L’Espresso
L'Espresso, 20/11/2003
E spuntò un arcipelago azzurro
Una scena politica senza Berlusconi. Dramma per metà dell'Italia politica. Utopia per l'altra metà. Nei corridoi dei partiti non si parla d'altro. Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini che sono pronti a giocarsi a dadi le vesti dell'Unto. Umberto Bossi che potrebbe giocare d'anticipo e demolire il muro portante della Casa delle libertà. Il líder máximo che interroga gli oroscopi sul risultato dell'eventuale plebiscito. Scherzi della politica, quelli che avvengono dentro un'alleanza numericamente blindata e ideologicamente schizofrenica. Partiti tenuti insieme dal potere e divisi dalle ispirazioni culturali, dalle idiosincrasie sociali, dalle insofferenze reciproche, dai risentimenti personali. Prima di dare per abbattuta la Casa delle libertà, conviene chiamare un tecnico e scrutare lo stato delle sue fondamenta. Cioè di Forza Italia. Il tecnico si chiama Ilvo Diamanti, è uno dei più accreditati scienziati politici italiani, ed è il primo scopritore e depositario della "questione settentrionale". Con alcuni suoi libri ("La lega", 1993, e "Il male del Nord", 1996) ha studiato in profondità il cataclisma che ha mandato a catafascio la Repubblica dei partiti. Soprattutto, è uno studioso che tiene vivo il legame fra l'analisi e la ricerca empirica, come traspare ogni domenica nelle sue "Mappe" sul quotidiano "la Repubblica". Poche opinioni personali, quindi. Piuttosto, una pioggia infinita di dati, ordinati con uno sforzo ricostruttivo estenuante. Pennellate sulle tradizioni politiche locali integrate da approfondimenti essenziali sulla sociologia economica del territorio. Docente di scienza politica a Urbino, di casa a Parigi con il suo amico e interlocutore Marc Lazar, Diamanti pubblica ora un saggio che promette di essere uno dei libri inevitabili per tutti gli osservatori della politica. Si intitola "Bianco, rosso, verde... e azzurro. Mappe e colori dell'Italia politica" (Il Mulino, 182 pagine, euro 11,80) ed è in libreria da oggi. Si tratta di una sintesi complessiva della vicenda politica dell'Italia repubblicana, fotografata attraverso una quarantina di cartine colorate che descrivono anche visivamente come è cambiata la composizione territoriale della politica nazionale. All'inizio si vede l'Italia bianca della Dc, fronteggiata dall'Italia rossa del Pci (Pds, Ds); poi emerge la fascia verde dell'insorgenza leghista. E infine campeggia l'Italia azzurra di Berlusconi e di Forza Italia. Per decenni, spiega Diamanti, il territorio è vissuto in simbiosi con la politica: il Pci prosperava nelle roccaforti rosse dell'Emilia-Romagna e dell'Italia centrale, caratterizzate da un ricco contesto economico, dal civismo delle popolazioni, da amministrazioni efficaci. Nelle zone bianche, e soprattutto nel Nordest plasmato da una marcata impronta cattolica, la Dc esercitava la sua fitta mediazione fra il governo centrale e il municipio. Tutto si teneva. Con la nascita delle leghe, e in seguito con la Lega Nord, si è avviata invece la fase esplosiva del «territorio contro la politica». Prima contro la Dc; poi, a intermittenza, contro il neo-partito di Berlusconi. Siamo nell'Italia del localismo e della piccola impresa; nella Padania, «non più solo luogo di produttori», scrive Diamanti, «ma nazione, che unifica ciò che, in realtà, per economia, società, orientamento politico, appare diviso». In questa «patria immaginaria», sede dell'identità della «Lega degli uomini spaventati» (i ceti periferici storditi dalla globalizzazione), il movimento leghista deve fare i conti con la concorrenza sul campo del partito nuovo, il partito azzurro, Forza Italia. Un altro «partito antipartito», che però si muove in uno spazio politico indefinito: «Evoca non la nazione ma la nazionale... suggerisce la fine della politica che affonda le radici nella storia e nel territorio». Di più: Forza Italia rappresenta il preludio a una «politica senza il territorio». È vero che la nostra geografia politica «si dualizza, riproducendo, in fondo, la struttura del passato. Si ripropone, cioè, un'Italia rossa, che si addensa nelle province dell'Italia centrale, circondata, quasi assediata dall'Italia azzurra, che occupa il resto del paese». Con una conseguenza rilevante: che l'alleanza fra Berlusconi e Bossi diventa inevitabilmente una partnership rivale. Perché l'elettorato è il medesimo, dal momento che Forza Italia è un arcipelago: «Meglio: una catena di arcipelaghi: grappoli di isole, isolotti e scogli», che si articola al Nord lungo le aree della new economy, della finanza, dell'informazione, del lavoro postfordista, della piccola impresa, del commercio e della rendita immobiliare; nel Sud, raccoglie il voto del ceto medio di pubblico impiego, pensionati, casalinghe, studenti. Una nuova Dc? Non proprio: forse un suo replicante più «materiale», senza radici confessionali, e neppure culturali; con una struttura organizzativa così composita che «anche se garantisce molti legami con la società, tende a produrre conflitti endemici, difficili da comporre perché, a differenza dei partiti di massa del passato, non c'è l'identità a soccorrere». Nell'insieme, Forza Italia contiene in sé le ragioni della propria tenuta e a un tempo quelle della propria disgregazione. Nelle aree settentrionali propone un modello individualistico, legato agli interessi; nel Mezzogiorno fa leva sul legame personale. Si presenta come il partito della modernità e dell'impresa innovativa, ma assorbe i ceti marginali (pensionati, casalinghe, disoccupati) e il lavoro autonomo tradizionale: «Per questo, Forza Italia appare un partito dalle radici fragili, anche se in alcune zone ancorato saldamente». Anziché un partito di massa, potrebbe assomigliare a una «massa senza partito», garantito prevalentemente dalla retorica comunicativa al cui centro si staglia il leader Berlusconi. E qui potrebbe scattare la "trappola del territorio". Perché nell'Italia di Forza Italia «coabitano componenti territoriali e sociali distinte... alcune tensioni, alcuni contrasti che non è facile comporre e controllare troppo a lungo». Che potrebbero, «in prospettiva, porre seri problemi a Forza Italia e alla sua pretesa di fare politica senza il territorio». C'è una tensione fra il Nord metropolitano e il Sud protetto. Fra la domanda di protezione e la spinte imprenditoriali e liberalizzatrici. Anche nel Nord, si esprime una tensione forte tra la società emancipata delle città e le fasce più deboli delle periferie, in balia dell'incertezza. Inoltre la classe politica forzista, frammentata localmente, è essenziale per il mantenimento del consenso, ma risulta portatrice di richieste politiche contraddittorie o addirittura conflittuali. Non è un caso che il "partito senza territorio" divenga «tanto più competitivo alle elezioni quanto più ci si allontana dal contesto locale, quanto più l'arena elettorale si allarga e si allontana dalla realtà quotidiana». Forza Italia vince alle europee e alle politiche, se la cava alle regionali, mentre va peggio alle provinciali e alle comunali. Da qui viene il rischio di un'instabilità continua, in quanto «in Italia il voto locale tende a venire letto in chiave politica nazionale e a determinare, per questo, effetti politici nazionali. Com'è avvenuto dopo le elezioni del giugno 2003, i cui risultati hanno innescato un conflitto lacerante fra i partiti della Casa delle libertà». Viene il sospetto, leggendo Diamanti, che il confronto attuale con la Lega non sia solo un episodio minore della lotta fra un movimento residuale e un partito virtualmente egemone. I colpi di coda di Bossi, le risse fra alleati, rappresentano la sintesi della contraddizione intrinseca alla Casa delle libertà e a Forza Italia. Per un soggetto politico che ha come icona pop della propria fede l'immagine di Berlusconi, l'identità leghista costituisce l'antitesi più netta. Per un partito esplicitamente nazionale e de-territorializzato, il federalismo appare un sovraccarico inutile. Più in prospettiva, la defezione della Lega potrebbe essere la miccia che fa esplodere le tensioni tenute finora sotto controllo, dilatando a dismisura la distanza fra l'Italia del privato e l'Italia assistita, fra i protagonisti del successo sociale e i marginali, fra i surfisti della comunicazione e gli esclusi. Impedendo a Berlusconi, come diagnostica Diamanti, di governare l'Italia: ma anche, più radicalmente, di governare il suo partito-arcipelago e la Casa delle litigiosità.
