L’Espresso
L'Espresso, 21/11/2002
Corto circuito globale
I no global contro la guerra: già, ma quale guerra? In poco più di 100 pagine Carlo Galli ha proposto una delle interpretazioni più incisive dopo l'11 settembre. Un exploit intitolato "La guerra globale" (Laterza) che si apre con una visione dell'impero romano assediato dai barbari. Un'allegoria dell'America nel mondo contemporaneo? Solo in parte: nella dimensione geopolitica attuale non c'è un dentro e un fuori dall'Impero. Ogni punto dello spazio globale fa corto circuito col mondo intero. La perdita dei confini porta al tramonto degli Stati e al depotenziamento dei sistemi liberali o socialisti. La guerra asimmetrica, senza fronti, non usa «armi di nuova concezione» quanto «nuovi concetti di armi». Per questo il ripristino dell'ordine è un'illusione. La globalizzazione è la guerra, con il disordine come una tragica normalità. Poiché il nemico è una nebulosa e il guerrigliero nichilista si confonde col partigiano, «il compito di una generazione» consiste nel strappare spazi di libertà alla contemplazione inerte del caos. Che ci si riesca con la politica classica è escluso. E una politica "new global" per reagire all'asimmetria permanente è ancora da pensare.
L'Espresso, 28/11/2002
Ue che frenata
Germania motore immobile, locomotiva sul binario morto. Il cuore dell'Europa paralizzato dalla combinazione di bassa crescita, alta disoccupazione, deficit in ascesa. Con l'intera Unione europea che risente della linea piatta del Pil tedesco. Che cosa sta succedendo nella patria del modello renano, e che cosa accadrà alla ripresa europea? Nella sua casa di Bologna, Romano Prodi cerca le parole, un concetto da comunicare. Proprio in coincidenza con la conclusione del Social Forum di Firenze ha dichiarato che il "pensiero unico" è tramontato, e che in Europa c'è un clima intellettuale nuovo. Eppure qualcuno sta parlando di "trappola della liquidità", come in Giappone, e i tempi della ripresa sono imprevedibili. «Che l'Europa abbia un tasso di crescita inferiore agli Stati Uniti è un dato di fatto, ma bisogna sforzarsi di riflettere su orizzonti più ampi». Vale a dire che verosimilmente non c'è una ricetta immediata per ridare competitività e impulso alle economie europee. Il formulario delle riforme è una strumentazione troppo meccanica per essere convincente. E il presidente della Commissione europea lo rileva con nettezza: «Le riforme del mercato del lavoro, e anche dei mercati finanziari, così come su un altro piano gli interventi nel sistema dei trasporti sono una condizione necessaria, assolutamente necessaria, ma non sufficiente per una ripresa economica di lungo periodo». Sia per la Germania sia per l'Europa nel suo complesso «occorre interpretare a fondo il momento storico attuale», cogliendone le particolarità. Secondo Prodi, le riforme vanno realizzate o completate perché sono rese ineludibili dal cambiamento della struttura della popolazione. L'invecchiamento e lo stallo demografico impongono un ripensamento del welfare state: «Ma il problema di fondo, prendendo la Germania come esempio europeo, è che occorre ridare dinamismo a una società rinsecchita, chiusa, ripiegata su se stessa». Quindi non c'è soltanto l'urgenza delle riforme economiche: «Il problema è l'adattamento alla realtà nuova, e l'adattamento non investe solo alcuni aspetti specifici ma tutto l'insieme. Ciò significa che occorre trovare la capacità di rimobilitare le risorse di tutto il sistema Germania e del sistema Europa». Sembra di risentire il Prodi professore che seduceva le platee con la sua intensità di visione, con riflessioni tutte rivolte al futuro, fuori dalle contingenze politiche. Sostiene infatti che il punto cruciale consiste nel ritrovare una frontiera, e soprattutto innescare una nuova «fermentazione» della società, attraverso la quale si mettano nuovamente in circolo energie nel corpo europeo. Proviamo ad approfondire. «Da noi, in una società chiusa, la società non fermenta, non è percorsa da innovazioni significative. Uno degli indizi più esemplari di questa bonaccia senza prospettive è che l'Europa non attrae cervelli dal resto del mondo. Non c'è immigrazione qualificata. L'immigrazione qualitativamente migliore si rivolge agli Stati Uniti. Si guarda con sospetto, ad esempio, agli immigrati di cultura islamica, ma non c'è invece la consapevolezza del fatto che, anche nel caso dell'immigrazione islamica, la migliore va negli Usa, e aiuta la crescita del sistema americano». Ciò significa che in Europa manca una politica dell'immigrazione, e che anzi talvolta si fraintende il ruolo possibile degli immigrati: trattandoli come manodopera di basso livello, vincolandone la presenza a un lavoro che quasi sempre è un lavoro sottoqualificato, si perde di vista l'apporto che essi possono dare allo sviluppo. Ma è difficile pensare che il problema del deficit di sviluppo europeo possa essere risolto con il ricorso all'immigrazione. No, dice Prodi, ma è uno degli elementi potenziali per fare ripartire la società europea: «Come l'allargamento. Di cui sono state comprese le ragioni storiche e politiche, ma che non sempre viene considerato nelle sue potenzialità empiriche. L'allargamento è una fonte di sviluppo possibile. In ogni caso l'occasione per una grande azione collettiva che restituisca consistenza e peso alla presenza europea nel mondo, e che anzi trasformi il nuovo dinamismo europeo nella chance per la leadership mondiale». Tuttavia, insiste Prodi, sull'argomento dell'immigrazione occorre una riflessione molto più approfondita: a cominciare dal fatto che mentre avremmo bisogno di cervelli, di agenti dell'innovazione, di fatto poi prendiamo soprattutto le badanti e i lavoratori di bassa qualificazione: