PANORAMA
PANORAMA, 19.09.1996, ATTUALITA' ITALIA
MA QUANTE BELLE MENTI, MADAMA DENNY
Eccesso di zelo, eccesso di pagine, eccesso di dichiarazioni di principio, eccesso di filosofia e di sociologia? Sul "caso" Denny Mendez, cioè l' assegnazione del titolo di Miss Italia alla diciottenne nera di Santo Domingo dopo le proteste di Alba Parietti nel nome di un' idea di bellezza "nazionale", sono intervenuti filosofi come Gianni Vattimo, sociologi come Sabino Acquaviva, autorità del giornalismo come Indro Montanelli ed Enzo Biagi, commentatori come Nello Ajello, star tv come Enrico Mentana. E anche chi scrive, per segnalare che dietro il premio alla incolpevole Denny si intravedeva un sovrappiù di "politically correct" e di morale elevata a spettacolo. Nulla di più gratificante, infatti, dell' apparire buoni, buonisti e antirazzisti attraverso il funzionamento implacabile dello show, che premia l' outsider coronando una favola. Ma fin qui siamo sempre dentro una trama narrativa non troppo dissimile, quanto a schema, da Pretty Woman, dove alla fine la traviata riesce a sposare Richard Gere, anche se ci si immagina che sullo sfondo del lieto fine le sue colleghe prostitute resteranno desolatamente a battere il marciapiede incontrando di norma brutti ceffi, non il tenebroso Gere della finzione e nemmeno l' arrapato Hugh Grant della realtà. E quindi nessuno pensa veramente che il successo della giovane Mendez equivalga a un riscatto morale che possa ricadere a pioggia sugli extracomunitari. Però, a pensarci, può darsi che tutta la discussione sia stata tutt' altro che superflua. C' era qualcosa di autenticamente simbolico nella discussione sulla bellezza italiana, sul tipo italiano, sulla fisionomia e la pelle che ci si aspetta dalla vincitrice domestica di un concorso di bellezza. E quindi non è strano che l' intellighenzia si sia schierata. Bellezza non italiana, ha sancito Montanelli; ricatto antirazzista, ha protestato Mentana. Eppure, a voler prendere sul serio il caso Mendez, si fa poca fatica a sfiorare temi cruciali per il futuro come il problema della cittadinanza basata sul diritto del sangue o sul diritto del suolo. In fondo, la contrapposizione principale su cui si sono misurati in settimana i capannelli nei bar, nei corridoi delle aziende, nelle sale mensa, nei salotti familiari, è data da chi può essere definito italiano: chi è nato in Italia da genitori italiani o chi ha ottenuto di essere riconosciuto cittadino della Repubblica? Ed è lecito pretendere che a rappresentare la bellezza del Bel Paese sia una donna che presenta i tratti "tipici" della bellezza femminile italiana? Quali sarebbero, oltretutto, questi tratti tipici, visto che l' Italia è un coacervo di canoni estetici, e abbiamo la "tipica" bellezza romana, la "tipica" bellezza napoletana, e aspettiamo che Umberto Bossi specifichi qual è a suo parere la bellezza padana autentica? Ci si può anche chiedere come sarebbe stata giudicata la partecipazione ed eventualmente la vittoria di un' altoatesina bionda e dalla erre tedesca molto gutturale, italiana non certo per etnia. E forse alla fine si giungerebbe alla conclusione che il lieve scandalo ai danni dell' estetica nazionale rappresentato dalla nuova Miss Italia è dato esclusivamente da ciò che ne rappresenta il fattore di diversità più evidente, e cioè la pelle nera. Al punto che si potrebbe forse addirittura pensare che la partecipazione di Denny Mendez è stata la rivelazione che nel nostro Paese esistono i neri. Non dite che lo si sapeva perché non è vero. I neri non li vediamo, li ignoriamo, tendiamo a considerarli come non-entità, esseri senza identità e perfino senza individualità. L' apparizione di Denny Mendez è stata la rivelazione che anche le nostre faccette nere possono essere alte uno e ottanta e puntare a sfondare nel cinema. Ma soprattutto che esistono. Al punto che, se effettivamente esistono, niente vieta agli italiani brava gente e allo show figlio-di-puttana di premiare Denny ai danni delle napoletane e delle romane che magari erano più tipiche. Solo che a Salsomaggiore ci si titilla la coscienza una volta, e poi tanti saluti. Domani, nigeriane e marocchini tornano nell' indistinto, e a nessuno verrà da chiedersi se c' è un' ideale di professionalità nazionale per la prostituzione o per il lavaggio dei vetri agli incroci. Volendo, di Denny Mendez si poteva discutere ancora di più.
PANORAMA, 03.10.1996, IDEA DELLA SETTIMANA
REAZIONARI E ROSSI, CHE MALE C’ E’ ?
Allorché Francis Fukuyama annunciò la "fine della storia", il frastuono planetario della caduta del Muro era da poco alle spalle, e gli scenari di Fukuyama sembravano fatti apposta per attizzare polemiche e sedute di autocoscienza ideologica. Il capitalismo aveva vinto, ma si poteva assolutizzarne hegelianamente il successo come fase suprema della storia? Malgrado i dubbi, la sinistra dei paesi avanzati avrebbe dovuto sentire l' ululare di sirene d' allarme. Fine della storia o no, si annunciava l' avvento di un mondo indifferenziato in cui veniva a mancare un modello alternativo. Fukuyama era un sintomo; la perdita dell' utopia era la malattia. Fra i retrovirus c' era la crisi della socialdemocrazia e della sua principale istituzionalizzazione, lo Stato sociale. Se avessero avuto la forza di guardare oltre il conflitto politico immediato, le sinistre avrebbero percepito la bruciante necessità di inventare un "nuovo paradigma". Solo che mentre si avvertiva distintamente la discontinuità, della nuova cassetta degli attrezzi non c' era traccia. Il lutto per la liquidazione del socialismo reale rendeva la sinistra orfana dell' eco romantica associata al progetto socialista, e sulla sua carne si accaniva la lama di François Furet, che metteva allo scoperto tutte le complicità storicamente connesse al comunismo. La sinistra soprattutto europea si è trovata di fronte a una tumultuosa insorgenza di problemi: l'offensiva liberista radicale di Margaret Thatcher, l' impatto demografico sulle strutture del welfare, la globalizzazione dei mercati. Si è interrotto il ciclo keynesiano del finanziamento in deficit della crescita economica. Società abituate a elevati debiti pubblici o ad alti tassi di inflazione si sono trovate nella necessità di aggiustare affannosamente i conti. E allora: c' è una formula "di sinistra", migliore o più augurabile di quella di destra, per attuare il raggiustamento? Oppure il compito residuale della sinistra è solo quello di competere con la destra proponendo ricette più volenterose, incorporando a tastoni nei propri programmi un contenuto imprecisato di socialità? Dagli anni Ottanta in poi, l' attacco della destra era stato dirompente. Dietro la magia reaganiana della "curva di Laffer" (riduzione delle tasse uguale crescita tendenziale), si era sviluppata una trasformazione radicale delle piattaforme conservatrici. Il movimento neoconservatore puntava esplicitamente a una mobilitazione dei ceti borghesi, scontando a muso duro il rischio di esclusioni sociali determinate dall' acuirsi della povertà nelle fasce più basse. Nella sua versione oltranzista, la sfida neoconservatrice avrebbe assunto infine la fisionomia del Contratto con l' America del repubblicano Newt Gingrich, sostenitore di una sorta di secessione di maggioranza delle classi privilegiate. La "società dei due terzi", che l' ideologo della Spd Peter Glotz aveva cercato di esorcizzare collocandola al centro dell' elaborazione politico-culturale della socialdemocrazia tedesca, veniva brutalmente rovesciata: è sui due terzi dei privilegiati che si disputa il consenso; chi, volente o nolente, resta fuori deve più che altro essere controllato socialmente. Ma oltre alla sfida neoconservatrice si cominciava ad avvertire anche il sovraccarico determinato da un passaggio d' epoca che faceva sorgere interrogativi nuovi. Ben prima che l' economista di Chicago Jeremy Rifkin lanciasse il suo grido d' allarme sulla "fine del lavoro", due autori in particolare avevano lanciato il tema del confronto fra i capitalismi, che poneva alla sinistra dilemmi inediti. Ronald Dore, studioso della London school of economics, aveva pubblicato un saggio, presentato in Italia dall' economista di sinistra Michele Salvati, sulla specificità dell' apparato produttivo giapponese, in cui veniva descritta "l' anomalia" di una struttura economica basata su criteri inaccettabili per le economie ruggenti dell' Occidente: in quanto essa è caratterizzata da strutture "corporate", a bassissima intensità di conflitto, preoccupate di raggiungere livelli di efficienza in tutta l' articolazione dell' apparato produttivo e non solo su un astratto calcolo di convenienza contabile. E un economista francese di estrazione cattolica, Michel Albert, aveva posto a confronto i "due capitalismi", quello anglosassone e quello "renano": l' uno concentrato sulla massima competitività e sulla performance di brevissimo termine; l' altro, esemplificato dal Modell Deutschland, costituito da un fittissimo intreccio di soggetti privati, banche, sindacati, istituzioni pubbliche, e vincolato a una concezione sociale dell'economia di mercato. Ce n' era abbastanza, volendo, per capire che il dilemma della sinistra consisteva nell' accettare e perseguire un modello di società scegliendolo fra alternative