LA STAMPA
LA STAMPA, 24.01.1997
RAGIONEVOLE DUBBIO
Quando c'è un ragionevole dubbio non si condanna nessuno: è un principio di civiltà giuridica. E la vicenda giudiziaria di Sofri, Pietrostefani e Bompressi è talmente costellata di incertezze, passi falsi, annullamenti, sentenze autocontraddittorie, che riesce impossibile pensare che con la conferma della condanna a ventidue anni di carcere per l'omicidio del commissario Calabresi si sia fatta giustizia. Si è semplicemente esaurito, per automatismo, per moto d'inerzia, un iter giudiziario, è giunta alla sua fisiologica conclusione una vicenda processuale che sembra riassumere tutte le distorsioni della giustizia italiana. Che questo ragionevole dubbio esista sembra arduo negarlo. La logica della condanna è tutta fondata sul principio che il pentito Marino, l'accusatore di Sofri, non aveva alcun interesse ad autoaccusarsi e ad accusare i suoi vecchi compagni. Le contraddizioni nelle sue ricostruzioni, gli errori fattuali, le imprecisioni, sono stati considerati delle appendici insignificanti a una verità ritenuta intrinsecamente solida, non scalfibile dalle verifiche degli testimoni. In secondo luogo, c'è il dubbio che nei confronti di Sofri sia stata messa in atto una volontà persecutoria: dubbio che viene reso esplicito dal fatto che la procura di Brescia indaga su due nodi di questa vicenda giudiziaria, che potrebbero rivelare una sorta di accanimento contro i vecchi esponenti di Lotta continua: una sentenza di assoluzione potrebbe essere stata motivata dal giudice in modo autodistruttivo, allo scopo di provocarne l'annullamento; pressioni sarebbero state esercitate sui giurati dell'ultimo processo per condurre a un verdetto di condanna. Non si capisce quindi per quale motivo una sentenza così grave e simbolicamente importante, che scrive o riscrive la storia di un periodo drammatico della vicenda nazionale, e che si abbatte con una violenza infinita sulle esistenze di tre persone a venticinque anni di distanza dal crimine loro contestato, possa essere stata emessa mentre erano pendenti indagini su gradi precedenti di giudizio. Possibile che la lentissima, fatiscente, inefficiente giustizia italiana dovesse dare una tardiva dimostrazione di velocità, di tempi da rispettare in modo ferreo, proprio mentre dovevano essere valutati episodi e atteggiamenti tutt'altro che insignificanti, almeno a prima vista, sulla credibilità dei processi precedenti? Detto questo, si apre un altro fronte. Perché ancora una volta, come è sempre è accaduto per le vicende processuali dell'ex leader di Lotta continua, è scattata la valutazione politica sulla sentenza. E qui, ancora una volta, si è mossa praticamente all'unisono la sinistra (a cui si è aggiunta la destra ultraliberale). Con un atteggiamento apparentemente lineare, basato per l'appunto sulla teoria del ragionevole dubbio sulla colpevolezza, ma che lascia trasparire invece, nei toni e nei modi, il tentativo di convincere dell'inesistenza di dubbi sull'innocenza. A giudizio di chi scrive, uno degli errori peggiori, in questa storia, sarebbe quello di cercare di sovrapporre al giudizio di colpevolezza raggiunto dalla giustizia formale un giudizio di innocenza trasmesso attraverso una giustizia sostanziale. L'eventuale errore dei tribunali e dei giudici non si può correggere con l'evocazione di una giustizia «giusta», una giustizia politica. Uno spirito liberale rifiuta sul caso Sofri le certezze di sinistra esattamente come rifiuta le certezze di destra. Quindi coltiva il dubbio che sia innocente esattamente come riflette sul fatto che poteva essere colpevole. Ieri due esponenti di Alleanza nazionale, Maurizio Gasparri e Francesco Storace, hanno parlato di «condanna esemplare», che inchioda i nemici politici di ieri alle loro responsabilità storiche. Se ci si divide su una sentenza in base alla propria ispirazione politica, questa è lotta di parte, è una manifestazione di tifo calcistico, non è razionalità giuridica né intelligenza storica. Con le certezze, e soprattutto con le certezze opposte, non si fa giustizia. Dal pasticcio giudiziario e storico che si tramuta in un incubo e si abbatte sul destino personale di Sofri, Pietrostefani e Bompressi, si può uscire soltanto usando la chiave che apre l'istituzione giudiziaria, approfondendo, a partire dalle indagini di Brescia, quel ragionevole dubbio che getta la sua ombra sull'ultimo verdetto.