un simbolo della difesa, da parte nostra, della ricchezza esistente. In questo modo si risolve un problema sociale, ma è l'opposto di ciò che serve per rimobilitare la società: «Non solo non riusciamo ad attrarre i nuovi cervelli, ma lasciamo soprattutto andare via i nostri. È un dramma italiano ma riguarda in buona misura anche gli altri paesi europei: ed è l'indicatore più visibile di un fenomeno impressionante, cioè la caduta dei livelli di ricerca, anche nel settore privato». Sembrerebbe in sostanza che in Europa non esista solo una questione economica, ma che invece ci troviamo di fronte una questione sociale. Ma Prodi specifica: «Anche se le disparità sono fortemente aumentate nel quindicennio del "pensiero unico", c'è soprattutto un problema di slancio, di dinamismo vitale. La questione sociale esiste infatti in misura maggiore in America, dove si è estremizzata: pensiamo alla disuguaglianza retributiva fra lavoratori e manager, che è addirittura esplosa. In realtà il sistema americano sta covando problemi enormi, proprio perché la sua società contiene troppi elementi disgregatori». L'idea di Prodi, quando parla della chance europea di leadership mondiale, è che le potenzialità europee sono più forti di quelle americane perché la società europea (almeno fino ad ora) non contiene gli stessi effetti disgregatori: il capitale sociale si può trasformare in capitale economico, senza gli attriti provocati da fenomeni diffusi di esclusione. «Quando si parla della crescita americana, occorre pensare che il suo tasso è stato sempre influenzato dalla crescita della popolazione, intorno all'1 per cento l'anno. Depurato da questo aspetto, l'aumento del reddito pro capite, non è molto dissimile da quello europeo. Forse in Germania la situazione appare più complicata perché oggi si è assistito a una caduta degli investimenti». È un serpente che si morde la coda. Una trappola, appunto. L'economia va male perché l'economia va male. La gente non spende perché è incerta nelle aspettative. I consumi non ripartono perché la gente non spende. Sembra una combinazione micidiale, un circuito perverso che non si riesce a spezzare. «E allora», dice Prodi, «converrebbe tentare di fare un passo avanti». Cioè ragionare in modo ambizioso. «Si può continuare a crescere secondo i parametri tradizionali, con le opere pubbliche a fare da volano? Oppure è meglio ripensare alla struttura dei consumi, al rapporto fra pubblico e privato, alla qualità dello sviluppo, vale a dire a tutte le implicazioni sull'ambiente e su alcune sfere di comportamento che fuoriescono dagli schemi classici dell'economia?». Ma per rivolgersi al futuro occorre un'economia sicura, e finora l'America ha dimostrato una forza maggiore. Secondo Prodi le sue istituzioni economiche sono state più forti: il sistema ha retto allo shock dei casi Enron e WorldCom, superando la situazione che ha fatto saltare la bolla, l'euforia irrazionale di Wall Street, cioè la combinazione di valori di Borsa in crescita perenne, processi individualistici di aspettativa di arricchimento, e alone mediatico sulla ricchezza così ottenibile. Se il sistema regge a un disastro come quello delle società di revisione implicate nei grandi fallimenti, come per il caso Arthur Andersen, se si è evitata la catastrofe dopo che «i titolari del giudizio etico, quelli che davano le pagelle», avevano fatto bancarotta morale, vuol dire che gli Stati Uniti conservano gran parte della loro forza, dei loro spiriti animali e della fiducia che fa da mastice, anche perché il loro sistema politico è stato in grado di produrre utili innovazioni legislative nello spazio di pochi mesi. «Ma se vogliamo restare all'industria manifatturiera», sostiene Prodi, «e considerare l'attuale posizione dell'economia europea, sono convinto che la domanda principale sia come ci posizioniamo rispetto all'Asia. La crescita del "capitalismo di comando" cinese è un fenomeno che non mancherà di investire i nostri sistemi, e che modifica tutto l'orizzonte della globalizzazione. Io credo che si possano facilmente spiegare a tutti i rapporti di forza fra Asia ed Europa con la semplice constatazione che il trasporto di un container da Singapore a Genova costa più del doppio di un analogo container che va da Genova a Singapore. Questo perché la merce che viene da noi è molta di più di quella che va verso l'Oriente». Un pessimista direbbe che non ci sono speranze per il vecchio mondo, e che le economie nuove schianteranno quel piccolo promontorio dell'Asia che è l'Europa. «Al contrario», ribatte Prodi: «Bisogna pensare a tutte le opportunità che si creano. Per esempio, il nostro Mezzogiorno potrebbe diventare uno straordinario tramite con l'Asia: anzi, avrebbe possibilità enormi come trasformatore finale delle produzioni asiatiche, che arrivano nel Mediterraneo attraverso Suez». Insomma, bisogna rendersi conto che stiamo attraversando non tanto una fase di assestamento, ma un passaggio d'epoca. Nelle grandi trasformazioni, tutti gli elementi della realtà vengono mobilitati dai vettori del cambiamento: «Per questo sottolineo in modo esasperato la necessità di innalzare il livello della ricerca: perché altrimenti l'Asia è irresistibile. Non è possibile iniettare sviluppo, per dire, in Germania e poi sperare che la crescita riparta in tutta Europa. Non esiste la ripresa in un solo paese. L'Europa è in ritardo: è stata capace di inserirsi nel mercato automobilistico americano, cioè su una tecnologia matura, ma nel frattempo l'America ci ha mangiato la farmaceutica e la chimica, il complesso delle scienze della vita. E oggi il fenomeno nuovo è la velocità di assorbimento tecnologico e scientifico da parte dell'Asia, a cominciare dalla Cina. È bene capirlo alla svelta».
