Il Mulino
Il Mulino, 01-02 1993, Osservatorio italiano
L’Italia rigovernata
Nato debole debole, nel clima di sfiducia pubblica generato da Tangentopoli, dotato di un'investitura politica estremamente limitata, il governo Amato era stato partorito nell'illusione di poter affrontare la difficilissima transizione verso il risanamento con mezzi scarsi, privi di contenuti politici stringenti: come se una crisi di sistema potesse essere trattata attraverso una sovrana neutralità tecnica. Giuliano Amato veniva percepito come un classico uomo di passaggio; più che agli obiettivi che avrebbe dovuto realizzare, si pensava generalmente a lui come un manovratore che per competenza culturale e per consumata abilità diplomatica avrebbe saputo assicurare il modesto cabotaggio politico concesso dalle condizioni agoniche del quadripartito. Per un certo periodo, in effetti, il governo sorto dalle ceneri provocate dall'incendio elettorale del 5 -6 aprile è sembrato un'elevata sintesi dello stile secondo cui si progetta bene e alla fine si opera così così. Quantunque oggi il giudizio sul governo sia sostanzialmente positivo, alcuni capitoli neri di questo Amato double-face dovrebbero essere ricordati: la manovra finanziaria del luglio scorso, che doveva farci arretrare «dall'orlo del precipizio», si risolse nell'ennesima punzecchia tura fiscale, un'ulteriore tortura con il pregio di infastidire tutti senza risolvere nulla. Anzi, il colpo di mano del prelievo della patrimoniale anomala sui conti correnti, un'autentica effrazione di Stato ai danni dei risparmiatori e degli operatori, avrebbe poi avuto un ruolo straordinario durante la crisi valutaria di settembre: se è vero l'assunto einaudiano che i risparmiatori hanno «memoria d'elefante e gambe di lepre», le fughe di capitali settembrine, gli smobilizzi a prezzi di liquidazione degli investimenti in titoli di Stato, gli acquisti trafelati di valuta straniera da sistemare in cassetta di sicurezza derivavano dal timore che il governo, così come aveva violato il santuario dei conti correnti, potesse per disperazione profanare il sacrario dei Bot. Ancora. La manovra-tampone di luglio era stata preceduta da un bla-bla di ministri che avevano soprattutto il dovere civile di stare zitti. Le misure annunciate venivano modificate mentre si annunciavano. Si commettevano oltretutto autentici misfatti, come nel caso dell'Efim, che sui mercati internazionali restituivano all'Italia un'immagine da magliari. Non si può tacere neppure l'enormità concettuale del caso delle «superholding», che nel progetto originario avrebbero dovuto controllare gli enti di Stato trasformati in società per azioni, e che vennero decapitate dal presidente del consiglio dopo una «notte tormentata». Ma come: si decide di mettere mano ai misteri dolorosi dell'economia pubblica e lo si fa improvvisando? Primi successi Il primo vero risultato di Giuliano Amato veniva conseguito siglando il protocollo di accordo sul costo del lavoro, il 31luglio, con la firma sofferta di Bruno Trentin e le sue dimissioni successive da segretario della Cgil. Nonostante il «non possumus» di Trentin, l'accordo sul costo del lavoro e l'impegno che Amato vi aveva dedicato, fino a minacciare ripetutamente le dimissioni per indurre il sindacato alla firma, definivano piuttosto precisamente lo sfondo operativo su cui si muoveva il capo del governo: era la classica «concertazione» triangolare fra esecutivo, imprenditori e sindacati, il tentativo di replica dello schema neocorporativo su cui aveva puntato Bettino Craxi il 14 febbraio del 1984 con il decreto di San Valentino (guarda caso, la Cgil era saltata per aria anche allora). Nelle prime settimane di attività, Amato dava l'impressione di agire piuttosto accademicamente. Predisponeva contesti, allestiva scenari, preparava metodologie. Tuttavia, per la prima volta da anni si assisteva al singolare spettacolo di un governo che manifestava l'intenzione di governare. Non accadeva dall'era Craxi; in seguito, gli ultimi fuochi della governabilità erano stati accesi sul campo del risanamento economico da Ciriaco De Mita con i ticket sulla sanità, e immediatamente spenti da una puntuale ondata populista. Da allora in poi, si era conosciuto soltanto il «tirare a campare», vale a dire un'azione di governo basata sulla fiducia nella possibilità perpetua di indebitamento. Nel torrido agosto del 1992 si assisteva invece al mezzo miracolo di un ornino che sembrava destinato a una durata per l'appunto «balneare» e che invece scendeva sull'ultima spiaggia e, fra lo stupore di quasi tutti (compresi probabilmente i suoi ministri), si muniva di paletta e secchiello e cominciava ad affrontare la montagna di sabbia della finanza nazionale. Nello stesso periodo giungeva però il cattivo segnale del declassamento dell'Italia operato da Moody's, a ricordare che i rischi di crisi finanziaria erano ancora drammaticamente incombenti. Ma in quel momento dire crisi finanziaria significava alludere a qualcosa di astratto, non un trauma brutale per la collocazione dell'Italia nel contesto economico internazionale, una spinta violenta alla marginalizzazione della nostra industria, e neanche un'aggressione immediata e «cattiva» ai livelli di benessere della nostra società. Durante l'estate 1992, sembrava che nessuno avesse piena consapevolezza di che cosa avrebbe comportato uno shock finanziario di media gravità, che avvicinasse l'appuntamento, più volte acrobaticamente evitato, con la svalutazione della lira. Non avrebbe soltanto comportato un colpo durissimo per il governo Amato. Avrebbe voluto dire, in fondo, che nella comunità degli operatori internazionali, in politica e in economia, si stava scommettendo sulla non credibilità del tentativo di risanamento appena avviato, e più in generale sulla irrecuperabilità della nostra classe politica. A la guerre com me à la guerre: se il nostro sistema politico veniva giudicato inadeguato a mantenere l'Italia nella pattuglia dei Paesi industriali avanzati, se il nostro Paese costituiva un anello troppo debole per sostenere le configurazioni previste dalle eleganti geometrie dell'Europa di Maastricht (o viceversa se la sua debolezza rappresentava un'occasione troppo ghiotta per cercare di ostacolare il processo di unificazione europea), tanto valeva provocarne la resa, chiedendo implicitamente la sostituzione integrale dei responsabili della disfatta. Schema troppo rigidamente ottocentesco per essere realistico e credibile fino in fondo: in ogni caso, fra un'eventuale dichiarazione di guerra così congegnata e lo sfondamento finale di tutte le nostre difese c'era un solo diaframma politico, il quartier generale di Giuliano Amato. Grazie a una specie di triplice alleanza con il Quirinale e la Banca d'Italia, il governo riusciva a mettere sotto tiro un eccezionale volume di questioni. Tra eccessi di volontarismo, qualche gaffe confusionaria, e scontando la paurosa crisi di inefficienza della macchina burocratica, si cominciava a mettere le mani in quei grovigli che nessun governo aveva mai tentato di sciogliere. Grazie al fatto che gli stati maggiori dei partiti erano paralizzati, la banda Amato ha cominciato a vincere qualche battaglia. A quel punto è stato chiaro che, se non si poteva scommettere sul suo futuro, vale a dire sulla sua capacità di resistere a una congiuntura internazionale duramente sfavorevole, la sua azione permetteva invece di guardare con occhi diversi, e assai meno indulgenti, al passato. A un passato non lontano, in cui il risanamento non sarebbe stato l'esatto equivalente della fuga disperata da una tragedia incombente; in cui si sarebbe potuto governare nella decenza e nella razionalità, se si fosse voluto e saputo, se non si fosse puntato cinicamente sull' «impossibilità di essere normali» degli italiani. Il caso del governo Amato diceva che governare si poteva, che le condizioni favorevoli alle decisioni potevano essere create. E a fine agosto l'azione di governo appariva l'unico motivo che impediva ancora di chiedere il processo per bancarotta fraudolenta del sistema politico, della classe politica. Probabilmente non sarebbe stata sufficiente come garanzia per la comunità internazionale; si poteva però sperare che per il momento bastasse alla nostra collettività. Scene da una crisi Il 4 settembre, in una giornata percorsa da lunghi, spasmodici brividi di crisi finanziaria, con la Banca d'Italia che mandava il tasso di sconto al 15 per cento, il presidente Scalfaro, dopo avere comunicato che per fronteggiare la straordinaria gravità della situazione scoccava l'ora di «una tensione e di una responsabilità collettive», spediva Amato in Tv, a ribadire che le condizioni del Paese erano disperate. Tuttavia il capo del governo commetteva l'errore di descrivere la malattia senza annunciare la terapia. Da quel momento sembra di entrare in un universo maligno, dominato dalla più disastrosa delle «leggi di Murphy»: se qualcosa può andare storto, andrà storto. Inevitabilmente, con una sorta di tensione interna automaticamente e beffardamente catastrofica. Sotto questo profilo, il modo in cui si giunse alla svalutazione della lira rappresenta probabilmente un caso da manuale della crisi di fiducia dei risparmiatori. Amato, che pochi giorni prima aveva proposto una legge che avrebbe conferito al presidente del consiglio i pieni poteri in economia, riusciva ancora ad argomentare con certosina finezza professorale le ragioni che lo avevano indotto a questa spericolata iniziativa: in tempi di decisioni brucianti, le scelte di politica economica rischiavano di venire appaltate in sostanza a un organo, la Banca d'Italia, non legittimato democraticamente; delegando i superpoteri al governo, si sarebbe avuto, dietro l'apparenza del decisionismo, un maggiore rispetto della volontà popolare espressa col voto ... Tutto inutile: si arriva alla svalutazione, con la disastrosa scena televisiva del presidente del consiglio che illustra il crollo della lira con i toni grotteschi di una vittoria dell'Italia contro il resto del mondo, e a quel punto tutto sembra già scritto. Le ondate di vendite «speculative», effettuate tanto dalle anziane signore che si portano via nella borsa pacchetti di marchi tedeschi quanto dalle banche della «socialità» cooperativa emiliana che alla roulette del cambio puntano contro la lira, mettono in moto e alimentano un processo al cui termine sembra esserci inevitabilmente la bancarotta. Mentre sembra che l'unico antidoto alla gravità della crisi sia l'assuefazione psicologica (dopo pochi giorni, quando tutte le difese cedono, la sanguinosa e dogmatica difesa della lira entro il limite dello Sme, a 765,40 sul marco, assume retrospettivamente l'aspetto quasi di un'ubbia estiva della Banca d'Italia), Amato estrae dalla manica la supermanovra da 93.000 miliardi. Forse solo la disperazione poteva sbloccare la paralisi di fronte al marasma finanziario. La manovra infatti rappresenta un trauma violentissimo, non solo per i cittadini colpiti dalle misure del governo (che tuttavia avranno qualche mese per rendersi conto della botta) ma forse ancor più per la classe politica, che al momento estremo deve accettare di tagliarsi alle spalle i ponti attraverso cui si era mantenuta, a prezzi ormai insostenibili, un residuo di consenso sociale. Tagli alle spese per 43.500 miliardi, maggiori entrate per 42.500, più 7.000 miliardi di privatizzazioni. Ma ciò che risulta più spettacolare, al di là delle cifre, è l'intervento sui settori: sanità, sistema previdenziale, pubblico impiego, cioè i tradizionali pilastri del sistema di consenso all'italiana. E' a questo punto che l'immaginazione politica del capo del governo comincia a prendere corpo: gli scenari, i contesti, i preparativi si condensano in linee operative e provvedimenti. L'azione di governo comincia ad acquisire un contenuto più immediatamente incisivo. Amato ha successo quando le condizioni si sono talmente degradate da sembrare impossibili. Fa approvare la legge finanziaria entro Natale, superando indenne la tortuosa procedura parlamentare con determinazione e puntiglio, ricorre al voto di fiducia ogni volta che occorre, comincia a speculare vittoriosamente sulla debolezza dei partiti della maggioranza e sui residui sensi di responsabilità delle forze di opposizione. Ma il relativo successo del governo, il successo di qualcuno che alla fine è riuscito a tamponare il guaio che aveva contribuito a creare, non è sufficiente a mascherare che il sistema italiano si trova a vivere una situazione di autentica e profonda schizofrenia. Da un lato, nell'anno di Di Pietro, la politica viene percepita soprattutto come corruzione, collusione, malaffare (oppure, tuttalpiù, come combinazione di trucchi per cambiare tutto per non cambiare nulla: vedi le fumisterie, le incomprensioni, i giri di valzer all'interno della Sala della Lupa, dove la Commissione bicamerale per le riforme celebra i suoi riti generalmente incomprensibili). E dall'altro lato la società sbanda, non riesce a individuare da sola né una via d'uscita né un traguardo razionale a cui indirizzarsi. Bullona i capi del sindacato, precipita nelle invidie corporative, barcolla fra sbalordimento e rancore, collera e rassegnazione. Forse oscuramente intuisce che qualcosa di straordinariamente importante (e probabilmente non preventivato) si sta verificando. Nella terra di nessuno fra una politica ormai sorda e una società pressoché ammutolita, c'è un governo che sta facendo, preparando o comunque promettendo provvedimenti di portata fuori dell'ordinario: forse sarebbe opportuno accorgersi in fretta che non si tratta soltanto di operazioni di bilancio, di ricuciture finanziarie, di aggiustamento dei conti a forza di chirurgie di spesa. Il fatto è che l'esecutivo guidato da Amato si è trovato ad affrontare un'emergenza mai vista: insieme alle misure-tampone, ai pannicelli caldi, alle imposte di bollo, ha dovuto adottare una serie di provvedimenti che sono destinati a incidere in misura estremamente rilevante sui meccanismi strutturali del sistema italiano. Ebbene: in questo modo si viene realizzando un paradosso addirittura clamoroso: un governo nato dall'impotenza dei partiti dopo le elezioni shock del5 aprile, dalla drammatica difficoltà di ricambio nella Dc e dalla vulnerabilità di Craxi in seguito all'inchiesta Mani pulite, per assicurare la sopravvivenza del Paese prende una serie di decisioni che possono cambiare non solo i conti di casa, bensì il Paese stesso. Il traghettatore non si limita a turare le falle e a remare volonterosamente verso la riva opposta, comincia anche a gettare le fondamenta di un edificio nuovo sulla sponda di arrivo. Con l'intervento sul pubblico impiego, le pensioni e la sanità, modificando ragguardevolmente lo Stato sociale all'italiana, il governo Amato sta ridisegnando il rapporto dei cittadini con lo Stato, e le aspettative della società rispetto alla mano pubblica. Con il programma di privatizzazioni, su cui dovremo tornare, ha avviato secondo alcuni una sostanziale riforma della costituzione economica del Paese. Con uno strumento come la minimum tax, grossolano