LA STAMPA, 19.01.1997
GLI ORFANI DELLA DC
Comunque lo si consideri, «latte bollente» è un maledetto imbroglio. Lo è innanzitutto perché la questione delle quote del latte ha radici che affondano nella scadente qualità dell'azione italiana al livello europeo, che ha dato luogo nel tempo a un succedersi di approssimazioni fallimentari e di compensazioni affannose, di errori marchiani e di trafelati tentativi di soluzione. Adesso invece il caso appare effettivamente irrisolvibile: dato che l'unione europea non fa sconti e conferma con vigore il divieto ai governi di assumersi il costo delle multe, vengono meno le classiche risorse della discrezionalità clientelare. Si esaurisce quindi la combinazione di inefficienza gestionale e di generosità risarcitoria; scompare la possibilità per l'esecutivo di correggere le distorsioni provocate dagli errori storici spostando a carico della collettività il pagamento delle multe per la sovrapproduzione. L'imbroglio oltre che maledetto è anche dannatamente complicato, perché riguarda solo una parte minoritaria dei produttori (meno del 15 per cento del totale), cosicché ogni tentativo di soluzione potrebbe assumere tratti di iniquità rispetto alla maggioranza che si è attenuta alla regola. Ma se si esce dall'aspetto contingente della protesta che ha bloccato Milano, la guerra del latte assume caratteristiche assai più insidiose di quelle di una semplice protesta corporativa contro regole non rispettate e contro le sanzioni relative. Su questo piano, infatti, è arduo dire qualcosa in più rispetto a quanto ha dichiarato il ministro Pinto: quota produttiva «insufficiente, ingiusta e insopportabile», ma regole da rispettare e multe, per gli allevatori, da pagare. Basta spostare invece il punto di vista per accorgersi che «latte bollente» rappresenta per la prima volta, e dunque con una evidente forza simbolica, un conflitto fra settori produttivi nazionali e unione europea. Ceti che finora erano stati protetti si trovano all'improvviso senza protezione, neanche quella assicurata malamente dalle furbizie; e nello stesso tempo viene messa allo scoperto anche la fragilità della costruzione europea, dato che affiora l'implausibilità di pagare multe in danaro sonante a una sovranità remota e impalpabile come quella di Bruxelles. Ci sono altri settori produttivi che stanno già scontando l'esposizione alla concorrenza determinata dall'integrazione sempre più stretta del mercato europeo. Ed è probabile anzi che nei prossimi anni la principale questione italiana sarà il conflitto strisciante fra chi ha perso la protezione, e deve competere con le sue forze, e chi invece continuerà a potersi annidare in contesti protetti. La guerra del latte unisce a questa dimensione un elemento ulteriore, cioè la concentrazione territoriale nel Nord, che ha reso possibile alla Lega, Bossi in testa, di calvalcare la protesta degli allevatori come se fosse cosa sua. In sé la protesta di Linate costituisce una spinta effettivamente secessionista, solo che la secessione è diretta sia contro Roma sia contro l'Europa. È la rivolta di un pezzo di società che ha visto disgregarsi il proprio referente politico, la grande madre democristiana, e che ora viene usata: dalla Lega, che cerca di farne l'avanguardia del disagio del Nord; e anche da Alleanza nazionale, che al momento buono non fa mancare la propria voce nazional-protezionista contro le inique sanzioni. Sono queste due forze politiche che possono trarre qualche vantaggio dalla protesta dei produttori: ma non bisognerebbe dimenticare che in questi casi alla vittoria o al guadagno degli strumentalizzatori corrisponde in genere la sconfitta, e la perdita, degli strumentalizzati.