reali, non rifugiandosi in fughe ideologiche dalla realtà. Rivaleggiare con il modello anglosassone significava perdere l'anima. Helmut Kohl, capo di un partito centrista (Cdu), poteva adattare i propri programmi assimilando aspetti neoconservatori, finalizzandoli al traguardo del raggiungimento di Maastricht e sfidando robustamente il conflitto sociale. Ma per Tony Blair nel Regno Unito, o per Lionel Jospin in Francia, e anche per Massimo D' Alema in Italia, accettare integralmente questa rincorsa avrebbe significato un' abdicazione morale. Se alla sinistra non resta nulla se non l' autocertificazione che la sua ristrutturazione dello Stato sociale è migliore di quella proposta dai partiti conservatori, la politica è solo una partita in cui due giocatori si disputano il potere. Forse questo simulacro di competizione democratica potrebbe funzionare se ci trovassimo in una situazione stazionaria. Ma il cambiamento è vertiginoso. La tecnologia distrugge posti di lavoro sostituendoli al ribasso: e secondo Rifkin negli Stati Uniti il computer "minaccia di fare sparire 90 milioni di posti di lavoro". La formula di Rifkin, per resistere alla "crisi epocale del lavoro", è riassumibile nel "lavorare meno lavorare tutti". Ma se la redistribuzione di quote di lavoro potrebbe essere un tampone, essa dice poco o nulla sulla frontiera simbolica che la sinistra è chiamata a presentare come strumento di mobilitazione pubblica. Anche perché, per esempio, di fronte agli squilibri della globalizzazione, elencati da Ralf Dahrendorf nel saggio Quadrare il cerchio, vanno in cortocircuito tutti i codici a cui la sinistra ha sempre fatto riferimento. Vale a dire: se il processo di mondializzazione economica (con la delocalizzazione degli apparati produttivi e l' osmosi fra i mercati) erode il principio di nazionalità, è lo statuto stesso della sinistra a entrare in contraddizione. La perdita di qualche milione di posti di lavoro in Europa è uguagliata dalla nascita di qualche milione di posti di lavoro in Malaysia o in Indonesia? Non sono problemi soltanto della sinistra, dal momento che la reazione americana all' economia globale si è espressa simmetricamente nel neoprotezionismo populista di Pat Buchanan, rivale sconfitto da Bob Dole nella corsa alla candidatura per le presidenziali. E anche Jacques Chirac, per vincere le prime elezioni postmitterrandiane, ha dovuto agitare un programma intriso di suggestioni nazionalpopuliste, difficilmente identificabili sul discrimine destra-sinistra. E allora, cercando di fronteggiare i marosi della società multietnica, le ondate demografiche che nelle società a crescita zero prosciugano le casse del welfare, assistendo alla desertificazione del lavoro dipendente, le sinistre si trovano davanti a una scelta di fondo fra due ipotesi strategiche. Possono scegliere l' ipotesi clintoniana, che quattro anni fa sbancò la corsa alla Casa Bianca prospettando il sogno europeo di una società capace di temperare i conflitti entro il progetto di un' architettura sociale, ma che oggi deve rinculare all' inseguimento dell' America moderata sponsorizzando lo smantellamento dell' edificio del welfare. Secondo questa prospettiva, il destino della sinistra è di trovare volta per volta un punto di equilibrio tatticamente virtuoso fra le diverse componenti della società, portatrici di istanze settoriali. Certo, Clinton e il Partito democratico americano non sono riconoscibili come sinistra, ma resta il fatto che il clintonismo è un luogo di mediazione politicamente praticabile riferito a un amplissimo spettro di società: lobby movimentiste, avanguardie libertarie, settori radical, residui dell'organizzazione sindacale, ceti medi ancora influenzati da idee liberal, fasce di elettorato con insofferenza per la destra. L' altra strada è, invece, l' esito di una diagnosi ultimativa. Vale a dire: la sinistra ha perso il confronto con la modernità. E quindi, anziché procedere alla rincorsa di ciò che la destra sa fare molto meglio, tanto varrebbe pensare il "nuovo paradigma" puntando deliberatamente alla controtendenza. Si tratta di fare ancora una volta del sincretismo culturale, ma selezionando un complesso di soluzioni coerente, in grado di fare corpo. Quando D' Alema dice che il centrosinistra produrrà in Italia un' autentica "rivoluzione liberale", sostiene a un tempo un' ovvietà e una subalternità. Di fronte all' iperindividualismo canonizzato dalla destra, l'orizzonte ideologico della sinistra può trovare alcuni ancoraggi in un universo di pensiero finora esplorato solo a tentoni. Sullo sfondo c' è la critica "comunitaria" al liberalismo utilitarista dei filosofi americani (Michael Walzer, Alasdair MacIntyre, Michael Sandel), per i quali la persona e la collettività sono in interazione costante. Ma c' è anche la riflessione formulata da Jacques Delors, che appare l' ultimo significativo sforzo politico-istituzionale di congiungere mercato ed "efficienza sociale". C' è lo sviluppo sostenibile predicato dagli ambientalisti non fondamentalisti, così come c' è l' impegno a produrre "capitale sociale", cioè il lento stratificarsi di fiducia, senso civico, istruzione, lealtà fra gli individui e le istituzioni. E magari la suggestione inevitabile della Centesimus Annus di Karol Wojtyla. Tutto questo implica una perdita e una semplificazione. La perdita consiste nell' arretramento rispetto all' idea che la sinistra possa guidare il progresso imprimendogli il proprio sigillo. La semplificazione invece è un riflesso della rinuncia a competere con la destra sul terreno della destra. In questo senso il caso italiano può essere effettivamente un bacino di sperimentazione. Perché dopo avere attraversato la fase "amazzonica" del partito di Achille Occhetto (a cui oggi si potrebbe affiancare l' entusiasmo per il subcomandante Marcos e gli zapatisti del Chiapas, ovvero una rivoluzione fecondata con i telefonini satellitari), il centrosinistra in Italia è un ibrido in cui si sono innestate le venature socialdemocratiche di cui è portatore D' Alema ma anche le tradizioni personalistiche e comunitarie del cattolicesimo politico. Da questo cocktail non esce una nuova via alla modernità: esce semmai un' intenzione propriamente conservatrice, forse perfino reazionaria. Ma se la tragedia della sinistra contemporanea consiste nel non avere ancora metabolizzato gli effetti della Rivoluzione, non si può escludere che rispetto a un futuro dalle dimensioni vertiginose, anonime, sfuggenti, il ruolo della sinistra non debba essere quello di una consapevole e deliberata reazione. LA BIBLIOTECA DELLA CRISI Francis Fukuyama, La fine della storia (Rizzoli, 1992). Il compimento hegeliano della fenomenologia del capitalismo come definitivo assetto sociopolitico del pianeta, dopo il crollo del Muro. François Furet, Il passato di un' illusione (Mondadori, 1995). L' illusione è il comunismo, un' ideologia fallimentare in cui la promessa di riscatto si è incarnata in una serie letale di esperienze totalitarie. Eric Hobsbawm, Il secolo breve (Rizzoli, 1995). L' epicedio del ' 900, un secolo che comincia nel ' 14 con l' esplosione della grande guerra, conflitto tecnologico di massa, e si conclude nell' 89, con la morte dell' utopia comunista. John Rawls, Una teoria della giustizia (Feltrinelli, 1982). Il manifesto del "contrattualismo", l' ultima grande apologia del pensiero liberal. Jeremy Rifkin, La fine del lavoro (Baldini & Castoldi, 1995). Un' apocalittica esposizione dell' impatto della tecnologia sui livelli di occupazione del mondo sviluppato. Ronald Dore, Bisogna prendere il Giappone sul serio (Il Mulino, 1990). L' impianto socioeconomico del Sol Levante a confronto con le società industriali occidentali: consenso contro conflitto, efficienza "produttiva" contro efficienza "allocativa". Michel Albert, Capitalismo contro capitalismo (Il Mulino, 1990). Il confronto fra il capitalismo anglosassone (iperfinanziarizzato, ultracompetitivo, basato sulla prestazione di breve periodo) e il capitalismo "renano", fondato sulla costruzione di ampi ceti medi, la partecipazione sindacale, i sistemi di sicurezza sociale. Amartya K. Sen, Scelta, benessere, equità (Il Mulino, 1986). Riflessioni di un celebre economista in cui la "triste scienza" sfuma classicamente verso la filosofia morale, con un' esplicita intenzione antiutilitaristica. Ralf Dahrendorf, Quadrare il cerchio (Laterza, 1995). Uno dei padri del pensiero liberale europeo illustra le tragedie della globalizzazione dell' economia. Jacques Delors, Libro bianco su Crescita, competitività e occupazione. Il piano dell' ex presidente della Commissione europea, socialista cattolico, per ricostruire le condizioni in cui mercato e concorrenza, competitività e flessibilità possano essere solidalmente funzionali all' accrescimento dell' occupazione. Robert Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane (Mondadori, 1994). Storia e geografia di come si forma in Italia il "capitale sociale" (civismo e fiducia) a partire dall' età comunale: per capire le origini del dualismo fra Nord e Sud. Marco Revelli, Le due destre (Bollati Boringhieri, 1996). Un polemico saggio sul tramonto della sinistra, finita a interpretare il ruolo di una "destra" liberale subalterna a una destra plebiscitaria.
