioni. I punteggi naturalmente sono aleatori ma, direbbe Totò, Scalfaro non è l'arbitro? E allora è giusto che i suoi giudizi siano arbitrari. E' stato lui, Scalfaro, a estrarre con il cesareo dal ventre di Berlusconi il diabolico Lamberto Dini. Altra nomination obbligata per l'amerikano, the Banker, il Rospo venuto dalle sale austere di Bankitalia e balzato sui tavoli della politica con la naturalezza di un ballerino di tip tap. Dice che i giornalisti sono cacadubbi, e a chi storce il naso cita il plauso dell'Accademia della Crusca per la riscoperta di questa italianissima espressione. Esclama "c.zz.!" alla Camera, e poi con scioltezza nega di averlo detto, o perlomeno, medaglia di bronzo alla faccia, "non me ne sono accorto". Ormai di fronte a Lambertow sbiadiscono i protagonisti politici dell'annata: Gianfranco Fini, che secondo l'esule dell'anno Bettino Craxi è "un vuoto vestito di parole", cede il passo alla moglie, Daniela Fini, superproduttrice di testosterone. Umberto "Braveheart" Bossi torna alla sana polemica contro i terroni, e si capisce: noi scozzesi della Valtrompia mangiamo haggis, suoniamo bagpipes, distilliamo nobili e molto torbati single malt nel retro della pizzeria e quindi non vogliamo avere nulla a che fare con gente nata sotto il quarantaquattresimo parallelo, che si chiami Di Pietro o De Mita (per quest' ultimo il sospetto è che diventi l'uomo dell'anno prossimo, se effettivamente gli riesce la rifondazione democristiana). Un balzo culturale e lessicale ci potrà venire dall' autentico Uomo di legge dell' anno, l' immaginifico Filippo Mancuso, cioè l' inventore della inimitabile formula spregiativa "il sottufficialato dell' ecosistema del non-pensiero", roba da strappare applausi a scena aperta in qualsiasi teatro, o "teatrino" della politica, come lo definisce Silvio Berlusconi (politico e imprenditore secondo il popolo, chansonnier confidenziale secondo i malvagi, "un tycoon da six billion dollars" secondo lui). L' ineffabile Mancuso è anche riuscito a dare corpo ai più fantasiosi miti metropolitani, rivolgendosi ai "falsi laureati" in modo che tutti capissero Antonio Di Pietro, che è invece un laureato vero, anche se il poderoso senatore leghista Erminio Boso, l'ex carabiniere che prese a calci Vittorio Sgarbi, dice che durante l'università il Sismi gli faceva corsi di ripetizione per migliorarne il rendimento. Altri uomini dell'anno, in politica? Senz' altro Massimo D' Alema, in primo luogo per l' invenzione degli esercizi spirituali della sinistra alla certosa di Pontignano, dove Romano Prodi ha schiantato un ulivo (segno pessimo od ottimo?) parcheggiando la station wagon, in secondo luogo per l' insigne recente polemica contro i giornalisti arruffoni e approssimativi: che desiderano sempre frasi a effetto mentre lui, di fronte a problemi complicati, vorrebbe poter cesellare un complesso, articolato, consapevole e carico di futuro "boh". Basta con la politica? Sì, ma anche la società è muta, malgrado gli sforzi di Giuseppe De Rita di farla parlare a beneficio del rapporto Censis. Qualcosa si muove nei dintorni della Chiesa, e non solo per il carisma planetario di Karol Woityla, ma anche per la competizione mica tanto sotterranea fra il presidente della Cei, Camillo Ruini, che aspetta con equidistanza fra i Poli la rifondazione della Dc, e l'arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, che non perde occasione per segnalare l'inadeguatezza etica ed estetica della destra, cucendo addosso al Cavaliere giudizi addirittura peggiori dei doppipetti che gli cuce Caraceni. Va molto meglio in economia, dove si è assistito a un certo fermento. A un certo punto, tutta Roma parlava delle ambizioni politiche di Cesare Romiti come sostituto di Berlusconi alla guida del Polo, auspice il clan della rivista Liberal. Al telefono con Paolo Mieli, l'Avvocato lo supplicava di non assecondare sul Corriere la "passione senile" per la politica di colui che Valentino Parlato, comunista quasi liberale del Manifesto, chiama con sfacciata complicità "vecchio porco". Dopo di che, sembra di capire che il passo indietro di Gianni Agnelli e l'insediamento del Caesar alla presidenza della Fiat è un modo per riportare tutto in famiglia dando a ciascuno il suo: bravo e bravi, e punto. E a capo. L' economia fa spettacolo, mentre lo showbiz va a rilento. Bene Teocoli & Lopez, scherzi a parte (cioè si registra la trasmissione e poi si saltano gli scherzi). Male l' altra metà del cielo: Ambra mette su ciccia, Alba sta bruciando le tappe che la porteranno, malgrado i lifting e il silicone, a raggiungere lo stile da "arzdora" maneggiona immortalato da Iva Zanicchi, Valeria non la smagrisce neppure la dieta sadofotografica di Newton, e infine l' icona italiana per eccellenza, la formidabile Mara Venier, è sempre più un accrescitivo: biondona, casalingona, ipermastica (cioè tettona); ma grazie al cielo non silicona, quindi apprezzabilmente "nature", anzi, chissà, anche un pochino materialona. Dà l'idea domenicale che con un "la sai l'ultima" la rimorchieremmo in molti, non solo un entertainer di lusso come Renzo o uno strepitoso barzellettiere come Silvio. Se vi piace la musica leggera, scegliete voi a chi assegnare il Premio Depressione 1995 fra il "depresso melodico" Claudio Baglioni (eppure l'ultimo album, Io sono qui, dovrebbe fare impallidire di rabbia i suoi colleghi, anche se un cinico come Gianni Boncompagni dice che gli sembra più comprensibile Hindemith) e il "depresso soul" Zucchero Fornaciari. Se preferite l'opera lirica, dedicate l'oscar a Luciano Pavarotti, che sia almeno l'occasione per chiedervi se ormai è caduto al rango di piverotte, dopo l'infortunio al Met sui nove do di petto della donizettiana Fille du Régiment, oppure se può ancora duettare alla pari almeno con Simon Le Bon e Jovanotti. Cultura. Assegnatevi mentalmente un premio speciale alla carriera (la vostra) per avere rigorosamente evitato qualsiasi polemica concernente Susanna Tamaro. Anzi, quando vi parlano dei successi italiani e tedeschi della nota scrittrice, deplorate ipocritamente l'orrida parodia di Daniele Luttazzi Va' dove ti porta il clito, e ripetete in cuor vostro come una giaculatoria certe vette stilistiche dell'originale tipo "il cane abbaiava come un pazzo". Ma non dimenticate che l'autentico trionfatore della stagione culturale non è un romanziere, è un guru della politologia, Giovanni Sartori, che grazie alla cattedra alla Columbia e alla sua fama mondiale è riuscito a instillare un profondo inferiority complex a chiunque sostenga il turno unico e qualsiasi tesi che lui non condivida. Per finire l'estero. Premio dell'equilibrio, o dell'equilibrismo, a Bill Clinton, che si consola dell'instabilità interna e dei radicalismi con cui lo affligge il leader della nuova destra Newt Gingrich trovando un ruolo di pacificatore esterno molto classico: più lo mandano giù, più si tira su. Menzione d' onore a Lady Diana, per l'intervista alla Bbc: grande look, voce sexy, acconciatura finto casual, magnifico repertorio di malattie e vizietti: depressione, autolesionismo, bulimia, propensione al sesso atletico. Tutto molto alla moda, roba da rivaleggiare senza complessi con Maria Teresa Ruta. Quanto alla politica, all' Ovest poco di nuovo. Premio speciale della giuria a Jacques Chirac, uomo politico di destra divenuto presidente in Francia con un programma di sinistra e attaccato a forza di scioperi (metodo di sinistra) dal pubblico impiego (oggettivamente di destra). Troppo complicato? Ci si può consolare pensando che i francesi sono neolatini davvero cartesiani: mentre da noi gli scioperi punteggiano la vita quotidiana avvelenandola, loro li concentrano in uno scioperone di un mese, così che poi per vent' anni non ci si pensa più. A Est, invece, clima frizzantino, grazie ai veri uomini dell'anno: i comunisti, che a volte, anzi quasi sempre, ritornano. A Mosca, Boris Eltsin vede con una stretta al cuore i successi degli eredi del Pcus. A Varsavia, Lech Walesa, un elettrotecnico vero, perde il ballottaggio per la presidenza contro un laureato falso. Dopo di che, viene la tentazione di pensare che in fondo l'errore dei bolscevichi è stato un eccesso di impazienza. Hanno preso il potere con la rivoluzione, lo hanno mantenuto con il terrore. Morti, dittatura del proletariato con annessi gulag, e poi elettrificazione, acciaio, missili, atomiche. Tanta fatica per realizzare il paradiso in terra quando sarebbe stato sufficiente prometterlo in campagna elettorale: bastava dare tempo al tempo, e vincere a mani basse le borghesissime elezioni.