LA STAMPA, 18.01.1997, SOCIETA' E CULTURA
LANCI IL SESSO E NASCONDI LA MANO
senza descrizione
LA STAMPA, 15.01.1997
DUE TRAPPOLE SUL CAMMINO DELLE RIFORME
Dopo che lo scontro tra Forza Italia e Alleanza nazionale sulla Commissione bicamerale era diventato acutissimo, non c'era che una via d'uscita, cioè l'arretramento di una parte. Il passo indietro è venuto da An. Un anno fa, giostrando dall'estremità del sistema politico, Gianfranco Fini era riuscito a provocare il fallimento del tentativo Maccanico, facendo emergere con il suo presidenzialismo oltranzista le contraddizioni dello schieramento di centrosinistra. Adesso l'interdizione non gli è riuscita. C'è stato un faccia a faccia tesissimo fra Berlusconi e il leader di An, ed è stato un conflitto che ha messo a rischio la tenuta del Polo per le libertà, e di cui sarà interessante valutare in seguito le conseguenze politiche. La decisione con cui Berlusconi ha tenuto la decisione di appoggiare la Bicamerale ha posto il suo principale alleato in una condizione insostenibile. Per il presidente di An la Commissione parlamentare per le riforme era sempre stata una seconda scelta, un «viottolo»: Fini ha sempre dichiarato che la via maestra verso le riforme consisteva nell'elezione di un'assemblea costituente. Le ultime iniziative di Francesco Cossiga gli avevano ridato la speranza che i giochi non fossero ancora fatti, che l'accordo tra Berlusconi e D'Alema potesse ancora essere sovvertito, che la Bicamerale potesse essere svuotata, che la parola in un modo o nell'altro finisse al popolo. Occorre anche considerare che per Fini e il suo partito la Costituente non rappresentava soltanto una scelta di metodo. L'assemblea eletta dal popolo avrebbe significato la possibilità di agitare il rifacimento integrale della Costituzione, cioè di spezzare il patto costruito nel dopoguerra dalla mediazione tra le forze antifasciste e di sostituirlo con qualche cosa di nuovo e di diverso, con un «nuovo inizio», con un superamento della storia e delle sue pregiudiziali. Questo disegno oggi sembra svanire. Per molti aspetti An viene normalizzata. Con la decisione di ieri il Polo entra infatti in un processo che non prevede discontinuità storicamente straordinarie. Se effettivamente ci sarà il passaggio alla Seconda Repubblica, esso avverrà tendenzialmente con una transizione morbida. Naturalmente ci sono ancora molte incertezze sul cammino delle riforme. La principale è che possano permanere, non solo nel Polo, atteggiamenti irriducibili, magari con l'obiettivo sottaciuto di provocare il fallimento sul campo della Bicamerale attraverso la dimostrazione quotidiana della sua inefficacia. Affinché la Bicamerale possa condurre a esiti decorosi, occorre quindi che il campo venga sgombrato da equivoci e possibili distorsioni. Innanzitutto essa non dovrà diventare lo strumento per la prosecuzione della lotta politica con altri mezzi. Ciò significa che saranno dannose tutte quelle iniziative tese ad agitare come irrinunciabili tesi predefinite in termini oltranzisti (e non importa che si tratti del presidenzialismo o al contrario del parlamentarismo). In secondo luogo il destino della Bicamerale è legato alla sua capacità di non apparire come la camera di compensazione fra i partiti, in cui l'architettura istituzionale sarebbe un banale punto di equilibrio al minimo e il frutto di di compromessi pasticciati tra gli interessi delle forze politiche. Per sfuggire a queste due tagliole, occorre uno sforzo comune dei partiti per «laicizzare», se così si può dire, il tema delle riforme. Cioè per renderle il dispositivo che consenta quella concentrazione di potere che è necessaria, essenziale, per consentire in futuro l'esercizio efficace dell'attività di governo. Le riforme devono diventare l'attrezzatura che rende possibile affrontare politicamente e operativamente i temi del ridisegno dello stato sociale e la rimessa in efficienza dello Stato e della pubblica amministrazione. Il resto, vale a dire la retorica dell'intransigenza presidenzialista e dalla parte opposta i prevedibili vocalizzi sulla intoccabile centralità del Parlamento, appartiene ormai non alle riforme come operazione pragmatica, ma alle riforme come ideologia: un autentico vizio politico, e che purtroppo non ha molti antidoti, se non il giudizio dei cittadini sul modo in cui le forze politiche avranno interpretato la responsabilità che hanno assunto di fronte al Paese.