PANORAMA, 17.10.1996, ATTUALITA' ITALIA
LA DESTRA IN PIAZZA? UNA BELLA SCOSSA
Tutti i giorni qualcuno annuncia mobilitazioni. Dopo il varo della Legge finanziaria il Polo ha evocato la "rabbia" dei ceti medi e medio-alti nel tentativo di spingerli contro il "governo delle tasse". Perfino il caro riapparso Mario Segni dipinge i suoi Comitati per l' assemblea costituente come gli arieti del nuovo che travolgeranno le resistenze dei conservatori. Ma se si cerca un atteggiamento che descriva questa Italia autunnale, anziché la rabbia, la collera, l' ira, insomma i sentimenti forti, si percepirebbe un sentimento debole e opaco, una specie di rassegnazione in grigio. E si capisce. Tutti gli strumenti tecnici escogitati per cercare di uscire dalla palude sono falliti o in via di fallimento. E' fallita la soluzione giudiziaria come sentiero per uscire dalla Prima repubblica e soprattutto come scorciatoia per entrare nella Seconda. Chi credeva infatti che l' azione di Mani pulite avrebbe bruciato il terreno intorno alla corruzione è stato smentito; il pool di Milano è riuscito a decapitare una classe dirigente ma il cerchio stregato che lega affari e politica non è stato interrotto. Nessuno ha ancora capito bene qual è il cuore dell' inchiesta spezzina, ma nondimeno l' immagine che si è avuta dei traffici fra l' ambiente di Lorenzo Necci e quello di Francesco Pacini Battaglia è stata deprimente. E in parallelo nessuno ha compreso perché un esponente di vertice del Pds come Cesare Salvi si è messo a fare animosamente le bucce ai magistrati milanesi. Considerazioni analoghe valgono anche per la riforma elettorale e istituzionale. Si era pensato infatti che lo strumento tecnico della legge maggioritaria avrebbe spezzato le collusioni fra i partiti, imponendo un trasparente rapporto di competizione fra due blocchi politici. Per certi aspetti, dopo la rivoluzione acefala provocata dalla scoperta di Tangentopoli il sistema maggioritario avrebbe dovuto essere l' equivalente figurato della ghigliottina, cioè un meccanismo politico duro, nitido, impietoso. E invece siamo sempre nei pressi dell' accordo non si sa quanto alto e nobile fra Silvio Berlusconi e Massimo D'Alema, mentre riappare Francesco Cossiga in veste referendaria, e le riforme sembrano un cantiere sull' autostrada, aperto senza scadenza. Si sono viste le privatizzazioni col buco della Comit e del Credito italiano, la conferma di boiardi storici come Ernesto Pascale e Biagio Agnes alla Stet, due diverse occupazioni della Rai, all' Enel un manager, Franco Tatò, bilanciato da un politichino, Chicco Testa. La rassegnazione è giustificata. Perché, a ragione o a torto, la società italiana ha investito cospicue risorse psicologiche, oltre che politiche, su tutto ciò che prometteva di smuovere la democrazia bloccata. Si è schierata con Di Pietro, ha dato i voti alla Lega, ha abbattuto la proporzionale, forse domani si convincerà che la crisi italiana verrà risolta con nuove istituzioni di democrazia più immediata. Ma sarà sempre più difficile convincere qualcuno con le formule. Il federalismo è morto per logoramento prima ancora di essere sperimentato. E la secessione non è nemmeno nata, dato che la marcia sul Po è stata un fallimento penoso, tale probabilmente da rendere ancora più frustrata e incattivita la "riserva indiana" nordista. Il Paese ha creduto in Berlusconi, ha creduto in Bossi, ha creduto in Prodi. Ora si trova nella classica situazione in cui chi aveva vinto le elezioni promettendo un' Italia più normale, riforme razionali, interventi di microchirurgia, è alle prese con interventi trafelati e cure da cavallo, operazioni da ospedale da campo. Ci sono buone ragioni per la disillusione: vedere una Finanziaria che raddoppia di volume in poche ore è stato forse il colpo di grazia alla fiducia residua. Autunno di tasse, di sacrifici, con il sospetto di iniquità evidenti. E con il peso dell' incertezza sulla credibilità effettiva del risanamento in funzione europea. Detto questo, il Polo vuole davvero portare i moderati a protestare con pochissima moderazione contro il "veterocomunismo" della Finanziaria? Se il centrodestra riuscisse a portare un milione di persone in piazza contro il governo, sarebbe uno scrollone perfino salutare. Perché di qui in avanti il rischio principale che corre il Paese non è un conflitto sociale e politico destinato ad acuirsi, ma è l'insidia strisciante di un cedimento all' apatia. Che vorrebbe dire la definitiva convinzione di massa che non è con i mezzi della politica che si esce dalla crisi. Di rassegnazione in rassegnazione, potremmo assistere su scala individuale, di gruppo, di settore, a ciò che Umberto Bossi ha cercato di fare su base geografica. E allora verrebbe veramente il momento dell' implosione, della defezione, della secessione: secessione, proprio così, ma dalla politica, dalla vita pubblica.