fin che si vuole, ha infranto il patto scellerato fondato sull' equazione «voto in cambio di evasione». Gli strumenti fiscali conferiti agli enti locali cominciano a delineare un ben più stringente rapporto di responsabilità e di controllo fra gli amministratori locali e i cittadini. Insomma, non sarà solo il fastidio per le tredicesime tagliate o il disagio per le maggiori tasse a qualificare il mutamento di rotta. Ciò che viene cambiato, attraverso la leva dei dispositivi di spesa, è il patto stabilito fra i cittadini, l'insieme delle regole che presiedono alla redistribuzione del reddito, le responsabilità per il futuro che ognuno di noi si assume di fronte a se stesso e agli altri: l'idea stessa di società a cui fare riferimento. Che tutto ciò sia avvenuto nel silenzio dei partiti, di fatto senza dibattito pubblico, rappresenta un fallimento della politica assolutamente senza precedenti. È come essere governati da un commissario straordinario, o da un consiglio d'amministrazione, anziché da un'istituzione legittimata dalla volontà popolare. Se ne apprezzano la buona volontà e le ottime intenzioni, ma si capisce definitivamente che mentre viene scelto il nostro domani c'è chi ha abdicato dal proprio ruolo di orientamento e di trasmissione della volontà collettiva. Se i partiti sono quelle entità a cui secondo l'articolo 48 della Costituzione ci si può associare «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», la medaglia assegnata al governo Amato ha come rovescio la constatazione che questi partiti non servono più a nulla. Governo d' emergenza, non governo di programma E tuttavia, malgrado il salvataggio in extremis compiuto da Amato, il 1993 assomiglia a un congegno a tempo, in cui sia stato innescato un conto alla rovescia alla cui ora zero ci potrebbe essere l'esplosione di tutte le stridenti contraddizioni che hanno portato in spasmo la società italiana. Come si fa a interrompere questo spaventoso count down? Ed è davvero realistico pensare che si possa bloccarlo, a quel punto? Si tratta di domande che di settimana in settimana assumeranno scansioni implacabili, scadenze ultimative, ritmi padroneggiabili solo a patto di una perfetta consapevolezza della gerarchia di priorità.E la forbice per ritagliare la nuova fisionomia italiana ha due lame. Il primo compito spetterebbe al Parlamento, attraverso la Commissione bicamerale, e consiste nel produrre una riforma elettorale adeguatamente e accettabilmente severa: in modo che si possa votare prima possibile, che i partiti attuali passino attraverso la ghigliottina di un sistema elettorale che li trasformi radicalmente. E' solo da questa «rivoluzione» democratica, un autentico bagno di sangue fatto con i numeri, che può in seguito nascere un metodo per dichiarare chiusa Tangentopoli, procedere all'epurazione dei responsabili e infine giungere a un provvedimento di normalizzazione della vita politica italiana. Si può negare che un sinedrio partitocratico come la Bicamerale sia in grado di produrre alcunché; ma in qualunque modo si giunga a una riforma del congegno elettorale, per via parlamentare o per via referendaria, occorre anche sapere che ciò servirà solo per completare la pars destruens rispetto al sistema politico attuale. È probabile infatti che le prime elezioni politiche del nuovo regime elettorale servano soltanto a distruggere, a scomporre, a disarticolare i partiti piuttosto che a ricomporre un quadro coerente. Non sarà una prospettiva particolarmente brillante, ma ne abbiamo bisogno, comunque. In questo momento serve molto di più la mazzata che scrolli via i partiti dalle posizioni di potere a cui sono abbarbicati che non il disegno perfetto di un nuovo e ponderato regime istituzionale. Perché questo sarà anche il modo per spazzare via tutti i luoghi comuni e tutte le fantasticherie sul «radicamento» dei partiti nelle fasce popolari, e sul loro grado di rappresentatività, e sul loro patrimonio storico e ideologico: tutti i paraphernalia da mercatino dell'usato a cui continuano a fare ricorso i redditieri del sistema proporzionale. L'altro obiettivo fondamentale riguarda invece ancora il governo, e si chiama semplicemente debito pubblico. Sappiamo ormai che c'è pochissimo spazio per ulteriori spremiture fiscali, per l'invenzione di altri balzelli e nuovi pedaggi. Quindi è giunta l'ora di prendere di petto la macchina dei titoli di Stato, la cui remunerazione in interessi raggiunge ormai i 200 mila miliardi su base annua. Si tratta di un'enorme idrovora, che sottrae risorse agli investimenti produttivi e li consegna alla rendita, grande e piccola che sia. Qualunque misura venga adottata per mutarne il funzionamento, non sarà indolore. E quindi che titolo avrebbe il governo Amato per affrontare un problema di queste dimensioni? Dopo le elezioni parziali del 13 dicembre 1992 è un esecutivo senza più maggioranza reale nel Paese, ed è privo di riconoscibile legittimazione. Occorre tenere presente che la questione del debito non è un problema da risolvere in astratto con originali e funambolici esercizi econometrici: ogni volta che si modifica un dato nel regno dei numeri si altera di conseguenza qualcosa nella società. E quindi, se la guerra è troppo seria per !asciarla fare ai generali, e la diplomazia ai diplomatici, sarà anche vero che l'economia è qualcosa di troppo decisivo nella vita di tutti per consegnarla nelle mani di qualche apprendista stregone. Perché sarebbe un'ironia troppo feroce guarire le poste di bilancio lasciando uccisa sul campo la società. D'altro canto, intervenire sull'economia costituisce lo strumento fondamentale per costruire la società che si ha in mente, per aggredire o consolidare posizioni di potere, per premiare o penalizzare chi compete nell'arena pubblica: appare sintomatico di conseguenza che le maggiori tensioni si siano sviluppate entro il governo sul tema delle privatizzazioni. Appartiene al folklore annotare che l'ultimo esercizio Andreotti aveva iscritto a bilancio introiti dalle privatizzazioni per 15.000 miliardi con risultato zero: i 15.000 miliardi previsti erano uno dei consueti capolavori di cosmesi sul volto di un cadavere, il bilancio dello Stato. Mentre il buco da 7.000 miliardi di mancate privatizzazioni nella gestione Amato rappresenta il risultato di una difficoltà che si è opposta a una volontà, di resistenze che si sono schierate contro un'intenzione esplicita. Anche questo testimonia che privatizzare non vuole dire limitarsi a vendere pro forma e alla spicciolata qualche banca o qualche azienda di Stato: significa piuttosto che una politica di privatizzazioni comporta il ridisegno dell'economia di un Paese, non è qualcosa di neutro, modifica la struttura del potere, favorisce alcuni e penalizza altri, sposta ricchezza, incide sull'occupazione. Anche il metodo stesso adottato per una politica di privatizzazioni non è neutrale. Quando Romano Prodi ha descritto su questa rivista il suo modello di privatizzazioni, aveva in mente la realtà tedesca, l'intreccio di banca e industria in una società corporata, omogenea e scarsamente conflittuale. Nel rispondergli, Filippo Cavazzuti poneva in evidenza la necessità di smantellare gli intrecci monopolistici che hanno consentito il controllo del potere politico sull'economia e a pochi operatori un vantaggio garantito dalla mancanza di concorrenza1. Ciò significa che anche le privatizzazioni, che pure rappresentano il secondo segmento della riforma politica dopo la riforma elettorale, non possono essere giocate a cuor leggero, in nome di mere necessità contabili, ma dovrebbero essere inserite a ragion veduta in un' «idea di società» a cui riferirsi consapevolmente. In conclusione, l'intero panorama del 1993 sembra dominato da un forte squilibrio iniziale, quello fra la taglia smisurata dei problemi e i limiti oggettivi di un governo che ormai si basa più che altro sul prestigio personale guadagnato da Amato in questi mesi. Soltanto una forte rilegittimazione politica dell'istituzione-governo potrebbe ridurre questo divario, riunire le lame della forbice, ma abbiamo visto che essa non è conseguibile in tempi adeguatamente brevi. Mentre questo articolo viene scritto, le tensioni sull'esecutivo si stanno accentuando. In altri momenti, la soluzione dell'allargamento della base politica governativa sarebbe stata la prima via a essere esplorata. Oggi, essa potrebbe determinare instabilità anziché rafforzamento; inoltre, la politica attuale premia chi sta fuori piuttosto che chi partecipa; senza dimenticare che fra questo esecutivo e il «governo di svolta» che certe opposizioni chiedono con qualche demagogica ipocrisia (offrendogli invece di contrabbando qualche puntello in Parlamento) si dispiega uno scenario di crisi da incubo. E quindi, anche come esorcismo, tanto vale attribuire al bilancio positivo del governo Amato un auspicio di durata. Nella consapevolezza tuttavia che pur avendo fatto molto, e anche se riuscirà a resistere a lungo, per numerosi aspetti continuerà a essere il punto di riferimento per gestire un'emergenza, non un governo per applicare un programma o realizzare un progetto. E che probabilmente, date le condizioni in cui agisce, è meglio così: ciò che gli si è chiesto è il compito ingrato di salvare il salvabile, non ancora di rifare l'Italia. Nota 1 L'articolo di Romano Prodi, Un modello strategico per le privatizzazioni, è apparso nel «Mulino», XLI (settembre/ottobre 1992), n. 343, p. 851; il contributo di Filippo Cavazzuti, Privatizzare: alla ricerca di competizione tra padroni, nel n. 344, p. 1048.
Il Mulino, 07-08 1993, Osservatorio italiano
L’arca dell’Alleanza
Non appena resi noti i risultati del referendum del 18 aprile, al Parlamento e ai partiti in esso rappresentati non restava altro da fare se non tramutarsi nei notai della volontà popolare, e riscrivere la legge elettorale secondo le indicazioni ricevute per via referendaria. Eppure, contro ogni evidenza, i partiti della Prima Repubblica nutrivano ancora qualche riottosa speranza di poter resistere al ciclone che stava e sta spazzando l'Italia. Tutti gli sforzi venivano quindi concentrati d'ufficio sull'obiettivo di interpretare al minimo le prescrizioni referendarie. La feritoia del 25 per cento di quota proporzionale «voluta dagli elettori» è divenuta rapidamente un varco sbrecciato a sufficienza per rimettere nell'edificio del futuro sistema politico tutti i mattoni proporzionalistici a disposizione. La riforma elaborata dal democristiano Sergio Mattarella è stata laboriosamente concepita affinché tutti i partiti potessero trovare un punto di incontro, in cui il minimo di innovazione resa obbligatoria dal referendum venisse a patti con il massimo consentito di conservazione a cui aggrapparsi. Il risultato è un ibrido formidabile, la testimonianza documentale che gli interessi dei partiti attizzano la fantasia dei propri «ingegneri» elettorali ben più di quanto la competenza dei politologi sia in grado di influenzarli. La legge Mattarella nasce dal rifiuto di perseguire un'ipotesi dotata del dono della semplicità. Nell'arco di scelte a disposizione, a un estremo c'era in teoria l'opzione per una legge a turno unico, che deve fondare la sua efficacia sulla sua severità; all'altro estremo si profilava come alternativa una delle molte varianti del doppio turno. Alla fine ci si è orientati verso la mediazione di un fantasioso monoturno all'italiana, in cui la severità del modello inglese viene addolcita dalle invenzioni multiple dei partiti. Anche la nuova legge elettorale risulterà quindi inevitabilmente interlocutoria: un'altra delle infinite «riforme da riformare» di cui è costellata l'esperienza italiana. Le elezioni amministrative del 6 e 20 giugno Anche nei confronti della legge sull'elezione diretta dei sindaci si poteva pensare tutto il male possibile: anch'essa è un centauro, con il mezzo uomo del sistema maggioritario innestato sul mezzo cavallo della proporzionale. Anziché produrre una semplificazione del sistema politico, in una prima fase ha favorito la proliferazione di liste e listine di ogni genere, tutte interessate ad apparentarsi a un candidato per puntare su una quota di premio di maggioranza. Tuttavia si poteva immaginare che, nonostante il lassismo della prima fase, il collo di bottiglia del ballottaggio, al secondo turno, avrebbe dato una stretta ai criteri di scelta dei cittadini. E ciò è puntualmente avvenuto. Anzi, per alcuni aspetti non c'è stato neppure bisogno di aspettare il ballottaggio. La sera del 6 giugno, fin dai primissimi exitpolls della Doxa, il primo turno delle amministrative dava l'idea di riportare tutta la politica italiana sul piano della realtà. Chi continuava a credere che i giochi si potessero ancora fare nel clima deformato del Parlamento, nelle contrattazioni in corso fra gli esponenti di una classe politica sul viale del tramonto, veniva sonoramente smentito. Dal punto di vista del metodo si era ancora in pieno sistema proporzionale, ma non occorrevano molti sforzi per capire che il voto dei cittadini stava continuando e approfondendo lo sconvolgimento del sistema politico. Il voto nelle principali città sanzionava una dura punizione per la Dc, e il contemporaneo abbattimento del Psi. Ma questa semplice constatazione assumeva un significato ancora più plateale se si considerava in combinazione l'affermazione della Lega, a Milano e pressoché in tutto il Nord (Torino compresa, anche se il candidato leghista Comino non riusciva a entrare nel ballottaggio). Tra i fattori di maggiore presa sull'opinione pubblica, si doveva considerare il valore simbolico della conquista di Milano, che per Formentini e Bossi a quel punto appariva a portata di mano. E anche l'affermazione di lista a Torino, dove la Lega diveniva in termini di voti il primo partito, e i vistosi successi in tutto il Nord del paese. Sulla base di queste considerazioni aggiuntive, la sconfitta democristiana e il crollo socialista assumevano la veste della disfatta del vecchio contro l'avversario più nuovo e accanito, quello che si è assunto come funzione storica l'abbattimento del «regime». Disfatta totale, quindi, a maggior ragione perché fra i partiti storici soltanto il Pds manifestava una tenuta, e qua e là un miglioramento, e quindi sarebbe stato il solo a poter rivendicare la titolarità di unico vero oppositore della Lega. C'erano anche altre tendenze da decifrare, come la discreta prova di Alleanza democratica e dei Popolari per la riforma di Mario Segni, che mandavano in ballottaggio Valentino Castellani a Torino e Enzo Bianco a Catania. Ma soprattutto risultava evidente una sensibile spinta a sinistra: come se gli elettori, non avendo ancora altri strumenti per esprimere il rifiuto nei confronti dei vecchi partiti, avessero deciso di utilizzare ciò che rimaneva a disposizione, radicalizzando comunque il proprio voto, rivolgendosi (oltre che alla Lega) verso Rifondazione comunista e la Rete. Si poteva cogliere anche una lezione, da quei risultati: e la lezione era che si poneva un problema cruciale, quello di dare un'efficace rappresentanza e un'opportuna chance politica agli