L'Espresso, 28/11/2002
S’avanza il cattolico da combattimento
Di nuovo, nel panorama culturale italiano, non ci sono solo i "new" global. C'è anche una figura particolare di cattolico, il quale è "new" nel senso che in precedenza non ha mai avuto un rilievo particolare sulla scena pubblica. Nella nostra storia politica, la figura culturalmente prevalente del cattolico è stata identificata quasi sempre nell'esponente della sinistra: vuoi nella variante del democristiano progressista, il "cattolico democratico" o il dossettiano, vuoi nell'espressione del cattolico del dissenso, vicino al Pci, spesso inquadrato nella pattuglia degli indipendenti di sinistra. Negli ultimi anni invece, dopo il tramonto della Democrazia cristiana e il rattrappimento del Partito popolare, è emersa una figura inattesa: cioè il portatore di una specie di orgoglio cattolico, rivendicato come un'identità che si nega alle mediazioni. Un cattolico esplicitamente di destra, o almeno connotato da una fortissima opposizione alla sinistra. L'anticomunismo democristiano, che in precedenza si era sviluppato soprattutto in chiave di concorrenza al Pci sul piano sociale, è divenuto progressivamente uno stigma in sé. Chi ha assistito almeno a qualche passaggio del programma di Antonio Socci, "Excalibur", è rimasto colpito dall'intenzione esplicitamente revanscista di certe concatenazioni di pensiero. Il clima della trasmissione è stato intonato dall'illustrazione di aspetti fideistici, quando non miracolistici, come nell'ormai celebre introduzione sulla madonna di Medjugorie; nella seconda puntata è apparsa formidabile la conclusione dettata da Socci, che praticamente ha chiesto agli ospiti in studio, da Giuliano Ferrara a Pietrangelo Buttafuoco e ad Antonio Polito, quale fosse il loro rapporto con la fede. Vale a dire se credevano in Dio. Il cortocircuito fra trash televisivo e fede individuale è una novità assoluta, almeno al livello del talk show politico. Ma questo aspetto che tenta di spettacolarizzare la dimensione più intima della relazione fra immanente e trascendente è forse secondario rispetto alla rivendicazione continua del cattolicesimo come metro di giudizio mondano. La combinazione di pensiero di destra e di cattolicesimo conservatore, se non autenticamente reazionario, conduce infatti all'individuazione della connection fra ideologie anticristiane (in primis naturalmente il comunismo) con il pacifismo no global. Ora, che possa esistere un legame fra il massacratore comunista Pol Pot e il pacifismo dei movimenti antiglobali è una tesi sostenibile solo a un patto: cioè che il mondo contemporaneo sia in piena guerra civile globale, e che il cristianesimo si trovi sulla linea del fronte, attaccato da nemici determinatissimi a imporre la propria identità. È vero che i cristiani sono attaccati e combattuti, spesso uccisi, dalle frange radicali di alcuni movimenti islamici. Ed è altrettanto vero che non si può essere pacifisti a senso unico. Ma ciò che risulta perlomeno singolare, hic et nunc, in Italia, è l'uso pubblico del cattolicesimo come ideologia di revanche. Con il risultato eccentrico che i sostenitori di una fede simil- vandeana, nel nome dell'anticomunismo, risultano tra i fautori più convinti dell'esperienza politica di Silvio Berlusconi. Sotto questa luce il capolavoro sincretistico di mettere insieme la fede cattolica con il sostegno al grande scristianizzatore è uno dei più audaci tentativi culturali praticati nell'ultimo decennio. Si capisce che una personalità con l'intelligenza capziosa di Gianni Baget Bozzo possa vedere in Forza Italia la reincarnazione del "partito cristiano al potere", e in Berlusconi il continuatore di De Gasperi. Ciò che si capisce meno è dove sia invece l'attualità di una posizione cattolica che agisce brandendo la spada contro gli infedeli: a meno che non si percepisca l'Italia come un paese ancora attraversato dalle lacerazioni di una guerra di civiltà, e che le sinistre anticristiane o secolarizzate costituiscano davvero una minaccia contro la cristianità. Nel qual caso, è giusto estrarre la spada dalla roccia: quanto al Graal, niente paura; è in offerta speciale nel primo supermarket raggiungibile.
L'Espresso, 17/12/2002
Il Cavaliere bossizzato
Durante le cene ad Arcore, Silvio Berlusconi si è accorto che Umberto Bossi non è semplicemente un alleato da tenere alla briglia. Dicono gli intimi che il premier nutra perfino un'ammirazione per le trovate politicanti del Senatur, per le sue affabulazioni, per le sue dietrologie. Proprio il tipo da "seconda media, ultimi banchi" che è il target di Berlusconi. Lentamente, agli occhi del leader di Forza Italia la figura di Bossi è cambiata. Prima era il ribaltonista, poi si è trasformato nell'arma per la rivincita elettorale. Infine è bastata una luce flou nel salotto, le chiacchiere davanti alla pietanzina, e Berlusconi ha capito che l'uomo della Lega non è più un socio insidioso, innocuo solo perché temporaneamente incapsulato in un patto di ferro. Il Cavaliere legge le psicologie e i caratteri, si fida del suo fiuto e ragiona secondo il criterio alternativo "è uno di noi, non è uno di noi". Come dimostra il sondaggio che pubblichiamo in queste pagine, sulla devolution la pensa esattamente come la maggioranza degli italiani: una partita di scambio con il suo alleato. Allorché Bossi ha preteso il varo della riforma, cioè il prezzo politico su cui era stata contrattata l'alleanza, i suoi consiglieri più vicini lo hanno invitato a minimizzare. Che saranno mai quelle 11 righe del comma aggiunto all'articolo 117 della Costituzione?, gli ha sussurrato Giuliano Ferrara. Invece Berlusconi non aveva nessuna voglia di abbassare il tono: anzi, ha approfittato del fragore sulla devolution per gettare allegramente il petardo della super-riforma presidenzialista e proporzionalista nel congresso dell'Udc. Il fatto è che gli uomini raccolti intorno a Marco Follini e a Pier Ferdinando Casini costituiscono una pattuglia minuscola quanto a numeri elettorali, ma rappresentano un disturbo politico e culturale. È vero che una farfalla non può sfidare un elefante, ma i centristi se ne stanno lì a testimoniare che gli unici eredi della tradizione sturziana e degasperiana sono loro, non l'esercito secolarizzato e déraciné degli uomini di Forza Italia. È inutile quindi che nei momenti di tensione politica i suggeritori di Berlusconi gli mormorino che la Lega è un'entità residuale, e che in base gli ultimi dati sarebbe decisiva solo in sette collegi del Nord. Va da sé che il Cavaliere pensa che nel lungo periodo Forza Italia è destinata a erodere ulteriormente gran parte del voto leghista; e non lo inquieta certo un partito reduce dallo smacco delle elezioni del 2001, quando mancò la soglia di sbarramento nel proporzionale, nonché privo di risorse comunicative efficaci (anche nella struttura delle reti e dell'informazione Rai, la neo-lottizzazione ha neutralizzato il peso degli uomini della Lega ponendo in postazione simmetrica altrettanti esponenti di Alleanza Nazionale). Ma in attesa che il pesce grosso mangi il pesciolino, Berlusconi vede la Lega come un partito cugino dal punto di vista della composizione sociale; e considera Bossi come un alter ego popolano, incapace di distinguere fra le complicazioni della posateria, ma singolarmente in sintonia con la sua visione politica. Questione d'istinto: entrambi infatti, Berlusconi e Bossi, sono i battistrada di un processo politico che Giuseppe De Rita nel suo ultimo saggio ("Il regno inerme", Einaudi) ha definito "de-istituzionalizzazione". Ciò significa che, in quanto lombardi, pragmatici fino alla spregiudicatezza più estemporanea, rodomonteschi quel tanto che occorre per fare la faccia cattiva agli avversari esterni e interni, e soprattutto largamente indifferenti alle convenzioni istituzionali e protocollari, Bossi e Berlusconi condividono in primo luogo un'idea semplificatoria della politica: esiste il leader, ed esiste il popolo che ne legittima il carisma. Nessuna articolazione intermedia fra il capo e la moltitudine atomizzata che assicura il consenso. L'Umberto mobilita i suoi con le ricostruzioni fantapolitiche sbraitate a Pontida; il Cavaliere riassume nelle sue ricorrenti boutade i sentimenti popolari come il rancore per la grande impresa in crisi, oppure il lassismo benevolo e "pratico" per i lavoretti in nero e i giochi di prestigio con le fatture e l'Iva. Non si può certo dire che Umberto Bossi si sia berlusconizzato: piuttosto è Berlusconi a essersi "bossizzato", grazie anche ai buoni uffici di Tremonti e ai suoi exploit filosofici. Tuttavia il risultato non cambia: una parte di Colbert, due parti di deregulation brevi manu, un annuncio di New Deal, una trovata sui conti pubblici, un federalismo o la va o la spacca. C'è un nuovo partito, forzista e leghista insieme, sguaiato e manageriale: e tutti gli altri, da Fini a Follini, sono avvisati.