PANORAMA, 24.10.1996, ATTUALITA' ITALIA
POLITICA AL RALLENTATORE
Tempo, non c' è tempo. La politica si schiaccia sul presente, senza intervalli fra l' azione e il risultato. Il governo Prodi ha oscuramente percepito questo appiattimento e ha cercato fin dall' inizio di neutralizzarlo con la "politica degli annunci": facciamo il federalismo, la riforma della scuola, la semplificazione fiscale, la Finanziaria europea, e tutto ciò come se il segnale di avvio coincidesse automaticamente con quello di arrivo. A suo tempo, il governo Berlusconi aveva creato gli spot governativi, il "fatto!" che doveva comunicare ai cittadini gli effetti concreti dell' attività dell' esecutivo. Perché ormai l'opinione pubblica si aspetta risultati immediati, verificabili senza aspettare la macchinosità della procedura legislativa e il burocratismo dell' attuazione. Si sa da sempre che il tempo in politica è una risorsa strategica. Ma oggi in Italia è anche una risorsa non disponibile. Dopo avere tollerato per quasi mezzo secolo la prevedibilità assoluta, un tempo politico uniforme, praticamente senza scansioni, gli italiani si sono abituati a ritmi politici brucianti, a catene di azioni e reazioni talmente accelerate da risultare incontrollabili politicamente. La prima grande accelerazione si è avviata con le campagne per i referendum elettorali. Si è avuta in quel periodo la sensazione di poter modificare la formula politica in diretta, fuori del circuito di mediazioni dei partiti e del Parlamento. E subito dopo si è avuta la sensazione di poter votare consegnando un mandato vincolante agli eletti. E' sorta l' illusione della democrazia diretta, l' eccitante quanto vacua convinzione di poter governare senza deleghe. Convinzione erronea perché la cosiddetta volontà popolare è pura mitologia politica; ma si può riconoscere che le aspettative messianiche proiettate sul sistema maggioritario avevano diffuso e reso apparentemente plausibile l' idea di poter trasformare senza mediazioni in azione di governo un programma politico sottoscritto a maggioranza dagli elettori. Che fosse un'aspettativa impropria è dimostrato dalla durata effimera del governo Berlusconi, ma non solo: anche il governo Prodi, insediato da non più di cinque mesi, si è già guadagnato bilanci definitivi, verdetti senza appello. C' è da chiedersi per quale ragione la psicologia collettiva ha interiorizzato questa impazienza. E' possibile che un simile atteggiamento sia stato modellato proprio dal ritmo convulso degli avvenimenti a partire dal 1992: Mani pulite, gli arresti quotidiani, la discesa in campo di Berlusconi, il raid elettorale del ' 94, il ribaltone, il nuovo scontro elettorale della primavera scorsa, la marcia sul Po: i tempi abitudinari sono stati sconvolti, ogni giorno contiene una novità, un avvenimento, uno scossone, una rivelazione, un trauma; e il sistema dei media riflette e intensifica questo stato di attesa permanente e di esplosioni continue. Rispetto a questo veloce e sincopato ritmo, l' attività di governo risulta insopportabilmente lenta, come del resto risulta lentissima, su un altro piano, l'attività processuale contro i responsabili di Tangentopoli rispetto alla spettacolare velocità degli arresti e degli avvisi di garanzia. Negli ultimi anni il tempo della politica è diventato il tempo "virtuale" di una campagna elettorale permanente, in cui si portano attacchi fulminei e si fanno promesse febbrili, con il sismografo dei sondaggi che misura in presa diretta il conseguente variare del consenso. Mentre nel tempo "reale" fra due elezioni, cioè nel tempo del governo e dell' amministrazione, ciò che viene percepito è l' andamento lento delle mediazioni entro la maggioranza, il gioco di compensazioni e risarcimenti tipico della contrattazione fra le parti, la complessa composizione degli interessi rappresentati dai partiti, e in definitiva la divaricazione sempre più appariscente fra obiettivo annunciato e tempo necessario per raggiungerlo. Si tratta di un problema intrinseco alla politica nelle società contemporanee: cioè società complesse che reclamano soluzioni semplici. E' un problema a cui le destre di solito offrono come risposta, nelle prime fasi di governo, una serie di provvedimenti shock, capaci di soddisfare la voglia di novità e di esprimere la tonalità programmatica del governo: seguiva questa logica il complesso di misure "espansive" predisposte da Giulio Tremonti all' inizio del governo Berlusconi. I governi di sinistra invece tendono a scalare nel tempo gli impegni: e sotto questa luce, se c' è una critica forse non marginale da rivolgere al governo attuale, è di non aver elaborato e presentato un' agenda, un calendario di programma, dando l' idea di voler annunciare il tutto e subito e di poter realizzare il poco e chissà quando.
PANORAMA, 07.11.1996, STORIA DELLA SETTIMANA
IL SINDACATO NELL’ ERA DELLA NON – INFLAZIONE
Si diceva che l' inflazione, l' iniqua tassa sui poveri, è la lotta di classe condotta con altri mezzi. La definizione alla Clausewitz sintetizza efficacemente gli effetti redistributivi perversi dei processi inflazionistici. L' inflazione infatti è un "tiro alla fune" sociale che vede schierati da una parte coloro che possono resistere, attraverso le manovre sui prezzi, la rendita finanziaria o il possesso dei beni che si rivalutano, e dall' altra tutti coloro che invece devono rincorrere il costo della vita, e che malgrado le resistenze assistono al logoramento quotidiano del loro potere d' acquisto. Ma ora la prospettiva si è rovesciata. Dovremo abituarci a vivere in una realtà "tedesca", tendenzialmente senza inflazione. In attesa di abituarci a questa situazione stazionaria, c' è qualcuno che è chiamato a ristrutturare profondamente il suo ruolo politico e la sua presenza nella società. E`, inevitabilmente, il sindacato. Il quale per anni ha potuto sistemare il suo quartier generale proprio nel cuore del processo inflazionistico, da dove offriva ai suoi rappresentanti illusione monetaria: cioè il miraggio di riacchiappare la scia dei prezzi con gli incrementi nominali di stipendio. Era una leva generatrice di distorsioni; ma per capire il rilievo che aveva nella strategia sindacale basti pensare alle reazioni che provocò lo sbrego di Bettino Craxi sulla scala mobile, e che portò alla rottura dentro la Cgil e al referendum perdente del 1985. Invece oggi, mentre il governatore della Banca d' Italia Antonio Fazio tiene una severa linea ispirata alla volontà esplicita di stroncare l'inflazione, e mentre l' Europa di Maastricht si profila come un' area a inflazione tendente a zero, davanti al sindacato si profilano questioni inattese. Dal momento che non sarà più possibile proporsi ai propri rappresentati come i tutori del reddito nominale, e che non appare prevedibile - almeno nel medio periodo - che si tratterà di agire per assicurare la redistribuzione di una ricchezza in crescita, per il sindacato si configura la necessità improrogabile di darsi una strategia alternativa. Nell' attuale fase intermedia il sindacato è stato uno dei pilastri della concertazione. Ciò significa che la sua azione si è risolta in un faccia a faccia con il governo e gli imprenditori, centrato soprattutto sul controllo dei volumi macroeconomici. Tuttavia, la concertazione non può durare all' infinito; funziona nelle fasi di terapia intensiva, ma a lungo andare non può governare dal vertice tutte le differenze settoriali dell' economia. Ci sono settori infatti che guadagnano produttività, e in cui non si possono comprimere le spinte alla redistribuzione dei vantaggi conseguiti, mentre altri settori viaggiano a rilento. Rappresentare unitariamente tutto il mondo del lavoro, dal settore pubblico prigioniero della propria struttura burocratica al settore privato messo alla prova dalla concorrenza sul mercato, è ormai un'altra illusione. Per questo servirà a poco una posizione difensiva. Se vorrà avere una chance nella futura società senza inflazione, il sindacato dovrà trovare il modo di rispondere a necessità reali. Non gli servirà a nulla agire a tutela delle nicchie corporative, grandi e piccole: al di là di inevitabili problemi di equità, nel faccia a faccia con il governo risulterà sempre più efficace la posizione dei partiti "estremi" come Rifondazione comunista. Ci sono invece alcuni campi d' azione in positivo, nei quali il sindacato si giocherà la sua rappresentatività sociale. Sono gli ambiti della formazione, dell' occupazione e della ristrutturazione dello Stato sociale. Perché la formazione è un tema cruciale per rendere possibile la qualificazione (e la riqualificazione) della forza lavoro rispetto alle rivoluzioni dell' apparato produttivo. Per l' occupazione c' è la necessità di un' indagine radicale, e quindi di una presenza attiva sul territorio, per favorire tutte le opportunità di "job creation" fuori dalle rigidità esistenti. Quanto infine al problema del welfare state, c' è l' urgenza di recuperare un riferimento nei ceti che effettivamente subiscono il peso maggiore dell' impatto con il mercato. Quest' ultima è effettivamente una scelta drammatica, che riconduce a un principio di selettività rappresentativa. Il sindacato non sarà più il sindacato di tutti. Ma nel momento in cui il rischio che si configura è quello di una crescente divaricazione fra le classi, sarebbe un' altra illusione rivendicare la rappresentanza e la protezione di un esteso e indistinto ceto medio, tentando semplicemente di fare opposizione vischiosa alla dinamica di differenziazione già in atto.