PANORAMA, 11.01.1996, SPECIALE DUEMILA
OTTIMISMO, ULTIMA DEA
Uno spettro si aggira per l'Europa, ed è un fantasma inatteso. Suscita brividi sottopelle nelle classi medie, riportando in superficie paure remote. E' la crisi della sicurezza sociale, che sta diventando il nodo cruciale per qualsiasi partito e programma politico. L' entropia del welfare state, divenuto un apparato che ingoia risorse per mantenere se stesso e garantire i già garantiti, impone soluzioni chirurgiche, tagli e amputazioni, come dimostra in Francia la contrastata ristrutturazione di Jacques Chirac e Alain Juppé. Noi invece coltiviamo ancora la speranza di poter uscire dall' epoca dell'erogazione e dell'assistenza, delle pensioni facili e della sanità a buon mercato senza né lacrime né sangue. In realtà, malgrado gli ultimi lasciti della sapienza compromissoria andreottiana, gli anni di qui al Duemila saranno scanditi proprio dall' insicurezza. Un sentimento a cui non siamo più abituati. La società italiana aveva imparato a concepire la ricchezza semplicemente come una questione distributiva. Screditate le ideologie molto prima del loro tramonto ufficiale, permanevano i loro detriti, gli ideologismi. E l'ideologismo principale consisteva nel negare l'obbligo delle compatibilità; considerava lo Stato come una pompa che doveva semplicemente erogare risorse. Il conflitto sorgeva eventualmente soltanto in relazione alla scelta sull' indirizzo delle erogazioni. Nella stanza di compensazione del Parlamento il cosiddetto Partito unico della spesa pubblica negoziava i conflitti distributivi aggravando il deficit pubblico e scaricandolo sul debito. Eppure, anche in una situazione irresponsabile, non c' era la sensazione diffusa della precarietà. Ed è stato anche per questo che è risultato possibile far circolare l'idea che si poteva sfrondare il welfare "particolaristico" (e cioè assistenzial-clientelare) attraverso metodi morbidi, coniugando, come forse si dice tuttora a sinistra, "solidarietà ed efficienza". Poco più che rassicurazioni, con l'ottimismo ultima dea. Ma poi ha cominciato a diffondersi sempre più rapidamente la sensazione che le cose sarebbero state molto più brutali. Per qualche mese l'invenzione politica di Silvio Berlusconi ha fatto balenare il "miracolo", cioè la possibilità di uscire dalla transizione senza fatica, puntando sulla crescita con un singolare intreccio di keynesismo e neoliberismo. Forse il buon governo codificato da Giuliano Urbani era puro "wishful thinking". E l'ultraliberismo di Antonio Martino un esercizio accademico. Ma molti italiani ci hanno creduto perché la via berlusconiana al benessere collettivo consentiva di scavalcare di slancio la fase penosa nella quale la collettività si era trovata di fronte ai conti con se stessa. Il punto di svolta è stato marcato dalla scoperta della grande corruzione politica, in cui si sintetizzava il fallimento di una classe dirigente, la tragedia dei conti pubblici, l'errore del dna politico che poteva condurre alla morte il Paese. L' alternativa a quel punto era tra un approfondimento degli effetti e del significato di Tangentopoli, da un lato, e dall' altro un effetto amnistia, cioè l'amnesia generalizzata. Se avesse accettato un esame di coscienza senza sconti, la società italiana avrebbe dovuto chiedersi fino a che punto era giunta la complicità implicita, o addirittura la collusione, con la sua classe politica. Ha scelto, come si è visto, la soluzione più comoda, attribuendo ogni responsabilità ai partiti e agli uomini politici dell'ancien régime. Trovato il capro espiatorio, tutto è venuto di conseguenza. C' è stata un'autoassoluzione di massa, che sciacquava via tutti i peccati. Il peccato mortale era quello di essere stati sudditi anziché cittadini, di avere accettato le mance del sovrano anziché, quando era il caso, rivendicare diritti e servizi. Si transigeva sul funzionamento delle poste in cambio di qualche spicciolo. Ci si è quindi subito dimenticati delle pensioni ottenute grazie al padrinaggio politico, dei posti di lavoro assegnati dal favore del portaborse locale, via via fino a perdere memoria dei vantaggi, ampiamente goduti, che uno Stato approssimativo consentiva attraverso i bot, e che costituivano un "free riding" di massa, una speculazione degli italiani a proprio danno, o a danno dei propri figli. Mani pulite e i referendum elettorali, ma anche Umberto Bossi e la Lega, hanno permesso senza volerlo una spericolata acrobazia morale, consistente nell' attribuire a qualcuno (la partitocrazia) ciò a cui avevamo partecipato. Liquidati quasi tutti i vecchi partiti, la collettività si è trovata nuovamente sola di fronte a se stessa. E in condizioni fortemente instabili, in cambiamento tumultuoso e chissà come controllabile. L' innovazione tecnologica distrugge posti di lavoro, la concorrenza mette a repentaglio abitudini e stili di vita consolidati, i sindacati si trovano nella condizione di dover contrattare al minimo misure di ristrutturazione rispetto alle quali non hanno una strategia se non difensiva. I mercati si aprono, i capitali prendono strade imperscrutabili, la finanza scarica tensione ogni giorno sugli investimenti, il risparmio viene messo a rischio. Ciò che ieri sembrava un'ipotesi astratta, la globalizzazione con i suoi rischi, comincia a interferire direttamente nelle nostre vite, e Ralf Dahrendorf non perde l'occasione di dare corpo alle angosce di chi si sente in balia di forze e di poteri fuori controllo. Nello stesso tempo, le città entrano in turbolenza, fra crisi da traffico e tracollo dei servizi, vanificando il più delle volte le aspettative politiche suscitate dall' elezione popolare dei sindaci (dato che un Bassolino non fa primavera). La stessa composizione della società entra in una fase nuova, con l'immigrazione che muta anche visivamente l'immagine e il colore delle strade e delle piazze. Ci si può aspettare quindi un contraccolpo inatteso, la richiesta di protezione, di tutela, di comunitarismo? Dopo avere cantato l'elogio del mercato potremmo assistere a un nuovo balzo delle sinistre "antagoniste", fondamentalisticamente o esteticamente avverse al capitalismo? Alla ripresa della formula socialdemocratica in versione italiana? A un rifiuto insomma dell'attrezzatura liberista che era stata presentata come il rimedio della modernità contro l'arretratezza? E perfino a una forma non dichiarata ma serpeggiante di nostalgia per il potere molle, continuamente adattabile, della Dc? Prima di rispondere bisognerebbe cominciare a censire la collettività in modo realistico. Il fallimento, la zoppia della politica rispetto alla società che Giuseppe De Rita rileva nell' ultimo rapporto Censis, va interpretato senza cadere nella trappola del bipolarismo, che può funzionare nella politica, ma non descrive nulla della società. Non si può tagliare in due la società ripartendola sulla direttrice Polo-Ulivo, magari attribuendo alla destra una qualità più moderna e alla sinistra un atteggiamento conservatore. Il fatto è che gli italiani possono semmai dividersi fra arcaici e postmoderni, e queste tendenze non sono prerogativa di una sola parte. Se immaginiamo l'interno di una casa della periferia metropolitana possiamo figurarci l'incombere della televisione, ragazzine che sognano una carriera da Ambra Angiolini e giovani maschi ancora addestrati a concepire il rapporto con le donne secondo codici atavici. I modelli comportamentali plasmati dalla pubblicità vengono poi mediati dall' hard discount, merce povera per poveri che non hanno nessuna intenzione di rinunciare alle soddisfazioni del consumo vistoso, anche se con un packaging anonimo. Sarebbe questo un segmento sociale di sinistra? No, non tutto. Può essere appiattito in una condizione psicologica passiva, tramortito dalla pressione televisiva, ridotto alla subalternità in modo definitivo. Oppure alla ricerca di ribellioni clamorose e con un fondo nichilista. Ma senza distinzioni trancianti. Può considerare sostituibili, per dire, Alleanza nazionale e Rifondazione comunista, come non di rado succede nel Sud, se trova qualcosa che esaudisca il suo bisogno di tutela oppure rinnovi il suo desiderio di rivalsa. In modo analogo, negli interni borghesi si potrà trovare tanto l'ottimismo "azzurro", fede nel consumo e nel mercato, quanto il pessimismo politically correct di marca progressista. Nell' insicurezza, appare fisiologico che si affermi tutto ciò che genera immobilità. Non sarà un caso se i ragazzi italiani rimangono in famiglia fino ai trent' anni. Niente case, poco lavoro, scarsissima propensione al rischio. Ciò che colpisce è però ancora una volta una società a due facce, che miscela in modo caotico l'aspirazione al nuovo in tutte le sue forme e un'accettazione rassegnata dell'immutabilità. Non c' è più immigrazione interna, non c' è mobilità verso l'alto, i figli degli operai non riescono a fare il passo verso il ceto immediatamente superiore della scala sociale. La scuola ha cessato di essere un'agenzia di promozione sociale. E nella fase della denatalità, con l'invecchiamento della popolazione, è naturale che tenda a scattare il riflesso egoistico teso a difendere le posizioni acquisite e quindi a chiedere ordine magari senza legge. L' aspetto più immediatamente visibile sembra dunque un conformismo affannoso. Può essere sintomatico di questa schizofrenia che si autocompensa l'atteggiamento verso la religione, e naturalmente verso il cattolicesimo e la Chiesa. Un sociologo torinese, Franco Garelli, ha mostrato che il cattolicesimo degli italiani è un'eco depotenziata dalla secolarizzazione, declinata in chiave sentimentale sul piano dell'adesione convenzionale ma caratterizzata da una spregiudicata flessibilità soggettiva per ciò che riguarda l'applicazione dei precetti religiosi. Ne deriva una religione fai-da-te che risulta rassicurante sul piano delle identità e che non implica l'interiorizzazione di criteri morali intransigenti. Credo in Dio, perché così fan tutti, ma su preservativi e pillole faccio ovviamente a modo mio. Fa eccezione il mondo del volontariato, in cui si colgono forme integrali di perseguimento dei valori scelti, ma che sembra esaurirsi in se stesso, senza esercitare un impatto politico sull' ambiente esterno. Ma anche per altri aspetti più vistosi sembra difficile negare i sintomi di atomizzazione sociale. Le notti del sabato in discoteca, lo sballo, le corse sulla Tigra costituiscono un'espressione esplosiva di vitalità, ma anche la riduzione della sfera giovanile all' ottundimento, senza alcuna proiezione collettiva. Lo schema di ciclico impegno / disimpegno, movimento pubblico e riflusso, descritto da Albert O. Hirschman, si è bloccato. Se rimane qualcosa del passato non è la lotta di classe, ma piuttosto, neanche troppo mascherata, l'invidia sociale, resa visibile dal mimetismo dei consumi bassi verso i modelli elevati. Per tutti gli anni Ottanta c'era stata la rincorsa di autoimmagini basate sulla competizione, ma in cui l'elemento materiale dell'economia si sublimava nelle astrazioni postmaterialiste della finanza: "I make money by money", faccio soldi con i soldi, diceva Mickey Rourke in Nove settimane e mezzo. E in Italia si diffondeva l'aspettativa che potesse essere proprio il mercato a fungere da straordinario surrogato delle lotterie, dando vita a una sorta di scommessa collettiva sulla borsa e sui fondi di investimento. Era il periodo in cui si poteva davvero pensare che il miglior rimedio contro la povertà fosse la ricchezza. Dopo che l'illusione del capitalismo di massa si è volatilizzata, la leggerezza non è più un valore: tornano in primo piano dati duri, consistenti, pesanti. L'impresa, il potere dei poteri forti, la tenace persistenza degli establishment, lo stile granducale dell'entourage Fiat. Potrebbe esserci sotto la sensazione che qualcuno ci dovrà salvare dall' incertezza, e questo qualcuno non sarà la politica, ma qualcosa percepito come sostanzialmente immutabile, non scalfibile. Fino a ieri c'era l'aspettativa che il cambiamento politico avrebbe smobilizzato le energie e le risorse prima sequestrate dal breznevismo Italian style. Oggi si intravede la malcelata speranza che siano gli strati impermeabili della collettività ad assicurare un lembo o uno straccio di futuro praticabile. Ciò ha un prezzo, naturalmente, ed è un prezzo elevato. Perché se il conflitto si inabissa attraverso mille rivoli carsici, se diventa pura connotazione psicologica individuale, questa è la condizione migliore per garantire una continuità al ribasso, sostanzialmente regressiva. Già adesso dopo il patto sociale stipulato sotto gli auspici di Amato e Ciampi, a causa dell'inflazione crescente si registra una perdita secca di benessere dei ceti operai e del lavoro dipendente. Unito all' aggressione che la tecnologia conduce verso i colletti bianchi, ciò potrebbe preludere all' irrigidimento della stratificazione per classi. Mentre Romano Prodi predica il modello tedesco della società integrata, il caotico Duemila italiano potrebbe ricalcare molto più facilmente lo schema inglese, in cui lo smantellamento degli ammortizzatori sociali approfondisce e sclerotizza le distanze di classe. Per le élite dotate di potere ciò farebbe echeggiare il suono gratificante della restaurazione; per tutti gli altri, in una collettività senza scheletro, resa amorfa politicamente e inquieta economicamente, significherebbe l'annuncio di un terzo millennio in cui ognuno combatterà a muso duro la sua guerra privata per qualche briciola.