L'Espresso, 26/12/2002
Libri di testo questione di testa
La questione dei libri di storia "faziosi" è un argomento che all'interno del centrodestra solleva una grande eccitazione. Al punto che viene istintivo considerarla la spia di un atteggiamento più generale: per quale motivo, infatti, dentro la Casa delle libertà qualcuno insorge periodicamente indignandosi per l'impronta di sinistra che certi manuali scolastici manterrebbero, nonostante tutte le "revisioni" dettate dal dibattito storiografico e soprattutto dal mutamento di clima politico-culturale dovuto al successo della linea anticomunista? Il fatto è che il centrodestra ha molte risorse politiche e di potere, ma non possiede una dotazione culturale coerente. Nella Cdl i portatori ufficiali della cultura liberale (i Pera, gli Urbani, i Del Debbio) sono una minoranza schiacciata dal liberalismo fondamentalista di tutti quegli altri che considerano la visione liberale semplicemente come un espediente utile per prendere a bacchettate il centralismo-dirigismo-socialismo-comunismo della sinistra. L'uso strumentale della cultura risulta efficace per mascherare eventuali deficit. Come si è visto in passato, richiesto di quali sarebbero gli intellettuali esclusi dal giro, un uomo come Maurizio Gasparri non ha avuto esitazioni, dopo qualche considerazione sugli uomini non allineati, a fare il nome di Mogol. Per ora in effetti lo sforzo più intenso esercitato dai settori più robusti e animosi della destra è consistito nell'occupare con estrema determinazione le postazioni considerate strategiche, e la Rai ovviamente rappresenta il cuore della possibile egemonia politico-culturale del paese. A patto di sapere a che cosa serve l'eventuale egemonia. Uno storico prestigioso, e culturalmente spregiudicato, come Massimo L. Salvadori ha dichiarato che la destra si prefigge «una guerra civile culturale», a dispetto dei distinguo delle componenti centriste. È un giudizio catastrofico, che tuttavia coglie un aspetto cruciale. Perché in questo momento il centrodestra non sembra interessato a presentare un proprio modello culturale, quanto ad attaccare ogni posizione che a suo avviso sia colpevole di complicità con filosofie di sinistra. Pur avendo vinto le elezioni, e godendo di un governo garantito da un'amplissima maggioranza parlamentare, larghi settori della Casa delle libertà si comportano in campo culturale come se si trovassero ancora all'opposizione, e avvertissero la necessità di smantellare i capisaldi del predominio della sinistra. Se ciò avvenisse attraverso la proposta di riferimenti intellettuali, non ci sarebbe niente di male. Sarebbe anzi interessante se i vari spezzoni del centrodestra trovassero una piattaforma comune, riuscendo a fondere le loro contraddittorie ispirazioni in un modello comune. Ma per ora si assiste soltanto alle dichiarazioni di una cultura dell'ostilità, accomunata più che altro dal desiderio di denunciare i vizi ideologici, veri o presunti, della cultura di sinistra. Proprio questo atteggiamento è un segnale rivelatore del fatto che la Casa delle libertà avrà forse ricomposto un blocco sociale, ma non è riuscita a fissare un blocco culturale, cioè le coordinate di un pensiero politico condiviso. È il vero segno della debolezza intrinseca al centrodestra: una fragilità che viene supplita dal piglio polemico di cattolici conservatori come Antonio Socci, o dal riemergere provocatorio di minoranze intellettuali di destra estrema, ma che non sa esprimersi come messaggio corale, proponibile nel suo insieme alla società italiana. È un fatto che gli intellettuali berlusconiani più esposti, da Giuliano Ferrara a Ferdinando Adornato, costituiscono una pattuglia in prestito alla destra. Sono nati altrove, e hanno trovato una chance anche grazie allo scarso affollamento. Vari esponenti del "partito dei professori" arruolato a suo tempo da Forza Italia, da Giorgio Rebuffa a Saverio Vertone, hanno preso il mare per altre spiagge. Forse, anziché di iniziative shocking, la destra avrebbe bisogno di un laboratorio culturale, per uscire dalla polemica stridula e cominciare a pensare in primo luogo a se stessa.