PANORAMA, 31.08.1995, TEMA DEL GIORNO
E IL PICCOLO DIAVOLO ORA SFIDA L’AVVOCATO
Vicedirettore della rivista Il Mulino, Edmondo Berselli è autore, fra l' altro, del recente Il più mancino dei tiri, un pamphlet in cui, a partire dalle prodezze pedatorie di Mariolino Corso, tesse un racconto, incrociato fra calcio e politica, che spazia dagli anni 60 ai giorni nostri. A lui Panorama ha chiesto una presentazione del campionato che si inaugura il 27 agosto. Se vuole il cielo, il campionato che comincia non sarà uno scontro fra moduli di gioco, la Difesa a cinque contro il Tre-quattro-tre e altre tortuose algebre. Ed è un bene. Almeno per noi che in fatto di calcio non siamo semplicemente conservatori bensì perfetti reazionari, e detestiamo tutte quelle invenzioni, come la slealissima tattica del fuorigioco e l'ansiogeno pressing, che hanno contribuito a trasformare il football in qualcosa all' incrocio fra un perverso incubo atletico e una noiosa scienza esatta. Il calcio, quello vero, è una sapienza antica, gnosi, emanazione divina, inventata da sudamericani viziati e da giocatori notturni di poker in fumosissime camere d' albergo. Certo, c' è chi crede fortissimamente che il calcio possa essere tradotto in una formula, in teoremi, in equazione, e che per essere all' altezza dei postulati e dei corollari i calciatori debbano essere soprattutto degli automi atletici. Sotto sotto, Arrigo Sacchi è convinto, e la convinzione gli traluce dagli occhi spalancati e puntati in una lontananza indistinta, sul calcio ideale, sulla Repubblica platonica del football, sulla mistica del sistema maggioritario applicata alla zona, che una partita sia perfettamente prevedibile: dati a e b deve fatalmente derivarne c. Il teoreta di Fusignano dice "lo schema" e sembra Umberto Bossi quando sillaba "la Lega..." con lo sguardo puntato sull' orizzonte della storia, verso l'utopia di un Nord liberato dal giogo romano e dall' obbligo dell'Iva. Si tratta di nozioni assolute, indiscutibili. Senonché il calcio, come la politica e qualsiasi altra forma di organizzazione complessa gestita dall' uomo, è in genere vaga casualità. Vive di regole, ma soprattutto di convenzioni. Dietro ogni campionato, come dietro ogni governo, coalizione, successo o insuccesso politico, c' è una collezione impressionante di nasi di Cleopatra. Se non fosse mancato un miserabile pugno di voti, nella primavera del 1992 Arnaldo Forlani sarebbe stato eletto al Quirinale, e l'attuale Esule di Hammamet sarebbe andato automaticamente a Palazzo Chigi. Con ogni probabilità la deprecata Prima repubblica avrebbe dribblato con brioso estro neolatino sia la caduta del Muro di Berlino sia il crepuscolo delle ideologie e i labirinti di Tangentopoli: vale a dire i fattori che oggi i politologi considerano decisivi, "razionalmente necessari", per dare una spiegazione scientifica alla caduta di un sistema che appariva, in quanto compensazione di imperfezioni, una sintesi perfetta. E in tal caso, dato che nella storia si delineano imprecisate affinità elettive ed elettorali, e fenomenali simmetrie occulte, magari Franco Baresi e Roberto Baggio non avrebbero sbagliato i rigori nella finale con il Brasile, e chissà, forse la nazionale di Sacchi avrebbe vinto il mondiale americano, pur avendo giocato la più orribile partita del Novecento. Ma tutto ciò, diremo sulla scorta di François Furet, è "il passato di un'illusione". Quest' anno la partita vera, il campionato nel campionato, si gioca fra entità concrete, fra protagonisti reali, non fra astrazioni. E la partita decisiva, quella che durerà un anno, è senz' altro quella fra Roby Baggio e l'avvocato Agnelli. Voi ricorderete che lui, il "Divin codino", se n' è andato dalla Juventus al Milan (per diventare "Piccolo diavolo" a tutti gli effetti), a causa di una questione di soldi e di ingaggio, in sé banale, ma che ha provocato una tale tragicommedia di annunci, di mozioni degli affetti, di minacce, di avvisi di ritorsione, di promesse di ripicca, che al confronto la spaccatura del Partito popolare e la nascita del Ccd e poi la fondazione del Cdu di Buttiglione appaiono una festosa commediola fra amici. Di Baggio si può pensare ciò che si vuole: a me sembra definitiva la sentenza di Michel Platini che a suo tempo lo definì "un 9 e mezzo", per dire che non era un centravanti e non era una mezz' ala: "Divin codino" è un soprannome di grazia settecentesca, che sembra alludere a una certa fatuità, al lezio cortigiano, alle lente eleganze cerimoniali di Versailles decifrate da Norbert Elias; ma è lecito in proposito anche coltivare idee diverse. Quanto alla Juve, il discorso si fa molto più complesso. Perché la Juve è Gianni Agnelli, anche se l'Avvocato ricopre solo una carica onorifica, molto più di quanto il Milan sia Silvio Berlusconi, che pure ne è il presidente. Questione di diritto dinastico, probabilmente: i presidenti passano, i monarchi no. Sta di fatto che quando il profetico Arrigo Sacchi, immerso nelle sue profetiche visioni, comunicò al Cavaliere: "O me o lui", intendendo per lui l'immenso Marco van Basten, Berlusconi tirò un lungo sospiro, e con un sorriso dolente diede a Sacchi il benservito, perché non voleva privarsi delle delizie in palleggio del centravanti olandese. Di fronte alle pretese "baggiane" (si noti la dignità manzoniana dell'aggettivo), la Juve invece ha rinunciato al proprio Pallone d' oro, convinta che una grigia, e solida, "gramsciana" Torino operaia può battere di nuovo la scintillante Milano dei divi. Ora c' è da chiedersi: è realistico pensare che una società come la Juventus potesse rinunciare al Codino contro il parere dell'Avvocato? Il presidente della Fiat ha un gusto estetico pronunciatissimo: di recente si è saputo che a chi gli chiedeva perché a suo tempo non avesse frequentato con maggiore regolarità Lamberto Dini avrebbe risposto: "E' così brutto...". Bene, se un simile intenditore, se un gourmet così sofisticato, avesse fatto sapere che giudicava insostituibile l'arte calcistica del Codino, e che il diavolo, nel senso del Milan e di Berlusconi, non doveva metterci la coda, date retta, Baggio sarebbe restato in bianconero a vita. Invece, la sentenza su Baggio, definitiva come quella dell'ironico Platini, l'Avvocato l'aveva fabbricata già all'inizio dei mondiali d' America, dopo le prime evanescenti e sofferenti prove dell'attaccante buddista: "Mi pare un coniglio bagnato". Bene, anche su Agnelli si possono avere opinioni diverse. Ma come battutista è un'iradiddio. Ciriaco De Mita risulterà catalogato nei secoli sotto l'etichetta distruttrice di "intellettuale della Magna Grecia". Il polacco Zibi Boniek, brillante nelle coppe e opaco nei campionati, fu infilzato senza pietà come "bello di notte". Durante questo mese d' agosto, l'Avvocato ha commentato in modo micidiale l'ingaggio di Michael Schumacher da parte della Ferrari: se poi perdono, nonostante il miglior pilota del mondo, si saprà di chi è la colpa. C' è da stupirsi se Baggio rimase a lungo tramortito da quel paragone che lo trasformava in una specie di cartone animato, un Roger Rabbit incastrato da qualcosa più grande di lui? In sostanza, di fronte al duello fra Agnelli e Baggio impallidiscono tutte le altre attrazioni del campionato 1995-96. Ma sì, c' è la novità di Hristo Stoichkov a Parma, e la speranza che questo lunatico trequartista procuri qualche polemica, qualche rissa, qualche zingarata, qualche notte infuocata ("Ma si può essere un grande attaccante bulgaro?" chiederebbe un grande poeta italiano). C' è la milanesata dei tre "9 e mezzo" del Milan, cioè Baggio, Savicevic e Futre, che potrà dare luogo a pensose discussioni sulla possibilità di convivenza fra trequartisti, come ai bei tempi di Mazzola & Rivera. Per ciò che riguarda l'Inter di Massimo Moratti, sembra assicurare una bella fonte di discussioni l'acquisto di Roberto Carlos, un terzino carioca che sa solo attaccare, e che potrebbe avere nella compagine interista la stessa funzione di Fausto Bertinotti con l' Ulivo, cioè di farlo pencolare troppo a sinistra, e che si chiama così perché suo padre era un fan del cantante brasiliano omonimo, vincitore a Sanremo con Sergio Endrigo nel 1968. Qualche altro elemento di interesse è dato dal ritorno di Giovanni Trapattoni, dopo una stagione al Bayern, durante la quale, probabilmente grazie al fatto di non dover tradurre preventivamente dal dialetto lombardo alla lingua italiana, ha imparato un ottimo tedesco. Il rientro del Trap, che secondo alcuni "novisti" equivarrebbe al ritorno di Giulio Andreotti al ministero degli Esteri, o di Mino Martinazzoli alla segreteria dei Popolari, consentirà agli italiani di riascoltare alcuni avverbi (come il suggestivo "domenicalmente", che riesce a far sentire remoti rintocchi di campane) che si credevano consegnati all' oblio. Infine, c' è da chiedersi se Vittorio Cecchi Gori, anziché una rete televisiva, non avrebbe fatto meglio a comprare per la Fiorentina una seconda punta da affiancare a Gabriel Batistuta. Vista la velocità della concessione della cittadinanza italiana all' attaccante argentino della Roma Abel Balbo, si è capito che in Italia le privatizzazioni non verranno fatte forse mai, ma le nazionalizzazioni riescono ancora in modo meraviglioso. Ma se la speranza è che nel calcio italiano ritornino massicciamente gli ingredienti che storicamente hanno reso affascinante il football - l'improvvisazione irresponsabile, l'estemporaneità clamorosa, la classe cialtronesca, la trovata del furfante, la canagliata inventiva, l'individualismo sfrenato, lo spettacolo costi quel che costi - siamo ancora ai primi passi. Per recuperare il tempo perduto, occorrerebbe qualche colpo di scena e di genio: come minimo che, preferibilmente dopo un furibondo e galeotto twist con Sergio Cragnotti, Daniela Fini coronasse il sogno della sua vita e si facesse assegnare il posto di Zdenek Zeman sulla panchina della Lazio. I MAGNIFICI UNDICI CHRISTIAN VIERI. Italo-australiano, 22 anni, attaccante dell'Atalanta. Figlio d'arte. Centravanti da sfondamento. FRANCESCO STATUTO. 24 anni, centrocampista della Roma. Dopo una lunga sosta per infortunio, si guadagna la nazionale. E un posto chiave in squadra. CESAR RUI COSTA. Portoghese di 23 anni, centrocampista nella Fiorentina. Promette un riscatto dopo una stagione grigia. Spalla ideale per Gabriel Batistuta. FILIPPO INZAGHI. 22 anni, neoattaccante del Parma dopo aver trascinato il Piacenza in serie A. Una delle matricole più interessanti. PAUL INCE. 27 anni, londinese, neocentrocampista dell'Inter. Uno dei pochi fantasisti britannici. Voluto personalmente da Moratti. CLARENCE SEEDORF. 19 anni, olandese, centrocampista della Sampdoria. Erede di Frank Rijkaard. GORAN VLAOVIC. 23 anni, croato, attaccante del Padova. In lista d' attesa per una squadra da scudetto. SALVATORE FRESI. 22 anni, neolibero dell'Inter. Lo considerano il nuovo Franco Baresi e il cardine della futura difesa azzurra. HAKAN SUKUR. 24 anni, turco, acquistato dal Torino come attaccante. Ma sente già nostalgia di casa. HRISTO STOICHKOV. Bulgaro, 29 anni, neoattaccante del Parma. Pallone d' oro del ' 94. Indiscusso fuoriclasse. MAURO MILANESE. Triestino, 23 anni, nuovo potente difensore del Torino dopo una buona stagione a Cremona.