PANORAMA, 01.02.1996, PRIMO PIANO
CHE BELLO, GIOCHIAMO ALLA POLITICA!
Cronaca. Durante l'inaugurazione del restauro degli affreschi di Masolino nella basilica romana di San Clemente, dalla folla che attorniava Carlo De Benedetti si è alzata la voce di una suora: "Ingegnere, mi deve fare un favore. Deve salutarmi Di Pietro". Naturalmente De Benedetti ha risposto: "sarà fatto", rendendo a suo modo esemplare, oltre che rivelatore, questo piccolo episodio. Vale a dire: se anche le monache hanno messo a fuoco che c' è stata una telefonata politica fra Mister Olivetti e l'emblema di Mani pulite, e se di conseguenza una delle spose di Cristo non rinuncia alla tentazione di inserirsi in questa "liaison" telefonica, vuol dire che nel costume italiano è successo qualcosa. E' successo semplicemente che le intercettazioni telefoniche e le rispettive trascrizioni divulgate dai giornali hanno reso evidente che il gioco della politica è diventato una pratica di massa. Ricordate quando gli "arcana imperii" erano custoditi occhiutamente dai partiti, dalle correnti, dagli attori principali? Adesso è crollata la paratia, ciascuno può pensare di salire sul palcoscenico: basta un cellulare, un'agendina, una rete di conoscenze. Tutto è diventato più facile, visibile, "partecipato". Nelle pause del processo di Milano, Silvio Berlusconi firma autografi e scherza con i suoi fan; Romano Prodi lo si può incontrare con il suo staff sotto i portici di Bologna, il tecnocrate Dini è, per il popolo, "er mejo fico der bigoncio" (parola di sua moglie). Di Pietro ha tanti amici che parlano e si agitano, De Benedetti ha una gran voglia di sapere che farà Romiti, se scende o non scende. Tutto molto pop - anzi, folk - una specie di circolo Arci della politica. Prima c' erano i professionisti, gente che teneva in mano il pallino e non lo avrebbe mai ceduto a nessuno. Adesso, il trionfo del dilettantismo rende possibile a quasi tutti un quarto d' ora di celebrità, magari sponsorizzata Telecom. Anni fa questo strato di politici di taglia media, avvocati, faccendieri, ma anche industriali, giornalisti, magistrati, politologi, si sarebbe limitato a scambiare commenti su ciò che avveniva nei sancta sanctorum romani, officiato dai grandi sacerdoti del potere. Ora invece non si commenta, si passa immediatamente all' azione. Una telefonata allunga lo status. Fra un "sono qui con la Dellera" e un "abbiamo molti amici in comune" c' è la possibilità di lanciare un complottino, una trametta, una macchinazioncina, oppure di bloccare un dossier, una rivelazione, un documento, e poi di fare circolare un'ipotesi, una congettura, un'illazione. Se poi va bene, ci scappa una strategia. Tutti i bricoleur della politica vanno a nozze. Nulla resta segreto. L' oligarchia partitica sta diventando una perfetta democrazia telefonica. Durante l'ancien régime era la velina di Vittorio Orefice a rivelare le liturgie interne alla politica. Non ce n' è più bisogno, la trasparenza è sovrana. Ai massimi livelli, Berlusconi telefona a Lucia Annunziata per avere il numero di telefono di Giovanni Sartori, e quella gli passa D' Alema. Dialogo surreale: "Chi è?" chiede il Cavaliere. "E chi vuole che sia, sono io" risponde Baffino. Ma anche scendendo a livelli più medi, si ha la sensazione che tutto è diventato permeabile, tutti parlano con tutti, e l'eventuale reticenza è solo un espediente temporaneo per aumentare l'interesse di chi ascolta. E' sufficiente portare in dote un'informazione o un pettegolezzo e si aprono i centralini, cedono le segretarie, si spalancano i Gsm. Dopo di che, con l'interlocutore, non si tratterà solo di scambiarsi chiacchiere e segretucci: no, su ogni chiacchiera si può costruire un progetto, allestire un abbozzo di squadra, dividere il mondo fra "noi" e "loro". In ogni caso, si entra subito a far parte del grande club. L' unico dubbio, come al solito, è se vale davvero la pena di entrare in un circolo che accetti noi, e tutti loro, come soci.
PANORAMA, 28.03.1996, ATTUALITA' ITALIA
HOMO MODERATUS I POLI A CACCIA DI UN MITO ITALIANO
Nell' immaginario della politica italiana, nel suo lessico iniziatico, nelle sue realtà illusionistiche, ci sono almeno due fantasmi, due entità specificamente mitologiche: uno è un luogo, il centro; l'altro è una persona, o un idealtipo weberiano, l' "homo moderatus". Del centro ormai si è detto quasi tutto. Dei moderati invece no: si sa soltanto che, proprio in quanto tali, essi dovrebbero essere i naturali abitanti del suddetto centro. Disintegratosi il quale, l'homo moderatus sarebbe un esule politico in patria, uno straniero, uno sradicato, una figura costantemente a disagio fra le tensioni indotte dal sistema maggioritario o dalle sue interpretazioni fondamentalistiche. In musica, il "moderato" è un'indicazione di movimento fra l'andante e l' allegro. Per ciò che ci riguarda, di allegro c' è poco. Lasciando gli spartiti per i partiti, si tratterebbe innanzitutto di capire perché la moderazione sarebbe diventata la virtù suprema. Secondo un illuminista radicale come Thomas Paine, che vide sia la rivoluzione americana sia la rivoluzione francese, "la moderazione nel carattere è sempre una virtù, ma la moderazione nei principi è sempre un vizio". Sta di fatto che i moderati catalogati con marchio d' origine controllata non esistono in nessuna democrazia avanzata. In Germania i socialdemocratici parlano con una visibile acredine della Cdu, definendola sprezzantemente "il partito conservatore". Nella Gran Bretagna thatcheriana e post-thatcheriana la contrapposizione fra laburisti e tory raggiunge asprezze che saranno certo molto british, ma che di moderato non hanno niente. La Francia ha una lunga tradizione in fatto di rivoluzioni e radicalismi. E poi: era un moderato De Gaulle? E' un moderato il nazionalpopulista Chirac? E l'elenco potrebbe naturalmente continuare. Ma il senso dovrebbe essere già chiaro: in sistemi politici assestati, ciascun partito è libero di proporre la sua strategia, intensificando o attenuando le proprie caratteristiche politico-programmatiche, rendendo flessibile la propria strategia, ora radicalizzandola ora ammorbidendola. Mentre in Italia, all' interno di una struttura politica ancora disequilibrata, si avverte come primaria la necessità di superare gli estremismi, tipiche malattie infantili di qualsiasi fase politica; solo che il prezzo da pagare per smussare gli integralismi della politica è a quanto pare il tuffo nell' antropologia. Si dice moderato, infatti, ed è come dire un soggetto politicamente indistinto, ugualmente disponibile al centrodestra e al centrosinistra purché il centro abbia la preminenza nella sigla politica, ne sia il massimo comun divisore. Quindi l'homo moderatus sarebbe in realtà qualcuno che oltre ad aborrire gli estremismi è anche sostanzialmente disponibile al "questa o quella per me pari sono": la scelta neoliberista di Forza Italia per lui sarebbe di fatto equivalente all' "economia sociale di mercato" dell'Ulivo. Insomma, l'importante è non esagerare, né con il liberismo né con il solidarismo, né con Antonio Martino e Sergio Ricossa né con Rosy Bindi e don Giuseppe Dossetti. Già, ma questo approssimativo identikit non è quello di un moderato, è quello, a dirla schiettamente, di un conservatore. Una specie politica scarsamente adatta all' ecosistema nazionale (ironizzava Leo Longanesi: "Sono un conservatore in un paese in cui non c' è nulla da conservare"), e ridotta al silenzio dalla rivoluzione strisciante cominciata in Italia a partire dal ' 92, allorché si scatenò l' offensiva di Mani pulite, la Lega di Bossi sembrò dilagare in tutto il Nord, l' ondata verso il sistema maggioritario parve destinata a spazzare via ogni residuo di cultura e comportamenti di quella che lo storico cattolico Pietro Scoppola identificò come la "Repubblica dei partiti". Isola di proporzionalismo Che avrebbe potuto dire e fare, il moderato, di fronte a una magistratura che abbatteva un'intera classe politica, all' urlante "Roma ladrona" di Umberto Bossi, alla promessa travolgente che l'uninominale avrebbe ritagliato due perfetti figurini bipolari, ponendo fine al rito romano consociativo? Avrebbe fatto con ogni probabilità ciò che gli eredi della Prima repubblica hanno fatto, ora conducendo una lotta sorda e strisciante contro la magistratura, ora annacquando le leggi elettorali per mantenere qualche isola di proporzionalismo, ora coinvolgendo il Carroccio in governi e alleanze. A proposito, non fu una coalizione fra i "moderati" di Carnot e alcuni montagnardi compromessi che spense nel Termidoro il Terrore rivoluzionario di Robespierre e Saint-Just? "Nihil sub sole novi", anche le rivoluzioni hanno avuto i loro ribaltoni. Ma se le cose stanno così, l'homo moderatus non è il protagonista del futuro, è piuttosto una stratificazione del passato. Erano moderati gli elettori che nella seconda metà degli anni Ottanta accettarono di farsi confiscare il loro voto dal pentapartito e poi dal Caf. Era moderato il Pci, che a causa della consapevolezza del proprio costituzionale, statutario deficit democratico ha sempre abbassato il livello della propria opposizione verso il "sistema di potere democristiano e socialista" in cambio del riconoscimento di legittimità. Era moderato il sindacato, che si guardava bene dal chiedere volgarmente soldi, perché la rivendicazione di più salario avrebbe comportato la richiesta, per calcolo di compatibilità, di più produttività; e Luciano Lama preferiva quindi chiedere più Stato, più legislazione