L'Espresso, 27/11/2003
Ma il lavoro è ancora tutto da fare
Il volto del parroco, della mortadella, del dossettiano, contro la faccia dell'antipolitico, del populista, del magnate prestato al Palazzo. Vecchia storia: Prodi contro Berlusconi è un remake dieci anni dopo, con i due protagonisti assimilabili ai duellanti di Ridley Scott. Vince Prodi? È il postulato dell'ottimismo ulivista. Il Cavaliere si è incartato nei suoi contratti miracolistici, mentre il Professore se ne torna ancora piuttosto vergine da Bruxelles, testimone vivente di come il centro-destra abbia dissipato l'eredità dell'azione europea da lui realizzata in coppia con Ciampi. Hanno provato a incastrarlo, "Mortad.", con Telekom Serbia, rastrellando rottami di P2 e brasseur pronti per l'uso. Non ha funzionato. E il confronto politico a questo punto non avverrà fra due immagini, il sorriso di Berlusconi e la bonomia presunta di Prodi. Si misureranno due Italie, due establishment, due élite culturali e politiche. Al momento buono si metteranno muro contro muro due proposte di governo, e i mondi al loro seguito. Da questo punto di vista Prodi è avvantaggiato perché rappresenta ancora adesso l'alterità assoluta: "L'Europa: il sogno, le scelte", cioè un programma ancora virtuale, tutto da precisare. Mentre Berlusconi è impicciato con il Ponte che non si fa, le tasse che non calano, i condoni estemporanei, la creatività celibe di Tremonti, la ripresa che è un miraggio, una questione salariale resa silenziosamente drammatica dall'inflazione non controllata. Più che il tratto vincente del prodismo, il responso del sondaggio sembra mostrare la delusione procurata dal governo. Non è un'ovvietà, è l'abbozzo di un'offerta politica: quando sarà ora, da una parte si dovrebbe vedere la compagine dei Bersani, Amato, Enrico Letta, e sullo sfondo dei Padoa-Schioppa e dei Profumo; dall'altra parte, una "band" con i Previti, gli Schifani, i Bondi. Non si tratta di un verdetto anticipato sulla superiorità antropologica dell'Ulivo: piuttosto è l'anticipazione di come dovrà essere condotto il match politico-elettorale. Di fronte al caos fattuale della Casa delle libertà, incerta fra devolution e colbertismo, xenofobia e concessioni agli immigrati, liberismo dichiarato e proibizionismo hard, Prodi e il suo ambiente politico e accademico rappresentano ancora adesso un'alternativa secca. Il che vuol dire: c'è un patrimonio politico ancora tutto da sviluppare, da presentare in modo adeguato a quei settori del potere italiano che fanno del terzismo una pratica continuamente elusiva, e istintivamente conservatrice. E c'è una proposta da elaborare verso l'opinione pubblica, per segnalare che esiste una chance di modernizzare il paese rispettandone le inquietudini. Può darsi che ci sia anche il tempo per argomentare tutto ciò: di sicuro c'è anche il modo di sperperare nella praticuzza politica il vantaggio guadagnato nella realtà volatile dei sondaggi.
L'Espresso, 27/11/2003
Un popolo di eroi, mamme e telegiornali
Può anche sorprendere l'ondata di commozione che si è alzata in Italia in seguito alla strage di Nassiriya: non tanto perché non sia comprensibile, ma per le modalità insieme antiche e moderne con cui la costernazione per la morte di carabinieri, soldati e civili in Iraq si è manifestata. Mazzi di fiori, lettere, disegni, slogan; una inedita partecipazione popolare ha riempito quasi tutto lo spazio pubblico. Con le note del silenzio fuori ordinanza nei programmi televisivi di intrattenimento, che si sono mischiate alla ritualità patriottica, quasi risorgimentale, all'Altare della Patria. Si è avuta quasi l'impressione che il cordoglio per i 19 morti della spedizione irachena contenesse in sé un esorcismo verso la guerra. La stessa sostituzione della parola "vittime" con l'espressione "eroi" conferiva un significato di intenzionalità al ruolo degli italiani in Iraq, come se la loro presenza su un teatro di guerra, o di guerriglia, costituisse la somma di decisioni individuali, più ancora che l'esito di una scelta politica venuta dall'alto. Il dolore che si è manifestato nei giorni scorsi sembra rappresentare, dunque, il convincimento che i militari della spedizione interpretassero esplicitamente una funzione di "costruttori di pace". Per questo il sentimento diffuso è stato così corale. Perché quelli che vengono chiamati con qualche artificio linguistico "i nostri ragazzi" sono percepiti come i rappresentanti di una buona Italia, impegnata per favorire la rinascita della democrazia e della vita civile in un paese segnato mortalmente dalla dittatura e dalle guerre. Tutto questo è giusto, e non è il caso di sottilizzare scetticamente sui sentimenti che si sono manifestati. In ogni tragedia nazionale l'emozione collettiva entra ormai in cortocircuito con la retorica mediatica. Si è chiamati a partecipare allo spettacolo della commozione, amplificato ora dopo ora dai volti dei conduttori televisivi, dalle immagini dei telegiornali, dalle dichiarazioni dei leader politici, dalle interviste ai congiunti delle vittime. È la nostra civiltà, bene o male, e nessuno se ne può tirare fuori. Ma viene da chiedersi: tutto questo non contribuisce per caso a mettere sullo sfondo la durezza tutta politica di ciò che è avvenuto? Solo una mentalità incline all'utopia può pensare davvero che carabinieri e soldati italiani si trovassero in Iraq al seguito di un'idea pacificatrice e dettata da una vocazione umanitaria. In realtà, la presenza italiana è il frutto di una decisione politica, che si colloca entro una scelta strategica altamente impopolare e in rottura con le tradizionali linee diplomatiche italiane. Che alla fine di un percorso tortuoso il governo di centrodestra abbia poi dovuto chiudere su una posizione di appoggio "non belligerante" all'unilateralismo americano è poco significativo. È più importante registrare le parole che il "Corriere della Sera" ha attribuito a uno sbigottito Silvio Berlusconi, prima del suo breve intervento al Senato, il giorno dopo l'eccidio: «L'Italia è un Paese di mamme e figli». Non smentita, questa espressione significa che risulta difficile contemperare la durezza delle operazioni militari, cioè la brutale realtà dei fatti, con il pacifismo familistico della nazione. Di qui si capisce meglio, allora, il sostanziale ammutolimento del governo dopo le comunicazioni ufficiali del ministro Antonio Martino. La politica estera italiana è stata delegata di fatto al presidente della Repubblica, il quale nel suo viaggio americano ha interpretato una linea multilateralista, tutta centrata sull'impegno e la copertura dell'Onu. Mentre il capo del governo è intervenuto per telefono a "Buona domenica", sostenendo che la missione in Iraq onora tutto il paese. Cercare di capire se oggi c'è un disegno strategico della diplomazia italiana rispetto alla questione irachena assomiglia a un rebus. Si ascoltano proclami che annunciano l'intenzione di "andare avanti", nonostante il trauma subito dall'intera nazione. E nello stesso tempo si prende atto della commozione generale per la morte ingiusta dei nostri connazionali a Nassiriya. Ma la commozione è un sentimento, e la politica è un intreccio di decisioni. Dopo le lacrime, sarebbe il caso di sapere quali scelte ci attendono. Quali orientamenti, quali risoluzioni. Altrimenti, il clima del cordoglio servirebbe solo a occultare l'automatismo di una politica gregaria.
L'Espresso, 04/12/2003
Terzista del piccolo schermo
A chi piace distorcere i cognomi viene facile trasformare il piccolo Bonolis nel grande Banalis. Ma non è così semplice iscrivere il protagonista di "Affari tuoi" e "Domenica In" nella categoria televisiva dell'ovvio. Chi vede i suoi programmi si accorge che questi esistono e prosperano soltanto e semplicemente perché c'è lui. Lui, adrenalinico, elettrizzato, vociante. Lui il partner pubblicitario di Luca Laurenti, che smitizza il paradiso molto meglio di qualsiasi barzelletta con protagonisti Berlusconi e san Pietro, grazie all'esorcismo della tazzina fumante. Lui che esprime tutta la sua statura e natura nazionalpopolare senza però riuscire a nascondere del tutto certe caratteristiche eccentriche che si intuiscono per via indiziaria, dopo visioni ripetute: un lessico decisamente più ampio rispetto ai cloni di Pippo Baudo che appaiono sugli schermi della Rai; e un eloquio che pompa energia nella voce ma rifugge generalmente, con qualche passo di dribbling e qualche ammiccamento, dalle volgarità romanesche più esplicite. Se Baudo era (e per alcuni versi è ancora) l'identità democristiana trapiantata in tv, mentre Mike Bongiorno si è via via spostato su una senescente immagine forzista, Bonolis sembra il perfetto creatore di una televisione terzista: capace di padroneggiare con prontezza l'incidente comunicativo che sistema Berlusconi al vertice della classifica dell'insopportabilità, così come di fare inopinatamente concorrenza ad Antonio Ricci e a Mediaset. È la nuova immagine dell'Italia che crede di essere moderata, e magari lo è, trovando una media accettabile fra una serie di eccessi: e trasmettendo l'idea che per essere il mattatore è sufficiente esaltare l'uomo qualunque che è in noi.