LA STAMPA, 12.01.1997, SOCIETA' E CULTURA
POLITICA E PREVALENZA DEL CALZINO
Attenzione a non sottovalutare la recentissima discussione sul calzino corto, aperta sull'ultimo numero di Panorama da Giuliano Ferrara. «Niente è meno elegante di un'ansia di distinzione su scala di massa», scrive Ferrara, riferendosi, oltre che all'estetica del calzino lungo, alle cravatte degli assessori comunali e all'uso della pochette. Se fosse solo questione di eleganza vera o presunta, sarebbe il caso di dire qualcosa, oggi, anche sul montone da tribuna numerata di Gianfranco Fini, e anche fare un punto definitivo sui doppipetti del Cavaliere nonché, se si vuole, sui giaccottini di Romano Prodi: esattamente come a suo tempo gli stilisti giudicavano politicamente out D'Alema per i suoi pantaloni «color cane». Ma il punto non è questo. I calzini non appaiono invano nel cielo della storia. Se ci fosse di mezzo soltanto una scelta di stile o di gusto, discuteremmo blandamente del calzino come si sta già discutendo sulla rinascita dell'alternativa fra boxer e slip. E invece qui siamo nella sfera misterica dei grandi indizi politici. Osservato nella prima puntata del lerneriano Pinocchio l'afflosciarsi del calzino antitrust di Giuliano Amato, la memoria non può esimersi dal riandare al tragico 27 giugno 1991, allorché il caldo di Bari stampò col sudore la canottiera sulla camicia di Craxi. E non bisogna nemmeno dimenticare che l'inversione delle fortune politiche di Berlusconi fu resa memorabile dalla foto del clan alle Bermuda, in quella passeggiata in calzoncini e maglietta da jogging che rimane indimenticabile. Quando si comincia a parlare di canottiere, calze e mutande, vuol dire che per qualcuno sta cominciando a buttare male. Si tratta solo di capire, e bisognerà stare molto attenti, chi sarà la prossima vittima politica di questa nuova prevalenza del calzino.
LA STAMPA, 09.01.1997, SOCIETA' E CULTURA
POPPER L’EREDITA’ CONTESA
L'aspetto più attraente della pensiero di Karl Popper è sempre stato la sua traducibilità divulgativa. Letto Popper, si poteva pensare di avere una cassetta degli attrezzi per aprire il meccanismo del mondo moderno e osservarne il funzionamento e i pezzi sparsi. Il metodo popperiano si era rivelato poi straordinariamente efficace, e anche felicemente anticonformista, quando era venuto il momento di discutere le «teorie», o meglio i costrutti utopico-mitologici, con i quali il pensiero della sinistra folk aveva edificato in Italia, durante gli anni Settanta, un teatro del mondo pretendendo di sostituirlo al mondo effettivo. Per chi le aveva incontrate, le parole di Popper erano state un balsamo deliziosamente minimalista, a fronte dei minacciosi massimalismi in circolazione allora. La società «aperta» era una boccata d'aria rispetto ai plumbei progetti di collettività pianificate. I suoi conflitti «deboli» ma incessanti, connaturati alla vita collettiva, confluivano in un sistema di descrizione che appariva infinitamente più ricco, moderno, addirittura spumeggiante, rispetto ai sistemi interpretativi fondati sui principi della lotta di classe. La definizione della democrazia come un semplice antidoto alla dittatura era perfino entusiasmante, se paragonato alla retorica con cui la parola democrazia veniva agitata e stravolta. La società aperta implicava domande non su chi (il popolo, i filosofi) deve comandare, ma su come si possa strutturare un sistema di controlli istituzionali per impedire che chi governa faccia troppi danni. C'è un prima e un dopo, anche per Popper. Prima, e si intende prima dell'Ottantanove, ad eccezione di alcune cerchie illuminate lo si considera un filosofo fastidiosamente fuori moda, un mitteleuropeo conservatore, un intellettuale arido e vecchio stampo, un «liberale». Dopo, cioè dopo la caduta del muro e della cortina, diventa una specie di guru popolare. Alla ricerca di fornitori di paradigmi, gli orfani del pensiero ideologicamente forte hanno creduto di trovare nel vecchio oppositore del neopositivismo viennese e della Scuola di Francoforte il nuovo Grande Solutore, il possibile timoniere che guida la zattera tra i flutti del naufragio postmoderno. Solo che Popper, per l'appunto, fornisce un metodo, o un antimetodo. Che risulta straordinariamente efficace per congetturare, smentire, falsificare, mettere alla prova e sconfiggere un numero sterminato di «ismi». Ma non dice poi granché sul «che fare». Va bene per un bagno di liberalismo, non per allestire un programma politico. Tanto più che oggi nuovi problemi sorgono e si affollano entro la società sempre più aperta, «globalizzata»: l'informazione e la comunicazione, che dovevano essere il bene primario del mercato, stanno diventando un sovraccarico insostenibile e quindi una fonte di distorsioni. La produzione di immaginario, a partire dalla televisione, ha perso di vista le convenzioni etiche e insidia l'umanità dall'infanzia. Su un altro piano, la creazione di merci senza lavoro umano, come la crescita economica senza recupero dell'occupazione, implica dilemmi inediti, e richiede soluzioni originali: nella speranza che la società aperta, il mercato, il capitalismo liberale, avendo sconfitto i loro nemici ideologici, non vengano sopraffatti dalla loro fisiologia, e rischino di morire del loro stesso successo.