sociale, tutele, protezioni: col risultato che la struttura produttiva veniva soffocata da una rete esiziale di vincoli e che il lavoro dipendente è stato spinto sempre più vicino alla povertà. La prima rottura politica in questo terreno della moderazione, il primo sbrego nel centro fu naturalmente scandito dall' avventura politica di Silvio Berlusconi. "Un matto" disse di se stesso il Cavaliere scendendo in campo "insieme ad altri matti". Solo che Berlusconi era l'antitesi del moderatismo solo per i suoi ultrà, da Giuliano Ferrara a Marco Taradash, comodamente sistemati nell' iperuranio dell'iperliberalismo. Molto più legato alla terra, il capo di Forza Italia aveva fabbricato una macchina politica anfibia, che in parte mimava la mobilitazione neoconservatrice dei ceti borghesi che si era avuta con la "reaganomics", e in maniera ancora più rivoluzionaria con il grande esperimento radicale di Margaret Thatcher (ma anche in Germania, seppure mediato dalla imponente sapienza democristiana di Helmut Kohl); in parte radicale, dunque: ma per l' altro verso invece rifiutava ogni etichetta oltranzista, voleva essere indistruttibilmente "di centro, a capo di una grande forza moderata". La doppiezza del Polo nasce anche e soprattutto qui, non solo nell' estremismo pasticciato di Alleanza nazionale, con Gianfranco Fini che a Torino, nel "giorno dei commercianti" e dei fischi a Romano Prodi, sostiene che sarebbe il caso di licenziare sette impiegati pubblici su dieci, mentre ci si immagina che Pinuccio Tatarella (un moderato a 24 carati, l'ex ministro dell' Armonia) pensi e dica ben altro, es-sendo An l' impresario politico della protezione e dell' assistenza del pubblico impiego meridionale. Il fatto è in ogni caso che sul santino dell'elettore moderato si è costruita una religione politica spuria, che intorbida il confronto politico. Se i simboli della moderazione sono gli occhialetti di Fini, il sorriso del Cavaliere, l'abilità manovriera di Casini e Mastella, l' "inclinazione sociale" autoattribuitasi dal tecnocrate Lamberto Dini, le 88 volonterose tesi di Prodi, l' equilibrismo fra subsistemi di Antonio Maccanico, il parlamentarismo vecchia scuola di Gerardo Bianco, la disponibilità di D' Alema alle larghe intese, beh, questi sono sottoprodotti politici molto fungibili e poco qualificanti. C' è la sensazione, ed è piuttosto spiacevole, che il fantasma del cittadino-elettore "moderato" sia il grande alibi per non fare nessuna scelta. La conquista dell'homo moderatus costituisce l'obbligo per stemperare programmi senza affrontare nessun problema. Ciò che è singolare è l'enfasi sulla moderazione mentre il Paese è una sintesi di malattie esagerate. Come dice il ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio, per fare fronte agli oltre 2 milioni di miliardi di debito accumulato per mantenere standard elevati di benessere, si può effettivamente tagliare la spesa pubblica: è sufficiente licenziare "200 mila insegnanti, 200 mila ministeriali, 50 mila dipendenti degli enti locali, e poi paramedici, ferrovieri, falsi invalidi...". Ci vuole solo un massimalista, un estremista che lo faccia: ah, trovarlo. Rigorismi di bilancio L' alibi dell'homo moderatus consente poi di non guardare in faccia la realtà. Avere immaginato la politica sul profilo del moderato ha consentito di progettare il risanamento come se fosse tutta una questione di grandezze macroeconomiche. Questo era anche uno dei peccati di un falso moderato (in realtà un radicale storico) come Ugo La Malfa, che percepiva nettissimo lo scandalo dell'indebitamento e della redistribuzione a pioggia come un autentico pervertimento dello schema ciclico keynesiano (che prevedeva il deficit di bilancio come strumento espansivo, da compensare con il futuro aumento di gettito determinato dalla crescita economica). Ma che, da tecnocrate qual era, non era abituato a scendere dal livello macroeconomico al livello del funzionamento dello Stato, dei servizi pubblici, degli ospedali, delle scuole. Di fronte ai rigorismi di bilancio lamalfiani, il cattolico sociale Donat Cattin parlava beffardo di economicismo. Oggi, di fronte alle politiche contabili di risanamento finanziario, e alle proposte di tagli alla spesa pubblica per riacchiappare la periferia di Maastricht, si potrebbe chiedere: benissimo, e che diciamo dei 121 adempimenti fiscali che affliggono ogni anno i commercianti? Insomma, non c' è più spazio per immaginare un piano nobile della politica economica in cui si parla come in un seminario organizzato dalla Banca d' Italia, tra grafici e diapositive sull' andamento dei tassi d' interesse, e un sotterraneo dove alcuni dannati dovrebbero fare il "dirty job" di ridare efficienza al carrozzone pubblico italiano. Il risanamento del carrozzone avviene, se avviene, più sul versante micro che sul versante macro. Il che significa mettere mano ai ministeri, alle poste e alle usl, così come alla scuola e alle ferrovie, ai comuni e alle regioni, rivoluzionandone il modo di operare, budgetandone le funzioni, responsabilizzando i centri di spesa, reintroducendo una catena gerarchica. Ma per fare un'operazione simile non c' è moderato o moderazione che tenga. Ci vuole radicalismo, e anche un po' di sadismo, come quello esibito da Sabino Cassese sotto l'ala del governo Ciampi. In caso contrario, il simbolo dell'Italia del Duemila non sarà l'homo moderatus, basterà togliergli la mascherina e riapparirà, sotto i tratti della moderazione, l' uomo doroteo: quel singolare e diffusissimo esemplare politico capace di mediare, scomporre, e alla fine rinviare qualsiasi scelta pur di ritagliare o mantenere una quota di potere. Oppure una sua versione più moderna ed efficiente del doroteismo, che è il baudismo: sì, proprio dal suo inventore Pippo Baudo, che concepisce l' offerta di spettacolo non con una fisionomia esclusiva, riconoscibile, targettizzata, ma con un approccio da marketing generalista: e qui ci metto il cantante per le nonne, qui quello per i giovani, qui l' aggressivo postmoderno, qui il timido romantico per le ragazzine, qui il replicante di Vasco Rossi, e poi il facsimile di questa o di quella; insomma una perfetta lottizzazione, che tiene altissima l' audience accontentando e nello stesso tempo scontentando tutti. Moderato: cioè politically correct su ogni argomento. Contrario alla tassazione dei Bot e alla patrimoniale, ma diffidente verso invenzioni tipo la "flat tax". Favorevole alla razionalizzazione del fisco ma, nel frattempo, propenso a temperare la pressione tributaria con una dose "ragionevole" di evasione. Desideroso di misure sostanziali per ristrutturare la pubblica amministrazione e i servizi, purché non riguardino la sua posizione di dipendente dello Stato. Emblema, l'homo moderatus, di un paese che si appassiona al dibattito sulle regole esattamente come è incline a dribblarle, che si tratti di deformare il sistema maggioritario con le desistenze oppure di interpretare personalisticamente i limiti di velocità e comunque il codice della strada: homo moderatus, homo italicus. LA BIBLIOTECA DEL MODERATO Il moderato deve trascurare la Bibbia, Omero, i tragici greci, in quanto propongono storie smisurate, archetipiche, inquietanti. Bene Tacito e i suoi Annali. Male anche l'età moderna, con le esagerazioni di Rabelais e Milton. Si può trovare un rifugio in Voltaire, che pure è un radicale fanatico, e scrisse un pamphlet come Candide per distruggere l'ottimismo razionalista di Leibniz, ma vi consegna l'immortale figura del dottor Pangloss, certo di ritrovare il migliore dei mondi possibili anche nelle tragedie peggiori, tipo l'improvviso ritorno del Caf con Giulio e Bettino in testa. Tutta la letteratura non si segnala certo per moderazione. Per un verso o per l'altro Dante, Petrarca, Boccaccio e Chaucer risultano eccessivi, come pure Ariosto, Tasso, Cervantes, Marlowe, Defoe, Swift. I russi, da Dostoevskij a Tolstoj, gente esagerata. Come pure i romantici, i simbolisti, i veristi, gli espressionisti, i decadenti. A parte Alessandro Manzoni, che probabilmente è il vero autore mondiale della moderazione, un Martinazzoli della letteratura europea. L' intero Novecento poi è una sequela di catastrofi stilistiche. Meglio cercare conforto nella filosofia. Si potrebbe consigliare Platone, se non fosse che a furia di inseguire la ragione prepara repubbliche totalitarie. Meglio quindi il pragmatico Aristotele. Oppure, più avanti, san Tommaso d' Aquino. Bene John Locke, sufficiente la Critica della ragion pura di Immanuel Kant. Male Hegel, malissimo Nietzsche, pessimamente Marx. Molto meglio il Tocqueville della Democrazia in America, che moderato non è ma preveggente sì, visto che indica come pericoli per la democrazia conformismo, individualismo e dispotismo della maggioranza. Fra gli storici, grandissimo l'olandese Johan Huizinga, fra i sociologi, Vilfredo Pareto. Una filosofia apparentemente moderata è quella di Benedetto Croce, che però ha aspetti radicali nell' opporsi a pseudoscienze come sociologia e psicologia: visti i risultati, forse aveva ragione. Perfetto Hans Kelsen. Pollice verso per tutti i francofortesi. Giungendo all' oggi, si nota la scomparsa dei maestri di pensiero, rivoluzionari o moderati. Tramontato Alberoni, ci si può rifare con Umberto Eco, meglio Il nome della rosa del Pendolo di Foucault. Ma Eco è stato più fenomeno di massa che teorico del moderatismo. Se uno vuole cercare la moderazione assoluta, deve cedere a Susanna Tamaro: Va' dove ti porta il cuore, cioè in nessun posto.