PANORAMA, 06.09.1995, AGENDA D' AUTUNNO
VEDI ALLA VOCE RIPRESA …
Dopo un'estate fredda, altro che caldo, verrà un autunno bollente. Prepariamoci a dibattiti clamorosi. Per chi non vuole farsi trovare impreparato dalla nuova stagione politico-culturale, ecco un piccolo lessico, un kit di fortuna per sopravvivere alle polemiche d' autunno. Amnistia Ovvero come uscire da Tangentopoli. Ci hanno provato in tanti: Giovanni Conso, Alfredo Biondi, Antonio Di Pietro (a Cernobbio, ma il risultato fu una specie di Cernobyl), Giovanni Maria Flick, e tutti si sono ustionati le dita. E' la maledizione di Mani pulite. Di Pietro è sempre il più amato dagli italiani (non proprio come quando lo si invocava piamente "Di Pietro, Di Pietro, mettiglielo nel didietro", ma quasi). Dire: ci vuole una soluzione politica. Obiettare: meglio una soluzione giuridica. Sospirare, allargando le braccia: chissà, forse l'unica via d' uscita è la soluzione finale. A come Amnesia. Buonismo La colpa dell'inflazione di bontà è di Prodi, che entrò in campo biascicando per tre volte la parola "serenità". Poi ci hanno messo miele a volontà Veltroni (La bella politica) e D' Alema (Un paese normale), i moderati al velluto di entrambe le parti, fermamente contrari a peccati come l'estremismo di centro e il radicalismo laicista. Ma dove sono finiti i cattivi, gli arcigni, le cassandre, i pessimi, quelli che se Romano abbandona per un momento la bicicletta, tiè, gliela fregano? Bertinotti? Ma per piacere, quello al massimo fa della sociologia operaista, dice D' Alema. Fini? Un superdoroteo, un iper-Forlani, con la fissazione della destra "sociale e cristiana". Cristiano, anzi, democristiano, cioè, postdemocristiano sarà lei. Cespugli Nell' orto botanico della politica italiana, fra Querce e Olivi, scomparse le Edere e i Garofani, sono in pieno rigoglio i cespugli, a destra come a sinistra. Citare Mogol (con Battisti): "Dove arriva quel cespuglio?". Occorrerebbe un giardiniere, e qui ci sono solo due possibilità. O si riesce a convincere Lamberto Dini a fare il Cespuglione, come dice De Mita (film di stagione Ciriaco 2: la resurrezione; colonna sonora: il nuovo disco del vero cantautore di Centro, Claudio Baglioni); oppure si cerca un giardiniere. Va bene Peter Sellers, alias Chance Gardener in Oltre il giardino? Dini bis Voi credevate da veri ingenui, da gente che si ostina a usare la parola "consociativismo" illudendosi che sia ancora di moda, che fossimo già entrati nella celebre Seconda repubblica. E invece ecco riapparire figure mitologiche della Prima. Il "Rimpasto", il "Gioco del cerino", prossimamente i mirabili "Veti incrociati". Probabile quindi la seconda volta di Lambertow, l'Uomo che tace, "una faccia" scrisse Indro Montanelli "via col mento"; benvoluto dal Colle, dai poteri forti, dai partiti deboli. "The Banker", quello che giocando lo Zero può sbancare insieme il Rosso e il Nero. Elan Cioè il progetto El(ezioni) an(ticipate) di Silvio Berlusconi in bermuda alle Bermuda. Punti centrali: presidenzialismo, rivoluzione liberale (proprio come D' Alema). Punti deboli: le elezioni non si fanno, e quindi lavoro a vuoto e vacanze sprecate. Tema numero 1: decidere se Forza Italia è un movimento di centro, di destra liberale, cattolico, laico-radicale, moderato. Tema numero 2: procedere all' organizzazione del partito "leggero", come dicono i politologi, ma "pesante", come sostiene Marcello Dell' Utri. Reclutare 200 mila - come chiamarli? - no, non agit-prop, troppo "comunista", e neanche "promoters", che fa troppo forza di vendita. Ci vuole qualcosa che abbini politica e spettacolo, modernità ed entusiasmo: va bene "votebusters"? Fantasmi Fra le polemiche sul doroteismo dei postfascisti, l'intellettuale di punta della Destra, Marcello Veneziani, ammonisce: "Non bisogna fare di ogni erba un postfascio". Qualche mese fa, prima del congresso di Alleanza nazionale a Fiuggi, Pietrangelo Buttafuoco aveva stigmatizzato: "Con Benito Mussolini, Bettino Craxi è l'unico socialista che non si può riciclare in An". Malgrado la virata di Fini, il passato passa o non passa? Ce lo dovrebbero spiegare il libro di Giorgio Bocca (Il filo nero) o quello (stendhaliano o da casinò?) di Renzo De Felice (Rosso e nero): in sostanza, non è che siano ancora neri, per caso? Guru Cercasi disperatamente guru, dopo il crollo delle ideologie ma soprattutto il tracollo degli ideologi. I politologi hanno stufato. Per chi è in crisi di astinenza, provare un succedaneo: c' è un Nanni Moretti in arrivo (ma nel nuovo film fa solo l'attore). Se non basta, provare qualche pagina del nuovo Scalfari, che salvo editing dovrebbe intitolarsi Quel miserabile animale che noi siamo. Sottotitolo Dialogo con Voltaire, insomma una partita alla pari. Oppure il nuovo Furio Colombo, Istruzioni per uscire dal secolo. Si prega di evitare il facile calembour "non siamo capaci di uscire da Tangentopoli, forse non ci fanno rientrare nello Sme, capirai se ce la faremo a uscire dal Novecento". Se la crisi non passa, è consigliabile una telefonata ai pochi italiani che hanno una risposta per tutto. Umberto Eco va bene. Ma meglio, molto meglio Pippo Baudo. Hashish Ne faceva uso Walter Benjamin, che ci scrisse un libro apposta (Theodor Adorno disapprovava, metodo poco dialettico). Lo regala nelle piazze Marco Pannella (Buttiglione e Casini protestano). Sul tema della liberalizzazione, per non rischiare lo scioglimento del Polo, è conveniente prendere una posizione fatua: "Abbiamo fatto tanta fatica a diventare salutisti, e adesso ci vogliono far fumare di nuovo". Però sappiate che dall' America è in arrivo un'ondata antifitness, con un film specifico (Safe) contro il politically correct del corpo perfetto. E allora, pronti alla battaglia di canne. Internet L' unica giustificazione per fare stupidaggini come "navigare" dentro la Rete delle reti è la speranza di incappare in un'avventura di sesso virtuale: che sarebbe un ottimo antidoto contro il sesso reale, il sesso materiale, il sesso concreto sofferto per tutta l'estate (bene Casini, male Castagna, a proposito). E invece magari vi imbatterete nella subdola propaganda dei Comitati Prodi e dei Club di Forza Italia; aridatece Pupo desnudo. Lavoro Dire con sufficienza: "Berlusconi ci ha provato, con la storia del milione di posti di lavoro ma era meglio se invece del Martino parlava con il Modigliani, che gli spiegava la jobless growth". Cioè la crescita, senza occupazione. Poi però il Nord-Est cresce così forte che non trova operai. Aggiungere allora con un ghigno: "Evidentemente il modello padano funziona sia con i comunisti e i postcomunisti sia con i democristiani e i postdemocristiani". E il Sud? Le Due Italie? Il problema strutturale? L' industrializzazione del Mezzogiorno? "Per ora concentriamoci sulla par condicio". Marco & Lira Lunga telenovela cominciata con l'uragano valutario del settembre ' 92. Ma oggi anche un inguaribile pessimista come