elettori moderati. Dopo i risultati del 6 giugno si assisteva in numerosi casi alla disintegrazione del centro. La competizione era avvenuta assai spesso fra posizioni estreme o squilibrate. Diveniva quindi necessario valutare sul piano nazionale in che termini fosse possibile in futuro trovare una sintesi capace di restituire uno strumento politico all'elettorato moderato. Ci sarebbe stata anche un'altra lezione, a volerla imparare: in base ai risultati del voto si dimostrava che il turno unico non conveniva più a nessuno se non alla Lega Nord. Le forti perdite democristiane non consentivano più a Martinazzoli di scommettere realisticamente su questa soluzione. Ma nei giorni successivi, anziché prendere in considerazione le migliori opportunità del doppio turno, si provvedeva a infarcire il turno unico di tutta la zavorra proporzionalistica che si riusciva a recuperare (fra i grandi perdenti del confronto sul doppio turno vanno annoverati il Pds, che in seguito si è accontentato di votare contro la legge Mattarella ma reggendo nello stesso tempo il sacco in cui sono stati infilati tutti i bidoncini proporzionalizzanti; e soprattutto Segni, convertito dell'ultima ora al doppio turno, che si è ritrovato a perdere questa battaglia senza averla mai né preparata né sostenuta). Domenica 20 giugno si aveva poi la dimostrazione pratica di come il sistema a doppio turno con ballottaggio costituisca un formidabile strumento di semplificazione. I pilastri dell'ancien régime venivano recisi alla base. Tuttavia il processo di ristrutturazione politica restava incompleto: spazzava via dai principali comuni la Dc e il Psi, rendendo palese lo scarsissimo credito guadagnato dai loro malcerti tentativi di rinnovamento, e sanzionava di riflesso la forza della Lega Nord, almeno fino al Po. Ma lasciava praticamente integro il terzo caposaldo della Prima Repubblica, e cioè il Pds. L'alleato di tutti La posizione del partito di Occhetto appariva subito assai singolare. Sopravvissuto a fatica alla mareggiata post-comunista, il Pds oggi è una forza politica la cui consistenza su scala nazionale non dovrebbe superare di molto il 15 per cento dei voti. In alcune zone la concorrenza ai suoi danni di Rifondazione comunista si è dimostrata micidiale. Dovrebbe essere pertanto un partito a scartamento ridotto, il quale però ha potuto giostrare nelle elezioni amministrative di giugno rimorchiando tutte le alleanze ritenute convenienti: anzi, l'unico partito, fra quelli old style, in grado di esercitare un «potere di coalizione» a trecentosessanta gradi. All'indomani delle amministrative il contributo alla chiarezza risultava perciò limitato. Il Pds aveva vinto a Torino e a Catania insieme con Alleanza democratica, aveva perso a Milano e ad Agrigento intruppato con Rifondazione comunista e la Rete, aveva vinto di nuovo in importanti città come Ravenna, Ancona, Siena e in alcune località meridionali proponendosi come tradizionale stella fissa di tutta la sinistra, da quella moderata a quella estrema. Si trattava di risultati sufficienti per fare emergere una specie di nuova «questione comunista». Quando si andrà alle urne per le elezioni politiche occorrerà sapere chi è e che cosa vuole il Pds: è un partito che insegue l'unità a sinistra, pedinando il neocomunismo di Rifondazione e il radicalismo demagogico di Leoluca Orlando? Oppure è un partito di «sinistra-centro», come ha tentato di presentarlo in qualche occasione Achille Occhetto, che intende porre la sua candidatura al governo del paese stringendo patti d'azione con Alleanza democratica? Fino alle amministrative di giugno, Occhetto ha potuto rivestire tutte le parti in commedia, e sull'incerto canovaccio del nuovo ha recitato secondo il suo stretto interesse, magari solo presunto. Ma allorché si dovrà votare per le elezioni politiche, il segretario pidiessino dovrà anche spiegare all'opinione pubblica se il Pds è il partito della guarnigione massimalista che a Milano appoggiava Nando Dalla Chiesa oppure il partito neo illuminista che a Torino aveva scelto (bongré, malgré) di stare dalla parte di Castellani contro le suggestioni retrò e il populismo di Novelli. D'accordo che la logica del collegio uninominale, determinata in parte dal confronto fra persone, consente qualche acrobazia tattica. Ma questo è vero solo fino a un certo punto, e pensare che la scelta dell'elettore nel collegio avvenga generalmente in base alla figura dei candidati è un'illusione intellettualistica: siccome si dovrà eleggere un Parlamento e giungere alla formazione di un governo, occorrerà anche scegliere sulla base di un indirizzo politico di fondo. Altrimenti chi votasse un Pds alleato di tutti contribuirebbe a eleggere un plotone di parlamentari unito formalmente dalla sigla e composto in concreto da individui appartenenti ai più vari filoni della sinistra, dai riformisti ai comunisti integrali. In ogni caso, fra i risultati del ballottaggio del 20 giugno sembrava serpeggiare una linea di tendenza che poteva apparire discriminante: la strategia di tipo «comunista», cioè la scelta del Pds di legare il proprio destino a Rifondazione e alla Rete, non si dimostrava pagante. Si rafforzava l'idea che l'avvenire del Pds consistesse davvero, a questo punto, nel proporsi come forza nazionale di governo, partito che rovescia la celebre formula degasperiana sul «partito di centro che va verso sinistra» e si qualifica come perno di un raggruppamento di sinistra-centro. Ammesso tuttavia che le altre forze politiche glielo lascino fare. La questione democristiana Fatti e rifatti i conti, la sensazione è che si rimaneva comunque nell'ambito di un'alternativa imperfetta. Da un lato si profilava infatti uno schieramento che dovrebbe comprendere Pds e Alleanza democratica, dall'altro la Lega Nord, segnata dai propri limiti di partito settentrionale. Alternativa tanto più zoppa in quanto almeno nella fase immediatamente successiva alle amministrative il Pds si presentava come un inquilino troppo ingombrante per l'ancora informe Alleanza democratica, un autentico uovo di cuculo nel nido in cui cinguettavano un po' stonati i Popolari di Segni e i resti sparsi del riformismo laico italiano, socialisti disillusi, liberali alla ricerca dell'onor politico perduto, repubblicani atipici come Ayala e Bianco. E nel frattempo ancora non si capiva che cosa avesse intenzione di fare Martinazzoli. La Dc rimaneva prigioniera nelle gabbie di un proprio pensoso fatalismo. Il suo segretario appariva recluso in una dimensione montaliana («ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»), ma fuori dalle evoluzioni retoriche, sul piano espressamente politico, si era potuto ormai registrare a che cosa fossero serviti i suoi temporeggiamenti, la rassegnata ostinazione nel credere che un giorno la «sbornia» antidemocristiana passerà: a vedere ridotto a un fazzoletto il vessillo democristiano nelle città di tutta Italia. Fino a quel momento, tuttavia, il futuro della Dc aveva ancora l'aspetto di una questione politica. Ma allorché mercoledì 23 giugno il capo della segreteria politica democristiana, Pierluigi Castagnetti, annuncia l'«autoscioglimento» del partito e la prossima nascita di «un'esperienza politica nuova», la portata del dibattito sul destino della Dc cambia in misura drammatica. L'annuncio del portavoce di Martinazzoli viene smentito, respinto, ridotto al rango di incidente lessicale. In sé e per sé dimostra in modo plateale una scollatura nel vertice democristiano, una défaillance organizzativa che la dice lunga sulla crisi del partito. Tuttavia proprio le reazioni che suscita, dalla ribellione violenta della vecchia Dc alle nuove spinte centrifughe che ne nascono, dimostrano che il futuro dello Scudo crociato è uscito dalle contingenze della politica per tramutarsi a pieno titolo in un problema che non è esagerato definire storico. Ciò che è entrato in discussione è proprio il ruolo della Dc in quanto partito-tutto, partito-stato e partito-società, partito di cattolici e laici, in grado di proporsi come sintesi e composizione di una fascia amplissima di ceti e di interessi. Le ragioni di questa perdita di identità e di funzione sono molteplici. Di sicuro, la fine dalla contrapposizione con il Pci, dopo l'Ottantanove, ha fatto evaporare la rendita, che sembrava eterna, di baluardo democratico contro le forze antisistema. Altrettanto certamente, il capillare affermarsi della Lega Nord ha rastrellato settori di elettorato tradizionalmente democristiano, per i quali è divenuto intollerabile il criterio redistributivo e il carico clientelarassistenziale di marca andreottiana, e che in prospettiva vedono i propri interessi meglio tutelati dalla promessa leghista di abbattere il patto sociale finora sottoscritto e garantito dalla Dc piuttosto che dalle oscure promesse di Martinazzoli di rifondare il partito. E infine l'ondata nera di Tangentopoli ha sommerso il partito che, con il Psi, incarnava la continuità e la responsabilità del potere, e uno stile di governo che all'improvviso appariva inaccettabile alla generalità dei cittadini. Tuttavia la Dc non è stata soltanto il partito al centro del sistema politico, la stella fissa, il pilastro o la base d'appoggio di ogni coalizione: è stata anche il cemento, molle e roccioso, del particolarissimo sviluppo italiano, l'interprete e l'esecutrice di un modello che impastava insieme i contrari: le fatiche della piccola e media impresa e l'ipertutela sindacale, uno stato sociale che era nello stesso tempo un costosissimo «socialismo dei ceti medi» e un dilapidatorio assistenzialismo clientelare, la modernizzazione non guidata e l'arretratezza tutelata a spese della collettività. Per queste ragioni, i dilemmi che lacerano la Dc non sono semplicemente di collocazione politica o di raccordo con altri partiti. È una consapevolezza di questo tipo quella che induce Martinazzoli alle sue pensose esitazioni. Il leader democristiano capisce che una Dc che subisse la tentazione «cossighista», neocentrista, proponendosi come la controparte meridionale della Lega, con il proposito implicito o esplicito di venire a patti con Bossi, farebbe partire un fortissimo contraccolpo alla propria sinistra. In modo analogo, la collocazione in una indeterminata quanto affollatissima «area di progresso» farebbe scattare lo scisma sulla destra, da parte di chi intende occupare lo spazio politico-elettorale moderato. Da camera di compensazione la Dc sta diventando una camera di scoppio. E allora? C'è stata un'occasione, nel consiglio nazionale democristiano di giugno, in cui Martinazzoli ha parlato in modo più esplicito del solito, sottolineando che l'esigenza «non è tanto di riallacciare i rapporti con le forze politiche ma di tentare una grande riconciliazione con la società». Dietro queste parole si legge una convinzione: la sorte della Dc è legata alla sua capacità di riproporsi nella sua interezza. Cioè di reinventarsi completamente nuova e completamente uguale. Allorché lanciava l'idea dell' «assemblea costituente», insidiosamente vicina alla data simbolica del 25 luglio, Martinazzoli si accingeva all'impresa prodigiosa di tenere insieme tutto il corpo della Dc e nello stesso tempo di dargli un'anima nuova. Sfidando il probabile risultato di non guarire il corpo e di non salvare l'anima. Mentre tutto appariva in movimento frenetico, Martinazzoli si ritrovava una sola carta da giocare: stare fermo, anzi immobile, offrendo tutt'al più un po' di cosmesi come se fosse chirurgia, mediazione come se fosse scelta stringente, silenzio o mugugno come se fosse parola dirimente. Forse covando nel suo intimo l'illusione che la Prima Repubblica non fosse del tutto declinata, e che nel pieno di uno straordinario rivolgimento politico fosse possibile rivolgere al tramonto della Dc la miracolosa invocazione biblica «fermati o sole». Martinazzoli entra nell' «assemblea costituente» del 23 luglio essendosi convinto che la Dc, o come si chiamerà, deve continuare a essere un partito di centro, anche se il sistema elettorale uninominale maggioritario definisce il centro come una posizione da contendere fra gli schieramenti, e non come una trincea o una roccaforte da occupare stabilmente. Continua a pensare che la Dc costituisce una garanzia dell'unità nazionale. È giunto a pensare che nel codice genetico democristiano è iscritto un avvenire «tedesco»: la Dc del futuro potrebbe essere un partito come la Cdu, di stampo popolar-conservatore ma non alieno da volontà modernizzatrici. Il fatto è che questa soluzione viene con estremo ritardo, mentre il partito è una galassia in espansione, dilatata da una spinta verso lo spazio esterno che minaccia di disintegrarla per sempre. Rosy Bindi ha lanciato la Dc del Veneto verso sinistra, riafferrando la coda del solidarismo e dando voce alle nuove, o vecchie, velleità cattolico-sociali che non hanno mai smesso di guardare a sinistra: il rosibindismo dichiara attenzione a Segni, culla l'ipotesi che si avveri alla fine il fatale incontro con il Pds, e non rinuncia nemmeno a ipotizzare il «recupero» di Leoluca Orlando. Altri settori del partito stanno invece nutrendo tentazioni definite enfaticamente «giscardiane», comunque neomoderate. In Sicilia invece Sergio Mattarella cerca di fare della Dc un esperimento politico radicale, sfidando consapevolmente il rischio che lo Scudo crociato diventi un partito di semplice testimonianza minoritaria. In tutto il Centro-Sud si avverte il desiderio dei notabili di regionalizzare il partito (naturalmente senza confessare apertamente che la cosiddetta regionalizzazione significa in sostanza una cosa sola: mano libera nella formazione delle liste e sfruttamento intensivo delle reti clientelari che finora hanno tenuto insieme l'elettorato e che si prospettano ora come l'ultimo strumento di sopravvivenza politica). Con ogni probabilità, il «partito tedesco» era un'opzione percorribile fintanto che Mario Segni restava nella Dc. Ma il leader referendario se n'è andato in anticipo, ha portato a casa il referendum da non democristiano, e costituisce da mesi la più acuminata spina nel fianco di Martinazzoli. Per i democristiani si profila, minacciosa, la rivalità di Alleanza democratica. Alleanza democratica e l'arca della coalizione Ad ampi settori moderati, le iniziative di Segni dopo l'uscita dalla Dc sono apparse perlomeno indecifrabili. Dopo il18 aprile, molti si aspettavano che il leader dei Popolari si sarebbe candidato a capo di uno schieramento moderato. E invece, già a metà maggio, con il primo lancio di Alleanza democratica, Segni ha dato l'impressione di infilarsi in un'altra formazione di sinistra, inflazionando ulteriormente lo spazio politico «progressista». Date le caratteristiche di Segni, la scelta è apparsa incongrua, ma le analisi al riguardo sono state generalmente epidermiche. L'evidente fastidio dei settori ultramoderati per lo slittamento a sinistra dei Popolari ha prevalso sull'esame a freddo delle ragioni di una strategia di questo tipo. In realtà, Segni e i suoi avevano cominciato a giocare una partita senza scampo, dominata da un'alternativa secca: o i Popolari riuscivano