L'Espresso, 04/01/2001
Una vita da Indro
Per lui, nato il 22 aprile 1909, l'oroscopo dice: «Spirito polemico, battuta mordace, successo conquistato con la parola e gli scritti, vivacità intellettuale fino a tarda età» ("Sirio", maggio 1994). Come tutti gli oroscopi tardivi, realizzati a fatti compiuti, è perfetto. Il giovane scrittore toscano che aveva compiuto i suoi esordi sull'"Universale" del fascista rivoluzionario Berto Ricci, ha travalicato gloriosamente secolo e millennio. Ed oggi vive circondato dalla stima amorosa di migliaia di lettori. 1) Con in genitori a Fucecchio nel 1915. Il tepore della sua famiglia piccolo borghese, ma soprattutto l'educazione antropologica di Indro in Toscana: "Nel resto d'Italia si fanno gli scherzi, da noi le burle". Senza lo strapaese della Valdarno inferiore e di Firenze, si capirebbe poco del milanese Montanelli. Sicuramente non si comprenderebbero gli scambi di lepidezze con Giovanni Spadolini e qualche elettrico duello polemico in punta di lingua con Giovanni Sartori. 2) Militare in Abissinia nel 1936. Lui lo dice: nel fascismo ci ha creduto. «È colpa nostra se, spiritualmente equipaggiati per costituire squadre d'assalto, il destino ci ha poi soltanto riservato il ruolo di guardie svizzere dell'ordine costituito?» ("L'Universale", 1933). E dopo che Mussolini, chiudendo la rivista, aveva "décapité l'aile gauche du fascisme" (Nenni), è andato in Ao, per seguire la stella dell'Impero. Notevole disfida, mezzo secolo dopo, con Angelo Del Boca sull'uso dei gas: «Io non li ho visti». 3) Inviato nel 1940. Freelance nella guerra di Spagna. Inviato dal "Corriere" nei Balcani, in Finlandia, in Norvegia. Corrispondente di guerra dappertutto. Anticonformista com'è, provoca immancabilmente casini. Gli articoli dalla Spagna sollevano un putiferio: espulso dall'ordine, esiliato. Nasce il Montanelli antiregime, una specie di spadaccino del giornalismo d'azione, costantemente sui luoghi. Grande divertimento e terribili paure. 4) Di ritorno da Budapest (con Matteo Matteotti, Ilario Fiore, Matteo De Monte e Luigi Saporito). Se il Cinquantasei è rimasto impresso nella coscienza pubblica lo si deve anche a lui, e ai suoi reportage dall'Ungheria insorta contro il comunismo. Livido e magnifico teatro, la Budapest della repressione rossa, per l'inviato di punta Montanelli. Una scena davvero da giudizio di Dio, con gli insorti che combattono a viso aperto, senza camuffarsi e sapendo che cosa li attendeva a munizioni finite. Ma senza compiere nessun tentativo di dissimulazione. L'epica giornalistica della libertà. 5) "I sogni muoiono all'alba". Era un talento che non rifiutava nessuna esperienza, dalla pamphlettistica alla storia, dalla prova "di genere" alla fiction storiografica. Con Longanesi aveva fatto il "nègre" d'eccezione interpretando Quinto Navarra, usciere del Duce ("Memorie del cameriere di Mussolini"). Anche la regia poteva essere un approdo. "I sogni muoiono all'alba" (1961) con Lea Massari e Aroldo Tieri, era tratto da una pièce teatrale sul dramma d'Ungheria. 6) Fondazione del "Giornale nuovo" nel 1974. Fortebraccio lo irrideva come "Il Geniale". Passerà alla storia come l'organo della borghesia italiana spaventata dai comunisti e da Piero Ottone. E nobilitata dal turarsi il naso montanelliano, nel 1976, per continuare a votare Dc. Ma a guardarci dentro meglio, con quelle collaborazioni di prestigio, da De Felice a Feitö, poteva già essere un foglio liberale (forse, a rileggerlo oggi potrebbe darci la sorpresa di essere meno animoso dei suoi tardi epigoni attuali). 7) Ferito dalle Br nel 1977. Quasi lo storpiano, identificandolo come il cerimoniere della repressione, delle maggioranze silenziose, del moderatume, del regime. Lui ha la fortuna di non tirare fuori la pistola. E quindi i gambizzatori lo trasformano suo malgrado in un eroe, benché la Milano superdemocratica snobbi anche le pistolettate delle Brigate Rosse e lo consideri a maggior ragione un vecchio reazionario, che se incappa in qualche pallottola, chissà, ci si può anche brindare sopra. 8) Di nuovo al "Corriere", dopo la chiusura di un altro giornale da lui fondato, "La Voce". Il gusto dell'Avvocato gli offriva "La Stampa", il genio di Paolo Mieli gli cedeva il "Corriere".Torna nelle stanze da cui era uscito nel 1974. Come se niente fosse ricomincia a dispensare editoriali. Fra una laurea honoris causa e una polemica sull'eutanasia, cerca di dimenticare che il suo vecchio amico-nemico Berlusconi vincerà, e concede ancora qualche riconoscimento alla Sinistra. 9) Con Colette Rosselli. Uno se lo immagina eternamente single, cinico sulle donne ancor più che sugli uomini. Invece, dopo il primo matrimonio, eccolo al fianco di una "magistra elegantiarum", conosciuta sotto l'eteronimo di Donna Letizia, l'unica vera dispensatrice di bon ton dopo Irene Brin. Sono in meno a sapere che Colette, dama raffinatissima mancata nel 1996, è una brava pittrice e una scrittrice sofisticata.
L'Espresso, 11/01/2001
La vita è il mio talk-show
In principio i due mondi erano proprio distinti: di qua la vita, di là la televisione. Ma alla lunga la separazione è saltata e i confini sono diventati permeabili. La realtà televisiva ha cominciato a inglobare la realtà. C'erano state avvisaglie, come il film manifesto di Peter Weir "The Truman Show", ma si trattava di una storia in cui la finzione coinvolgeva il protagonista ignaro, mentre tutti intorno a lui collaboravano per rendere credibile il mondo artificiale gestito dal deus ex machina mediatico Christof. Adesso i ruoli sono diventati fluidi. Non c'è più nessun innocente al centro dello script: siamo tutti potenzialmente dentro uno schema. È questa la tesi sostenuta da Paolo Taggi, docente alla Cattolica, autore e regista tv, che ha appena pubblicato il saggio "Vite da format. La tv nell'era del Grande Fratello" (Editori Riuniti). Non esiste più l'universo classico. Esiste la "realiticità", un cosmo ibrido tuttora in espansione, in cui il Big Brother equivale al Big Bang, in cui si può essere contemporaneamente spettatori, giudici e protagonisti. Ma non si tratta neppure di un mondo simulato. È un pianeta retto da una «sceneggiatura invisibile», da scoprire nel momento in cui la si interpreta. I suoi protagonisti possono essere gli eroi del "Grande Fratello", che poi tornano nella vita reale, per essere presi d'assalto dai fan (come è accaduto a Marina La Rosa al Motorshow di Bologna) e rientrare nel format televisivo del Maurizio Costanzo Show o di "Buona domenica". Dice Taggi: «La realiticità è per noi l'idea che la televisione si è fatta di una realtà che lei stessa ha creato, oltre lo schermo». Una tv al cubo? «Un PostContinente possibile». Forse un "orbis tertius" borgesiano, tutto reale e tutto artefatto. Altri capisaldi di questo mondo triplo? Di sicuro, scommette Taggi, "Bar": «Un programma svedese che secondo me supera lo stesso "Grande Fratello"»: i giovani protagonisti devono gestire un vero multilocale nel centro di Stoccolma. «C'è il bar, il ristorante, lo spazio dance. I ragazzi abitano al piano di sopra. La vita pubblica del bar viene filmata a colori, con camere nascoste o dichiarate: ma chiunque entri sa che si tratta del bar ripreso in tv. La vita "di retroscena" viene invece raccontata con camere nascoste, anche se dichiarate; alcune, a raggi infrarossi filmano nel buio della notte». Tutto questo in attesa dei naufraghi di "Survivor", della nuova edizione del Gf, e di tutti i loro cloni possibili. Ma nel frattempo si è assistito a continue pratiche parziali della "realiticità". Da "Furore", un karaoke in cui si trasmette «l'insostenibile leggerezza di essere lì», a "Quelli che il calcio", dove Fabio Fazio ha sostituito lo spettacolo calcistico facendo vedere mamme, zie, fidanzate, e praticando con successo "il dosaggio dello stupore". Senza parlare di produzioni come "Chi l'ha visto?", «un film vero che non finisce mai», oppure l'amore da sognare o da rivivere di "Per tutta la vita". Non è più la televisione che si appropria della vita; è la vita che si adatta alla tv. La storia si è disintegrata, rimane solo il programma. E il programma, dice Taggi, siamo noi: se siamo dentro un talk show, meglio saperlo.