il professor Franco Modigliani riconosce che per l'Italia il "rischio Messico" è scongiurato. Olé. I mercati oggi hanno voglia di scommettere sull' Italia. I guru della finanza internazionale puntano su di noi. Ma se sale la lira sul marco, calano le esportazioni; se cresce il dollaro, aumenta il costo delle importazioni. E la borsa oscilla. Il fixing è uno zapping. A ogni puntata un incubo; non si sta in pace un momento. Meglio Beautiful, signora mia. Nomenclatura Tangentopoli generò Affittopoli, suscitando quesiti insolubili anche per Giuseppe De Rita, autore dello schema "meglio inquilini con lo sconto che ladri". E' moralmente lecito per un sindacalista come D' Antoni fare il bagno in una Jacuzzi? (Sottotitolo: come faranno gli operai? Nella tinozza?). D' Alema che fa domanda all' ente per entrare in graduatoria è come se la Juventus si iscrivesse al campionato amatori? E Veltroni che dice "Adesso m' incazzo" è ancora un buonista? Si può fare domanda a Forza Italia per avere in affitto una villa sarda di Silvio? In definitiva: come fare tabula rasa della nomenclatura? Sarà sufficiente esporla alla gogna su tabulato? Opportunismo La falsa partenza del bipartitismo, con i ribaltoni e il resto, mette in difficoltà tutti gli opportunisti. Dove collocarsi, a destra, al centro, a sinistra, a Raiuno, due o tre? Ricordare le memorabili storie di ordinaria lottizzazione, due alla Dc, uno al Pci e uno bravo. Oppure il formidabile trucco del compagno Curzi che assunse la promettente Sattanino facendola passare per mezzo democristiana e mezzo comunista, altrimenti non c'era posto. Ma a occhio e croce forse conviene puntare sull' "area cattolica": Ccd, Cdu, Ppi, cristiano-sociali, gruppo Segni, Rete, qualche cattocomunista sparso e i sociali e cristiani di An. Impossibile sbagliare: ' ndo cojo, cojo. Privatizzazioni Chiesero a Mino Martinazzoli (l'uomo che cercò di galvanizzare i dc con lo scabro slogan montaliano "Siate come gli olivi d' inverno: paghi di resistere", con i risultati che sappiamo): lei è per lo stato o il mercato? Risposta, piuttosto buona: "Per meno mercato dentro lo stato". In ogni legge finanziaria venivano messi a bilancio 15 mila miliardi di dismissioni. Dopo tre anni fu stabilito con assoluta certezza che avevamo capitalizzato 45 mila miliardi di privatizzazioni non fatte. Ma adesso, qui lo dico e qui lo giuro, privatizziamo tutto, a cominciare da Eni e Stet. Quanto all' Enel, bisogna vedere come va la partita, come potrebbe dire Altan, fra il sottile Amato e il capzioso Clò: spezzatino o vendita in blocco. L' austero, silenzioso Cuccia non avrebbe esitazioni: Divide et impera. Qualunquismo Non c' è più voglia di politica, lo dice il manifesto. Ma è possibile che a metà ottobre si lanci un'altra parola d' ordine: il ritorno della politica. Nel frattempo si potrebbe trovare un italiano qualunquista medio che dichiari: "Di Berlusconi me ne frego, di Prodi non conosco neanche la marca della pompa della bicicletta, Fini non sarà più un fascista, ma ha ancora la faccia da prete, D' Alema sarà pure normale, ma è troppo normale; e per i cespugli, dia retta, ci vuole un buon diserbante". Dopo di che, aprire un dibattito su Liberal: "Eternità di Giannini". Staccare il centralino se arrivano troppe telefonate che plaudono al centrocampista della Roma. Ripresa Mi raccomando, se incontrate al bar Luigi Abete e Innocenzo Cipolletta, non dite al barman allibito che vi sta servendo un bianchino: "Sa cosa ci dico io, che questa ripresa, primo, è drogata dalla svalutescion, secondo le imprese fanno profitti bestiali e non investono, l'ha detto anche quello di Nomisma, il Patrizio Bianchi. E intanto come dice il Fausto, Bertinotti s' intende, l'economia andrà bene ma la società va male, perché l'inflazione s' è mangiata i salari". Non sta bene. Perché magari Abete si inalbera e tirando fuori molti grafici cerca di dimostrarvi che non è affatto così. Ma non sta bene comunque, anche se di tanto in tanto siete di quelli che dicono ancora "il padronato". Moderatevi altrimenti perderete ancora le elezioni, e Prodi dirà che è colpa vostra. Sindrome cinese Memo per la presidente Pivetti. Oggetto: Conferenza di Pechino sulle donne. Caro presidente, non si poteva prevedere l'assegnazione di una wild card per Romano Prodi, vista la sua scarsa competenza in materia malgrado le "lezioni di genere" impartitegli dalla deputata progressista bolognese Giovanna Grignaffini? Tecnici Non fatevi imbrogliare, lo ha detto anche Andreotti. Il governo dei tecnici è un governo politico. Il partito di Dini sta già nascendo. Chi c' è dentro, chi c' è dietro? Tutti. Agnelli, Cuccia, Gemina. La Galassia del Nord. Le Banche. L' Opus Dei. Tonache e Grembiuli. Il sistema di potere andreottiano. La tecnocrazia. Scalfari e Turani. I comunisti. Il Vaticano. De Mita. Berlusconi, che farà il passo indietro. D' Alema, che farà un passo avanti. Buttiglione, che farà il paso doble. E chi gli è contro? Naturalmente il solito duo Bertinotti e Cossutta, e all' altra estrema Fini, che rischia l'emarginazione. Mentre Tatarella e Fisichella, come si diceva, trallallero e trallallà. E Casini e Mastella, Forza Dini anche loro. September song: "Lambertow, do you remember Giolitti?". Uranio Jacques Chirac come il dottor Stranamore. Marina Ripa di Meana e Gianna Nannini eroine del no nuke. Memorabile Sandro Curzi su Telemontecarlo in un'epica tirata: "Signor presidente" (rivolto sfacciatamente proprio a Chirac), e giù improperi all' amatriciana contro i colori della bandiera francese, divenuti i simboli dell'arroganza, del sangue, della morte nucleare. Geniale. Chissà come ha sofferto l'inquilino dell'Eliseo. Si sarà rivoltato nel suo letto tutta la notte pensando: "No, Curzi questa non me la doveva fare". Vanità Questo autunno sarà il trionfo dell'Ego, degli egoisti, delle élite, dell'individuo. Christopher Lasch pubblica un libro intitolato La rivolta delle élite, che chissà perché si rivoltano, forse perché infastidite nel loro benessere dai poveri, brutti, sporchi e cattivi. Se qualcuno però la mette giù troppo dura, con l'elitarismo, tipo il campione della destra americana Newt Gingrich, spiegategli che mentre Vilfredo Pareto studiava con sussiego la ferrea legge dell'oligarchia e il modo di gestire una società regolandola dall' alto, sua moglie scappava con il cuoco. Vanitas vanitatum. Zibaldone Secondo i dizionari, oltre al significato leopardiano ha anche quello di "mescolanza di cose o persone diverse". Noi dunque lo considereremo lo strumento per perfezionare il Ribaltone. Certo, abbiamo voluto Bossi e le sue secessioni carnevalesche, si è rovesciata la volontà popolare, e abbiamo preso Dini dopo avergli bocciato in piazza la prima riforma delle pensioni. E adesso beccatevi lo Zibaldone, ammucchiata generale, governo di garanzia, tutti dentro. Sul Quirinale (sempre caro mi fu quest' ermo colle) qualcuno starà sgranando rosari e sogghigni.