PANORAMA, 04.04.1996, ATTUALITA' ITALIA
I PARTITI? IMPRENDITORI DELL’ INVIDIA SOCIALE
C' era una volta la lotta di classe, che tagliava in due la società. Ma oltre a dividere il principio di classe univa: proiettava sul futuro l'idea di una comunità ricomposta. Iscritto al sindacato ("cinghia di trasmissione" del partito), l'immigrato meridionale nelle fabbriche del Nord non era un dropout metropolitano, bensì un compagno. Ma tutti i partiti di massa, Dc naturalmente compresa, promuovevano valori universalistici, sintetizzavano una proposta rivolta all' insieme della collettività. Il suggello operaio sulla città futura conteneva la minaccia della dittatura di classe, mentre lo sfondo della pax democristiana era l'interclassismo: ma nessuno defezionava dallo schema dell'universalismo. Il primo sintomo della defezione avvenne con l'invenzione del Polo delle libertà, che racchiudeva (anche se lo sapevano soltanto i professori come Antonio Martino) diversi cromosomi neoconservatori, e poteva preludere a una mobilitazione della borghesia fondata su un'esplicita rottura del patto che era stato mediato dalla Dc. Solo che, per fare il pieno alle elezioni del 1994, Forza Italia dovette metter su il carrozzone con la Lega, Alleanza nazionale e i postdemocristiani, con tanti saluti alla radicalità coerente di un progetto liberista. Non appena fu chiaro che non ci sarebbe stata una destra, magari un po' cattiva, disposta a radicalizzare il conflitto fra gli interessi, apparve evidente di riflesso che anche la sinistra avrebbe avuto un alone confuso. Al punto che uno studioso di sinistra oltranzista come Marco Revelli sostiene che quasi tutto lo spazio politico italiano è occupato in realtà da due destre, una populista e plebiscitaria (il Polo), l'altra tecnocratica ed elitaria (l'Ulivo). Diagnosi brillantemente apocalittica, quindi forzata. Sta di fatto tuttavia che proprio l'immagine sfuocata dei due principali schieramenti, ciò che ha inibito la possibilità di selezionare precisamente gli interessi da rappresentare, ha avuto perlomeno due effetti. Da un lato, ha reso sia il Polo sia l'Ulivo due partiti-tutto, ancora pochissimo coerenti. Dall' altro, la perdita di riferimenti politici, classici, ha messo in libertà gli spiriti animali della società nazionale, scandendo un clamoroso rompete le righe. Si è aperta una vistosa crepa nel vecchio contratto sociale. E' saltato il compromesso redistributivo. Durante il nostro recente ancien régime, si concedeva al lavoro autonomo evasione fiscale e alti rendimenti sui Bot in cambio di consenso: e si tartassava il lavoro dipendente in cambio di tutela, cioè assicurando welfare state. Adesso invece risuonano squilli di rivolta fiscale, e pochi trovano fantastico un prodigio della nostra epoca: che a organizzare i "tax day" siano i potenziali evasori, cioè coloro che hanno quanto meno la possibilità di pasticciare con vendite e prestazioni in nero; mentre i tartassati effettivi, coloro che non hanno una possibilità nemmeno teorica di dribblare il fisco, tacciono, incupiti dall' impoverimento del lavoro dipendente pilotato dalla concertazione fra governo e sindacati. Il fatto è che si è liberalizzato l'ambiente esterno, come nel caso dell'equo canone, ma interi ceti sono rimasti prigionieri della gabbia precedente. Per questo dentro le fabbriche del Nord si trovano operai da un milione e mezzo al mese, veri "working poor" italiani, che guardano con languore alla destra "sociale" di An, fiutando una promessa di tutela, altro che neoliberismo. Nella campagna elettorale di due anni fa il ritornello di Forza Italia faceva da colonna sonora all' annuncio del miracolo: il milione di posti di lavoro, gli splendori dello sviluppo a ciclo continuo. Col risultato che i poveri votarono per i ricchi, con un caleidoscopico rimescolamento degli interessi dettato dall' utopia di trasformare il Paese in un'unica classe agiata. E ora? Che effetto farà a quei ceti medi sempre più contigui alla soglia della povertà l'esibizione dello spaccato antropologico rivelato da Stefania Ariosto? Cioè la visione di quel mondo molto postmoderno fatto di circoli esclusivi, barche, casinò, boutique e affari improbabili, e professionisti miliardari, e politica, pranzi, cene, e donne... Di nuovo la sindrome Beautiful, con il miraggio dell'"enrichissez-vous", oppure una disillusione totale? Ricchezza contro semipovertà, da una parte. E, dall' altra, rancore di chi rischia contro chi è garantito, insofferenza per la comoda certezza dell'impiego pubblico rispetto all' insicurezza del lavoro privato, risentimento del disoccupato meridionale per l'opulenza del Nord. Insomma, la lotta di classe si è disintegrata e polarizzata in una quantità infinita di frustrazioni contrapposte. Per sapere come andrà a finire, o più modestamente chi vincerà le elezioni, si tratterà di capire chi sarà in grado di fare più efficacemente l'imprenditore dell' invidia sociale.
PANORAMA, 25.04.1996, AGENDA
UTILE INGIUSTIZIA? NO, GRAZIE
La fama di Ronald Dworkin comincia con un saggio, I diritti presi sul serio, pubblicato nel 1977 e apparso in Italia nel 1982, che portò la comunità intellettuale ad accostare il suo nome ai grandi analisti americani: John Rawls e Robert Nozick, che durante gli anni 80 rinnovarono il dibattito sul liberalismo. La posizione di Dworkin si caratterizzava per una rigorosa contestazione della possibilità di affiancare a un sistema di diritti primari una costellazione variabile di diritti secondari. Ciò significava che dato un sistema di principi generali, essi non potevano essere contraddetti dall' applicazione di criteri dettati dalla convenienza o anche dalla volontà di temperare alcuni conflitti (sociali, etnici, culturali): non si deve correggere, argomentava Dworkin, la diseguaglianza con un'ingiustizia, qualcosa che altera la sfera dei diritti universali. Il saggio di Dworkin pubblicato ora insieme al contributo di Sebastiano Maffettone appare come lo sforzo per ridefinire il liberalismo come filosofia "mobile", capace di porre in continuità etica personale e "vita buona", senza restare imbrigliata nelle pastoie del giusto contrapposto al bene. Dworkin confuta la "strategia della discontinuità", che separa rigidamente l'etica individuale dalla concezione del bene pubblico. Il suo modello di liberalismo, filosofico ancor prima che politico, è fondato non sul risultato finale ma su una successione di prove, che costituiscono "il nervo emozionale del liberalismo" e consentono di connettere libertà, eguaglianza e comunità, reincorporando l'etica come dimensione essenziale. Il contributo di Maffettone è invece concentrato sui fondamenti filosofici del liberalismo: prende le mosse dal confronto fra il concetto unitario di libertà e le numerose varianti dell'idea liberale. All' inizio del saggio vengono elencate, in modo lievemente provocatorio, quindici concezioni del liberalismo, tutte legittime e razionali. Come ritrovare un criterio che ne salvi l'unità concettuale? La risposta teorica di Maffettone aggiunge alla soluzione di Dworkin (la continuità fra etica e politica) un terzo livello, una "metafisica della società secolarizzata", vale a dire un presupposto prepolitico che vede nel liberalismo un patrimonio condiviso che consenta di prendere sul serio le differenziate visioni del mondo ormai intrinseche nella modernità e non riducibili all' alternativa tra vero e falso. I FONDAMENTI DEL LIBERALISMO di Ronald Dworkin e Sebastiano Maffettone. Laterza, 260 pagine
PANORAMA, 25.04.1996, IDEA DELLA SETTIMANA
DEMOCRAZIA ELETTRONICA FA BENE O MALE ALLA POLITICA?