a sfondare, oppure erano destinati all'insignificanza. Per questa ragione, un campione del moderatismo e delle idee semplici come Segni ha puntato su un'ipotesi vistosamente movimentista, fondata sull'inutilità delle vecchie contrapposizioni destra/sinistra: e in un primo tempo anche sulla scommessa che nulla del vecchio ordine poteva salvarsi, e in particolare che non si sarebbero salvati i due pilastri del sistema politico della Prima Repubblica, né la Dc né il Pds. Il ragionamento è stato avvalorato dalle elezioni amministrative di giugno per ciò che riguarda la Dc; ma è stato in apparenza smentito per la parte che attiene al Pds. Il partito di Occhetto si è sentito un vincitore, fino a pensare di potere approdare sulla sponda del nuovo sistema politico senza altri sacrifici. E dunque per Segni è sorto un problema. Oltretutto, vista con gli occhi dei più freddi fra i Realpolitiker, Alleanza democratica appare da un lato come uno strumento di riciclaggio di giovani e meno giovani notabili, dall'altro come un plotone di colonnelli senza esercito. Gente capace di impettirsi spiegando a Occhetto come e perché il Pds dovrebbe rapidamente sciogliersi in Alleanza democratica, e di dimostrare infallibilmente a Martinazzoli che la Dc appartiene al passato. Ma tutto questo fa parte dei circenses della politica. La costituzione di Alleanza democratica, annunciata in due riprese a metà luglio, rappresenta la sintesi di un processo politico importante, che intercetta almeno due questioni di grande rilievo. La prima questione riguarda il destino dell'elettorato centrista. Se si prevede che nella Dc le spinte centrifughe si andranno accentuando, dentro Ad i Popolari di Segni costituiscono un magnete potenzialmente in grado di attrarre, piuttosto che tronconi di nomenklatura democristiana, consistenti settori dell'elettorato dc, sia i cattolici stanchi di un partito ormai bollato come sentina di corruzione sia i laici orfani dei partiti di centro. La seconda questione concerne un principio o un fattore strategico in un sistema politico ristrutturato con le nuove regole elettorali. Pur con un meccanismo elettorale ancora mediocremente ibrido, le maggiori possibilità di successo non appartengono al partito teoricamente più forte: se così fosse, non ci sarebbe rimedio alla famosa Italia «tripartita», con la Lega trionfante al Nord, il Pds vittorioso al Centro, e un Meridione a pelle di leopardo spartito fra residui democristiani, destra, Rete. Le chances di affermazione più realistiche appartengono invece al partito maggiormente in grado di organizzare alleanze. Il partito cioè che detiene la quota maggiore del «potere di coalizione». Se si fa riferimento alla situazione attuale (rilevata con le elezioni amministrative di giugno), si può registrare che questo potere non lo ha certamente la Lega Nord, che anzi vuole continuare a caratterizzarsi per una solitaria contestazione di ciò che resta del sistema politico-istituzionale. E di certo non lo ha la Dc, dopo essere stata la stella fissa di ogni alleanza di governo: rimasta al centro di tutto per mezzo secolo, ora la Dc prova la sottile angoscia di trovarsi all'angolo (tanto è vero che ha combattuto con ogni mezzo la scelta del sistema elettorale a doppio turno proprio per il timore di una coalizione generale di «tutti gli altri» ai suoi danni). Per quanto possa risultare stupefacente, l'unico partito che mantiene un ampio potere di coalizione, come si è detto in apertura, è il Pds. Ma non in forza di una politica, di una scelta programmatica, di una particolare attrazione sull'opinione pubblica. Vale la pena di ripetere che il Pds è pur sempre una forza politica a sui era caduto in testa il Muro di Berlino, e in seguito anche qualche mattone di Tangentopoli. Il potere di coalizione del Pds è più o meno un regalo piovuto dal cielo. Tanto è vero che per esercitarlo Occhetto deve agire da trasformista, ora presentandosi come partito di sinistra che arruola la Rete, i comunisti di Rifondazione e i più rossi dei Verdi, ora guardando tatticamente al centro del sistema politico in nome del nuovo. Per questa ragione, Alleanza democratica nasce su una premessa fondamentale, a cui affida tutto il proprio destino. La premessa del successo di Ad risiede non tanto nella rottura con il Pds, ma sicuramente nel tentativo di sottrarre al Pds il potere di coalizione. Malgrado i molti «ponderi» di entrambe le parti, che cercano di salvare i rapporti con il Pds, ci vuole poco a riconoscere che gli interessi di questi due schieramenti sono in concreto estremamente divergenti. Al Pds servirebbe poter giocare gli accordi con Segni, Ayala, Adornato & c. quando e come gli fa comodo, tenendosi le mani libere per allestire coalizioni diverse dove gli risulta più utile. Ad Alleanza democratica il Pds può interessare soltanto come partner il più possibile subalterno, non qualificante. Anzi, posto come obiettivo la conquista degli elettori moderati, Ad ha tutta la convenienza a marginalizzare a sinistra il Pds. Se questo ragionamento è fondato, appaiono un esorcismo senza troppi significati i timori espressi da alcuni esponenti di Ad verso i rischi di una potenziale «deriva centrista» che si avrebbe nel caso di rottura con il Pds; e sono chiacchiere gli appelli accorati per un fumoso incontro «fra culture diverse». Salutando la nascita ufficiale di Alleanza democratica, il 15 luglio, con un articolo su «la Repubblica», Michele Salvati ha esordito dicendo di «nutrire la ragionevole fiducia che le forze confederate in Ad possano costituire il polo di sinistra-centro che contenderà alla Lega e alle forze di destra-centro il governo del nostro paese in una futura democrazia dell'alternanza»; ma nella conclusione si è dovuto realisticamente limitare all'«augurio» che l'incontro tra Ad e Pds sia possibile e dia vita al crogiolo di un grande «partito democratico». Ma se si esce dall'alone degli auspici, si potrebbe riconoscere facilmente che spingere il Pds sul margine sinistro della politica è una scelta che diverrà automatica non appena Occhetto si irrigidirà, come del resto ha già fatto, di fronte alle condizioni che gli verranno poste. E la condizione principale dettata da Ad non può essere che la sottoscrizione di un rapporto omogeneo su tutto il territorio nazionale, tagliando di netto quei rami della Quercia che si protendono verso il terreno dell'antagonismo politico, presidiato da Rifondazione e Rete. E dunque il vero obiettivo di Alleanza democratica potrebbe risultare per necessità lo sfondamento sul centro, cioè contro la Dc. E presumibilmente su questo terreno che si giocherà la partita più dura. La fortuna di Ad dipende quindi con ogni probabilità dalla malasorte democristiana. Conquistata l'arca con le tavole della legge, quel simbolo che assicura il possesso del potere di coalizione, ad Alleanza democratica spetterebbe poi di condurre la battaglia nei collegi, attaccando tutte le posizioni dominanti. Ma a quel punto non dovrebbe essere più un crogiolo di forze eterogenee, e neppure il frutto di illusioni ideali e di delusioni politiche, ma proprio un partito vero, con uno statuto politico e un programma. Scelte decisive attendono Ad, a cominciare dalla campagna per le amministrative di novembre (con la mina della candidatura di Leoluca Orlando a sindaco di Palermo, che potrebbe costituire un duro banco di prova per la collocazione di un soggetto politico ancora allo stato nascente). E la scelta fondamentale riguarda la necessità di esprimere, dopo i sempre più usurati appelli in nome del nuovo, le parole della politica.
Il Mulino, 09-10 1993
Gli esorcismi della solidarietà
Come per la moneta, c'è un'inflazione anche per il valore delle parole, che le logora e le svaluta a mano a mano che aumenta la loro circolazione. Ci sono parole o espressioni divenute ormai praticamente impronunciabili, o pronunciabili solo rischiando sarcasmi che hanno il sapore dell'inevitabile: la lotta, le masse, le conquiste, la società reale, il progresso e il nuovo, il trend, il mix, gli spazi di libertà, l'evento epocale, la solidarietà. Già, proprio la solidarietà. Cioè il totem politico-sociale di maggiore e trascinante successo dopo il verificarsi di un'altro degli awenimenti «che non si possono più dire in pubblico», cioè «la fine delle ideologie». Solidarietà ed egoismo Uno dei metodi più semplici ed efficaci per smascherare le minori e maggiori truffe partigiane praticate nel lessico politico quotidiano è sempre consistito nel porre in raffronto una formula convenzionale con il suo contrario. Che il «partito degli onesti» fosse una invenzione tendenzialmente losca risultava, e dovrebbe risultare, chiaro semplicemente pensando che gli eventuali awersari di questo partito, cioè tutti gli altri, avrebbero costituito nei fatti il «partito dei disonesti». Che il pacifismo a oltranza risultasse in una insopportabile falsificazione si poteva capirlo semplicemente ragionando su chi fossero gli avversari dei «pacifisti»: forse i «guerrafondai»? Nel caso della solidarietà si implica come evidenza primaria che il suo opposto è l'egoismo. E di conseguenza, rispetto allo stuolo pressoché infinito dei generosi fautori della solidarietà, dovrebbe essere come minimo precisato chi sono gli eventuali «egoisti». Il manicheismo intrinseco nelle definizioni strumentali, di comodo, è di tale scoperta evidenza da rendere in sé impraticabile questo gioco di dicotomie. Tuttavia per ciò che riguarda le visioni solidaristiche il caso contiene una complessità maggiore. Innanzi tutto perché la solidarietà viene definita, percepita e soprattutto affermata come un «valore», in quanto tale sostanzialmente indiscutibile (oppure discutibile solo con un atto di malafede), una stella fissa di qualsiasi proposta politica presentabile, con un contenuto squisitamente apodittico. Ma in secondo luogo perché il suo alone ha permeato tutta la riflessione politico-sociale di ciò che continua a definirsi «sinistra». Ne risulterebbe, come puro derivato, che il contrario della solidarietà, cioè della sinistra, è la «destra»: riversando nel calderone della destra il liberismo economico, la reaganomics, il monetarismo à la Milton Friedman, il radicalismo di Margaret Thatcher e quant'altro. Ora, è tutto da dimostrare che i sostenitori della destra liberale siano più egoisti per una specie di necessità antologica. Si può sostenere in piena legittimità, ed è stato fatto innumerevoli volte, che l'impulso all'assunzione individuale di responsabilità e la spinta a un assetto meritocratico costituiscano una forma di aiuto o di incentivo al prossimo più razionale dell'erogazione di aiuti in denaro o in servizi di assistenza. Nella loro strenua fede nell'asserzione per cui ciascuno è l'artefice della propria fortuna, Ronald Reagan e la signora Thatcher sostenevano che gli homeless di New York e i barboni dell'Inghilterra contemporanea volevano fare quella vita miserabile, e che quindi tutti gli sforzi per dar loro un tetto o un'occupazione erano contigui all'irragionevolezza. Una delle bibbie del liberismo economico, l' «Economist», si dichiara programmaticamente contrario alle forme di sostegno al Terzo Mondo, anche in forma caritativa, nella convinzione che gli aiuti danneggiano soprattutto chi li riceve: «Se diamo da mangiare all'Africa, come impareranno gli africani a nutrirsi da soli?». Tuttavia, anche senza estremizzare il ragionamento, senza trasferirlo cioè in una dimensione che risulterebbe paraideologica, rimane comunque una domanda di fondo che appare difficile evitare: si è più solidali distribuendo risorse o sollecitandone la creazione? è un esempio migliore di solidarietà tutelare i più deboli oppure metterli in grado di essere responsabilmente autosufficienti? Se si accettano queste domande come plausibili ne deriva che non è affatto semplice individuare, in politica, gli «egoisti». Al massimo esistono concezioni di antropologia politica che muovono dalla considerazione realistica dell'uomo come animale non necessariamente altruistico, e che contano di produrre un bene (una convivenza migliore, un benessere maggiore) facendo leva su un male. Ma non esistono, se non nelle caricature di parte, filoni di pensiero liberale che teorizzino e programmino un obiettivo definibile come «egoismo» e non esistono movimenti politici iscritti nella concezione liberale che lo promuovano come ipotesi d'arrivo su cui plasmare la società. Esisteranno individui empiricamente egoisti, ci saranno fasce sociali tese a proteggere egoisticamente le posizioni raggiunte, anche a scapito di altri, ma un progetto generale che voglia affermare il privilegio di alcuni a scapito altrui lo si può trovare probabilmente solo in alcune semplificazioni ottocentesche. Così come governi faziosamente schierati a tutela del grande capitale, della grande industria o della grande finanza, e propensi a schiacciare intenzionalmente i ceti meno abbienti, non si registrano nelle democrazie avanzate. I sistemi democratici industriali e postindustriali si caratterizzano semmai per avere creato estesissimi ceti medi, e per avere fortemente attenuato le differenze di reddito e di status fra la generalità dei cittadini. Si può obiettare, ed è un'obiezione praticamente automatica, che questo processo distributivo ormai non riesce a intaccare lo zoccolo delle vecchie e nuove povertà e delle classiche o inedite marginalità. Ha avuto successo negli anni scorsi la formula di Peter Glotz sulla «società dei due terzi», in cui una maggioranza sociale sostanzialmente compatta e soddisfatta di sé non si preoccupa delle condizioni di vita del terzo restante, confinato in condizioni di insignificanza politica, di subalternità o esclusione culturale e di acuto disagio sociale. Secondo questo schema di interpretazione, l'alternarsi al governo di partiti di centro-destra, propensi all'accumulazione e alla stabilizzazione della ricchezza, e partiti di centro-sinistra, più inclini alla redistribuzione, non influisce sulla situazione del terzo marginale, e alla fine dei conti la società opulenta risulta nei fatti quella blockierte Gesellschaft descritta dai critici post-francofortesi, capace tutt'al più di modificare in misura inessenziale i rapporti fra le ampie fasce sociali privilegiate, ma del tutto incapace di offrire opportunità di riscatto ai deprivilegiati. Già sarebbe di qualche interesse discutere se la «società dei due terzi» sia effettivamente tale (o non piuttosto una società dei quattro quinti), ma anche prendendo alla lettera il modello di Glotz, che esplicitamente o no è divenuto una specie di vulgata della coscienza sociale della sinistra post-ideologica, se ne dovrebbero trarre alcune conseguenze piuttosto rilevanti. Vale a dire, in primo luogo una riflessione sui sistemi di Welfare e sulla loro capacità di incidere sulle condizioni di vita dei cittadini; e in seconda istanza sull'azione dei partiti di centro-sinistra. A quanto pare, né lo stato sociale riesce ad annullare le situazioni di disagio, né i partiti socialdemocratici sono riusciti a promuovere le condizioni di vita proprio dei cittadini che maggiormente hanno