PANORAMA, 05.10.1995, ITALIA
POLITICA L’ E’ MORTA?
La morte della politica italiana è una successione di valzer ottocenteschi: avviene per mal sottile piuttosto che per infarto. Già adesso non appare più evidente perché mai ci sia uno scontro sulla data delle elezioni: votare? E per quale ragione? Il ribaltino è un ricordo lontano, la defezione di Bossi un' ossessione remota. Sul profilo del bipolarismo si è stesa una nebbiolina che ingrigisce la promessa o la minaccia dell' alternanza. Il celebre tavolo delle regole è una suppellettile pronta per il rigattiere. Ridotta ai suoi termini essenziali, la contrapposizione fra i poli appare come una guerra ideologica di cui si sono smarrite le ragioni, e in cui i contendenti lottano per inerzia. Per avere una democrazia competitiva, oltre ai poli in lotta per il potere occorrerebbe un' offerta politica concorrenziale. Detto brevemente: un modello di società contro un altro modello di società; un programma contro un programma; un complesso di scelte contro un complesso di scelte. Troppo razionalistico, troppo illuminista, troppo ingenuamente schematico? Ma allora bisognerebbe anche spiegare all' opinione pubblica che siamo ancora alle premesse delle premesse. Sparizione e ricomparsa nel calendario politico della data del confronto elettorale non sono il sintomo di una democrazia "sospesa"; sono piuttosto l' origine di un vuoto sul quale il sistema politico minaccia di afflosciarsi a ogni istante. Per tenere in piedi una politica campata in aria, è necessario l' impiego di una quantità enorme di risorse. Se si sapesse infatti con certezza che a una certa data il sistema politico impatta le elezioni, nel caso peggiore si assisterebbe alla preparazione di una guerra basata sul terrore antropologico di una parte verso l' altra (nel caso ideale, è ovvio, in un' offerta sul mercato politico di programmi alternativi). Mentre se il problema consiste nel tenere in bilico un ponte sul nulla, questo nulla andrà sostenuto da migliaia di mosse e contromosse tattiche, dichiarazioni, attacchi a parole e successive ritorsioni verbali. Contenuti, trallalà. Il Polo campa sull' eco di un progetto, il Berlusconi' s dream, a cui è mancato un pilastro (la Lega), con il solo effetto di rendere ancora più manifesta l' irriducibilità fra le posizioni liberali che si agitano alla rinfusa dentro Forza Italia e il nazionalpopulismo in chiave borghesemente educata di Gianfranco Fini. Il centrosinistra si dibatte nelle difficoltà di D' Alema. Ma ancora prima delle tegole di Affittopoli e dell' avviso di garanzia spedito dal pm Carlo Nordio per l' affaire Coop il modello politico-sociale proposto dall' Ulivo per il governo del Paese era un oggetto indistinto. Per la storia, il centrosinistra è nato su due fattori "deboli": in primo luogo come risposta al Polo in termini pressoché resistenziali, dettata per automatismo ciellenistico dal terrore per Berlusconi; in secondo luogo, come un' ipotesi politica di compromesso al minimo fra aree centriste e postcomunisti, di cui malgrado il passare dei mesi non si conosce il punto di equilibrio, di contrattazione tematica, di contenuto programmatico. Simmetricamente, il centrodestra rispecchia le contraddizioni intrinseche alle "tre moderazioni" che lo compongono, quella pressappoco liberale di Forza Italia, quella tardo-solidaristica dei postdemocristiani, quella nominalmente "sociale e cristiana", sospettabilmente centralistica e dorotea, di Fini e Tatarella. L' assenza di contenuti rende leggeri, aerei, gli opposti moderatismi. I conflitti pesanti, di cui è prodiga l' arretratezza del Paese, serpeggiano infatti fra i partiti in modo trasversale, senza trovare un punto di sintesi. Le concentrazioni sotto l' ala di Gemina e Mediobanca incontrano la risposta a muso duro di An neutralizzata dal "benign neglect" di un Berlusconi in versione ironica ("Se l' avessimo fatto noi, chissà che cosa avrebbero detto"); nello stesso tempo, il reclamo antitrust di Prodi viene smorzato dal realismo mica tanto socialista di un D' Alema all' improvviso più conservatore del suo leader centrista. Sull' immigrazione, tema chiave, che investe direttamente la percezione dei cittadini riguardo alla sicurezza, alla convivenza civile, alla qualità della vita urbana, Forza Italia naviga a vista. Un atteggiamento in proposito ce l' ha Alleanza nazionale, molto muscolare, e ce l' ha la sinistra, come sempre irenico, ecumenico, buonista (Ernesto Galli della Loggia riesuma anche la voce "benaltrista", rievocando la classica propensione "gauchiste" a indicare soluzioni di qualità moralmente superiore senza mai specificarne limiti e strumenti). In sostanza, la politica italiana sembra fatta per un verso da gente che vuole passare alla storia pigliandosi il potere e rimandando al dopo, come un inevitabile fardello burocratico, l' applicazione delle soluzioni; per l' altro verso da gente che alla storia teme di passarci come irrimediabilmente bella e perdente (sulla bellezza ci sarebbe da dire, sul presagio della sconfitta sembrerebbe di no). In realtà, più che l' ansia di passare alla storia ci vorrebbe la preoccupazione di passare coerentemente all' agenda: cioè di individuare e mettere in fila "issues" e problemi, priorità immediate e provvedimenti di lungo periodo. Ma siamo dentro un cerchio stregato: si parlerebbe di programmi se ci fossero le elezioni; le elezioni non ci sono e quindi si parla autisticamente solo della data in cui tenerle. Capitasse per caso o per sbaglio un grande inviato della stampa americana, un puntiglioso giornalista anglosassone, educato alla religione dei fatti, prenderebbe nota diligentemente del grande dibattito fra poli e cespugli sulla scadenza elettorale. Ma poi allestirebbe una lista di problemi al cui confronto il ruvido giudizio di Theo Waigel sulla credibilità europea dell' Italia apparirebbe come una fredda certificazione notarile. Gli si potrebbe dare una mano, e impegnargli il taccuino con alcune stenografiche annotazioni. Risanamento dei conti dello Stato: prosegue il supplizio di Sisifo della riduzione del deficit, compromesso al momento buono da un puntuale rialzo dei tassi per le traversie della lira sui mercati internazionali. Pubblica amministrazione: permane un livello di prestazione premoderno (e come ormai tutti hanno capito, e come insegna Affittopoli, l' inefficienza è la madre di tutti i privilegi). Nord e Sud: ovvero massima occupazione contro alta disoccupazione, ripresa produttiva contro ristagno tendente al peggioramento, possibilità di festosi raid nell' export contro ripiegamento autarchico, legalità a rischio contro criminalità organizzata. Si possono poi aggiungere, ma così, per dovere d' ufficio, delle sottosezioni storiche sulle riforme da fare o sulle riforme da riformare. La scuola, il fisco, la sanità pubblica, la giustizia. A essere volenterosi ci si concederà un cenno sulla democrazia economica, magari per ricordare che per fare due, tre, dieci Mediobanche occorre una colossale smobilizzazione del risparmio attualmente ingabbiato nei Bot, nelle ritenute alla fonte o nel trattamento di fine rapporto. E se proprio si vuole strafare si potrà dedicare una paginetta del taccuino alla prospettiva europea: il rientro nello Sme, che presuppone una razionalità del cambio tale però da inibire il vantaggioso dumping nei confronti dei cosiddetti partner; la conferenza intergovernativa del 1996 che ridiscute Maastricht (vedi alla voce "trattato di", sottoscritto nella cattiva coscienza di non rispettarlo e con la malcelata intenzione di ricontrattarlo per "contare di più in Europa", cioè facendo capire rumorosamente che l' Europa non deve contare su di noi). Una noia mortale, cari i miei anglosassoni. Molto meglio lasciar perdere agende e taccuini e tornare in famiglia. Per la nostra singolare nevrosi, per il nostro peculiare ibrido di paranoia e schizofrenia, è più divertente sedersi in platea a osservare il teatrino. Dove eravamo rimasti? Neocentrismo, par condicio, conflitto d' interessi, articolo 138, Mattarellum e Tatarellum, presidenzialismo, sfiducia costruttiva. E al primo che prova a nominare qualcosa che avviene nella realtà, non nelle battute della commedia, un avviso, naturalmente per garanzia: guardi che lei sta sbagliando spettacolo, melodramma, film, giornale, paese. Sta sbagliando tutto. Perché anche se la signora, cioè la politica, muore, il sipario non cala, domani si replica, "the show must go on". Edmondo Berselli, saggista, editorialista e vicedirettore della rivista Il Mulino, è uno dei più attenti osservatori della vita politica italiana.
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