L'Espresso, 04/12/2003
Ponti d’oro a chi entra nel partito
Prove di partito riformista con Michele Salvati, nel suo studio milanese. Soddisfattissimo per il lancio della lista unica. «E non è finita qui, ovviamente. Perché io auspico in maniera selvaggia e feroce che vengano dentro tutti. Tutti». Oggi esce il suo libro-manifesto, "Il partito democratico" (Il Mulino, 138 pagine, 8 euro), che raccoglie gli interventi con cui Salvati ha elaborato questo progetto politico, a partire dall'articolo pubblicato sul "Foglio" nell'aprile scorso, che aprì la discussione sulla ristrutturazione del centrosinistra. Il volume esordisce con una dedica a Nino Andreatta, «che all'idea del partito democratico arrivò partendo da un'altra tradizione politica». Questa è una sorpresa: chi ha conosciuto Andreatta sa che la sua lealtà democristiana era fuori discussione. «Non c'è dubbio. Ma è anche l'uomo che nel 1995 evocò medianicamente Prodi e quindi l'Ulivo. E dopo le europee del 1999 mise su un'associazione con Occhetto per riunire tutti gli ulivisti più accaniti». C'era anche lei. Da che cosa nasceva questa iniziativa? «Dalla convinzione che i partiti della Prima Repubblica erano finiti, e che occorresse un rimescolamento vertiginoso. Ricordiamoci che allora a capo del governo c'era D'Alema, che era considerato il campione dell'anti-ulivismo». D'Alema ha sempre negato questa etichetta. «L'idea di D'Alema era quella del "paese normale". In un paese normale occorreva un forte partito socialdemocratico che non delegasse a nessuno la rappresentanza dei ceti medi. Vedeva la competizione fra centro e sinistra nel senso di "chi ha più filo tesse più tela". Attraverso i passaggi successivi delle elezioni regionali e politiche si sarebbe individuato un candidato Ds alla guida della coalizione. Avesse funzionato questo modello, dell'Ulivo non si sarebbe parlato più». Non era un calcolo irrazionale. «Personalmente non avevo nulla contro questo punto di vista. Se funzionava, funzionava. Ma non ha funzionato. E a mio giudizio non poteva funzionare in Italia a causa della storia del Pci, della sua vocazione egemonica, vera o paventata. I socialisti rimasti nel centro-sinistra, a cominciare da Boselli, la temevano moltissimo: mentre oggi sono esplicitamente a favore del partito riformista proprio perché non si profilano egemonie postcomuniste». Nell'introduzione al suo libro, lei enuncia una «tesi forte», a proposito del partito democratico. Secondo cui oggi le differenze culturali e ideali fra i partiti riformisti del centro-sinistra non hanno più senso. «Penso che queste differenze e la separatezza organizzativa erano significative nel passato, mentre oggi derivano da ragioni di inerzia e di trascinamento». Non la pensano così Cossiga e Mancino, per citare due personalità della tradizione politica cattolica. «Se è per questo, la contestano in chiave socialista o socialdemocratica anche figure come Salvi o Macaluso. Tutti coloro che pensano ancora alle identità politiche come una risorsa da mantenere all'interno delle sigle di partito. Oppure, il caso più estremo, quelli come Martinazzoli e Mastella, che puntano alla scomposizione del formato bipolare». Qualcuno ci ha provato, con esiti trascurabili, come Sergio D'Antoni. «E qualcuno continua a pensarci. Una volta Carlo Giovanardi mi ha detto: "Michele, sei sempre per l'alternanza? Ma non capisci che questo nostro paese fa fatica a esprimere un ceto dirigente? E come può fare a esprimerne due?"». Quindi si culla l'alternativa al bipolarismlo: sistema proporzionale, Costituzione immutata, stabilizzazione al centro. «Questa visione muove dalla convinzione che l'Italia è un paese caotico, tendenzialmente ingovernabile, e che dunque occorre una classe dirigente che lo disciplini. Però così torneremmo a un'oligarchia immutabile. Ai tempi in cui sempre Andreatta sosteneva che in Italia non cambiavano i governi, ma solo i ministri». Confessi che in passato ci ha pensato anche lei. «Certo che ci ho pensato, e spesso: ma solo perché questa prospettiva, che ha una sua forza pessimistica, è il nemico. Ah, che piacere, formare un monoblocco ed eliminare dal gioco leghisti e rifondazionisti. Chi pensa che la nostra società è un conflitto permanente di guelfi e ghibellini è attratto dal richiamo oligarchico». Mentre lei coltiva la speranza. «So che l'alternanza, e quindi la prospettiva del partito democratico, è una scommessa. Tuttavia ci sono alcuni aspetti che suggeriscono di buttarsi sulla strada nuova e di accettare l'azzardo». Fra questi aspetti, il fatto che all'elettorato minuto non interessa più nulla delle identità di partito. «Non solo. Gli innamorati dei partiti storici sembrano non rendersi conto che i due partiti principali erano profondamente anomali. Il Pci non aveva potenzialità di sviluppo in un paese capitalistico avanzato, e inseguendo se stesso ha perso tutte le occasioni: l'ultima, tra la fine degli anni Settanta e l'avvio degli Ottanta». La condizione della Dc era diversa. Avrebbe potuto trasformarsi in un partito popolar- conservatore come la Cdu tedesca. «Già, il suo ruolo oggettivo era di essere il baluardo anticomunista. Ma proprio per questo i due giganti erano avvinti l'uno all'altro. Inoltre da noi c'era la presenza della Chiesa, e l'impossibilità pratica per un cattolico di situarsi in un partito socialista. Un Delors italiano era inconcepibile». Quindi quando cade il Muro... «La Dc si trova aggrappata a quei mattoni che cadono. Viene fuori Berlusconi perché la Dc non si trasforma in una destra moderata e il Pci non riesce a diventare socialdemocratico, non si unisce al Psi. Per questo ora c'è da guardare con interesse all'azione di Gianfranco Fini: vuole fare lo Chirac italiano, occupare uno spazio moderato? Bene, disegno alto, barriera anti- populista: viva Fini». In conclusione, anche D'Alema se n'è fatto una ragione e ha cambiato idea. «Ha preso atto della sconfitta di una grande e bella prospettiva. Di fronte a un paese "non normale" si è convinto che ci vogliono soluzioni non tradizionali». Nel suo libro lei afferma che insieme al processo di ristrutturazione politica occorre anche un'operazione culturale "revisionista". «È vero, ma per me la revisione non va effettuata sul fascismo o sulla Resistenza. Va rivista o revisionata la storia della Repubblica. In primo luogo per rendersi conto che l'autoesclusione della sinistra ha impedito la normalità democratica, e ha favorito il "governo unico" di cui parlava Andreatta, e quindi l'immobilismo». Sa qual è l'obiezione? Questo è senno di poi. «Il senno di poi è inevitabile perché siamo nel "poi". Altrimenti ricadiamo nelle buone intenzioni, in cui il Pci era maestro: abbiamo combattuto, sofferto, abbiamo scelto la strada della moderazione, non abbiamo fatto come il partito comunista greco e abbiamo salvato l'Italia dall'autoritarismo. Tutto vero, ma di buone intenzioni è lastricata la strada della palude». Altra obiezione: quando lei fece l'appello per il partito riformista il suo disegno era un altro, rispetto alla lista unica. Esprimeva l'intenzione di separare i riformisti dagli antiriformisti, spezzando i Ds. «L'appello dell'aprile scorso nasceva anche dalla consapevolezza che Sergio Cofferati appariva come il potenziale riunificatore della sinistra-sinistra. Aveva fatto la battaglia sull'articolo 18, sui diritti, si era rivolto ai movimenti e ai girotondi: era il ritorno in campo, con il prestigio del leader della Cgil, di un programma che puntava a riorganizzare tutta la sinistra radicale, dal Correntone ai No global, in un unico soggetto politico. Per cui a mio avviso occorreva una risposta immediata sul versante riformista». Il progetto di Cofferati è rientrato. «Già. Ma si è chiesto perché fallisce?». Perché Cofferati non va fino in fondo. «Perché è un vero militante, convinto, intriso di identità, e giunto alla resa dei conti non vuole rompere il suo partito». A questo punto come si misura il successo della lista unica sul piano elettorale? «Si misura nel confronto con il 2001, osservando se l'insieme produce più voti dei partiti singoli. E anche se supera di un voto Forza Italia». Qualche rischio per Prodi c'è, candidato o no? «È la prova decisiva: si gioca il suo futuro politico». Ma è sufficiente, pensando al futuro, l'unificazione fra Ds, Margherita, Sdi e Repubblicani europei? «Spero con tutto il cuore che un'area esterna entri, in vista delle europee. Qualcuno deve entrare, in qualche forma: ponti d'oro, bisogna fargli. Ponti d'oro». Secondo alcuni centri di ricerca la lista unica porta valore aggiunto perché sgrava gli elettori di centro-sinistra dal problema di scegliere l'identità smarrita. «Questo è il motivo per cui selvaggiamente e ferocemente auspico che vengano dentro tutti».