Politica, sfera della polis, città dell'uomo. Ma che cosa succede se la città viene smaterializzata dalla comunicazione, se le procedure mediatiche del villaggio globale di Marshall McLuhan svuotano le relazioni umane e le proiettano nell' artificiale come irrealtà spettrali, olografie prive di densità psicologica? Il tentativo più curioso e naïf di rimaterializzare la politica si è avuto con la trovata del pullman di Prodi, e con il suo tour a contatto diretto con il popolo dell'Ulivo. Ma anche i colpi di scena di Berlusconi e Fini, che portano nelle platee l'Italia del Polo, immergendo i leader fra la loro "gente", rappresentano uno sforzo per mantenere alla politica la sostanza corporea che aveva nel passato. Si cerca insomma a tentoni di evitare la dissoluzione nell' etere e nel cavo, la perdita di fisicità provocata dalla nebulizzazione elettronica della polis. Per ora il processo di mutazione della politica in comunicazione pura è mediato quasi esclusivamente dalla televisione. Ma anche così il confronto politico è già divenuto immagine virtuale. Le "masse" le porta ancora in piazza un soggetto politico antico e "pesante" come Rifondazione comunista, la borghesia conservatrice viene pilotata nei cortei da un partito radicato nel pensiero pesante del Novecento come Alleanza nazionale; mentre le forze leggere come Forza Italia e l'Ulivo sono già proiettate in una dimensione immateriale, costellata di immagini e tracce postideologiche più che strutturata su complessi forti di idee. Inevitabile che cedano tutti i riferimenti classici, il principio di classe, l'asse destra / sinistra, la dialettica conservazione / innovazione. Il destino della politica è di essere centrifugata e inviata direttamente nell' immaginario. Ma sarà ancora politica? Che cosa resta dell'agorà, del dialogo pubblico che secondo Hannah Arendt costituisce anche nella modernità il lievito della democrazia liberale? Negli ultimi quindici anni la filosofia politica americana ha prodotto una consistente reazione intellettuale contro i peccati d' astrazione del liberalismo, sottolineando la funzione della "comunità" come agenzia che plasma l'identità politica e morale degli individui. Ma allora che cosa bisognerebbe dire di fronte all' astrazione totale, al buio ipertecnologico che ci fronteggia? Secondo Nicholas Negroponte, il profeta del Massachusetts institute of technology autore della bibbia del cybermondo, Essere digitali, la rottura di paradigma è già avvenuta e la rivoluzione è scattata: gli atomi si trasfigurano in bit, le cose e gli avvenimenti in unità elementari di comunicazione. La grande trasformazione porta a un verdetto senza appello: "Nel mondo digitale il mezzo non è più il messaggio". L' azzeramento dello slogan di McLuhan significa che chi riceve può elaborare l'informazione "resettandola" nella forma che più gli piace (come suono, grafico, testo e così via); il controllo formale sul messaggio si sposta, si individualizza. Già, ma il controllo sostanziale? Appagati dalla soddisfazione vicaria di "processare" informazioni non ci si preoccuperà più di chi e perché le fornisce? Ne potrebbe derivare facilmente una struttura secondo cui a un numero limitato di produttori di informazione si affiancherebbe un numero illimitato di utilizzatori, formalmente attivi ma sostanzialmente passivi. Siamo in attesa di un millennio neobarocco in cui nel circuito comunicativo l'unica facoltà praticabile sarebbe la gestione dell'ornamento, della forma, dell'artificio, della modalità? Nel suo libro Confucio nel computer, Furio Colombo sottolinea che in trent' anni negli Stati Uniti si è disperso un quarto del corpo elettorale, che non partecipa più al rito civile del voto. Di fronte a questa entropia della partecipazione politica, quali contromisure si possono attivare? Si chiede Colombo: "Tutti in piazza o tutti in Internet?". Vale a dire: sarà inevitabile scegliere se ridare vitalità alle spoglie della politica classica, con pullman e teatri, comizi e bagni di folla, oppure se conviene introdursi politicamente nella Rete, per creare un sistema di informazioni che sia comunque pluridirezionale. Le nuove masse devono virtualizzarsi, se vogliono esprimere una qualche loro ribellione. Il "contratto con l'America" proposto dall' estremista repubblicano Newt Gingrich incorpora forme di esclusione sociale, temperate dalla partecipazione alla terra promessa del cyberspazio. Il darwinismo sociale della nuova destra americana mette in bilancio maggiori investimenti in polizia e carceri per arginare gli effetti di una disuguaglianza sociale in crescita geometrica, ma offre come succedaneo il sogno di una cittadinanza virtuale da cui nessuno è tendenzialmente escluso, neppure lo "homeless" che passa le notti sotto un cartone: un computer portatile e un modem lo reintegreranno nella comunità artificiale. A una cittadinanza in crisi si può sostituire una cittadinanza virtuale, la cittadinanza di Internet, in cui il "netizen" non soffre le esclusioni della vita reale. Si apre la strada al populismo elettronico. Prima della politica on line, erano gli operatori, dalle imprese ai singoli individui, ad adattarsi continuamente alle decisioni del governo. Nel mondo di Negroponte, sarebbero fatalmente i governanti ad adattarsi opportunisticamente in tempo reale ai sentimenti dei cittadini interpellati direttamente sulle "issues" politiche principali. Catapultati nel cosmo sintetico E allora ecco l' irruzione di alcune domande capitali: in collettività virtuali, transnazionali e transpolitiche, in cui si raccolgono alla rinfusa fan del romanzo di William Gibson Neuromante, cultori di Blade runner, anarchici di destra, libertari di sinistra, abbonati a Wired (la rivista vangelo del mondo cablato e digitalizzato), imprenditori virtuali, esploratori di enciclopedie ipertestuali, cyberpornografi, predicatori multimediali, e tutta la folla solitaria che naviga senza confini nella Rete, di che morte muoiono certe categorie come lo Stato-nazione e tutta la serie di istituzioni, entità e identità politiche sedimentate dalla storia dell' Occidente? E che sorte toccherà all' animale politico aristotelico, catapultato in questo cosmo sintetico, ma amputato psicologicamente e ridotto a una sola dimensione (questa volta davvero, altro che Marcuse), quella comunicativa? Ma in attesa che Internet si fissi definitivamente come lo spazio della fine della storia, in cui non esistono accadimenti ma soltanto flussi ininterrotti di comunicazione, vale la pena di chiedersi se la cyberutopia non ci aiuti a decifrare intanto anche qualche processo in corso nella nostra modernità quotidiana dominata dalla tv. E non solo nei termini in cui lo ha fatto Giovanni Sartori, segnalando in un capitolo dei suoi Elementi di teoria politica (intitolato "Videopotere") i pericoli di una politica-show, basata sul "degno di essere visto" e non sul "degno di essere saputo". Perché è vero, come dice il maestro della Columbia, che "mentre la realtà si complica, le menti si semplicizzano", che l'audience sostituisce il consenso, con quel che ne consegue sulla qualità della democrazia. Ma forse c' è anche qualche considerazione meno antropologica e più connessa alle tecniche attuali della democrazia. Può bastare un esempio, relativo al collegio uninominale. La premessa fondante del collegio uninominale (che è nato in Inghilterra per selezionare rappresentanti delle "constituency" locali da mandare a Londra a temperare il potere del sovrano) consiste nel radicamento del candidato nel suo territorio. Ora, si trascuri pure il fatto che, lo si è appena visto nella fase preelettorale, le candidature vengono gestite centralisticamente, con personale politico paracadutato sulla periferia, smentendo alla radice la logica primaria dell'uninominale; ma sarà poi il caso di valutare che la televisione è quanto di più nazionale esista, e che l'informazione locale viene in assoluto subordine. Date queste condizioni, che cos' è l'uninominale: una soluzione adeguata alla realtà del nostro tempo o un metodo che territorializza in modo anacronistico un confronto che invece non ha più nulla di territoriale, e quindi risulta sfasato rispetto alle modalità della comunicazione contemporanea? Insomma, si può pensare di far funzionare la democrazia senza commisurare i suoi congegni tecnici al sistema di produzione delle informazioni che sta sullo sfondo? In attesa delle solitudini ipertecnologiche della cyberpolitica, ci si può anche permettere qualche dubbio sull' architettura istituzionale che dobbiamo completare hic et nunc. Mentre "tutto ciò che è solido si scioglie nell' aria", come diceva Karl Marx a proposito del mondo febbrile della borghesia trionfante, mentre l'intero universo della comunicazione è sismico, in attesa dell'imminente "Big One" della virtualità occorrerebbe capire se è opportuno bloccare la politica su fondamenta di pietra. Oppure se non convenga lasciarla fluttuare più elasticamente, dal momento che nessuno sa dov' è, e se c' è, un punto di equilibrio fra la costruzione standard della democrazia bipartitica e la vertiginosa pluralità della partecipazione alla polis digitale.