LA STAMPA, 07.01.1997
IL DILEMMA DELLA BICAMERALE
Sarà che la parola «bicamerale» evoca il freddo e la polvere di misere stanze d'affitto in cui albergherebbero i Travet delle riforme, anziché il clima euforico di cui sarebbe portatrice l'Assemblea costituente, ma sta di fatto la commissione parlamentare che dovrebbe - forse, chissà - procedere al ridisegno costituzionale sembra riscuotere ormai solo un modesto interesse nell'opinione pubblica. Il tema delle riforme costituzionali è tornato in esclusiva al ceto politico, e sembra piuttosto difficile che possa rientrare al centro di una discussione corale della collettività. Eppure, proprio questo aspetto di scarso interesse pubblico non è affatto irrilevante, perché dimostra innanzitutto che il tempo delle rivoluzioni è finito. E di conseguenza viene a cadere il principio secondo cui a una situazione eccezionale occorre rispondere con una soluzione eccezionale. C'è stato probabilmente un momento nel nostro paese, fra il 1992 e il 1996, in cui il fallimento della «democrazia dei partiti» appariva tale da trascinare con sé le istituzioni. All'apice della crisi, l'unica via d'uscita era apparsa a diversi osservatori l'elezione popolare di un'assemblea che preparasse a caldo il nuovo contratto civile fra gli italiani. Ma il 1997 non si apre sotto il segno di catastrofi già scritte, bensì sotto un segno di incertezza. Incertezza tesa allo spasmo, che coinvolge tutti gli aspetti della vita nazionale: dall'economia, sottoposta a uno stress acuto, alla questione giudiziaria, sulla quale il ministro della giustizia Giovanni Maria Flick sta provando a scottarsi le mani come se le scottarono i suoi predecessori. Altrettanto incerto è il sistema politico, a causa di leggi elettorali che consentono la sopravvivenza ricattatoria di «riserve indiane», ma ripetute prove elettorali continuano a dimostrare che in genere il meccanismo bipolare è stato assimilato dai cittadini-elettori ben al di là di quanto avrebbero meritato per coesione e coerenza i due Poli maggiori. Quindi l'incertezza che grava sull'Italia è una situazione-crinale, dalla quale può nascere da un versante un virtuoso percorso di razionalizzazione, e dall'altro anche un sentiero di decadenza. Se si accetta questa premessa, la definizione dell'Assemblea costituente come unico e insostituibile strumento riformatore appare come una scelta soprattutto ideologica. Occorrerebbe spiegare infatti per quali ragioni l'eventuale assemblea costituente potrebbe rispecchiare equilibri politici diversi da quelli attuali, e perché la sua iniziativa dovrebbe sfuggire alle logiche di compromesso che si imputano preventivamente alla Bicamerale. E anche per quale magico artificio un'assemblea eletta in termini proporzionali riuscirebbe a non riprodurre tutte le differenze che esistono attualmente tra le forze parlamentari. È evidente piuttosto che la scelta per la Costituente fa corpo con un'ispirazione di fondo di tipo presidenzialista e con una concezione volta a reimpostare tutta la carta costituzionale in termini individualistico-liberali anziché personalistico-sociali. Che sono tutte - presidenzialismo e liberalismo - vocazioni legittime, ma non si vede per quale motivo potrebbero emergere nitidamente e maggioritariamente in un'assemblea eletta con il metodo proporzionale. Questo non l'hanno spiegato né Gianfranco Fini né Mariotto Segni, i quali sostengono che il presidenzialismo è maggioranza nel paese, e non nel parlamento, ma senza conforti empirici. La propensione a favore della Costituente rivela spesso anche il desiderio di un rimescolamento complessivo, il desiderio di dare un calcio alla scacchiera, nella speranza che poi qualcosa possa succedere. Può esser qualcosa che metta in discussione l'equilibrio su cui si regge il governo, oppure che metta lo scompiglio negli schieramenti come sono