bisogno di rappresentanza politica. Il Welfare è una macchina che premia chi la paga (cioè i ceti medi), e i partiti di centro-sinistra tradiscono almeno in parte le loro ispirazioni, o perlomeno falliscono in qualche misura rispetto agli obiettivi conclamati. Fallimento anche questo parziale, visto che concerne una minoranza della società, ma comunque fallimento, tanto più vistoso e imbarazzante quanto più riguarda proprio lo zoccolo di esclusione maggiormente «scandaloso»: i più poveri dei poveri, i più estranei degli estranei, i più devianti dei devianti. E dal momento che non è immaginabile, o non è razionalmente praticabile, una politica di redistribuzione radicale, in grado di sostenere i livelli di vita della maggioranza dei cittadini e contemporaneamente di trasferire risorse significative agli esclusi dal benessere, ne deriva una conseguenza piuttosto significativa: vale a dire che la soluzione del dilemma dei due terzi non può risiedere né in un imponente programma di assistenza sociale né in una velleitaria radicalizzazione dei programmi di politica tributaria. Poiché il disagio sociale è un fenomeno complesso, le soluzioni non sono semplici e soprattutto non sono automatiche. È più facile che l'impostazione meglio adeguata e più opportuna risieda in un programma di investimenti pubblici (a partire dalla scuola in quanto fattore di integrazione sociale) che non in una voluminosa politica assistenzialistica. Si tratta certamente anche in questo caso di una classica ricetta solidaristica, che prevede un accrescimento del peso fiscale per la realizzazione di consistenti investimenti pubblici oppure l'indirizzo del flusso di risorse in una direzione diversa rispetto al passato. Ma dal momento che non esiste un disagio sociale semplice, è lecito pensare che per alcuni aspetti sarebbe opportuno ricorrere a una gamma di interventi differenziati. Ad esempio, alla disoccupazione o alla non occupazione si può rispondere certamente con strumenti di ammortizzazione standardizzati (come i sussidi attinti da una cassa comune), ma anche con incentivi alla creazione di lavoro, attraverso tipici strumenti di deregolazione: sgravi fiscali per la creazione di imprese, agevolazioni per la produzione di lavoro. Se un immigrato maghrebino, che non trova lavoro nella grande o nella piccola industria, decidesse di mettere in piedi con due connazionali un'impresa di pulizie, sembrerebbe singolare costringerlo al sovraccarico di tasse, adempimenti formali, norme sindacali che gravano sul settore. Se lo si fa, applicando in modo ottusamente automatico gli standard solidaristici in vigore per gli operai dei due terzi «privilegiati», lo si costringe di fatto a precipitare nel sommerso, oppure a chiedere l'elemosina agli incroci fingendo di lavare i parabrezza. Se non a spacciare eroina negli slums. Lo stesso discorso può valere per il laureato in lettere che anziché tentare la lotteria dei concorsi pubblici o cercarsi un protettore politico per un'assunzione in comune volesse provare ad aprire un'agenzia di relazioni pubbliche o di servizi culturali. Non sempre, quindi, uno spezzone di politica di laissez-faire si può identificare come «di destra», e non sempre una politica «di sinistra» risulta automaticamente funzionale agli obiettivi che la sinistra è solita agitare. Solidali con tutti? In Italia, dire solidarietà è divenuto un luogo comune per un'amplissima gamma di soggetti politici. Egoista è soltanto, in una definizione di cui si coglie facilmente l'intenzione discriminatoria, soltanto la Lega Nord. Si appellano alla solidarietà non solo i vari tronconi della Dc, ma anche il Pds, e perfino ormai Rifondazione comunista. Potenza degli «avvenimenti epocali» e della «fine delle ideologie»: si dovrebbe ricordare che non c'è, nella tradizione che discende dal comunismo, e nell'esperienza storica concreta del socialismo marxista, la minima concessione a una solidarietà generale e in differenziata. Il principio che ha strutturato i partiti della sinistra ideologica era la lotta di classe, non il solidarismo. La solidarietà, per i partiti comunisti, era al massimo solidarietà proletaria. La stessa esperienza storica della solidarietà socialista, con il movimento cooperativo e il mutuo soccorso, contiene in sé l'indicazione di un ambito di cooperazione circoscritto, di norma e di fatto. Si direbbe che al termine di una parabola durata per tutto il nostro secolo, scomparse le certezze massimaliste, anche i più riottosi epigoni del marxismo hanno scoperto il Welfare State, cioè la costruzione più socialdemocratica e revisionista che sia stata creata dalle società occidentali. Perduto il dogma, cioè la sicurezza che nel mondo ulteriore del socialismo realizzato ai «capitalisti» sarebbero stati strappati, per socializzarli, gli strumenti del loro privilegio, la sinistra, anche quella che continua ad autodefinirsi antagonistica, si aggrappa alla più borghese delle invenzioni sociali, a uno strumento concepito e realizzato proprio per sterilizzare, ammorbidire, limitare il conflitto di classe. In sostanza, la solidarietà proletaria incorporava in se stessa il conflitto, la propria opposizione a un potere, ma comunque aveva in sé la chiarezza di indicare verso chi fosse rivolto l'atteggiamento solidale. E in modo simmetrico, il primo grande movimento di rivolta e di insurrezione contro la struttura di potere comunista, Solidarnosc, esprimeva con il suo nome una solidarietà popolare in evidente e drammatico contrasto con l'apparato «socialista». Oggi invece la rivendicazione della solidarietà come principio politico-sociale si guarda bene dallo specificare i propri confini e i propri interlocutori. Chi dovrebbe essere solidale, e con chi? I grandi imprenditori, capitalisti, finanzieri verso tutti gli altri? I ceti medi integrati nel benessere verso gli esclusi? Gli occupati verso i disoccupati? Il Nord industriale verso il Sud assistito? L'impiego pubblico «protetto» verso l'impiego privato esposto ai rischi della concorrenza? I cittadini verso coloro che non hanno cittadinanza? I commercianti legali verso i venditori extracomunitari di chincaglieria in nero? Nei suoi termini di slogan per tutte le stagioni, la solidarietà è un appello convenzionale e distratto, una specie di tributo che non costa niente versare a parole per sentirsi e dimostrarsi dalla parte giusta. Si paga il ticket verbale della solidarietà e si ottiene la tessera d'iscrizione al club dei «buonisti», dei fervidi «anticattivisti». Ma accettiamo pure, almeno per qualche momento, che si possa discutere, molto generalmente, di un atteggiamento di solidarietà di fondo da parte di chi gode del benessere verso chi non ne può godere. Sta di fatto che i cardini della solidarietà italiana, le prestazioni previdenziali e assistenziali, hanno giocato un ruolo decisivo nell'indebitamente dello Stato. Se si introduce nella riflessione la dimensione temporale, la presunta solidarietà hic et nunc si rovescia così, in modo virtualmente catastrofico, in una totale e dissennata assenza di solidarietà verso le generazioni future, a cui toccherà il compito di riequilibrare i conti, cioè di pagare i nostri debiti e le nostre cambiali facili. Come si può vedere, si tratta di riflessioni non particolarmente originali. Tuttavia anch'esse mettono in luce che auspicare un alto livello di cosiddetta solidarietà non significa nulla, è un perfetto ideologismo, un cascame illusionistico, se non si capisce che la solidarietà ha un costo, è quindi un bene scarso, che prima di essere distribuito deve essere prodotto. Chiunque parli in termini ispirati della solidarietà, magari alludendo a una società migliore e più «giusta», avrebbe anche l'obbligo morale di specificare che ciò significa: tasse più alte; oppure stipendi pubblici più bassi; meno insegnanti o ferrovieri occupati; eccetera. Oppure, nel caso che si voglia comunque spendere solidaristicamente più di quanto si ha, maggiore debito pubblico o inflazione più alta. E bisognerebbe anche sapere, quando si sente parlare con qualche malcelata nostalgia delle «conquiste sociali» dei regimi anticapitalistici, come si continua a sentire nel caso della dissolta Ddr, che quelle conquiste (il lavoro, o meglio il posto di lavoro, per tutti, la scuola gratuita, l'assistenza sanitaria generalizzata ecc.) sono state pagate con la bancarotta di una intera collettività, cioè con una tragedia materiale e psicologica immane. Per restare dalle nostre parti, si affaccia oltretutto un sospetto, e piuttosto maligno per giunta: che dietro il termine che oggi viene speso sul mercato politico come «solidarietà» si nasconda più concretamente quell'intrico di pratiche che è servito soprattutto ad acquisire - a comprare - il consenso dell'elettorato: le erogazioni clientelari, la tutela dei posti di lavoro nelle aziende pubbliche non competitive, le pensioni di invalidità accomodanti, le assunzioni per simpatia e appartenenza politica, il rigonfiamento corporativo degli organici. E se questo sospetto fosse vero, significherebbe che gran parte dei lamenti orchestrati dai partiti italiani contro «lo smantellamento dello stato sociale» (come si è sentito non di rado durante l'azione del governo Amato, perfino da parte delle forze politiche che lo appoggiavano) erano più che altro l'espressione del disagio di chi si vedeva togliere di mano gli strumenti che permettevano di controllare i voti. Distribuire la povertà Una delle ultime elaborazioni coerenti e politicamente impegnative del principio di solidarietà fu argomentata in Italia dall'entourage rodaniano di Enrico Berlinguer. Nell'Italia degli anni Settanta, mentre serpeggiava l'idea che la società industriale fosse giunta al suo termine e la linea dello sviluppo capitalistico si fosse spezzata per sempre, la visione di una società «austera», preoccupata di distribuire equamente la povertà, poteva avere un suo fascino: ma era un fascino insidiosamente aristocratico, alimentato da una profonda sfiducia nelle capacità collettive e individuali di trovare una strada che riportasse verso lo sviluppo. Presupponeva una società immobile e propensa ad accettare la propria immobilità, portata alla rinuncia più che alla promozione di se stessa. Inutile dire che questa concezione di sapore millenaristico, che esasperava l'eguaglianza fino a darle un senso implicito di tendenziale coazione collettiva, era ancora il frutto di una concezione «progettuale», pianificatoria, della realtà sociale. Ma perlomeno additava un obiettivo sociale che metteva nel conto un sacrificio da parte di alcuni a vantaggio di altri. Si svolgeva insomma ancora nell'ambito di un calcolo economico, per quanto applicato a una realtà ritenuta statica, formulando le condizioni di una redistribuzione molto profonda delle risorse disponibili. Di fronte a un'ipotesi del genere, si poteva ricordare che immediatamente dopo la seconda guerra mondiale, in un'Inghilterra drammaticamente impoverita dal conflitto, i programmi lanciati dal partito laburista si opponevano alle proposte di equidistribuzione della povertà, e scommettevano con un certo eroismo su una traiettoria di sviluppo, sottolineando che il vero problema era quello di prepararsi a gestire volumi crescenti di ricchezza. Invece, solo chi è legato alla visione di una realtà sociale stazionaria può pensare che il compito della politica consista nel ritagliare quote uniformi delle risorse e distribuirle egualitariamente. Oggi invece, tramutatasi in una parola passe-partout, nell'eco di una religione sclerotizzata, la solidarietà è diventata una pura essenza, patrimonio di tutti e mai verificata sul registro delle compatibilità. Si dice solidarietà e si intende in concreto stato sociale, sembra di capire: ridotto ai minimi termini, il discorso consiste nell'accettare consapevolmente una riduzione del proprio reddito al fine di allestire gli strumenti per alleviare le occasioni di disagio dei più deboli. Se fosse così, ci sarebbero ben poche poche obiezioni da mettere in campo. Obiezioni quantitative, da un lato, tese a definire le quote di risorse da impiegare sul totale del reddito, e dall'altro un'obiezione qualitativa e radicale, secondo cui il valore morale del contributo coatto alla solidarietà istituzionalizzata è zero. Un'obiezione che potremo riprendere in seguito - anche se costituisce una sfida fortissima e implacabile - dal momento che potremmo dare per assodato che la nostra adesione a un contratto sociale e politico, mediato dai partiti e dai criteri a cui essi hanno dichiarato si ispirarsi, «comprende» nel suo insieme anche il consenso a politiche di tipo redistributivo, incorpora cioè anche la pratica in cui si concreta la suggestione alla solidarietà. Tuttavia, come è stato dimostrato ampiamente, lo stato sociale può essere discusso anche sotto un profilo strettamente utilitaristico: proprio perché serve in larga misura per mantenere le condizioni di vita di chi lo alimenta e a produrre strutture burocratiche ipertrofiche, vale a dire in quanto sbaglia bersaglio. C'è un esempio sintomatico di come lo stato del benessere venga inteso mediamente come un congegno tautologico, che serve per dare a chi ha dato: nel nostro paese la maggioranza dei percettori di pensione è convinta di avere maturato un diritto attraverso il versamento e la capitalizzazione nel tempo dei contributi previdenziali; e non sa o non vuole rendersi conto invece che la pensione attuale viene pagata da coloro che lavorano adesso. Così come non ci sono diritti sganciati da doveri, l'appello alla solidarietà non dovrebbe mai essere separato da un richiamo stringente alla responsabilità. Altrimenti si potrebbe anche pensare che dietro la retorica sul malessere e sulla povertà degli altri si nascondano assai meno nobili riflessioni sull'interesse proprio. Dovremmo avere imparato che, di solito, i più enfatici discorsi pronunciati per conto terzi (per gli operai, per i disoccupati, per gli immigrati ... ) costituiscono uno dei più tradizionali strumenti di imprenditoria politica. Se vogliamo parlare di solidarietà, parliamone pure, ma sarà opportuno riconoscere in parallelo che essa non risiede solo in una serie di procedure meccaniche di redistribuzione del reddito. C'è sempre qualcuno più solidale C'è un brusio vagamente «cattolico», comunitario, quasi ecclesiale, nella parola solidarietà, al punto che risulta suggestivamente ironico che il termine sia divenuto l'ultima bandiera dei partiti ex comunisti o ancora comunisti e comunque «di sinistra». Ma, se è lecito opporre retorica a retorica, questa solidarietà secolarizzata, che viene cristallizzata nelle pieghe indurite dello stato sociale, è in realtà la parodia di una solidarietà autentica. L'atteggiamento solidale presupporrebbe una vicinanza concreta fra le persone, un faccia a faccia fra chi dà e chi riceve. Folle di professionisti in prestigiose località di villeggiatura, che ingorgano di fuoristrada le vie d'accesso alla preziosa località di villeggiatura, possono dirsi fautori della solidarietà perché pagano le tasse, se le pagano, e magari votano a sinistra? Si può parlare di solidarietà sdraiati