L'Espresso, 11/12/2003
Orgoglio nero
Fascista, certo. Fascista nel senso del movimento, sia chiaro, non nel senso del partito. Consapevole che un regime politico non è ripetibile, perché il fascismo nasce sulla scia della massa di reduci dalla Grande guerra, dallo scontro sociale, dal biennio rosso, dal timore del bolscevismo... Pino Rauti maneggia le parole con spregiudicatezza. «Fascista io? Sicuro. Lo dissi al giudice del processo di Catanzaro: lei è cattolico, vero? E va a messa tutte le domeniche, no? E ci va anche se l'Inquisizione ha torturato e bruciato. Allora io sono fascista. Se c'è chi si dice comunista nonostante gli "errori" che hanno provocato cento milioni di morti, io sono fascista». Quelli dell'estrema destra lo chiamavano "il Gramsci nero". È stato allievo di Julius Evola, ha fondato Ordine nuovo, all'epoca delle trame nere il "male assoluto" era lui. Dopo l'assemblea di Fiuggi, è diventato lo scissionista e il custode dottrinario dell'identità missina. Oggi Rauti, altro che fiamma, è un vulcano di insofferenza anti-finiana. Figurarsi, per uno come lui, che ha scritto e pubblicato i sei volumi, le 3.600 pagine della "Storia del fascismo", la svolta del presidente di Alleanza nazionale è l'ultimo, intollerabile episodio di un'abdicazione politica ai danni della memoria. E si capisce, il suo vecchio avversario, con cui si scontrò per la segreteria del Msi, è diventato antifascista. «Vuole un giudizio sul viaggio di Gianfranco Fini in Israele? È stato del tutto negativo. Per l'Italia, per l'Europa e, se posso dirlo, anche per Alleanza nazionale». Svolta negativa per l'Italia, Rauti: ci dica perché. «È stata improvvida per il nostro paese perché ci ha presentati come i più filoisraeliani dell'Unione europea. Al coperto della condanna del razzismo e dell'antisemitismo, Fini ha compiuto un'operazione politica che ha avuto e avrà serie conseguenze nel rapporto con il mondo islamico. Oltretutto, c'è stata una confusione di ruoli, che non è stata rilevata né dalla stampa né dall'opposizione: chi era il Fini che si è visto a Gerusalemme, il vicepresidente del Consiglio? Oppure il leader di An? Non si è capito affatto. È andato a farsi sdoganare, e la conseguenza è che siamo apparsi succubi di Sharon e del suo governo, un governo contestatissimo per la politica che conduce». E per l'Europa? «Si è trattato di una iniziativa dannosa anche per l'Europa, e per la sua collocazione nell'equilibrio geopolitico mondiale. Esiste ancora, o esisteva, un'ipotesi di Europa "carolingia", fondata sul binomio Francia-Germania: se a questo asse si fosse aggiunta l'Italia, si sarebbe costituita un'entità capace di distinguersi dagli Stati Uniti e dalla politica di George W. Bush. Bene, anzi male, questa ipotesi è stata affondata. Per un presunto interesse di partito, e per sicuro un interesse personale, Fini ha ceduto tutto». Ma per Alleanza nazionale lo strappo di Fini può portare vantaggi politici o almeno elettorali. «No, la svolta è negativa anche per An, perché svende una storia. Noi della Fiamma tricolore siamo stati sommersi dalle telefonate, dai fax, dalle proteste. Questa potrebbe sembrare una dichiarazione politica, non verificabile, d'accordo. Ma allora tenga conto che l'Unione combattenti della Repubblica sociale ha chiesto ai suoi iscritti di uscire da An. Ajmone Finestra, il vicepresidente dell'Unione, ha emesso un comunicato durissimo in questo senso». Rauti, non lo nasconda: si aprono prospettive di qualche interesse per il suo partito. «Adesso noi faremo una lista alle elezioni europee, che possa essere una casa per l'eventuale diaspora da An e per tutti coloro che rifiutano la svendita. Siamo avvantaggiati perché non abbiamo bisogno di raccogliere le firme, dato che avevamo già un deputato europeo, mentre Forza nuova e il Fronte sociale nazionale di Adriano Tilgher, e il partito annunciato da Alessandra Mussolini si trovano davanti le 35 mila firme da raccogliere sul piano nazionale, una montagna». Fini sostiene che ciò che ha detto a Gerusalemme è una semplice conseguenza dell'assemblea di Fiuggi del 1995. «Storie. Fini ha aggravato Fiuggi. Perché un conto è uscire dalla casa del padre, un altro conto è dire che era un luogo di vergogna. C'è una sconcertante mancanza di cultura storica. Vuole che non sappia che nella Repubblica di Salò si scatenarono anche gli istinti peggiori? Era una guerra civile, queste pulsioni sono venute fuori da una parte e dall'altra. Ma Fini e i suoi seguaci devono spiegare allora che cosa rimane di quella esperienza. Che cosa ne facciamo di Junio Valerio Borghese, che con la X Mas, tra la fine del 1944 e i primi mesi del 1945, riuscì a salvare il Friuli sbarrando il passo a quelli di Tito? Ci dica, Fini, come dobbiamo trattare il maresciallo Graziani, che alla fine di aprile 1945 firmò la resa della Rsi a Caserta, un atto ufficiale, che fece in modo che tutti i militari della Repubblica caduti nelle mani degli alleati godessero del trattamento di prigionieri di guerra? E ci dicano anche che cosa rimane di una figura come Filippo Tommaso Marinetti, ferito in Russia, ormai moribondo nel 1944, sul lago di Como, che in un atto estremo aderisce alla Repubblica sociale. E che cosa resta di Giovanni Gentile, il filosofo ammazzato dai partigiani. La memoria storica non può essere insultata. Dico a Fini: fatti il tuo partito, allora, e non trascinare nella vergogna chi ha ancora l'orgoglio di ciò che ha fatto». Orgoglio anche per le leggi razziali? «D'accordo, le leggi razziali. Parliamone. Non le difendo affatto, ma cerco di capire il contesto in cui vennero emanate. Ricordiamoci che nel 1936 era scoppiata la guerra di Spagna, che ha strappato il paese al bolscevismo. Ai primi del '38, le grandi associazioni ebraiche internazionali avevano dichiarato guerra al fascismo. Le leggi razziali sono state un episodio minore di reazione a questa apertura di ostilità. Un episodio sbagliato, sbagliatissimo, che cosa devo dire di più? Ma non è che una parte può fare la guerra e l'altra deve stare a guardare. Insomma, c'era una guerra in corso, un fronte internazionale contro il fascismo, se è vero che la Francia spedì in appoggio al Negus e alla resistenza abissina Raoul Salan, il futuro capo dell'Oas, che veniva dall'Indocina ed era uno specialista di guerre tribali. Capirà, noi mandavamo in Africa orientale dei ragazzi di vent'anni, senza nessuna esperienza, mentre Salan era stato il governatore del Mekong: ci toccò riconquistarla, l'Etiopia, e costò l'ira di Dio». È la tesi della guerra civile europea. «Sto giusto per pubblicare un libro che si intitola "La guerra più lunga", sottotitolo "Undici anni che sconvolsero il mondo". Dal 1935 al 1945 si è combattuta davvero una guerra civile in Europa, che ha avuto sempre gli stessi protagonisti sui due versanti». Solo che il fascismo questa guerra l'ha combattuta dalla parte di Hitler, del razzismo, del programma antisemita. «Ma, vede, anche qui occorre distinguere. Il razzismo fascista non era copiato dalla Germania. Le prime espressioni si trovano già nel Mussolini del 1919. Ce n'è traccia nel Codice Rocco. La "difesa della stirpe" trova i suoi primi provvedimenti in Africa orientale, a causa del proliferare dei rapporti con le donne africane: furono richiesti dal Vaticano, sollecitati dai parroci. Eh sì, c'era un milione di giovani lontani da casa, che trovavano la faccetta nera per due lire, mentre le mogli restavano a casa in Italia, erano gelose, e si lamentavano con il prete. Si rischiava di avere centinaia di migliaia di meticci...». Secondo lei era un razzismo all'italiana, familista. Ma se si fosse trattato solo di un problema di filologia, o di interpretazione storiografica, lei avrebbe potuto restare in An a fare l'opposizione interna. «Neanche per sogno. Fiuggi aveva posto le premesse di una svolta per me insostenibile, anche se allora perlomeno non si sputò addosso alla propria storia. Comunque la rottura era inevitabile, da parte mia. La sera prima, Ignazio La Russa e la vedova Almirante mi dissero: "Non te ne andare", lasciando capire che in seguito una soluzione si sarebbe trovata. Ma io ho risposto che per me non c'era soluzione. Signori, ho detto, voi avete fatto dei discorsi, io ho scritto dei libri. C'è una differenza. Il resto è cronaca, con Fisichella, l'ispiratore del progetto di Alleanza nazionale, che dice: "Il collo della bottiglia è stretto, Rauti non ci passa". Tutti piangevano, ma poi sono rimasti là, anche il più affranto di tutti, Teodoro Buontempo. No, non potevo restare dentro An a fare l'opposizione interna. Tanto più che Tatarella