finora assestati. È necessario quindi uscire dagli equivoci. Gli equivoci di Fini (sottolineati da un esperto come Domenico Fisichella), dato che il leader di An è abituato a mettere sempre un grammo in più sulla bilancia per rendere incerta la pesata e quindi introdurre nuovo disordine nel sistema: disordine che naturalmente Fini suppone meglio curabile con soluzioni straordinarie, con «la partecipazione dei cittadini ad una fase autenticamente costituente», e via in crescendo. E sarà bene che si esca dalle incertezze strategiche alimentate da Silvio Berlusconi, firmatario per la Costituente ma non del tutto ostile alla Bicamerale, così com'è sempre curiosamente in bilico fra un passato di rivendicazioni integraliste del maggioritario e un presente di accordi «alti e nobili» per il bene del Paese. Mancano, all'elenco degli equivoci, quelli intrinseci al centrosinistra. Perché se nell'Ulivo e dintorni ci fosse la stessa convinzione che anima D'Alema, si potrebbero valutare le differenze specifiche sul tema delle riforme come naturali diversità di ispirazione politica, destinate a entrare nell'arena delle mediazioni politiche per essere composte. Ma invece si ha l'idea che nel centrosinistra, a partire dal presidente del consiglio, ci sia stata verso le riforme costituzionali una certa sospettosità, che alla fine si è trasformata disinteresse, e potrebbe diventare ostilità. Insomma la certezza che non convenga svegliare il can che dorme, e neppure quindi sacrificare la logica compromissoria del governo di oggi alla razionale concentrazione di potere resa eventualmente possibile, ma domani, dalle riforme. Degli equivoci in gioco, quest'ultimo non è il minore. Anzi, poiché rischia di vanificare la strada verso la Bicamerale, che è lì, a portata di mano, minaccia anche di essere l'inciampo più pericoloso, quello che risolverebbe ironicamente il dilemma fra la Commissione e l'Assemblea nel modo più stupidamente salomonico: nessuna delle due.
LA STAMPA, 27.11.1996, SOCIETA' E CULTURA
LEGA, FIGLIA DELLA DC E DEL "MALE DEL NORD"
senza descrizione
LA STAMPA, 21.11.1996, TUTTOLIBRI
SBALLO ADDIO I GIOVANI RIDIVENTANO CONFORMISTI
senza descrizione
LA STAMPA, 18.11.1996, INTERNO
IL RISCHIO DELLA NON POLITICA
Nell'offensiva della piazza che Polo e Lega, ognuno per suo conto, hanno scatenato contro il governo, colpisce il fatto che non esistono fattori «caldi» del conflitto, emergenze individuate, conflitti specifici. C'è la Finanziaria, come oggetto del contendere, ma in realtà la legge di bilancio è solo un pretesto dello scontro. Esiste piuttosto una condizione essenziale di incompatibilità fra la maggioranza e le forze che gli si oppongono: una condizione di fondo che divide la società in due parti, e che dunque consente a chiunque chiami i militanti a manifestare contro il governo di fare il pieno della piazza. Ma c'è anche una considerazione aggiuntiva: le manifestazioni extraparlamentari potrebbero essere percepite come qualcosa che compensa la difficoltà o l'incapacità di fare politica quando si è minoranza nel contesto del sistema maggioritario. Questa valutazione non riguarda tanto la Lega, la cui azione è orientata a trasferire la mobilitazione pubblica all'interno di istituzioni «altre» rispetto a quelle repubblicane. Riguarda invece il Polo al completo, che sta ottenendo successi vistosi sul terreno della protesta proprio nello stesso momento in cui la sua strategia pseudoaventiniana in Parlamento è apparsa ai limiti dell'autolesionismo. Umberto Bossi aveva bisogno di farsi vedere, di mostrare qualche muscolo, di lanciare qualche altro slogan e riguadagnare il centro dell'attenzione dopo il lungo silenzio seguito al fallimento della marcia sul Po del 15 settembre. E c'è riuscito, perché non c'è dubbio che fa una certa impressione sentire decine di migliaia di persone che scandiscono