sulla propria barca a Capalbio? Certamente, dal momento che se ne parla, e che anzi richiamarsi a essa diventa un principio di affinità politica, di reciproco riconoscimento e di riassicurazione sugli scopi ultimi dei propri programmi. Ciò nonostante è una solidarietà «orizzontale», priva di qualsiasi impegno vincolante. Si versa il dovuto allo Stato, e quello provveda a mantenere i disgraziati che non hanno di che vivere. Loro, i disgraziati, altrimenti definiti con degnata magnanimità «i più deboli», facciano però il piacere di non disturbare. Il massimo di solidarietà espressa a parole consiste insomma in una meccanizzazione redistributiva, macchinosa e impegnativa nelle procedure ma assolutamente disimpegnata sotto il profilo del coinvolgimento dei singoli. Non si vede con chiarezza in che cosa consista il valore umano o spirituale dell'accettare un prelievo fiscale da destinare alla redistribuzione. Lo si potrebbe accettare anche per motivi assai meno sentimentali e più «egoisti», ad esempio per uno striminzito calcolo di convenienza: è interesse di molti, infatti, che il disagio e l'infelicità di alcuni non turbino l'agiatezza soddisfatta di tutti gli altri. E quali sono le ragioni che inducono i paesi sviluppati a inviare dollari nel Terzo Mondo? Sono tutte riassumibili sotto la voce della generosità? Quando sfumano i punti di riferimento, riemergono gli echi di parole e sentimenti difficili da descrivere e altrettanto difficili da declinare. I valori, gli ideali. Ma si vorrebbe sapere quale contenuto di moralità posseggano i valori e gli ideali se non sono integrati in un contesto di compatibilità. Promettere enfaticamente una società «più giusta» non costa nulla, tanto più che il mio avversario politico potrà facilmente prometterne un'altra ancora più giusta, innescando una rincorsa potenzialmente senza fine. Alla fine di questa spirale velleitaria, non rimangono valori, non c'è una gerarchia o un equilibrio di diritti e doveri, c'è soltanto il vuoto delle parole a cui è stato sottratto il loro referente concreto, un «grande sogno» spogliato dei suoi caratteri di realtà a cui chiunque può opporre un sogno ancora più grande. Da qualche tempo, il dibattito sui temi politico-sociali in Italia si appoggia come una deriva ineluttabile ai pronunciamenti della Chiesa cattolica e dei suoi esponenti. Allorché papa Wojtyla negli Stati Uniti lancia il suo messaggio quasi visionario contro una struttura di scambi che conterrebbe l'umiliazione dell'uomo, oppure quando in Lituania estrae dai sedimenti melmosi della politica effettuale del regime comunista, con il gesto trionfale del vincitore sullo sconfitto, il «nocciolo di verità» del marxismo, questo diviene l'occasione per clamorosi titoli di giornale. In altri tempi, più rozzi e ineducati, il profetismo papale sarebbe stato rapidamente passato in giudicato come una copertura simbolica, una fuga atemporale, un alibi, un atteggiamento teso a riscattare sul piano della retorica quella che una volta veniva considerata una sostanziale acquiescenza della Chiesa ai processi capitalistici. Oggi, solo una colpevole grossolanità culturale potrebbe individuare nelle visioni di Giovanni Paolo II il pendant verbale all'atteggiamento pratico di una Chiesa che invece affida le sue chances politiche al doroteismo del cardinale Ruini. In realtà, l'atteggiamento della Conferenza episcopale rispetto, per dire, alla Dc, la difesa strenua di un modesto e residuale strumento secolare dell'unità dei cattolici, è molto meno rilevante rispetto alla tonalità dei messaggi che la Chiesa manda all'intera società italiana sui problemi concreti. Potrà interessare alla Curia, ai circoli vaticani, all'establishment democristiano. Allorché il vescovo di Modena, monsignor Santo Quadri, sponsorizza con parole molto sentimentali il tema cislino della redistribuzione del lavoro («lavorare meno per lavorare tutti»), non solo offre argomenti pesanti a una concezione esclusivamente difensiva del lavoro e dell'occupazione, ma offre l'imprimatur ecclesiastico a un messaggio che si rivolge a tutta la collettività italiana. E questo vale a ragione ancora maggiore per la posizione assunta da monsignor Agostino sul caso dell'Enichem di Crotone. Gli argomenti messi sul terreno sono sempre riconducibili in ultima istanza alla deprecabilità di un sistema che collocherebbe al primo posto della scala di valori il profitto. Conta poco che in realtà il profitto non ci sia affatto, e che il capitalismo di Stato sia in molti casi un generatore di perdite: ciò che importa è segnalare un'entità ostile verso cui indirizzare immediatamente le più accorate deplorazioni e indicare retoricamente una prospettiva su cui è possibile far convergere meccanicamente una vastissima gamma di consensi. Eh no, troppo facile. Allo stesso modo in cui dopo anni di strepiti contro il consumismo si è subito passati al lamento per il cedimento del consumo. Troppo facile prima di tutto perché nelle recriminazioni contro il profitto (questo profitto fantomatico di cui permarrebbero i metodi anche in assenza dei risultati) scompare qualsiasi coscienza della durezza, della necessità intrinseca nel processo economico, delle molteplici e vincolanti responsabilità a cui dovrebbero attenersi tutti i soggetti iscritti nel circuito dell'economia. E troppo facile, corrivo, manipolatorio anche in quanto, così facendo, si accredita surrettiziamente l'esistenza di due entità separate, un «noi» solidale e preoccupato degli altri, e un «loro» costituito da individui misteriosamente uniti nella mistica del profitto e in suo nome disposti a ogni accanimento, anche il più irragionevole, contro l'uomo. Se vuole il cielo, il mondo non si divide in un regno delle fate e nel covo del male. Non ci sono nemici invisibili, burattinai che per sadismo tirano i fili di un maleficio contro gli infelici. Eppure, è proprio questo schema che viene fatto passare. Si afferma e si stabilisce un'oggettiva opposizione fra i sostenitori della solidarietà e tutti gli altri. E a questo punto dovremmo essere daccapo: perché in un momento successivo, alorché la misura della solidarietà dovrà trovare una sua articolazione politica, le gradazioni della solidarietà risulteranno necessariamente infinite. Se tutti siamo solidali, le differenze fra noi verranno scandite esclusivamente dal livello di intenzioni solidaristiche che siamo propensi a proclamare: io sono solidale con i disoccupati, ma io sono solidale anche con gli immigrati, io di più, sono solidale con i reclusi, gli ammalati, i tossicodipendenti, i segregati, in una iperbole solidaristica il cui destino, in fondo, è di gonfiarsi in una grandissima bolla di parole, che aumenta prodigiosamente di volume più vi si soffia dentro fiato, e la cui sorte probabile, anzi inevitabile, è di dissolversi in una iridescente pioggerellina fatta di niente. Che importa, avremo altri devianti, marginali, dropouts, a cui ammannire il miracolo così a buon mercato delle bolle di sapone, altri solerti cultori dell'ideale capaci di mostrare come realtà di un domani migliore la lievissima superficie in cui si riflette in colori brillanti un mondo più giusto e il cui contenuto, purtroppo, è aria. Povertà delle ricette Viene da chiedersi a che cosa siano servite tutte le discussioni, molto pensose e molto partecipi, sull'enciclica Centesimus Annus (emanata nel 1991 a un secolo dalla Rerum Novarum), nella cui trama si coglievano facilmente i contributi di riflessione degli economisti cattolici: l'accento posto sul ruolo dello Stato soltanto in funzione «sussidiaria», come strumento di armonizzazione e guida dello sviluppo, esercitante una funzione di «supplenza» di fronte ai fallimenti del mercato, alla presenza soffocante di concentrazioni monopolistiche o all'inadeguatezza di settori industriali in via di formazione; e soprattutto l'accettazione esplicita del profitto come indicatore di efficienza, il riconoscimento che al cuore dell'impresa devono esserci capacità d'iniziativa e imprenditorialità. D'accordo, l'economia non è tutto, e la riduzione economicistica dei processi sociali è un peccato di determinismo. Tuttavia, il rispetto di alcuni criteri di fondo dovrebbe essere richiesto come base per qualsiasi confronto. Altrimenti, di fronte a ogni nuovo «caso Crotone», si assisterà alla replica dello sketch delle due fazioni, l'una che chiederà il rispetto, occhiuto ancor più che rigoroso, dei vincoli di bilancio, estremizzando le proprie concezioni fino a renderle un inevitabile bersaglio polemico, l'altra che sposerà ogni genere di protesta nel nome del solidarismo più vaniloquente. Nel mezzo, gli operai veri, che talvolta vengono presi da un disperato mutismo, e assistono senza reagire alle più rocambolesche operazioni di ristrutturazione industriale, e talvolta invece precipitano in una parodia delle parole d'ordine che raccolgono qua e là, sostenendo per esempio di essere contro l'assistenzialismo ma di volere nello stesso tempo il mantenimento di posti di lavoro in disastrosa perdita; che «lottano» per ottenere il rilancio di un'azienda fallita e contemporaneamente distruggono strutture, magazzini, centri direzionali provocando danni per miliardi. Dovremmo sapere che non esiste una ricetta di parte per la soluzione dei problemi materiali delle collettività. O meglio: esistono ricette a tempo, da verificare e da cambiare quando cominciano a rivelarsi insoddisfacenti. Tutte, però, le ricette suddette, almeno in teoria sono iscritte in un quadrante di compatibilità. Il ciclo keynesiano prevedeva da un lato l'aumento della spesa pubblica, il deficit spending, come leva per sostenere l'occupazione, e quindi la domanda, e quindi la produzione, affinché in un secondo tempo all'incremento del reddito complessivo conseguisse un aumento dell'introito tributario per riportare lo Stato in pareggio. L'economia sociale di mercato, cioè l'invenzione istituzionale di Ludwig Erhard nella Germania di Adenauer, vincolava il mercato alla socialità, e dunque incorporava la solidarietà diffusa in un calcolo economico stringente. Potrà apparire mediocre, a questo punto, riproporre soluzioni parziali, pallidamente miglioratrici, approssimazioni imprecise ed empiriche. Eppure, così come non è accettabile che qualsiasi discussione sui problemi concreti, storicamente accertabili, immanenti alla sfera delle scelte e decisioni quotidiane, venga risolta attraverso la retorica di un common sense solidarista, che non paga pedaggi e rinvia ogni soluzione nell'infinito del mondo più buono secondo la consumatissima tecnica del benaltrismo, allo stesso modo non c'è nessuna ragione per accettare a priori le formule più taglienti degli idéologues del liberismo. E non perché banalmente in medio stat virtus. Ma più propriamente perché l'intransigenza dei fautori più estremi della Mano invisibile è una semplice posizione di parte, comprensibile fin che si vuole, talvolta elaborata in modo provocatoriamente elegante, ma niente affatto assolutizzabile. La faziosità intellettuale, che talvolta assume un aspetto di straordinaria eleganza, si può accettare soltanto se non pretende di essere verità universale. Difficilmente capiterà di osservare una persona appartenente a un ceto inferiore inneggiare al libero mercato, alla mobilità del lavoro, alla privatizzazione dell'economia, alla bellezza intrinseca del rischio. Sarà molto più facile sentirla chiedere protezione, tutela, assistenza, sicurezza. Dicendo questo, forse si potrà cogliere la dimensione più sostanziale dell'intera questione: la solidarietà, così come la sua negazione, è un tema essenzialmente politico. Sottoposto quindi in modo vincolante alle regole della politica. E nell'arena politica non possiamo immaginare semplificatoriamente che ci siano a un estremo ringhio si assertori della libertà economica e all'estremo opposto un volgo neghittoso che chiede con proterva spensieratezza dissipazione e indebitamento. Dobbiamo pensare piuttosto a un campo di forze in cui collidono interessi e si contrappongono idee, in una tensione continua di alterazioni e di mutamenti in cui l'equilibrio non è mai dato una volta per tutte. Se non si intende capire questo, si perde di vista un aspetto decisivo: e cioè il nucleo di reale drammaticità che è intrinseco alla vita sociale, incluso, naturalmente, l'aspetto economico. Drammaticità che va rispettata, compresa, assunta a problema dell'agire politico. Raccontare a un operaio sulla via della disoccupazione che non è la sua posizione individuale quella che conta, bensì il sublime e vertiginoso attuarsi degli scambi nell'economia di mercato è qualcosa che aggiunge al danno materiale la beffa intellettuale. Ma illustrargli che la perdita del suo posto di lavoro dipende da maligne intenzioni e oscure manovre di chi pensa solo al profitto, alla struttura perfida dell'economia di mercato, e poi andare sulle piazze per lanciare il più vibrante degli appelli alla solidarietà, non è un'infamia minore. Proprio perché abbiamo la consapevolezza che la drammaticità delle esistenze individuali e del vivere collettivo è un dato ineliminabile, ne dovrebbe discendere l'obbligo a non usare, se non in casi estremi e con estremo pudore, la parola solidarietà. Poiché ci accorgiamo in ogni momento, anche senza ricorrere a filosofie sull'umanità, che la solidarietà non è un impulso innato, non è un imperativo morale accettato a priori, non è una legge etica immediatamente condivisibile, l'unico modo per paterne parlare è scomporla, suddividerla in una serie di azioni politiche: considerarla, e non sembri paradossale, non un fine, bensì un mezzo1 . Anzi, un insieme di mezzi determinati politicamente, conformati in base alla contrattazione fra le parti in causa, costruiti per improntare un certo equilibrio sociale in un certo modo. Declamare la necessità di una società solidale non serve a niente, se non-a creare aspettative quasi sempre fallaci, e quindi intimamente responsabili di frustrazioni e infelicità successive. Ciò che serve, è la disponibilità a specificare con quali strumenti, e in vista di quali obiettivi, nelali regole si intende agire politicamente per approssimare l'equilibrio sociale che si dichiara di volere. Non sarà la soluzione, ma è comunque un criterio che dovrebbe essere consegnato all'opinione pubblica e al suo giudizio: offrendole in definitiva la possibilità di discernere quanto è pesantezza intrinseca della realtà e ciò che è il tradimento, di quella realtà - con il suo nucleo di dolore - espresso e praticato attraverso un lieve flatus vocis. Note 1 Dopo avere scritto questo articolo, trovo la stessa espressione nel recentissimo pamphlet di Sergio Ricossa, I pericoli della solidarietà, Rizzoli, 1993, p. 103. Il contesto, come forse si può intuire, è diverso. Composto di dodici «epistole sul dosaggio di una virtù», il libro di Ricossa è un divertissement basato sull'emendamento proposto da Milton Friedman per la Costituzione americana: «Ciascuno è libero di fare del bene, ma a sue spese», e in cui l'aspetto paradossale è al servizio di un individualismo portato all'estremo che risulta alla fine semplificatorio.