L'Espresso, 18/01/2001
Premiata ditta Francesco&Nanni
Muta, la sinistra attende l'ultima buona novella del suo san Francesco. Parlerà? Dirà qualcosa? Perché per De Gregori vale ciò che vale per Nanni Moretti: e cioè l'essere rimasti gli ultimi due fornitori di significati politici, non si dice di "programmi" ma comunque di semantiche riconoscibili in un orizzonte politicamente azzerato dal messaggio dei Lùnapop. Una volta che il paradigma è diventato «non c'è niente da capire», l'uno e l'altro, Nanni e Francesco, hanno provato a tradurre la politica lungo itinerari psicologici: più facile per Moretti, perché almeno poteva uscirsene dalle tortuosità dell'Ego e dalla sensiblerie progressista, e ripresentarsi poi nell'arena pubblica, prendere per i baffi il capoccia di turno e maltrattarlo. «Di' qualcosa di sinistra, D'Alema». Questo era già l'embrione di un manifesto politico: nel senso, letterale, di cantargliele chiare. Alla testa del movimento ci si poteva immaginare, con Moretti e De Gregori, certamente Michele Serra, forse Alessandro Baricco, e magari anche Fabio Fazio. Sinistra elegante quanto déracinée, più capace di sollevare audience che di mettere in moto le masse (ehm, l'elettorato). Solo che De Gregori nel frattempo, altro che chiare, gliele cantava ermetiche. L'ex collaboratore dell'"Unità" quando c'era "l'Unità", poi premiato produttore di olio biologico, ora sembra deviare le aspettative fin dall'annuncio del titolo: "Amore nel pomeriggio". Probabile intimismo? Si sa che c'entra anche Battiato, e se c'è Battiato siamo in area sufi, non Ds. Già l'ultimo disco, "Prendere e lasciare", aveva lasciato un fondo di perplessità, con quella commistione di un Agnus Dei da raccordo anulare e di melodie tipo la Montanara uhè. Fino a depositare il dubbio che alla crisi, al silenzio, all'ammutolimento, abbiano collaborato anche il morettismo, con tutte le fuoruscite e i rientri nell'interiorità, e il parallelo canto degregoriano che potrebbe anticipare tanto dignitosamente l'ineluttabile sconfitta che verrà. Macché su compagni: il clima è da buonanotte fiorellino.
L'Espresso, 18/01/2001
Io, il pompiere Chicco
Si potrebbe cominciare così: «Chicco Testa, quanto ha contato la politica nella sua nomina all'Enel?». Ma lui schiva il colpo, come avrebbe fatto il suo bisnonno garibaldino, fa qualcosa a metà fra un tic e un sogghigno e ribatte: «Vuol dire se mi sento un lottizzato?». Benissimo, carte scoperte. Quarantotto anni, bergamasco puro «senza nessun parente sotto il Serio», famiglia cattolica piccolo borghese, scuole dai salesiani che lo sbattono fuori all'ultimo anno del liceo perché sessantotteggiava. Poi, laurea in filosofia alla Statale di Milano (tesi su Marx e la teoria della produzione, relatore il giovane Salvatore Veca, allievo di Enzo Paci). Un po' di Movimento studentesco, nel '72 l'iscrizione al Pci: lavoro politico nella sezione Carlo Marx di Porta Romana, dove c'era anche Giò Pomodoro, e nel giro Eva Cantarella, Guido Martinotti, il piacentinista Michele Salvati, la movimentista Bianca Beccalli. Quindi l'Arci, Legambiente, la politica nel Pci. Mettiamola così: che cosa c'entra uno con questo curriculum con un colosso industriale come l'Enel? «Alle spalle della mia carriera c'è una storia, che ha il suo centro nella Legambiente. È vero che ho sempre fatto quattro cose alla volta, l'insegnante, l'organizzatore culturale, il promoter di concerti, il segretario di sezione. Ma Legambiente è stata una scuola di sprovincializzazione. Il movimento verde cresceva in Europa e negli Stati Uniti, si creava il contatto dell'ambientalismo con la realtà e i temi delle società industriali avanzate. Barry Commoner, il primo Rifkin, le premesse dei discorsi successivi sullo sviluppo sostenibile». Siamo ancora lontanissimi dall'Enel. «Ero andato a Roma con altri milanesi per aprire la strada a Marco Fumagalli, che aveva battuto Walter Vitali, allora ingraiano, nella corsa per la Fgci del dopo D'Alema. Mi occupavo di politiche culturali con Lorenzo Sacconi. E cominciavo ad annoiarmi. Si lavorava con i disoccupati e i senzacasa, ma il piacere era nel fare le tre di notte in trattoria a discutere di letteratura e cinema. A quel punto, Enrico Menduni, che era diventato presidente dell'Arci e che stava lavorando per sganciarsi dal collateralismo con il Pci, mi invita a lavorare con il suo gruppo. Si fonda quella che allora si chiamava Lega per l'ambiente: fra i primi ci sono Laura Conti e Giovanni Berlinguer». Finora si capisce che si è trattato di un apprendistato lungo. «Cominciano ad arrivare Ermete Realacci, bravissimo studente di fisica fermatosi a due esami dalla laurea, Scalia, Mattioli... Un crogiuolo: a quei tempi c'è anche uno della Gialappa's. Poi la Melandri, Paolo Gentiloni...». Finalmente, è l'embrione del network Rutelli. «Lo chiami pure così. Passa il tempo, faccio la mia onesta carriera politica. Era stato Occhetto, vicesegretario di Natta, a convincermi a candidarmi per la Camera. Seguo tutta la transizione dal Pci al Pds, con relativi drammi, come quando al congresso di Rimini Occhetto non viene eletto in prima battuta e mi rimane il rimorso di non avere votato per lui perché ero corso ad assistere alla nascita di mio figlio. E quando nel 1993 Rutelli decide di correre da sindaco contro Fini, mi dice: "Se vinco, fai il presidente dell'Acea?". Mi conceda che è stata una buona scelta». Fuori le prove. «In due anni e mezzo, con Linda Lanzillotta, abbiamo fatto metà del lavoro di privatizzazione che poi è stato concluso da Paolo Cuccia. L'azienda era un ricettacolo di clientelismi e faceva zero utili da 20 anni. Il primo anno ha portato in casa 70 miliardi, quello successivo 150. E soprattutto è immediatamente diventata un modello per la privatizzazione delle municipalizzate». Ma Rutelli che ne sapeva delle sue eventuali doti di manager? «Con Francesco era nata una blanda amicizia, risalente a quando lui era capogruppo dei Verdi in comune, che si è via via rafforzata. Giochiamo a tennis prima di ogni elezione perché abbiamo deciso