la parola secessione, così come fa ancora un certo effetto ascoltare che verranno indette le elezioni del Nord e si farà il referendum separatista. Ma tutto questo ha senso, se ce l'ha, soltanto in una prospettiva apocalittica. Le parole d'ordine della Lega diventerebbero d'attualità soltanto nel caso di drammatico fallimento delle politiche di riaggiustamento, e quindi di catastrofica marginalizzazione del nostro paese rispetto all'Europa. In ogni altro scenario la strategia separatista di Bossi serve soltanto a tenere unito il nucleo fondamentalista della Lega, a impedire la dispersione dei militanti, e al massimo a proporre il Carroccio come terzo incomodo a ogni elezione raccogliendo i voti di chi è scontento del Polo e dell'Ulivo. La situazione è considerevolmente diversa per i partiti del Polo. I quali si erano certamente galvanizzati in seguito alla manifestazione di massa in San Giovanni, ma poiché avevano bisogno di incamerare subito un successo politico conseguente dall'iniziativa antitasse, hanno operato la forzatura del ritiro dei parlamentari da Montecitorio. Anziché perseguire un compromesso che sarebbe stato accolto da tutti come una vittoria, hanno deciso di inasprire lo scontro. Dopo di che sono di nuovo scesi in piazza e hanno occupato i teatri, annunciando che anche al Senato il Polo si asterrà dalla partecipazione ai lavori della Finanziaria. Per non avere nulla a che fare con una Finanziaria «rovinosa» (Berlusconi), «ideologica», espressione delle «utopie» che stanno dando luogo a una «deriva comunista» (Fini). Già, ma qualcuno dovrebbe poi occuparsi di riportare la protesta dentro la politica, e nella sua sede naturale, il Parlamento. Anche perché finora, con l'aventinismo, il Polo è riuscito a produrre solo due risultati. Il primo è che il governo ha potuto approvare la Finanziaria alla Camera in via molto agevolata, e questo non può essere giudicato un grande successo. Il secondo risultato invece è che il Polo sta riuscendo a mobilitare il suo zoccolo più duro, riesce a esibire in pubblico folle di militanti e simpatizzanti tutti uniti da un disprezzo teologico nei confronti di Prodi e del «cattocomunismo». I raduni sono spesso esaltanti. Tuttavia è piuttosto dubbio che la radicalizzazione del Polo rappresenti una linea politicamente vincente. Fino a prova contraria, l'elettorato di centrodestra è fatto in larga parte di moderati. Trasformare Forza Italia e gli altri partiti in plotoni di estremisti, in falangi di «arrabbiati» è vantaggioso per la visibilità delle manifestazioni, ma non è detto che lo sia per le sorti politiche generali del Polo. I leader politici, specialmente quelli non abituati alle mobilitazioni di massa, sono quasi sempre propensi ad attribuire alla piazza un peso che nella società in generale è assai minore. Il rischio per il Polo è quindi di riuscire a mettere insieme un'ampia schiera di irriducibili, ma di perdere i contatti con la complessità dell'opinione pubblica. Se fosse così, la faccia feroce rispetto alle caute aperture di Prodi, la continuazione dell'aventinismo, il rilancio di un'opposizione indiscriminata e praticata con tutti i mezzi potrebbero rivelarsi strumenti utili non tanto per guadagnare il consenso dei cittadini, bensì per rafforzare l'identità dei militanti. Per certi aspetti, dentro il Polo potrebbe verificarsi una specie di sindrome leghista. Nel senso che il centrodestra potrebbe trasformarsi in qualcosa di settario, in un'opposizione dogmatica, in uno strato secessionista rispetto alle forme politiche riconosciute. Solo che la Lega ha sempre la stella polare della secessione, mentre il Polo ha al massimo quella della caduta del governo. E se il governo non cade, come non cade, la straordinaria mobilitazione del centrodestra assomiglia sempre più vistosamente a un trionfo sì, ma a un trionfo dell'impolitico.