Il Mulino, 03-04 1994, Italia 1994: punto di svolta
La macchina bipolare
Uno dei dogmi su cui si sono basate le principali strategie politiche a partire dai referendum elettorali del 18 aprile 1993 e fino all'ingresso in campo di Silvio Berlusconi consisteva nella negazione della possibilità di proporre in Italia, con qualche realistica probabilità di successo, una politica di destra. Soltanto sulla base di questa verità a priori si può spiegare il lungo periplo di Mario Segni, esponente moderato della Dc, che per qualche tempo è sembrato sul punto di trasfigurarsi nel leader di un embrione politico, Alleanza democratica, che comprendeva potenzialmente il Pds. Singolare spettacolo, quello di un uomo di destra che in nome di un imprecisato progetto di modernizzazione si ritrovava a fianco degli ex comunisti. E forse c'è da ringraziare il legame storico fra Pds e Rifondazione comunista, che ha spezzato la tortuosa ipotesi di raccogliere il centro e la destra partendo da sinistra, quella specie di «buscar levante para poniente» che ha contribuito in larga misura a disorientare l'opinione pubblica sulle intenzioni del leader referendario. E invece l'autentica novità della fase politica attuale, una delle discontinuità maggiori rispetto all'età della grande consociazione, è rappresentata proprio dalla riconquista della legittimità da parte della destra. Non è una trasformazione avvenuta solo nella sfera politica: è un processo che investe in profondità la società italiana. Se si pensa all'egemonia esercitata per decenni dalla cultura di sinistra, e alla sua diffusione attraverso una rete estesa e capillare di canali comunicativi, dalle case editrici alla scuola, dalle redazioni dei giornali alla televisione, si può comprendere la portata quasi antropologica della mutazione con cui si è passati dall'obbligatorietà di definirsi «di sinistra» alla possibilità di dirsi «di destra». Le ragioni di questa inversione di tendenza sono molteplici. Per decenni la destra non estremista aveva trovato rifugio nel grembo della Dc: ma con la fine del pericolo rosso, fosse vero o convenzionale, e quindi della funzione di baluardo anticomunista dello Scudo crociato, sono cadute anche le barriere che avevano trattenuto gli elettori di destra in un partito di centro. L'approvazione di una legge elettorale tendenzialmente bipolare ha poi fornito la spinta per la nascita di un'aggregazione politica caratterizzata da tratti esplicitamente di destra. Ma sarebbe un fraintendimento ritenere ciò sia stato determinato solo dai meccanismi della legge elettorale. In astratto, niente impediva - non le «leggi di Duverger», non le esperienze straniere del sistema maggioritario, non presunte regolarità storiche - che il «secondo polo», alternativo al raggruppamento progressista, fosse formato dalla coalizione Segni-Martinazzoli. A sconfiggere il polo centrista è stata una combinazione di fattori, fra i quali non è certamente estranea la volontà di vendetta dell'opinione pubblica dopo Tangentopoli, oltre che il progressivo affievolirsi del potenziale politico di Segni, e insieme con la debolezza della proposta politica di Mino Martinazzoli: concentrata quest'ultima su una nozione estetica della politica e sulla convinzione snobistica che a favorire il Patto per l'Italia sarebbero stati i volgari errori politici e forse anche i plateali errori stilistici delle due «ammucchiate» di destra e di sinistra. Martinazzoli si sfogava sottolineando la «sciattezza» del linguaggio berlusconiano, e la «melodrammaticità da librettista verdiano» di Achille Occhetto. Concludeva la campagna elettorale ironizzando sulla mania del capo di Forza Italia di citare sondaggi stratosferici: «i dati in nostro possesso ci dicono che 1'87 per cento dei cinesi vorrebbe Berlusconi come imperatore». Se il centro comincia a sciogliersi E però Martinazzoli perde. Lui e Segni, i firmatari del Patto per l'Italia, il 27-28 aprile riescono a portare nelle nuove Camere l'inezia di 77 parlamentari, per la maggior parte eletti con il recupero proporzionale. Smarriscono per strada oltre cinque milioni e mezzo di voti rispetto al risultato democristiano alle elezioni politiche del 5 aprile 1992, che segnarono l'inizio del Big One. Eppure riescono nell'impresa di farsi votare da più di sei milioni di cittadini. Dopo numerosi indizi parziali, lo scioglimento del centro si era manifestato con le elezioni amministrative del 21 novembre e i ballottaggi del 5 dicembre 1993. In quel momento, tuttavia, sembrava che l'Italia - l'Italia delle grandi città - virasse risolutamente a sinistra. Tuttavia si poteva intravedere qualche problema di rotta. Nelle sei città capoluogo le coalizioni elettorali apparivano estremamente variegate. Si oscillava dalla linea radicale di Palermo e Napoli a quella riformista di Roma, Genova, Venezia e Trieste. La situazione era resa ancora più complessa dal permanere di Segni dentro alcuni cartelli progressisti, ma soprattutto dal fatto che contemporaneamente all'ascesa delle forze di sinistra si era assistito a una sconfitta democristiana peggiore anche rispetto alle previsioni più infauste. Lo sprofondamento democristiano sembrava assumere fin da allora una portata storica. Il cammino impostato da Martinazzoli verso il Partito popolare si infilava in una strettoia. Ma ciò che entrava definitivamente in gioco nella Dc non era soltanto la denominazione del partito, bensì la sua stessa sopravvivenza come forza politica di massa. Tanto più che, se come da previsioni gli elettori che avevano «tradito» la Dc al Nord avevano scelto generalmente la Lega, largamente imprevisto invece risultava il successo del Msi di Gianfranco Fini nel Centro-Sud. A Roma e a Napoli la Fiamma tricolore risultava il primo partito. Era caduto il tabù fondamentale della Prima Repubblica, la pregiudiziale antifascista. In ogni caso, dato a Bossi ciò che era di Bossi, lo smottamento a destra nelle regioni meridionali era fortissimo. Ciò nonostante, né Lega né Msi sembravano possedere al momento la capacità di organizzare attorno a sé alleanze a patti d'azione. Anzi, la loro forza era stata quella di presentarsi come degli estranei, o come degli esclusi, dal sistema politico di Tangentopoli. Ma ciò significava anche che l'alternanza poteva restare un modello ancora zoppo. Si configurava il polo di sinistra, ma non ancora un ragionevole e competitivo polo moderato. Per avere una democrazia funzionante, la costruzione di questo secondo schieramento era essenziale. Dopo il collasso democristiano, ci si rendeva conto che costruirlo sulle fondamenta di ieri non era più possibile. Occorreva qualcosa di originale: un partito, un programma, un volto che risultassero credibili per quelle fasce di opinione pubblica che non volevano opporsi al Pds e ai suoi alleati finendo necessariamepte nelle braccia della Lega o del Msi. Il partito non c'era ancora, il programma era da fare. Quanto al volto, ci si poteva ancora illudere che fosse ancora disponibile quello di Segni. La posta in gioco fra il primo e il secondo turno delle amministrative era di valore eccezionalmente elevato. Stava per delinearsi infatti l'assetto del sistema politico italiano, e soprattutto si stava fissando lo schema che avrebbe improntato la competizione tra le forze politiche alle elezioni del 27 -28 marzo. Sulla scia dei risultati del 21 novembre, sembrava che la disgregazione del centro avesse lasciato il campo a un'alternativa radicale: da una parte l'area progressista egemonizzata dal Pds, dall'altra due destre massimaliste e in compatibili. Prospettiva non rassicurante: ci si poteva già immaginare una battaglia combattuta nel nome dell'antifascismo e dell'anticomunismo, con il rischio di una radicalizzazione del confronto tutta ideologica, vecchissima nelle ispirazioni, potenzialmente lacerante nei toni e probabilmente catastrofica negli esiti. L'alternativa «estremista» giova solo alle estreme. Ognuna di esse infatti può proporsi all'elettorato, in modo ricattato rio, come la diga contro l'altra. Avrebbe fatto comodo al Msi guadagnarsi l'etichetta di unica roccaforte contro le sinistre, così come l'area progressista, di fronte alla sfida missina, avrebbe avuto nuovamente l'occasione ghiottissima di brandire il vessillo della santa crociata contro il fascismo. Per queste ragioni, il duello tra Fini e Rutelli a Roma, e la sceneggiata napoletana fra la Mussolini e Bassolino minacciavano di accendere un'ipoteca ingombrante sul dibattito politico successivo. Se il Msi vinceva, poteva affermarsi il criterio che l'unica destra plausibile era quella di Fini; mentre se vincevano Pds e alleati si sarebbe spalancata la porta alla necessità di fare entrare in campo una forza razionalmente competitiva sul fronte liberale. L'entrata in partita di Segni, che mentre confermava il suo tiepido sostegno tattico ai candidati progressisti annunciava però la sua candidatura alla guida di uno schieramento moderato, era senza dubbio tardiva ma finalmente esplicita, e costituiva un sensibile fattore di chiarimento. Ancor più che dalle parole e dagli spunti programmatici (come sempre piuttosto generici) offerti dal leader referendario, lo si poteva desumere dagli effetti che si segnalavano fra gli schieramenti politici. Occhetto salutava con una «non ostilità» la nascita di un'area neoliberale, rinunciando per il momento alla strategia di fare terra bruciata nel centro politico (che in termini di pura convenienza, eliminando la concorrenza intermedia, gli avrebbe assicurato la cospicua rendita di posizione «antifascista»). Ma per altri aspetti appariva ancora più interessante la posizione assunta da Umberto Bossi, il quale dichiarava che a certe condizioni con la nascitura area moderata la Lega poteva trattare. Si trattava di una posizione risolutiva perché faceva evaporare gli spettri di un grande e ambiguo rassemblement destrorso, l'unione polimorfa di federalismo liberista e populismo nazional-corporativo, il cui unico cemento sarebbe stato la foga demagogica. Si profilava invece la possibilità che anche la Lega abbandonasse il proprio isolamento, e quindi che le sue rivendicazioni egemoniche sul Nord venissero ridimensionate, che la sua azione venisse collocata nell'ambito di alleanze e coalizioni: il che avrebbe reso «trattabile» il federalismo di Bossi. Tornava visibile all'orizzonte il modello europeo di un confronto elettorale fra mezze ali, centrodestra e centrosinistra. Lega che vince, Lega che perde I risultati dei ballottaggi del 5 dicembre davano una risposta univoca, con la vittoria del cartello delle sinistre e la sconfitta delle due destre in gioco, quella leghista e quella missina. Al Nord, la Lega si era dimostrata incapace di esercitare una capacità di aggregazione in grado di rispondere alla necessità di alleanze dettata dal maggioritario; nel Centro-Sud appariva ancora troppo grande la distanza che l'elettorato moderato doveva compiere per collocarsi interamente sotto le insegne della Fiamma tricolore. Tuttavia l'affermazione delle sinistre era stata meno perentoria rispetto alle previsioni. Ma proprio il fatto che lo schema si fosse replicato esattamente per cinque volte induceva a pensare che per il buon funzionamento della democrazia italiana sorgesse effettivamente il problema di completare razionalmente gli schieramenti in gioco, affiancando alla sinistra vincente una destra effettivamente concorrenziale. Perché all'indomani delle amministrative c'era un unico partito in grado di affrontare le elezioni politiche come perno di coalizioni e di alleanze, e questo partito era il Pds. Era facile prevedere per le settimane successive notevoli mutamenti di strategia politica. Bossi avrebbe dovuto fare i conti con la sua prima battuta d'arresto, e quindi ci si poteva aspettare qualche sua invenzione manovriera. E anche il Msi, che ha Roma aveva potuto contare sull'effetto-Fini, vale a dire sugli atteggiamenti rassicuranti del suo leader, avrebbe dovuto cercare di dare corpo alla propria trasformazione d'immagine, operando una rapida cosmesi. Ma in sé e per sé risultati del 5 dicembre non sembravano concedere grandissimo spazio alla Lega e al Msi. L'una e l'altro infatti apparivano pesantemente segnati dal loro profilo territoriale; restavano due forze dimezzate, con scarsissime, se non nulle, possibilità di integrazione. Soprattutto la Lega dava l'idea di trovarsi su una passerella che oscillava percolosamente. Su una sponda erano in fila tutte le battaglie vinte o stravinte negli ultimi due anni; sull'altra, poteva profilarsi la sconfitta nella guerra. Allorché il pubblico ministero Di Pietro prese l'iniziativa dirompente di arrestare l'ex cassiere leghista Alessandro Patelli per finanziamento illecito, si parlò di un incidente isolato. Ma incidente non era se lo si connetteva con l'altro passo falso, cioè la «non vittoria» nei grandi ballottaggi di Genova e Venezia. Di Pietro aveva arrestato Patelli per un'inezia contabile. Ma più che il versamento di un modesto contributo illegale, ciò che poteva risultare di grandissimo danno la Lega appariva il contesto in cui esso era maturato: incontri riservati, «accreditamenti» favoriti da Bossi in persona, richieste di pubblicità di comodo per le radio del circuito leghista, prima di arrivare alla mazzetta vera e propria. Insomma, una classica storia di bassa politica, non dissimile da quelle già osservate centinaia di volte nell'Italia di Mani pulite. Di qui al verdetto popolare che la Lega era «come tutti gli altri» poteva mancare poco, anche perché i suoi avversari avrebbero avuto interesse a girare il coltello nella piaga. Ma pur senza generalizzare un caso singolo, nel futuro sarebbe divenuto più difficile per la Lega continuare a far volare con piena credibilità gli stracci della corruzione altrui. Infatti la forza della Lega derivava dal suo presentarsi come qualcosa di assolutamente «altro» rispetto ai protagonisti della grande rapina. Era quest'ultima caratteristica che aveva permesso al Carroccio di lottare da solo contro tutti: rispetto ai sofismi, alle alchimie, ai veti incrociati della prima Repubblica, la semplicità fondamentalista dei «barbari» del Nord si prospettava per buona parte dell'opinione pubblica come un antidoto di eccellente efficacia. Ora, di fronte alle prime difficoltà, la rendita incassata da Tangentopoli sembrava sul punto di dissolversi. E allora, dopo essere stato il megafono della protesta, Bossi