disse che la scissione faceva comodo. La posta in gioco era altissima, se è vero che Rocco Buttiglione alluse a un rilievo strategico non solo italiano. A chi gli chiese se il passaggio dal Msi ad An era stato favorito, diciamo così, da risorse esterne, rispose non troppo sibillinamente: "Chiedete a Kohl". Lasciando intendere che i cristiano-democratici tedeschi non erano stati inerti». La metamorfosi di An rispondeva anche alla logica delle alleanze imposte dal sistema maggioritario. E oggi la corsa al centro di Fini risponde alla necessità di prepararsi all'eventualità del post-Berlusconi. «Ma per correre al centro bisogna essere qualificati. Per quanto Fini si dia da fare, non avrà mai la guida del centro-destra. Al momento buono, nel dopo Berlusconi, daranno l'incarico a Casini, non al capo di An, per quanto il suo partito sia stato revisionato. E si capisce: ci sono più democristiani in Parlamento adesso che non ai tempi di Andreotti. Tutto questo travaglio, il maggioritario, la transizione, la Seconda Repubblica, non serve ad altro che a far tornare la Dc sotto altra forma». Eppure la Fiamma di Rauti qualche accordo con il centro-destra lo ha fatto. «Al nostro ultimo congresso si è deciso che, pur mantenendo la nostra specificità, che ci distingue nettamente dal liberismo di Berlusconi e di molti suoi alleati, siamo costretti a fare accordi con il centro-destra». Nel 1996 il mancato accordo costò caro al Polo delle libertà. «Una trentina di seggi perduti. Berlusconi disse: è colpa di Fini, che ha sottovalutato la presa della Fiamma. Mentre adesso due regioni hanno una maggioranza di destra grazie al nostro contributo». Un fascista movimentista come lei che si accorda con il liberista Berlusconi. Qual è il suo giudizio sul governo di centro-destra? «Questi non sanno governare, né comunicare le poche cose positive che fanno». Dal suo punto di vista quali sarebbero le cose positive, la liberalizzazione del mercato del lavoro? «Ma no, qualcosa sulla famiglia, poco ma qualcosa. Invece le misure sul mercato del lavoro sono antisociali e antieuropee. C'è una cultura europea che è stata modellata dai sindacati, dal pensiero sociale cattolico e dal corporativismo fascista: non siamo in America, vogliamo rendercene conto? Da noi non si possono licenziare via Internet le persone. Il liberismo ci porta al declino industriale. Ero a Barletta, c'erano diecimila disoccupati potenziali, perché la maglietta che loro producono costa 3 euro, contro un solo euro in Cina. Si fa finta di non vedere che gli imprenditori italiani vanno a produrre dai comunisti cinesi perché il lavoro costa venti volte meno che da noi, e intascano la differenza. La Fiat produce 225 mila fra auto e camion in Polonia, con salari operai che sono un sesto del salario italiano, e questo va a beneficio dell'Ifi». Solito Rauti, anticomunista, anticapitalista, antiborghese. Ma se in Italia si fosse sviluppato un partito non liberista, popolar-conservatore come la Cdu-Csu in Germania, lei sarebbe stato ai margini della politica, irriducibile come sempre? «Forse avrei potuto essere un compagno di strada di quell'aggregazione politica. Ma non si può dire, è un discorso astratto. Perché noi abbiamo un retroterra fortissimo di vissuto: nella Rsi io ho fatto la guerra sino alla fine, facevamo i rastrellamenti nel basso Polesine, e vedevamo l'odio nei nostri confronti. C'era l'odio, ma c'era anche una miseria spaventosa. Non ci capivano. E allora io pensavo, e lo dicevo, la colpa è nostra. Mai più non farci capire, mai più. L'intera mia vita politica è stata basata su questa convinzione, su questa intenzione. E tutto questo, mi creda, non si svende».
L'Espresso, 31/12/2003
Premier in caduta libera
Regnava sull'Italia la legge dell'immagine, strategia rivoluzionaria per la politica domestica. Ho vinto tutto, sono l'unico che può fare ripartire questa vecchia e stanca Italia, sono liberista, centrista, degasperiano, americano, rifondatore dell'Europa. Trasformare la politica estera in una soap opera, i rapporti fra le cancellerie in pacche sulle spalle, corna sulla testa, prese a braccetto e boutade cameratesche. Non si può negare a Silvio Berlusconi la dote di avere capito i meccanismi della società contemporanea. Comunicare, comunicare, comunicare. Ripetere all'infinito che la battuta del kapò rivolta all'eurodeputato Shultz provocò un'ilarità generale fra i «turisti della democrazia» del Parlamento europeo. Sono storie, distorsioni della realtà, rifrazioni speciose? Non importa. Ripetete, ripetete, qualcosa resterà. Ma la realtà ha la cocciuta tendenza a rifarsi viva, al di là dei cactus della villa in Sardegna, oltre il riflesso del kolossal finto-marmoreo di Pratica di Mare, dopo una conversazione «alla seconda bottiglia di champagne» dove si dicono cosucce da bar su Mussolini e il fascismo come dittatura benevola. Tanto più che il presidente del Consiglio non solo pretende che il pubblico creda alla sua verità. Ci crede anche lui, artefice e vittima delle proprie invenzioni. «Sono alto come Tony Blair», e soprattutto "eppure son simpatico": va da sé che l'innata cordialità, il tratto compagnone, la bonomia meneghina consentono exploit altamente istituzionali, come il goliardico «parliamo di calcio e donne» che all'ultimo vertice apre la cena con Schröder e lascia allibito il reparto donne dell'Unione europea: aggravato subito dopo dal «Gerhard, tu che hai una certa esperienza, dacci qualche consiglio». Vabbè che con le donne va così così, se Veronica Lario confessa a Maria Latella che lei è una casalinga e legge i giornali (anzi, è titolare di una quota del "Foglio" di Giuliano Ferrara), contrariamente all'opinione del marito secondo cui le massaie non consumano un prodotto obsoleto come i quotidiani. Quanto al calcio, c'è una folla televisiva di reduci dalla delusione di Yokohama, dove il Milan è stato sconfitto dagli argentini del Boca Junior dopo una serie di rigori tirata catastroficamente dai rossoneri (con il giocatore intrinsecamente più berlusconiano del Milan che con una pedata disastrosa solleva dal dischetto una zolla di due chili, come un dilettante di sinistra). Sciocchezze, se non fosse che i vincitori devono sempre vincere. Ma vincere non è così facile sulle faccende serie, sulla Costituzione europea ad esempio, dove i duri giocano duro veramente. Serve a poco annunciare di avere in tasca la «formula segreta» capace di mettere d'accordo tutti sul sistema di voto, quando alle spalle c'è il ricordo della grave defezione innescata con la lettera degli otto paesi al "New York Times" che si schierava con l'unilateralismo di George W. Bush, contro l'Europa "carolingia" e pacifista di Chirac e Schröder. Oppure la censura europea sulle dichiarazioni iper-putiniane a proposito delle "leggende" in Cecenia. Succede poi che ci si ritrova a dover ballare fra la posizione francese e tedesca, alleati sul sistema di voto, e la dura opposizione di spagnoli e polacchi, alleati di ieri sulla guerra in Iraq, con l'amico Aznar che si guarda bene dal cedere alcunché in nome dell'amicizia e dei regali di nozze. Il Cavaliere raccoglie quanto ha seminato, è il commento che si registra nei pressi della Commissione europea. Dopo il vento, la tempesta. Il grande federatore, l'uomo che era partito per Bruxelles annunciando di avere in tasca la «formula segreta» per un accordo «alto e nobile», ha dovuto tagliare il vertice riconoscendo l'impossibilità di trattative ulteriori. Romano Prodi era stato freddissimo sulla capacità berlusconiana di produrre miracoli in sede europea. Le consultazioni telefoniche con Carlo Azeglio Ciampi erano state tese, e si capisce: un europeista classico come il capo dello Stato, l'artefice del risanamento maastrichtiano e dell'ingresso nell'euro, di fronte a un realista scettico come Berlusconi, patron di quel Giulio Tremonti che aveva collaborato attivamente per incrinare il Patto di stabilità. Nessuno è autorizzato a individuare una connessione tra il fallimento del semestre e della conferenza intergovernativa («Un trionfo», per il capo del governo) e il fulmine arrivato dal Quirinale sulla legge Gasparri. Resta il fatto che la combinazione dei due eventi in stretta successione è risultata distruttiva. Erano settimane che l'area berlusconiana stava plasmando un clima favorevole alla legge sul sistema televisivo, alternando dichiarazioni di massimo rispetto formale per l'autonomia del Colle e una pressione avvertibile, esemplificata da un editoriale sul "Foglio" di Giuliano Ferrara, secondo cui il rinvio alle Camere avrebbe comportato una qualificazione