PANORAMA, 02.05.1996, IDEA DELLA SETTIMANA
ERA L’ EPOCA DELLE MANCE
Sudditi o cittadini? Meglio definizioni più parziali, senza aut aut, altrimenti inseguendo le alternative secche e le spiegazioni di lungo periodo si risale fastidiosamente alle colpe della Controriforma o a tristi paragoni con l'etica protestante. Il fatto è che le due categorie storiche e sociologiche su cui si misura la vicenda del nostro Paese, il familismo amorale (Banfield) e la tradizione civica (Putnam) si emulsionano l'una con l'altra. La miscela insomma è polimorfa, prima ancora che perversa. Cinquant' anni di Repubblica hanno plasmato un italiano medio dalla fisionomia complessa. Dato un contesto in cui non esistevano criteri vincolanti di responsabilità, in politica come in economia, la società civile ha fatto da specchio alla politica. Anzi, ognuna non ha fatto che riflettere l'altra, con vistosi effetti di intensificazione reciproca e insufficiente rispetto dei ruoli. I partiti di governo chiedevano la delega in bianco a fare e disfare sempre le stesse alleanze. L' opposizione comunista non sentiva alcun bisogno di puntare al governo, previa visita a Bad Godesberg. La Dc, molle baluardo anticomunista, erogava welfare a pioggia per mantenere il consenso che nessuno le voleva togliere. Il Pci aveva interesse a presentare come "diritti" conquistati sotto la guida del partito ciò che conseguiva dalla mediazione e dallo scambio. La sintesi suprema dell'interclassismo e dell'antagonismo classista era lo stato sociale "italian style", un groviglio di distorsioni particolaristiche che alla fine, negli anni precedenti Tangentopoli, era divenuto l'unico strumento attraverso cui veniva mediato il rapporto fra i partiti e gli elettori. Dal canto suo, infatti, gran parte delle collettività si è abituata nel tempo a considerare favori e privilegi come una serie completa di diritti, a cui non corrispondeva nessun dovere, né da parte del settore pubblico né da parte dei cittadini. E' nata l'idea fantasiosa secondo cui la ricchezza non occorreva produrla, bastava distribuirla. In modo equo, ovviamente. Ma le parole d' ordine "equità" e "solidarietà" erano poco più che una copertura. Ecco perciò un grande processo antipedagogico, di diseducazione pura. La differenza fra l'essere cittadini, quindi titolari di diritti e doveri effettivi, e l'essere sudditi, affidati alla paternalistica generosità e alla benevolenza discrezionale di un'autorità irresponsabile, è sfumata. Fra rassegnazione e mugugno, ma con un occhio attento al proprio particulare, una società che si autorappresentava come moderna ha voluto le mance anziché pretendere il rispetto dei patti. Ha pagato opportunisticamente il prezzo dell'inefficienza pubblica pur di vedersi assicurato un effimero benessere privato. Ha tollerato l'evasione fiscale, ha sopportato servizi scadenti, la malasanità, il degrado della scuola, sapendo di avere in cambio pensioni e rendite. Ha chiuso gli occhi sui tassi d' inflazione investendo il risparmio in Bot e speculando contro lo Stato, cioè se stessa, inventando la speciale categoria del "free rider" di massa. Né sudditi né cittadini, quindi: piuttosto il clima viziato di una collusione, di una complicità impercettibilmente losca, in cui tutti, credendo di guadagnare, in realtà perdevano ogni giorno qualcosa di più. Poi, con la jacquerie figurata di Mani pulite, se ne vanno principi, feudatari, notabili, capicorrente, cioè il ceto che sapeva trattare politicamente tra le pieghe delle leggine e dei regolamenti, così come dell'inefficienza e della corruzione: purtroppo, le loro gride barocche rimangono tutte lì, sospese fra il Seicento e il Duemila, a intralciare il cammino.
PANORAMA, 02.05.1996, ATTUALITA' SPECIALE ELEZIONI
FATICA PER LA VITTORIA
Ma sarà poi stato così conveniente il tentativo di demolizione sistematica praticato nei confronti di Romano Prodi? Si direbbe di no. Anzi, forse fra gli errori del Polo bisognerà catalogare anche la scelta del bombardamento distruttivo contro gli avversari. Era già successo con Umberto Bossi, subito dopo il ribaltone. Giuda, traditore, ladro di voti: e adesso Braveheart festeggia la sua vendetta. E il professore, alias la "mortadella dal volto umano", il "simpatico ciclista", il "Balanzone", la "maschera di D' Alema", "l'utile idiota", "l'economista da balera", il "licenziatore", eccolo proiettato verso Palazzo Chigi. Ieri lo davano tutti per spacciato. In realtà era solo impacciato. E si capisce perché. Per tutta la sua vita pubblica, Prodi aveva goduto di ambienti consensuali, dove anche i suoi inciampi di lessico venivano interpretati come hegeliana "fatica del concetto", sintomi di profondità e ricchezza di pensiero. Diceva "... La Germania", e tutti - dai piastrellai di Sassuolo agli inviati dell Economist - si sforzavano di capire che intendeva il capitalismo renano, la triade governo-sindacato-banche, la materna guida della Cdu, il federalismo ben ordinato, la pazienza tedesca. Ma non appena la lotta politica è entrata nel vivo, non gli è stato concesso più nulla. Hic Rhodus, hic salta: fisco, disoccupazione, Europa, modelli istituzionali, e vogliamo i dettagli, non allusioni ispirate. Prodi ci ha messo un anno per rendersi ragione del fatto che non era più l'immagine vivente del proprio successo: che non era più né il democristiano onesto né l'accademico suadente capace di spiegare al popolo i misteri della triste scienza. Insomma che era precipitato nella dimensione politica e ne sarebbe uscito solo vittorioso o sconfitto, non con l'invenzione estemporanea di una battuta, né con un richiamo ai valori della competenza o a superiori standard etici. Anche nell' ultimo confronto televisivo, venerdì 19 aprile, varie volte si è fatto prendere da una ingenua indignazione, rivolgendosi a Enrico Mentana per confutare le parole di Silvio Berlusconi (chiamandolo in modo disarmante "lui", come per segnalare all' arbitro un fallo tattico che dettava un'istintiva reazione morale). Molto più scafato, forse già rassegnato, il Cavaliere gli ha opposto: "Non perda la calma, Prodi... Se dovrà governare di calma dovrà averne molta". In modo inconsapevole Berlusconi ha colto un punto significativo. Il candidato Prodi stava facendo da mesi un mestiere non suo, combatteva un'aspra battaglia inattesa, dopo avere scoperto con stupore misto a disappunto che in politica le virtù possono essere peccati, e viceversa. Ma superata questa fase conflittuale, Prodi torna a casa sua, circondato dalla sua coalizione, protetto dai partiti che l'hanno sostenuto, aiutato prevedibilmente da strutture consolidate: non è difficile immaginare che almeno all' inizio il Consiglio dei ministri gli apparirà un ambiente accogliente, esente da contestazioni e critiche. Perché la lotta politica è dura e sgradevole, mentre l'esercizio del governo è un piacere quasi fisico, da condurre con calma padana e sovrana. E con una soddisfazione aggiuntiva, preziosa, impagabile: di essere stato giudicato perdente in quasi tutte le partite e di avere vinto alla fine il campionato. Per un vecchio ragazzo dell'oratorio, c'è un piacere migliore del portar via la vittoria dopo che tutti hanno criticato il gioco, all' ultimo minuto?
PANORAMA, 09.05.1996, ATTUALITA' ITALIA
RIECCOLI, I PALADINI DEL "TERZO PARTITO"
Il centro rinasce dalle proprie ceneri quasi ogni settimana. Menti pensose segnalano l'inadeguatezza dello schema bipolare così com' è: figuriamoci, avevamo chiesto due partiti d' azione, uno di qua e uno di là, l'illuminismo al potere, e ci ritroviamo due schieramenti assolutamente senza qualità. Ora, sarà pur vero che i due poli fanno pietà, ma c' è anche da dire che il bipolarismo sinora ha funzionicchiato, altroché. La macchina bipolare ha fatto sentire i suoi effetti il 27 marzo 1994, alle amministrative del 1995, alle politiche del 21 aprile 1996. Strana vicenda, dunque, quella della nostalgia del centro. Perché in realtà il problema cruciale della politica italiana non è l'assenza del luogo nirvanico di tutte le moderazioni, bensì la presenza di tensioni estremistiche e sostanzialmente antisistema. Fra la Lega, Rifondazione comunista e la Fiamma di Rauti c' è un quinto dell'elettorato che sceglie soluzioni oltranziste. Per questi elettori, e per la massa dei non elettori, il centro deve significare poco. Per gli altri, chissà. A quanto si è visto finora, il sistema maggioritario risulta piuttosto divertente proprio perché consente di esprimere quel leggero odio, quel sostanziale disprezzo antropologico di una parte verso l'altra che è connaturato alla politica, il piacere quasi fisico di assistere alla sconfitta dell'avversario e al risarcimento aristocratico di concepire la vittoria altrui come la prova regina della stupidità di un popolo. E invece, dopo il 21 aprile, sono ricominciate le manovre. Ha cominciato subito Lamberto Dini, lanciando esche al duo Casini-Buttiglione, e introducendo così una primissima turbativa nel processo politico. Perché razionalità vorrebbe che il centrodestra, sconfitto soprattutto dal proprio incredibile suicidio politico, approfittasse dello stare all' opposizione per rettificare utilmente la sua proposta politica, scegliendo finalmente fra la propria anima liberal-moderata, cioè Forza Italia e Ccd-Cdu, e la destra socialautarchica di Gianfranco Fini (non c' è alternativa, dato che le teorie degli hezbollah del turboliberismo alla Antonio Martino sono tutt' al più esercitazioni accademiche, eccitanti culturalmente ma politicamente inutilizzabili). Subito dopo le equivoche iniziative di Dini si è assistito allo spettacolare giro di consultazioni di Antonio Di Pietro, che ha visto praticamente tutti, da Tremaglia a Prodi passando per Mastella, per poi incontrare Fini, e magari rivedere Prodi... Anche i minuetti dell' ex pm di Mani pulite rappresentano una specialità molto italica: ed è piuttosto curioso lo stile di Di Pietro, che si richiama di continuo a eleganti criteri di coerenza e di trasparenza, ma poi si dedica a pratiche che inducono ai cattivi pensieri, cioè all' idea, certo volgarissima, che stia trattando la cessione della propria popolarità al miglior offerente. Per gli ingenui, quelli che hanno votato rispettando la famosa logica del maggioritario, risulta perfettamente incomprensibile l'attività di una figura pubblica che non dice definitivamente né che cosa è, né da che parte sta. Al punto che proiettando a paradigma l'agitarsi di Di Pietro, affiora con nettezza la sensazione che la questione del centro sia soprattutto un problema di classi dirigenti che si sentono espropriate dal controllo del potere in seguito al più immediato esercizio democratico imposto dal maggioritario. Il fatto è che la democrazia duale, se completata, taglierebbe alla radice gran parte delle opportunità trasformistiche su cui si sono addestrati burosauri e boiardi, élite di Stato e personale parapolitico, insomma il ceto che affollava le foto di gruppo della Prima repubblica. Rimarrebbe soltanto la possibilità di ciò che i tecnici della politologia chiamano "bandwagoning", cioè il salto sul carro del vincitore: che però si può fare una volta, massimo due, come si è visto con Berlusconi e Fini e si comincia a osservare ora con Prodi e D' Alema; poi diventa un'acrobazia poco dilettevole fra l'utile e il grottesco. E' per questi segmenti di establishment che il "terzo partito" costituisce un miraggio voluttuoso, anzi una risorsa potenzialmente troppo attraente per essere lasciata cadere: permette di restare fuori dai rischi della trappola bipolare, di mantenere all' interno di una specie di eterna Repubblica dei migliori, un intreccio di solidarietà e patti di lealtà non scalfibili dalle oscillazioni della politica. Il tutto senza tradire la lettera della democrazia dell'alternanza: di volta in volta, il centro sceglierà consapevolmente l'opportunità più vantaggiosa, a destra o a sinistra, nel nome della razionalità, del servizio allo Stato, della governabilità, della ministerialità, del nostro bene. E non parlategli di trasformismo, perché si offendono. La responsabilità della persistenza del centro è sempre e comunque l'inadeguatezza politica degli altri. Chi fa centro lavora anche per noi ingrati.