che porta fortuna. Io avevo avuto l'esperienza del governo ombra del Pci di Occhetto, con Visco, Bassanini, Napolitano, Cavazzuti fra gli altri». Già, ministro ombra di Occhetto per i lavori pubblici e l'ambiente. Un'esperienza mai decollata. «Ero un occhettiano acceso, e ci credevo, nel governo ombra. Quindi mi ci sono impegnato. Avevo fatto la campagna elettorale nelle Marche, un bel bagno nella realtà economica della cosiddetta Terza Italia. Ero in contatto con Giorgio Fuà e la sua scuola all'Istao, avevo conosciuto gli industriali marchigiani, Berloni, Della Valle, Guzzini, Merloni». È sufficiente frequentare gli industriali per imparare il mestiere? «Sono uno che impara alla svelta. Ascolto e faccio domande. Se non capisco me lo faccio spiegare di nuovo. Con l'esperienza dell'Acea, un'azienda da 1200 miliardi di fatturato, mi ero fatto le ossa sul campo. Molto meglio di un master in economia aziendale». Sicché con il governo Prodi la chiamano e le dicono: caro Testa, adesso dovresti fare il presidente dell'Enel. «Più o meno. Avevano fatto l'errore del "quaeta non movere", si erano incartati su qualche nomina come quella di Ernesto Pascale confermato alla Stet, e c'era in giro voglia di innovazione». Boiardi sì, purché siano i nostri. «Boiardi, boiardi... Ho avuto la fortuna di avere una triade di riferimento di grandi qualità. Prodi, Bersani e Ciampi, che pure avrebbe potuto guardarmi con diffidenza, dato che per l'Enel gli attribuivano come candidato un tecnico d'esperienza, Umberto Colombo. L'obiettivo era chiaro, quello della privatizzazione; ma c'è stata anche una sintonia umana eccezionale. Prodi era capace di telefonare a mezzanotte per chiedere: "Chicco, ma quel termocombustore, mi sai dire che rendimento ha?"». Lei naturalmente sapeva che cos'è un termocombustore. «L'ho imparato subito. All'Enel c'è una struttura dirigenziale con una cultura ingegneristica, molto formale, cresciuta in una logica rispettosa del servizio pubblico. Un buon ambiente, molto disponibile». Ma lei che cosa rappresentava all'Enel, il commissario politico di Franco Tatò? «Neanche per sogno. I rapporti sono stati chiari da subito. Anzi, a distanza di tempo gli ho detto: "All'inizio pensavo che io sarei stato l'incendiario e tu il pompiere. Ho l'impressione che i ruoli alla fine si siano rovesciati"». Perché, Tatò sarebbe un incendiario? «Un manager con la nevrosi del proprio lavoro, una riflessione continua sugli obiettivi e sui metodi, una tensione infernale». Capito: lui faceva il lavoro duro, e lei la rappresentanza. «Capito un accidente. Un lavoro durissimo per tutti. Perché non bisogna dimenticare che l'Enel in tre anni ha portato nelle casse dello Stato oltre 40 mila miliardi. Trenta con la tranche di privatizzazione, e il resto con i dividendi. Se si vuole giudicare dai risultati, questi sono i risultati». Quindi una situazione idilliaca dentro e fuori. Ma Prodi lo liquidano piuttosto alla svelta, nel 1998. «Io rimpiango i tempi di Prodi, per la qualità politica del suo governo e per la novità e il significato dell'Ulivo». Vuol dire che invece, con D'Alema, le cose sono andate peggio? Che non le telefonava la notte per sapere il rendimento dei termocombustori? «Conoscevo D'Alema fin dai tempi in cui ero nella Fgci, con lui segretario. D'Alema era più distante. Con Amato il rapporto è stato più facile, anche perché c'era una frequentazione da vacanze, lui ad Ansedonia, io con una casa in campagna vicino a Capalbio». Ecco s'avanza il Chicco Festa, come la chiamavano. «Battuta straziante, inventata da Maria Laura Rodotà. Che devo dire? Non sono un monaco. Certo, se al Goa c'è un bel gruppo, ci si va. E se c'è il concerto di Santana, ci vado e scrivo pure la recensione per il "Corriere"». Così Berlusconi le può dare del fanigottun. La scadenza del suo mandato è il 2002: che succede se il Cavaliere va a Palazzo Chigi? «L'Enel deve completare la privatizzazione, e quindi occorre che mercati e investitori non vengano scoraggiati da uno spoil system selvaggio. Berlusconi dev'essere consapevole che la società è quotata in Borsa, e che i mercati guardano con diffidenza a una politica che comanda sulle aziende, che impone logiche extraindustriali». Ma se il Cavaliere proprio non ne vorrà sapere di un ex comunista all'Enel? «Già, potrebbe insospetirsi per il potere dei soviet più l'elettrificazione. Niente programmi. Ma forse, più che verso la politica, a questo punto l'attrazione più forte per me è un ruolo nell'industria privata».
L'Espresso, 18/01/2001
Premere o non premere?
Il pollice che sfiora il pulsante: premere o non premere? Premere: off. Si spegne il mondo, con il buio del display. Ma ogni mezz'ora riaccendere e verificare se ci sono messaggi. Ci sono quasi sempre. Involontaria delusione se invece no. Ri-off. Ah, l'Io diviso. Eliminare dal desktop il remote access del pc per evitare l'idea di connettersi. Solo una volta al giorno, si giura, per controllare la mail. Però ci arrivano dentro i titoli del "New York Times", e i consigli finanziari (anche una bambolina sexy da un sito di Hong Kong: boh). Eppure la promessa era stata di evitare la curva in tempo reale del Nasdaq. Già, ma se poi l'indice si impenna? Se collassa? Se rimane flat? Se torna la old? Non importa se ci si è già rifugiati nei Bot: nei grafici c'è online il turbocapitalismo di Luttwak, il landing Usa pilotato da Greenspan, le increspature sollevate dal Seattle people. A perdere una seduta si perde il trend. Cresce l'ansia. Il pollice che esita sul pulsante. On. Codice pin. L'icona sul display che dà l'ok. Digito ergo sum, filosofia wap. Ci sono messaggi? Ascoltarli, non ascoltarli... È il solito pirla. Che parla al solito schizofrenico. Non chiamate più. Sgraditi gli sms. Al massimo richiamo io, se proprio mi scappa. Staccare la tv, disdire le piattaforme digitali, gettare il palmare: palliativi. Al massimo, si guadagna il tempo sufficiente per progettare una vita alternativa, eco-compatibile, via dalla pazza mucca. Ma poi, dopo cinque giorni di Arcadia, che si fa nel weekend?