di Ciampi come giocatore politico, non più come arbitro. Ora, il documento con cui Ciampi ha motivato il rinvio appare ineccepibile e severamente circostanziato: non si può risolvere il dilemma di oggi con le opportunità di domani, il monopolio attuale con il futuribile del digitale, il controllo effettuale di Rai e Mediaset con l'annacquamento della televisione nel fantomatico Sic. Anche se Berlusconi, sempre per la legge dell'immagine, ricorre al latinorum e dice che «non c'è vulnus» per il governo, e poi si incattivisce dicendo che non leggerà le motivazioni dei «tecnici del Quirinale», tutto si accartoccia su se stesso. Ripresentare la legge così com'è equivarrebbe ad attaccare frontalmente il Quirinale, rischiare una violenta delegittimazione del presidente della Repubblica, e ciò non sembra raccogliere la disponibilità di An e dell'Udc. Conseguentemente, il conflitto d'interessi raggiunge un livello parossistico nel momento in cui il salvataggio di Retequattro con un decreto ad hoc sarà affidato per decenza alla firma di Gianfranco Fini, e non del premier-padrone. Ma l'uragano che sta investendo Berlusconi non riguarda soltanto le relazioni internazionali e il rapporto con un establishment economico che guarda con sempre maggiore delusione l'attività del governo. Si sa che la riforma delle pensioni è un provvedimento a sua volta d'immagine, una legge hard rinviata nelle nebbie soft del 2008; che Luca Cordero di Montezemolo, nelle vesti di presidente della Fieg, avrà accolto con sollievo il rinvio della Gasparri, legge che gli editori di giornali avevano sempre osteggiato. Ed è vero anche che il governo non si era guadagnato attestati di fiducia dopo che un pezzo di Finanziaria era stato folgorato dagli uffici della Camera causa uno sforamento "invisibile" di 3,2 milioni di euro. Eppure il ciclone anti-Berlusconi non sarebbe così preoccupante per l'interessato se non ci fossero condizioni esplicitamente politiche a lui sfavorevoli. Detto in modo brutale: se non si fosse aperta da un paio di mesi la corsa alla successione. Spiegare perché si sia cominciato a parlare del post-Berlusconi non è di immediata evidenza. C'è sicuramente una parte dell'élite economica che sta rovesciando il pollice nei suoi confronti. Ma soprattutto siamo davanti a un panorama politico in cui i possibili successori, gli autocandidati al post, hanno tutti cominciato a stringere i pedali per la volata alla successione. Gli ingredienti della ricetta post-berlusconiana sono quasi tutti sul tappeto: verifica, rimpasto, questione-Lega, resa dei conti con Tremonti. Aggiungere i guai giudiziari di Cesare Previti, mascherati da un'altra operazione d'immagine che ha trasformato una condanna in una sostanziale assoluzione. Prevedere altre forti turbolenze nel caso che la Corte costituzionale rigetti il lodo Schifani restituendo il premier alla condizione di imputato. Agitare il cocktail con il riesplodere, dopo mesi di silenzio, dei vociferii sulla salute del signore di Arcore, questa volta trapelati anche sulla prima pagina di un quotidiano sensibile al gossip politico come "Il Riformista". Non basta? E allora mettiamoci anche i sondaggi sfavorevoli, non escluso il virtuale sorpasso inerziale del centro-sinistra. Tutte condizioni che si accendono di colori rame e ruggine, come in un autentico autunno del patriarca, non appena si pensi al tempismo con cui Gianfranco Fini, secondo l'interpretazione offerta da Eugenio Scalfari, ha trasformato il suo partito in un potenziale sostituto popolar-conservatore di Forza Italia; e alla sapienza politica attendista, abituata ai tempi lunghi, ma chirurgicamente puntuale nei tempi brevi e brevissimi, con la quale Pier Ferdinando Casini e Marco Follini amministrano il loro piccolo patrimonio neo- democristiano, pronti a traghettarlo nella Repubblica del dopo-Berlusconi. In altri tempi, ci si poteva aspettare un colpo di genio del grande improvvisatore, del grande manipolatore, di quel talento comunicativo chiamato Silvio Berlusconi. Un appello diretto al popolo, la ricerca del plebiscito. Ma fra il popolo e il leader mediatico, come fra realtà e immagine, sembrano essersi schierati troppi fattori e troppi soggetti di interposizione. E senza la possibilità di mobilitare il popolo, Berlusconi non è più il capo populista. È sempre di più l'immagine di un uomo solo.
L'Espresso, 31/12/2003
Don Francesco e l’onorevole Rutelli
Sulla fecondazione assistita si possono avere idee molto diverse, e non è detto che la prudenza equivalga a oscurantismo; ma sulla politica le idee dovrebbero essere piuttosto chiare. Data questa piccola premessa, viene da chiedersi se il leader della Margherita, Francesco Rutelli, sia sostenuto da una chiarezza politica appropriata. Perché nessuno discute le concezioni del Rutelli cattolico di oggi, che smentiscono le convinzioni del Rutelli laico e radicale di ieri. Resta il fatto che la nobiltà delle ispirazioni culturali del Rutelli attuale andava divisa nettamente dalla posizione da assumere in Parlamento. La legge in sé non è cattolica. Com'è noto, la chiesa non ammette nemmeno la fecondazione omologa, e quindi il di-scorso etico-religioso sarebbe chiuso. Il provvedimento legislativo approvato nei giorni scorsi è una misura intermedia, di freno, di tamponamento, rispetto alla quale sarà curioso seguire l'applicazione pratica: ad esempio sui criteri con cui verranno valutate più o meno "stabili" le coppie di fatto che vogliono accedere alla provetta. Sotto il profilo etico, se si vogliono scomodare parole ingombranti, la legge non è né più alta né più bassa di altre norme legislative possibili; si tratta di un testo politico, da valutare anche, se non soprattutto, in quanto tale. In sostanza, Rutelli e i cattolici della Margherita possono coltivare perfino l'idea che i figli non devono mai essere prodotti in provetta; si può benissimo essere proibizionisti nella propria coscienza; ma non si capisce per quale motivo ciò debba condurre a un voto con il governo e la maggioranza di centrodestra. Ci fosse in ballo una battaglia di civiltà, questa decisione sarebbe comprensibile. Ma qui non erano in ballo i sacri principi dell'inviolabilità della vita: era in ballo una legge-pasticcio, un fritto misto compromissorio. Tre embrioni sono eticamente meglio di quattro e peggio di due? Le coppie di fatto "stabili" sono più stabili di coppie sposate e annoiate? Ecco perché una personalità indubitabilmente cattolica come Arturo Parisi ha segnalato con asprezza l'eccesso di confessionalismo della scelta di Rutelli. Nelle aule parlamentari ci sono molti modi di segnalare la propria sensibilità culturale, la propria ispirazione religiosa, i principi cardine della propria visione etica, senza cadere in operazioni trasformistiche. Ci si può astenere nel voto, uscire dall'aula, adottare il criterio della libertà di coscienza. In questo caso, si è scelto il principio di avvelenare politicamente la provetta. Nei gameti è stato inoculato un virus che segnala fra i suoi sintomi l'incompatibilità delle culture presenti nel centrosinistra. Il che getta una luce fredda sulle prospettive politiche dell'opposizione. "Uniti per unire", dice lo slogan non proprio brillante della lista unica. Ma ha ancora un senso? È vero, nella società contemporanea ci sono argomenti che non possono essere separati rozzamente con il discrimine fra destra e sinistra. E all'interno del centrosinistra convivono tradizioni culturali che devono essere negoziate e mediate. Di più: in linea di prospettiva il centrosinistra deve fare i conti con la qualità della sua proposta di governo, tenendo conto che una possibile vittoria elettorale contro l'armata berlusconiana non gli garantisce certo a priori una compattezza programmatica decente. Bene: si tratta di capire se dopo che il centrosinistra si è dissolto sulla fecondazione assistita non si dissolverà anche sui prossimi temi che emergeranno nella campagna elettorale per le elezioni europee, e più avanti nelle campagne per le regionali e le politiche. È presto per dire che alla prova dei fatti il centrosinistra si dimostrerà incapace di gestire le proprie tensioni interne. Tuttavia, dato che si sa che il principale mastice della coalizione è l'antiberlusconismo, converrebbe anche capire quale sarebbe il calcolo strategico che ha consigliato Rutelli e parte della Margherita a votare per il governo. È una sintesi brutale, ma contiene un elemento cruciale per il futuro del centrosinistra. E se ieri è prevalso il "facciamoci del male", non si riesce a intuire come domani l'opposizione riuscirà a farsi del bene.