LA STAMPA, 13.11.1996
LA SOMMA DI DUE SCONFITTE
Ciò che si vede in questi ultimi giorni, dopo l'abbandono dell'aula di Montecitorio da parte del Polo, è un grave degrado della qualità della democrazia del nostro Paese, e stupisce che di fronte alla drammaticità del momento siano state così poche le voci che si sono affiancate a quella di Norberto Bobbio, che ieri su questo giornale ha stigmatizzato aspramente la scelta «irresponsabile» del centrodestra (e della Lega). Vale per le scelte politiche il criterio che esse devono essere adeguate all'entità dei problemi. Nel caso del Polo, invece, si è assistito alla scelta di un arma smisurata, che alla fine potrebbe ricadere non solo su chi l'ha lanciata ma su tutti i protagonisti in campo e produrre devastazioni nel sistema politico. Già adesso non si vedono vincitori possibili dello scontro; anzi, è possibile che in questo momento siano visibili soltanto due sconfitte simmetriche, una dell'opposizione e una del governo. Il Polo infatti ha creduto di potere incassare subito, in moneta politica sonante, il successo ottenuto a Roma sabato scorso. Sull'onda dell'entusiasmo per la conquista della piazza si è convinto di poter tentare una spallata con l'obiettivo di abbattere il governo. Mentre si possono individuare facilmente quali sono state le valutazioni che hanno fatto da sfondo a questa decisione, riesce al contrario incomprensibile come mai il Polo abbia creduto di poter effettivamente giocare la carta estrema dell'aventinismo sperando di ottenere qualche risultato. Quando infatti si apre un conflitto giocandosi tutto all'inizio, in seguito non ci sono risorse supplementari da schierare ed è impossibile graduare efficacemente l'iniziativa. Il fatto è che evidentemente Berlusconi, Fini e i loro alleati minori hanno creduto in una debolezza mortale del governo. Se ne devono essere convinti dopo il successo della mobilitazione di sabato scorso, che muoveva da un programma di protesta fiscale ma che conteneva almeno due altri aspetti politicamente caldi: l'identificazione del governo dell'Ulivo come un «regime» paracomunista, con la propensione all'occupazione del potere e a comportamenti illiberali, e l'attacco personale a Prodi come «Pinocchio», il grande bugiardo, la sintesi di ogni malvagità cattocomunista. Il Polo avvertiva dunque il bisogno di intascare qualcosa subito. Secondo buon senso, anche un compromesso sulle deleghe della Finanziaria, dopo la marcia in San Giovanni, in quanto «imposto» al governo da una posizione di forza, avrebbe rappresentato presso l'opinione pubblica una sostanziale vittoria. Mentre scegliendo la via del gesto estremo, ogni eventuale mediazione sarebbe sembrata un arretramento e quindi un insuccesso. Sotto molti aspetti quindi l'iniziativa del centrodestra è sembrata un esempio di cecità tattica. Perché non fosse tale occorreva che ci fosse una realistica possibilità di far cadere il governo. Ma qualcuno poteva razionalmente credere che in questo momento di emergenza, durante l'iter di una legge finanziaria decisiva per le sorti italiane, ci fosse una, una sola chance di sostituire in corsa il governo Prodi? Con tutto questo, anche il governo oggi veste i panni della sconfitta. Nessuno può credere che il poter votare più rapidamente la Finanziaria costituisca qualcosa di positivo dal punto di vista politico. Ogni giorno che passa si ha un'altra prova dello straordinario potere che Rifondazione comunista ha guadagnato sulla coalizione di governo. Ogni giorno aumenta la sofferenza del Pds, spina dorsale della maggioranza e vittima designata dell'accordo che lega sempre più stabilmente Prodi a Bertinotti. Sono due sconfitte diverse, naturalmente. Quella del Polo implicherebbe di per sé rilanci sempre più alti, che non si sa dove possano portare, e potrebbero condurre anche a un contraccolpo sfavorevole da parte dell'opinione pubblica moderata (confermando lo regola, tante volte applicata alla sinistra, secondo cui vincere in piazza non significa vincere politicamente). La sconfitta del governo è più sottile, strisciante, piena di inquietudini. Il centrosinistra puntava a governare in modo consensuale, e si trova ora a gestire uno scontro politico durissimo. Fino a qualche mese fa l'Ulivo poteva sperare di conquistare alla propria parte ulteriori fasce di ceti mediani, mentre oggi l'esecutivo Prodi, volente o nolente, appare come un governo marcatamente di sinistra. Doveva assecondare le riforme istituzionali, e oggi non si sa che fine farà la Bicamerale. Ma in entrambi i casi si tratta di sconfitte pesanti, che rischiano di lasciare tracce profonde se non ci sarà uno sforzo supplementare di composizione. L'unico, minimo aspetto positivo è che forse a questo punto nessuno dovrebbe avere interesse a rilanciare: il Polo per non venire accusato di avventurismo, il governo per non lavorare in glaciale solitudine. È su questa infinitesimale condizione che si gioca nelle prossime ore la possibilità di tornare a un conflitto politico di nuovo «normale».