PANORAMA, 16.05.1996, ATTUALITA' ITALIA
ELOGIO DI UN MINISTERO SENZA QUALITA’
Come prima misura di profilassi, a proposito del ministero della Cultura del futuro governo dell'Ulivo sarà bene evitare di citare Minculpop e Jack Lang. Troppo lontana la nazionalizzazione totalitaria del duce e troppo lontano anche l'orgoglio nazionale transalpino: nel nostro piccolo, il ministero della Cultura è una di quelle trovate sulle quali, dopo avere preso atto di tutte le discussioni in proposito, viene da dire: ebbene sì, fatelo, questo ministero. Però dopo non venite a lamentarvi se la realtà è destinata a superare i sospetti. Perché sappiamo che nella modernità, nel clima volatile di fine secolo che piace tanto a Walter Veltroni e a Furio Colombo, la cultura è talmente differenziata da risultare irriducibile a una sintesi burocratica unitaria. Non solo: nel Paese dell'università inefficiente, dei musei dimenticati, della ricerca stagnante, del sistema formativo inadeguato, dell'editoria languente, delle biblioteche sfornite, quale migliore soluzione di un Ente assoluto come il ministero, che attrarrebbe su di sé tutte le critiche e le proteste per ogni caso di malfunzionamento che riguardasse ogni infinitesimale segmento del mondo della cultura? Si può già sentire l'eco degli appelli, delle denunce, delle indignazioni. Una colossale occasione da autogol, insomma. E allora quale sarà il motivo profondo che induce a persistere nell' intenzione? Se a pensare male si fa peccato ma ci si azzecca, si potrebbe anche immaginare che il magnifico ministero della Cultura sarebbe, in realtà, un fastoso ufficio stampa del governo dell'Ulivo, e una formidabile agenzia pubblicitaria dell'Italia gestita dal centrosinistra. Destinata cioè a produrre una struggente e corale mitologia sull' Italia buona e consapevole, tollerante e pensosa, leale e politicamente corretta, destinata a realizzarsi grazie al concerto di Prodi, Dini, bianco, D' Alema e Bertinotti. Per l'ironica celebrazione della finis Austriae, Robert Musil aveva illustrato il progetto indefinito dell'Azione parallela, cioè un insensato giubileo laico; noi ci accontentiamo di un ministero senza qualità. Ci mancano film capaci di coniugare a spese dello Stato la solidarietà e l'efficienza? Abbiamo bisogno di programmi tv in grado di liturgizzare la normalità dalemiana del Paese e la forza tranquilla della sinistra? Sentiamo l'urgenza di prove sociologiche sulla riformabilità (morbida, mi raccomando) del welfare? E di stagioni teatrali, di balletti e di concerti, ma anche di show per famiglie, che sappiano sfuggire all' aspra logica del mercato e dell'audience? Ci vuole poco. Basta una volonterosa burocrazia che abbia ben chiaro il messaggio da spedire agli italiani e i modi per farlo. L' ideologia più adeguata potrebbe essere, perché no, "la Resistenza più Internet", ma va bene anche "ceti deboli e multimedialità". Si tratta in sostanza di preparare un kit che contenga le due anime del centrosinistrismo: da una parte, tutto ciò che rappresenta con sobria dignità l'attrazione per il passato, dalle lotte operaie alla musica classica più colta e ignota, dall' arte minore e povera alle epopee della più dolente subalternità; dall' altra, la propensione irrefrenabile a tutte le forme del nuovo o similnuovo, arte marginale metropolitana e rock a sfondo sociale, sfrenatezze divistiche e miracoli cibernetici. Polvere del tempo e fascino della cablatura. Convenzioni pedagogicamente ineccepibili e trasgressioni autorizzate dall' ufficio competente. Agitare prima dell'uso e spedire "on line". L' unica avvertenza è non alzare il ditino se poi il ministero della Cultura assomiglierà a un ibrido assistenzialista fra un istituto storico della Resistenza e il postmoderno liceo "Marilyn Monroe" di Nanni Moretti. ("Rido?" chiedeva lo sfrontato preside di Bianca prima di spalancare la bocca in spettacolari sghignazzi. Ebbene sì, conviene ridere).
PANORAMA, 16.05.1996, IDEA DELLA SETTIMANA
MEGLIO FARE I RIFORMISTI
Si deve a Fausto Bertinotti il ripescaggio di una vecchia battuta secondo cui in Italia fra rivoluzionari e riformisti non c' è alcuna differenza, perché gli uni non fanno la rivoluzione e gli altri non fanno le riforme. Resterebbe solo da citare l'autodefinizione di Leo Longanesi, "conservatore in un Paese in cui non c' è nulla da conservare", e poi l'equazione sarebbe totale, e l'identità antropologica italiana sarebbe perfetta, nel senso naturalmente di Tomasi di Lampedusa. Condannare il Pds e il centrosinistra per intrinseco conservatorismo è un'operazione di facile riuscita se si assume che il centrodestra rappresenti l'innovazione: il che invece è pura mitologia, così come il kennedismo di Walter Veltroni e le spigolature liberali di Gianfranco Fini. O meglio: il Polo, nelle sue varie componenti, rappresenta una netta discontinuità rispetto ad alcune dimensioni della democrazia italiana, come l'antifascismo. Ma questa discontinuità agisce soprattutto in direzione di una rottura delle norme istituzionali. E solo sotto questa luce si può riconoscere che di fronte alle cautele di Massimo D' Alema e alle resistenze di Gerardo Bianco il forcing presidenzialista del Polo era dirompente. Ma si può credere che il cambiamento si incarni nella contrapposizione al vecchio di forme istituzionali alternative? Quando vengono giocate a freddo, le riforme costituzionali sono magia, auspici, simboli, strumenti di pressione pubblicitaria. Perché è senz' altro vero che il Polo è più presidenzialista e l'Ulivo molto meno, ma se ciò bastasse a definire chi è il conservatore e chi l'innovatore, sarebbe sufficiente l'invenzione di una qualsiasi bizzarria istituzionale per configurare gli oppositori come ciechi nemici del nuovo. E invece è impossibile attribuire il peccato di conservazione a una parte sola. L'Ulivo è sicuramente atterrito dall'idea che intervenendo sulle incrostazioni del socialismo reale all' italiana si sfaldi con la ruggine tutta l'intelaiatura della nostra società. Il Polo, poi, è una incongruenza: aveva senso finché era costituito di due diverse coalizioni, una per il Nord e una per il Sud, con Forza Italia a fare da chiave di volta fra leghisti e postfascisti. Il ribaltone ha indotto Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini a un'alleanza unica che al Nord ha reso il liberismo di Forza Italia una burletta, e al Sud il liberismo di An una finzione retorica. Siccome dopo il declino della Destra storica il nostro Paese non ha conosciuto un blocco conservatore come vorrebbe Indro Montanelli, con il culto del bilancio in pareggio, della solidità istituzionale, della sobrietà dei comportamenti, e si è smarrito quindi lo stampino di una tradizione politica, il conservatorismo si è disintegrato, ricadendo qua e là. Tutti in realtà vogliono conservare qualcosa, ma questo qualcosa non è riassumibile in un programma di parte. Forza Italia è conservatrice rispetto alla memoria del contratto Dc-Psi, An rispetto al pubblico impiego e alla "socialità", il Ccd-Cdu rispetto all'eredità scudocrociata, Popolari e Pds rispetto alla Costituzione e allo stato sociale, Rifondazione comunista rispetto al socialismo antagonista. E perfino la Lega è conservatrice verso le municipalità valligiane e i presepi comunitari del Nord-Est. Uno spirito utilmente scettico può anche pensare che la rottura di paradigma operata a suo tempo dal neoconservatorismo liberista appaia oggi un reperto archeologico e l'economia "supply side" fosse un'ottimistica traduzione del marketing in politica economica. Succede: John Maynard Keynes sosteneva che i programmi economici sono plasmati dal pensiero di "idéologues" dell'economia morti e sepolti da decenni. Non ci sarebbe perciò da stupirsi, e anzi sarebbe un ottimo esercizio di flessibilità intellettuale (perché vale sempre la pena rinunciare a qualche idea prediletta), se dopo le nostre varie rivoluzioni si ricominciasse a pensare al riformismo come a una frontiera da riscoprire. Perché un'asciutta politica riformista è l'unica garanzia di avere dall'altra parte conservatori credibili.
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