L'Espresso, 10/01/2002
Lo stile è al potere di Edmondo Berselli
L'opposizione non si stracci le vesti per il crimine di lesa satira: le iniziative di Maurizio Gasparri, e la sua stessa esistenza politica, sono fra le poche ragioni che consentono al centrosinistra di far finta di essere vivo. Ciò che forse è sfuggito alle menti più raffinate dell'Ulivo è l'emersione di un ceto politico inabituato alle cerimonie d'antan, talmente esplicito e diretto da concedersi dimostrazioni di arroganza, o di famelicità rispetto al potere. Quindi la questione di spicco non è l'eventuale processo di beatificazione di Simona Ventura, ma qualche riflessione sul perché un ceto politico estemporaneo per cultura, precario nel galateo, privo di tradizioni e scuole politiche, sia riuscito a conquistare la maggioranza dei voti, e a tenersela stretta. Gaffe planetarie, autarchia sui dossier europei, leggi ritagliate sulla fisionomia dei grandi "clientes", velleitarismo in economia, provincialismo nell'iconografia, tutti questi elementi infatti non hanno scalfito, se non marginalmente, il grado di consenso del governo. Anzi, può essere che le battute di Berlusconi sul prosciutto e sulla renna marinata, come pure le telefonate in diretta del trafelato Gasparri, o l'aggressività stridula di chi governa contro l'opposizione, il rivangamento del passato fonte-di-tutti-i-mali-per-colpa-della-sinistra, ma anche le disinvolture milionarie alle Molinette di Torino di Luigi Odasso (il Mario Chiesa del Terzo millennio), appartengano alla stessa cifra comportamentale: quella di un ceto politico sradicato, riluttante verso le vecchie convenzioni e i protocolli tradizionali della politica, quindi incline a farsi da sé le sue regole. Un ceto rispetto al quale non è il caso di protestare giorno per giorno, su ogni polemica, su ogni pretesto, su ogni sbrego dell'etichetta. Perché i casi sono due: o questa classe politica e parapolitica è perfettamente congruente con la maggioranza della società italiana (e questo può darsi benissimo, visto il formidabile effetto sulla psicologia collettiva provocato dal duopolio televisivo negli ultimi anni); oppure no, questi sono alieni, gente che ha colto un'occasione nella politica solo grazie alla caduta dei grandi partiti di governo. Ma che sia vera l'una o l'altra ipotesi, le conseguenze per il centrosinistra non cambiano: per mettere in crisi la Casa delle libertà serve a poco stigmatizzare l'ultima inadeguatezza, l'ultima cravatta inopportuna, l'ultima maleducazione, l'ultimo sgarro istituzionale. Occorre un progetto politico, come dicono tutti. Ma occorre anche una prassi di controllo costante, per dimostrare che le politiche di Tremonti sono sbagliate, se lo sono, e che il blocco della vendita di Raiway è stato una mignottata, se lo era, e che l'uscita dal gruppo dell'Airbus è stata una defezione antieuropea, se lo è. Insomma, ci vuole metodo e credibilità. Altrimenti, alla lunga anche l'arroganza dei Gasparri diventerà la simpatica esibizione di uno stile nuovo.
L'Espresso, 17/01/2002
Quel libertino vale un Tesoro
Si può restare un tecnico mentre la politica tende a occupare tutti gli spazi e la bipartisanship è un ricordo? Domenico Siniscalco, insediato da poco più di tre mesi al posto di Mario Draghi alla direzione del Tesoro, ha passato una vita a rifiutare posizioni politicamente impegnative. Aveva glissato con sapienza anche quando l'entourage di Francesco Rutelli l'aveva sondato per coordinare il programma economico dell'Ulivo. Perché un conto è essere al centro di una rete, un altro farsi impigliare da una sigla. Fino a settembre, quando è affiorata la sua candidatura, vantava la carriera di un libertino. «Bravissimo», secondo Gianni Agnelli, ma soprattutto versatile. Docente di economia a Torino, editorialista del "Sole 24 ore", direttore della Fondazione Eni Enrico Mattei, consulente di cinque o sei governi della Repubblica, rapporti internazionali, board europei, e poi un vortice di ministri, economisti, consigli d'amministrazione. E adesso, come si trova a capo di quella che non è solo la più qualificata tecnostruttura italiana, ma anche uno snodo del potere politico? Con Giulio Tremonti per ministro, e la Casa delle libertà al governo? È o non è una scelta di campo? Lui razionalizza: «Nella mia carriera ho sempre avuto in mente uno schema che connette la ricerca con l'area delle decisioni pubbliche». Ripercorriamola, la carriera. Il liceo Alfieri a Torino, l'università a Giurisprudenza: salvo filarsene per sei mesi negli Stati Uniti a respirare economia al Mit. Dove insegna Franco Modigliani, Sylos Labini fa il semestre, studiano Mario Draghi, Francesco Giavazzi, Ezio Tarantelli. Mentre a Torino... «Scopro che c'è un dipartimento in bilico fra Scienze politiche e Giurisprudenza, con docenti di prim'ordine. Francesco Forte, Claudio Napoleoni, Bruno Contini, Siro Lombardini. Ci sono Franco Reviglio, Mario Monti, e Franco Momigliano, che mi guida nella tesi di laurea». È l'embrione di una rete. Per il momento accademica. Solo che, appena laureato, incontra a Venezia il futuro Nobel per l'economia Richard Stone, che lo invita in Inghilterra, a Cambridge. Dove più tardi comincia un dottorato, agevolato dal fatto che venivano ammessi dei va e vieni con l'Italia: «Perché nel frattempo Reviglio era diventato ministro delle Finanze nel primo governo Cossiga, e mi aveva chiamato a Roma come consigliere economico». Dice che a Cambridge impara «a pensare come un economista». Che in Italia si filosofeggiava, tutti erano molto macro, molto vaghi, molto politici. In Inghilterra, altra musica: «Cambridge ti plasma, esci che sei uno dei loro. Erano scomparsi i grandi keynesiani, Nikolas Kaldor, Joan Robinson, Richard Kahn. Si vedeva ancora Sraffa, con un pellegrinaggio di italiani. Ma stava arrivando la modernizzazione, con i neoclassici, Frank Hahn, Partha Dasgupta, Ken Arrow. Una virata culturale, eccitante». Era già una vita moltiplicata per due: la teoria a Cambridge, e a Roma, con Reviglio, la pratica, in una squadra di enfant prodige: Giulio Tremonti consigliere giuridico, Alberto Meomartini addetto stampa, mentre fra i consiglieri senior c'erano un Vincenzo Visco non ancora allergico a Tremonti, Antonio Pedone, Franco Gallo. Quando Reviglio diventa presidente dell'Eni, lo chiama come assistente (l'altro era Franco Bernabè), e più tardi lo mette a capo della neonata Fondazione Mattei, un think tank sull'economia dell'ambiente destinato a fare scuola. Finché non arriva il momento cruciale del governo Amato. «È la primavera del 1992 e Amato prepara il programma, che prevede prima una correzione d'urto dei conti e poi una fase strutturale». I dietrologi dicono che era il programma per Craxi capo del governo. «Era un programma». Craxi non passa e Scalfaro dà l'incarico ad Amato. Reviglio è al Bilancio, Barucci al Tesoro. Parte la prima manovra del 1992, quella da 30 mila miliardi, ma la crisi incombe. Un'estate con la tensione altissima. «Non si dormiva. È stato decisivo il ruolo di due persone: Draghi come custode del debito, e Monorchio come guardiano della spesa. In una situazione da incubo, perché si percepiva il rischio dello smottamento. Con l'insolvenza dell'Efim i tassi schizzarono all'insù, e si rischiò il tracollo». Drammatica crisi valutaria a settembre, e manovra choc per altri 90 mila miliardi. «Da mettere i brividi. Poteva essere un trauma insostenibile per il Paese. Invece funziona. Così, quando Ciampi subentra ad Amato può dare la seconda botta, quella sui salari, con la concertazione. Io continuo a collaborare, con Barucci, al Tesoro». Con Berlusconi, invece, niente collaborazioni dirette. Neanche con Dini e neppure con Prodi. Solo una mano a Tremonti nel 1994, per il Libro bianco sulla riforma tributaria. A richiamarlo in servizio è sempre Amato. «Con D'Alema facevo parte del giro dei consiglieri messo su da Nicola Rossi. Amato, ministro del Tesoro dopo che Ciampi era salito al Quirinale, mi ha chiesto di entrare nel cda della Telecom». Cioè a mostrare il grugno a Colaninno. Per venirsene fuori con tempestività poco prima che i bresciani vendessero tutto. Adesso, è arrivato il cambiamento di vita: l'ambientalismo, la new economy, gli "incubatori" di nuove imprese appartengono al passato. La scommessa è rimanere un libertino anche fra le mura della Casa delle libertà.