L'Espresso, 25/01/2001
Saranno sempliciotti, ma non sottovalutiamoli
Non abbastanza illuminata dai fari del pensiero di Fabrizio Rondolino, alla sinistra il "reality show" non piace. In effetti, la transizione da Bobbio e Foa a Pietro Taricone è una discontinuità filosofico-politica così disturbante da lasciare senza fiato tutti quelli del paese normale e del giacobinismo mite. Tuttavia se ne incuriosisce, la sinistra. Se ne sta lì, telecomando in mano, chiedendosi che cosa è successo. Con il dubbio che i quasi dieci milioni conquistati da Taricone nell'Uno contro tutti del "Costanzo show" siano alla fine un partito: fluido, scivoloso, imprendibile ma pur sempre un partito. Inafferrabile per tutti ma un po' più inafferrabile dalla sinistra e dalle sue categorie. Le consolazioni convenzionali hanno il difetto immanente di venire scalfite dalla continuità della presenza in video. La cultura in panni accademici concedeva infatti alla popolarità di Pietro, Cristina, Marina, Rocco e tutti gli altri un successo istantaneo ma effimero. Il tempo, l'inabilità, il dilettantismo, l'afasia avrebbero poi rimesso le cose a posto. Il modulo del marziano a Roma avrebbe riportato nell'anonimato i protagonisti del "Grande Fratello". Eppure il dubbio rimane, velenoso. Perché alla fine di uno sconvolgente esperimento socio-politico non resta solo la consapevolezza che chiunque può essere re per 100 giorni. E se poi quello impara? Se quella si toglie l'accento, se quell'altro migliora l'attitudine a stare in scena? In sostanza, che cosa succede, quali sono le implicazioni generali se accadrà di non riuscire a levarsi dai piedi i dieci piccoli italiani del Gf? Il Grande Dubbio si può riassumere così: d'accordo, l'"ordinary people", come dice Maurizio Costanzo, ha conquistato il peak time, sfondando i confini fra spettacolo e vita quotidiana. Se fosse tutto qui, poco male. Ma se invece la stessa "ordinary people", eccitata dal gioco, cominciasse a reclamare un analogo accesso all'area della politica e tutto il potere al popolo? Sarà una proiezione fin troppo anticipata, tuttavia, che brividi. Come se i partecipanti ai focus group di Rutelli si stufassero e chiedessero un posto da ministro. Via tutte le mediazioni, le famiglie politiche, la Bildung pubblica. Qualcosa in più anche rispetto alle ipotesi post-politiche del politologo Robert Dahl, che aveva ipotizzato un "minipopulus" composto da 1000 persone a caso, per affiancare le istituzioni rappresentative nella discussione di issue fondamentali. Se la task force dell'Italia media resiste in scena, la scena è aperta anche per tutti gli altri. Nel 1994 gli sfottò a Berlusconi si sprecavano. Lui si qualificò, nei confronti della politica, come "un sempliciotto". Lo schema c'era già: adesso ci sono le avanguardie.
L'Espresso, 01/02/2001
Così Bossi diventa un’inutile appendice
La trattativa sui collegi? Una sceneggiata. Tutto prevedibile: le manfrine sui seggi, le ipotesi sui ministeri in contropartita, la complicata ricucitura con Albertini data in garanzia, l'accantonamento degli entristi socialisti come atto di buonsenso. Fini e Casini giurano continuamente che le differenze fra Polo e Lega si annullano metafisicamente nel programma politico già sottoscritto. L'accordo fra Berlusconi e Bossi è blindato, e Formigoni ripete che «Forza Italia e Lega sono molto simili»: cioè troppo simili per andare allo scontro, oggi e domani. Fin qui siamo alle ovvietà e agli esorcismi. Perché non serve a niente ripetere che l'elettorato di Berlusconi e Bossi è identico: si tratta piuttosto di vedere se i due elettorati sono talmente identici da rendere inutile la presenza del Carroccio. I sondaggi accarezzati dal Cavaliere mostrerebbero che, anche senza il trust con la Lega, il Polo nelle regioni settentrionali perderebbe alla Camera non più di una decina di seggi. Va da sé che rischiare è inutile, e dunque il patto elettorale ha una sua funzione. Ciò non toglie tuttavia che in prospettiva il tema politico strisciante di Forza Italia sarà: come liberarsi del fastidio leghista. Fatti tutti i conti, esistono due metodi. Il primo è silenzioso, di-screto, avvolgente. Una morte dolce. Cinque anni di governo del Polo, tutti concentrati sulla figura di Berlusconi, l'impresario d'Italia, l'uomo delle grandi opere, l'operaio supremo, potrebbero condurre allo stadio terminale anche alleati più in salute della Lega. Con il probabile effetto booming del meno tasse per tutti, ci vorrà poi poco a convincere gli elettori del Nord che la Lega è un'appendice inutile. Il secondo metodo invece è traumatico. Verrà buono se Bossi si accorgerà alla svelta che l'Italia stregata da Berlusconi tenderà a guardare la Lega come una carovana mediocre, anzi, ancora peggio, superflua. In situazioni analoghe, Bossi si è divincolato dalla stretta e ha fatto saltare il banco. Questa volta invece, malgrado tutte le assicurazioni in contrario, il banco potrebbe farlo saltare Berlusconi. Se alle elezioni si avrà la vittoria, anzi lo sfondamento, della Casa delle libertà, non ci sono vincoli di lealtà che tengano: numeri permettendo, anziché aspettare che Bossi scompigli l'interno di famiglia potrebbe convenire dargli lo sfratto preventivo. È naturale che per arrivare a questa conclusione occorrerà l'impegno del centrosinistra, con una campagna rinunciataria in cui i suoi «mezzi leader in declino e aspiranti leader in affanno» (Gian Enrico Rusconi) contribuiscano alla disfatta. Con una conseguenza anomala: perché una Lega emarginata anche dal Polo, consegnata all'estremo margine destro dello schieramento politico, non sarebbe recuperabile al gioco delle alleanze. Diverrebbe una roccaforte di estremismi, simmetrica a Rifondazione comunista: la garanzia involontaria dell'inamovibilità del Cavaliere.