L'Espresso, 24/01/2002
Eccellentissimi, onorevoli e impuniti
Qualcuno l'ha definita una boutade, altri «una provocazione». Ma al di là delle intenzioni da cui era mossa, la proposta del vicepresidente del Csm Giovanni Verde di bloccare i processi contro i politici introducendo nuovamente l'istituto dell'autorizzazione a procedere è stata un intervento politico di assoluto rilievo. Non importa il fatto che sia stata dettata «dalla disperazione», secondo il giudizio di Massimo D'Alema, cioè come risorsa estrema di fronte alla guerra «tra i falchi dell'una e dell'altra parte», come ha detto il vicepresidente del Csm. Conta piuttosto che 24 ore dopo la pubblicazione dell'intervista sulla "Stampa", il messaggio di Verde sia stato recepito dal senatore di An Giuseppe Consolo, che ha presentato un disegno di legge in proposito. E che l'ex presidente Francesco Cossiga, nel pieno del dibattito scatenatosi, l'abbia subito appoggiata, «anche per riaffermare il primato della sovranità parlamentare in uno Stato democratico rispetto all'applicazione astratta del principio di legalità». Perlomeno, il senatore a vita Cossiga ha il merito di specificare con esattezza i termini della questione. Sovranità parlamentare, cioè politica, rispetto alla legalità. Sono gli elementi di un rapporto che si è squilibrato drammaticamente giusto dieci anni fa, con l'emersione di Tangentopoli, e che non si è mai più ricomposto. Non che siano mancati i tentativi: il progetto di Giovanni Conso e Giuliano Amato, "l'articolato di Cernobbio" (predisposto da Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo con la collaborazione di avvocati di fama), il decreto Biondi, il testo della Bicamerale, e una serie innumerevole di proposte più o meno estemporanee su amnistie e condoni. In fondo, è vero che si sono sempre confrontate due scuole: da un lato i fautori del ritorno al primato della politica, dall'altro i sostenitori del principio di legalità, più o meno astratto. Ma dietro la disputa politico-giuridica, e nello scontro spesso estremizzato o montato ad arte fra giustizialisti e antigiustizialisti, restava un punto cruciale: vale a dire il coinvolgimento di Silvio Berlusconi e di alcuni suoi gregari in processi penali contigui al rapporto tra affari e politica. Il resto sono cineserie. Non erano invece orpelli legulei le linee guida della riforma politica, avviata fra il 1991 e il 1993, che ha condotto all'impianto attuale del sistema democratico: si supponeva infatti che il meccanismo dell'alternanza avrebbe fatto circolare aria fresca nel sistema, liberandolo dalle incrostazioni clientelari e affaristiche. Democrazia bipolare e processi penali erano in sostanza due facce di una stessa operazione di ripulitura. Cioè del ripristino della legalità. A dispetto dei propagandisti dell'antigiustizialismo, l'unica ghigliottina era quella costituita dallo scatto impietoso del sistema maggioritario. Il fair play democratico doveva consistere nell'accettare sia la logica dell'alternanza sia la formula della competizione bipolare. Che ora si proponga di tornare all'antico, cioè all'impunità o all'impunibilità della classe politica, non ha solo un sentore di revanche: è anche, o sarebbe, la certificazione che la politica non è sovrana a sufficienza per autoriformarsi e per consolidare la riforma. In questo caso, le aspre battaglie politiche condotte nel 1994, nel 1996 e nel 2001 sarebbero da ricordare solo come subordinate della questione giudiziaria. Il loro contenuto di moralità politica, iscritto nella sfida del gioco bipolare a somma zero, sconfitta e vittoria, verrebbe annichilito nei fatti. Occorre quindi chiedersi perché mai dovrebbe convenire trasformare un'eccezione nella regola: vale a dire se l'"unicum" rappresentato dal politico Berlusconi, con il suo carico di procedimenti penali, debba essere trasferito su un piano generale come garanzia di impunità per l'intero ceto politico. Certo, il Cavaliere costituisce un "unicum", ma non solo per le sue implicazioni giudiziarie: anche per il conflitto d'interessi, per il suo retroterra economico e mediatico, e politicamente per la sua concezione populista della democrazia, secondo cui il voto legittima ogni posizione politica. Ragion per cui la "sanatoria Berlusconi", perché di questo si tratta sull'autorizzazione a procedere, sarebbe solo un palliativo, parziale per giunta. Poi occorrerebbe sanare il conflitto d'interessi, l'egemonia nei media, gli sgarri costituzionali (ultimo quello relativo a Renato Ruggiero, inedita figura di ministro "a tempo"). Per l'intanto però ci terremmo la ricostituzione di una casta di eccellenti intoccabili. Proprio mentre la logica del collegio uninominale, con relativa personalizzazione delle candidature, continua a prevedere un giudizio degli elettori sull'intera personalità degli eletti, non solo sulla loro affiliazione partitica. Sotto la luce delle sanatorie, allora, evviva la proporzionale, con un presidente eletto dal popolo e lavato d'ogni scoria dal bagno di schede, e un parlamento di eccellenze. Ma sia ben chiaro che questo è un altro gioco, che sa di restaurazione, e di immutabilità del potere.
L'Espresso, 07/02/2002
Due gambe e tanti sgambetti
Eppur si muore. Veleni in salsa ulivista, veti, fraintendimenti. Nella babele di tutti contro tutti, con la leadership di Rutelli in discussione, Michele Salvati, una delle anime riformiste dei Ds, non nasconde l'inquietudine: «Perché nel frattempo, inseguendo la logica di fazione, i leader della coalizione hanno perso di vista che un'alleanza deve proporre un programma di governo». Risse interne e ululati contro Berlusconi: questa è impotenza, altro che programma. «Se vogliamo sfidare Berlusconi senza ricorrere alla demonizzazione, l'unico modo è presentare all'elettorato un programma alternativo. Un attacco duro va bene, ma è efficace solo se si accompagna a un progetto coerente». Il programma per cui si batte lei è quello di un'area che nei Ds sta al 4 per cento. Ma il segretario è Fassino. «Guardiamo meglio: il blocco intorno a Fassino è un amalgama di "centristi", preoccupati essenzialmente della tenuta dei Ds. Nel merito della politica economico-sociale, più di metà sono con noi liberal. Ma, se viene sottoposta a una sfida esterna, la maggioranza Ds è tentata da un riflesso conservatore. Per esempio: Bersani è un riformista, ma è fedele alla sua storia di partito. Oggi, uomini come lui sono in bilico fra l'ansia di rilancio politico e il riflesso difensivo. Fassino stesso è il sigillo su questo dilemma». Vuol dire che la compattezza del blocco fassiniano è solo apparente? «Voglio dire che se venisse una forte spinta esterna verso il partito unico, e la sinistra Ds fosse violentemente contraria, anche la tenuta dei fassiniani entrerebbe in discussione». C'è anche la pressione "interna" di Cofferati e del sindacato. Nel documento presentato da voi liberal a Pesaro, c'era scritto che il sindacato ha perso la spinta propulsiva. «La reazione di Cofferati all'accusa di conservatorismo rivoltagli da D'Alema è in sé comprensibile. Ma va anche riconosciuto, come abbiamo detto nel documento congressuale, che i sindacati si muovono in ordine sparso, e ritrovano di solito l'unità sulle iniziative più conservatrici. Mentre ci sarebbe un vasto campo da coltivare, che consiste nell'organizzare i più deboli e i meno tutelati». D'Alema sarebbe d'accordo. Ma proprio lui sembra costituire uno dei problemi cruciali della sinistra. «D'Alema è un leader ingombrante. Perché ha prestigio, e la base glielo dimostra. Perché si è messo in collisione con pezzi importanti del partito: con Veltroni sull'Ulivo, con il "dottor Cofferati". Paga l'intervento nel Kosovo, che molti non gli perdonano. Paga la Bicamerale, cioè l'implicita legittimazione di Berlusconi». D'Alema è un fattore di conflitto anche con la Margherita. Ma qual è il ruolo di Rutelli? «Se ho capito bene, Rutelli accelera per trasformare la Margherita in partito. È una posizione con i pregi e i limiti del realismo». Che però ci riporta dritti al "competition is competition" di Prodi. «Anzi, con la minaccia di una competizione più aspra. Io guardo con terrore alle amministrative di fine maggio, perché si rischia di arrivarci in una situazione di concorrenza totale». Mentre da parte dei Ds si insiste con la prospettiva socialdemocratica. Non siamo all'incomunicabilità? «Se si voleva perseguire una prospettiva chiaramente liberalsocialista, quindi competitiva con il centro, occorreva andare fino in fondo e portare Giuliano Amato alla guida del nuovo partito di socialismo europeo. Oggi invece sembra che fare la coalizione a due gambe distinte sia l'unica via. Ma c'è una conseguenza di grandissimo rilievo, che rimane sottaciuta: in una coalizione così fatta il leader non sarà mai un Ds. Non abbiamo le credenziali, o non ci verranno riconosciute, il che è lo stesso». Ma l'Ulivo a due gambe è competitivo? «No. Dipende anche dall'unità effettiva dentro la Margherita, che è un cartello con elementi di artificialità ancora maggiori dei nostri». Anche il centro-destra è artificiale. «Con la differenza che là c'è il padrone, Berlusconi, mentre da noi non c'è». E quindi, in queste condizioni? «Si perde. Vengono allo scoperto non solo le contraddizioni sull'asse destra/sinistra, ma anche quelle fra laici e cattolici. Nessuno abbandonerà le proprie pregiudiziali, e i vari settori dell'alleanza si preoccuperanno principalmente di curare il parco elettorale». La balcanizzazione, o la mastellizzazione. Non sarà che dentro la Margherita c'è ancora spirito di vendetta? La voglia di fare scoppiare la crisi finale dei Ds? «Oggi forzare in questo senso significherebbe autodanneggiarsi. Anche l'autolesionismo deve avere un limite». Come se ne esce? «Nell'immediato, con una reggenza che provi a consolidare l'alleanza come federazione. Poi con un comitato di programma esteso a tutti, che marchi stretto il governo Berlusconi sui problemi, senza lasciare spazio a iniziative estemporanee e individuali. Se poi Arturo Parisi elaborasse in modo costruttivo quello che lei ha definito spirito di vendetta, darebbe fiato a tutti coloro che, anche nei Ds, continuano a sperare, malgrado tutto, nell'Ulivo come partito unico».