avrebbe dovuto puntare tutto sulla sua proposta politica. Ma anche in politica le cose non andavano benissimo, dal momento che i risultati del5 dicembre avevano dimostrato che lo splendido isolamento leghista non pagava sino in fondo. Nella logica del sistema maggioritario anche la Lega avrebbe dovuto procedere verso coalizioni con altre forze. Per la prima volta nella sua carriera Bossi era chiamato a dare un contenuto negoziabile alla propria iniziativa. Poteva ancora una volta scegliere una strada avventuristica, minacciando plebisciti «federalisti» e altre trovate separatiste? L'alternativa era di scegliere definitivamente la strada della ragione, cioè accettare di diventare «normale». La destra in embrione Nell'area anti-sinistra cominciavano quindi le grandi manovre. Durante la sua affannosa metamorfosi la Dc si era praticamente arresa a Segni accettandone la candidatura a premier. Ma un altro avvenimento centrale aveva riguardato la Lega, con la svolta che Umberto Bossi aveva suggerito al suo movimento. Aprendo il congresso della Lega lombarda, il leader leghista aveva segnalato infatti che la Lega si trovava a un bivio: perseguire il «progetto egemone» affermato nel 1989, basato sullo scontro frontale contro il sistema di potere della Prima Repubblica, oppure passare a una fase successiva e diversa. L'abilità dei capi si vede nelle difficoltà. Azzoppato dall'impasse elettorale, macchiato dai duecento milioni «neri» di Patelli, criticato anche per la prima volta sul fronte interno, Bossi anziché mettersi in difesa rilanciava più alto. Presentava i dieci punti del progetto costituzionale federalista, ma poneva al congresso anche una domanda a senso unico: volete che la Lega, restando isolata, assista senza batter ciglio a un processo politico che porterà a un Parlamento egemonizzato dallo «statalismo» del Pds, e che consegnerà le masse clientelari democristiane del Sud al Msi, oppure il Carroccio deve diventare il nucleo fondante di un'aggregazione liberale? Questa seconda risposta era obbligata, ma Bossi, leader carismatico, aveva bisogno che fosse il «popolo della Lega» a dargli un'investitura corale per realizzare la conversione leghista dall'intransigenza al negoziato. D'altronde, tutto ormai appariva in movimento, non solo la Lega, perché contemporaneamente si era avuta anche l'ufficializzazione dell'avvio della seconda vita del Msi. Con qualche disinvoltura culturale, Fini aveva riconosciuto il metodo democratico, e aveva aperto la via al processo destinato a surrogare il Msi con un'Alleanza nazionale «gollista» esorcizzata dai fantasmi ne n. A quel punto, lo schieramento che si sarebbe dovuto opporre al raggruppamento di sinistra vedeva in campo tre protagonisti, ognuno dei quali poteva rivendicare il bastone del comando: Segni per rappresentatività nazionale e patrimonio referendario, Bossi per forza d'urto popolare, Fini per i risultati ottenuti nelle recenti elezioni amministrative. E sullo sfondo si stagliava la figura incombente del quarto cavaliere, Silvio Berlusconi, in attesa impaziente del fallimento altrui. La tentazione immediata era di escludere che il movimento di Segni potesse convivere con la Lega di Bossi, e quest'ultima con i «postfascisti». Tuttavia, se il raggruppamento progressista riusciva a venire a patti con Rifondazione comunista, non si capiva perché l'area neoliberale non potesse avere un'ala destra come quella di Fini. E in prospettiva, illusione per illusione, perché negare che la Lega Nord potesse diventare rispetto alla futura unione liberaldemocratica nazionale ciò che la Csu bavarese è sempre stata rispetto alla Cdu di Helmut Kohl? Il nuovo grande dilemma di questo schieramento consisteva nella scelta del leader nazionale. Non perché si trattasse semplicemente di scegliere un uomo e una faccia, quanto piuttosto perché ciò significava definire programmaticamente in quale punto si collocasse il baricentro politico dell'area. In linea di logica, per competere efficacemente con la sinistra, questo punto si sarebbe dovuto dislocare il più vicino possibile al centro, attenuando quindi le forzature separatiste di Bossi così come il nazionalpopulismo di Fini. Ma si trattava di un'ipotesi astratta: sarebbe stato necessario verificarla nei negoziati che si sarebbero aperti, formalmente o no, tra le forze che progettavano di opporsi al blocco di sinistra. Ogni ipotesi al riguardo era aperta. Compresa quella che i tre cavalieri giungessero al duello anziché a forme di accordo, e dovessero lasciare scendere in lizza trionfalmente il quarto. Morte e trasfigurazione della Dc Intanto, nell'attesa della soluzione di questa sciarada, il 18 gennaio 1994 muore la Dc. E poiché la storia evidentemente ama i paradossi, l'estinzione della Dc ne fa nascere due. E mentre è indubbia l'importanza storica della fine del partito che ha incarnato la Prima Repubblica, appare subito molto meno certa l'utilità politica del «parto gemellare» che dà vita al Partito popolare di Martinazzoli e al Centro cristiano-democratico di Casini e Mastella. Le scissioni, infatti hanno un peso se spostano forze da una parte all'altra degli schieramenti in campo, modificando in profondità gli equilibri. Invece, in quel momento, con l'apparizione di due nuove Democrazie cristiane il cambiamento sembra assai relativo. A fronteggiare lo schieramento di sinistra rimane un'area politica che è aumentata nel numero dei partiti, ma che non sembra avere guadagnato molto quanto a potenziale politico. Anzi, l'unico risultato sicuro sembra il dileguarsi della prospettiva bipolare. Si delineano infatti tre raggruppamenti. Il primo è il cartello delle sinistre. La seconda alleanza politico-elettorale è fondata sull'asse Segni-Martinazzoli, che malgrado le vaghe intenzioni modernizzatrici del leader referendario rischia di apparire come una riedizione camuffata dello stile politico democristiano. Infine il terzo polo si attesta come una coalizione virtuale fra Bossi, il nuovo Ccd e il tuttora ingombrante e imbarazzante partito di Fini. Dopo di che, immaginare che l'area moderata possa trovare una ricucitura che le consenta di essere competitiva elettoralmente è problematico. Sullo sfondo rimane dunque il superclassico Partito popolare di Martinazzoli. Chi non ha avuto la possibilità di ascoltare o di leggere integralmente i due discorsi con cui il segretario dello Scudo crociato, il 18 e il 22 gennaio, ha varato il Partito popolare, si fa un'idea deformata del dibattito in corso nell'ex Dc. Potrebbe pensare, ad esempio, che la fuoruscita del Ccd non abbia affatto risolto il problema delle due facce del partito, destra e sinistra, dal momento che il ciellino Formigoni viene dato in avviata trattativa con la Lega, mentre Rosy Bindi continua a celebrare i suoi riti di vestale ideologica, interprete della durezza tutta «politicista» con cui la sinistra dc si è sempre arrogata il monopolio della linea politica del partito. Se fosse soltanto così, Martinazzoli apparirebbe effettivamente un uomo prigioniero di una schizofrenia antica, l'amletico e rinunciatario curatore testamentario dell'eredità democristiana, il motore immoto di un partito immobile, anzi, immobilizzato dalla propria incapacità di scegliere. Eppure, a dispetto delle apparenze, Martinazzoli non è, o perlomeno non è soltanto, la luttuosa figura di becchino che gli è stato dipinto addosso dai suoi compagni più malevoli. Se si penetra nell'intrico delle sue complesse figure retoriche, se non ci si fa ipnotizzare dalla scabra musicalità del suo lessico, ci si può accorgere che Martinazzoli è tutt'altro che un uomo fermamente privo di idee e di volontà. Il suo no a una destra «corporativo-territoriale», e il rifiuto delle «avances salottiere» di Occhetto sono la conseguenza di un'orgogliosa consapevolezza culturale. Con quelle sue metafore che sembrano sgorgargli per misteriosi automatismi dalle labbra, Martinazzoli dice che non è disposto a «bruciare» sull'altare pagano delle alleanze elettorali la propria identità; non si presta a «incenerire» l'esperienza politica dei cattolici «in uno scenario gremito di maschere trasformiste»: insomma, se la spinta al bipolarismo impone di venire a patti con forze ostili alle proprie idealità, Martinazzoli dice tanto peggio per il bipolarismo e le sue danze macabre e ciniche. Quindi Martinazzoli non si adegua: se «la logica dei blocchi, la radicalizzazione dello scontro o la scorciatoia del trasformismo» gli chiedono di accettare l'aspra lezione del realismo politico, lui ribatte che l'unico realismo che conosce è quello della fedeltà alle proprie ispirazioni: «Dopo avere pagato così tanto per i nostri torti, non rinunceremo mai più alle nostre ragioni». La montagna venga a Maometto, e non viceversa. Il che significa: ci pensi Segni, se lo desidera, a sporcarsi le mani con Bossi. Tradotto in politica, tutto ciò significa naturalmente che il Ppi non accetterà di entrare né in un cartello di destra né in uno di sinistra. Sarà ancora una volta un partito di centro, «non moderato ma della moderazione». Ne deriva una conseguenza politica immediata, cioè che lo schieramento neoliberale non si comporrà. Martinazzoli scommette su un'ipotesi che fin da allora, per l'appena rinato Partito popolare, prevede solo un'onesta sopravvivenza. Per lui la presumibile sconfitta alle elezioni di primavera sarà un banale incidente. Dovrà essere la storia, non la cronaca trafelata di questi tempi affannosi, a identificare il ruolo del Ppi. Il segretario pensa agli italiani di domani, immaginando che «solo i saltimbanchi possono credere che la riflessività sia indecisione». E confida allora che quella che tutti hanno giudicato rassegnata passività si riveli un giorno come un esempio di tenace coerenza politica. Ma, nonostante l'ostinazione morale di Martinazzoli, la sconfitta di oggi non significa affatto l'ipoteca su una vittoria domani. In politica non serve più a nulla portare in dote il passato, la storia, ma neppure investire esclusivamente sul futuro, l'utopia. Se il Ppi perde di vista il presente, è praticamente certo che non avrà un'altra chance. E anziché ritrovare nel suo leader attuale e nelle sue sconfitte intimamente così coerenti la guida per una nuova terra promessa, gli ex democristiani cominciano a temere di essere rimasti semplicemente vittime delle appassionate considerazioni di un impolitico. L' occasione mancata Ed è per questo che si muove Segni. Nella confusa partita a scacchi in corso nell'area opposta al cartello delle sinistre, fino a quasi tutto il gennaio 1994 erano prevalsi gli arroccamenti. Per questo schieramento c'erano in pratica due sole strade. La prima, sbilanciarsi a destra, sotto il peso di una perentoria entrata in campo di Berlusconi, che avrebbe caratterizzato l'alleanza elettorale in termini accentuatamente neoliberisti, tenendo aperta la porta alla forza d'urto missina nel Sud e prefigurando una campagna elettorale di inedita asprezza contro le sinistre. La seconda, spostare l'equilibrio verso il centro, costituendo una coalizione dai tratti più sfumati. Per fare oscillare la bilancia da una parte o dall'altra ci voleva una decisione. Poteva venire in ogni momento da Arcore, dato che Berlusconi aveva annunciato che la sua pazienza verso le tortuosità della politica era esaurita. E invece la decisione di movimentare la partita viene presa sul fronte della Lega Nord. Sembra una scelta risolutiva. L'incontro fra Segni e Roberto Maroni è stato preparato con una fitta quanto sommessa serie di contatti diplomatici. Durante l'incontro, a cui presenziano come testimoni Saverio Vertone, Giulio Tremonti e Rocco Buttiglione, viene chiesto esplicitamente aMaroni in quale veste si è presentato, cioè se ha un mandato inequivocabile per concludere l'accordo. La risposta è affermativa. Per un giorno, l'accordo del 24 gennaio con Segni è l'evento che fonda concretamente il polo neoliberale. Innanzi tutto perché l'accordo sul programma del Patto per l'Italia contiene il riconoscimento esplicito, da parte della Lega, che federalismo non significa secessionismo. In secondo luogo perché offre la dimostrazione all'opinione pubblica che al momento buono il massimalismo protestatario del movimento di Bossi può cedere il campo a una politica «di governo». E infine perché comincia a delineare effettivamente uno schieramento potenzialmente competitivo con il blocco delle sinistre. Naturalmente si tratta ancora ai primi e malcerti passi. Tuttavia a questo punto non c'è più, nell'area moderata, la situazione grottesca di diversi tronconi politici incompatibili. C'è un programma di modernizzazione liberale del paese, di incentivo allo sviluppo, di destatalizzazione ragionevole; e c'è un candidato premier riconosciuto dalla Lega e, a quanto si sa, non essendo arrivati ripensamenti, dal Ppi di Martinazzoli. Proprio Martinazzoli sembra la maggiore incognita di quelle ore. Si tratta di capire se ai suoi occhi il programma di Segni è improvvisamente peggiorato a causa dell'appoggio leghista, cioè per via di una misteriosa proprietà transitiva, oppure se il neonato Ppi intende partecipare in piena convinzione alla gara elettorale nell'ambito del raggruppamento liberale. Malgrado la riluttanza di Martinazzoli, che dà l'impressione di subire ogni ipotesi di accordo politico come un attentato all'integrità ideale e morale dell'ex Dc, e malgrado le probabili guerriglie della sinistra del partito capeggiata da Rosy Bindi, l'accordo Segni-Maroni sembra situarsi nell'interesse stesso dei Popolari: perché il nuovo orgoglio del Ppi, la rivendicazione del centro, la disponibilità a correre nella maggiore solitudine possibile, erano plausibili fin tanto che l'area liberale rimaneva bloccata dalle proprie idio sincrasie. Nel momento in cui i giochi si riaprono, e il bipolarismo così detestato da Martinazzoli ricomincia a delinearsi meno irrazionalmente di prima, il Ppi ritorna a essere la linea sismica su cui si scaricano tutte le tensioni del sistema politico. Può darsi che una definitiva scelta di campo provochi altri contraccolpi interni. Ma è sicuro che se restasse solo al centro di due schieramenti contrapposti, il Ppi verrebbe stritolato. En attendant Berlusconi E invece si tratta di pensieri oziosi. Basta solo un giorno perché Bossi laceri la tela dell'accordo. Non si era mai assistito in Italia, nemmeno all'epoca dei più spetta co lari conflitti fra Craxi e De Mita, a un gesto di tale spregiudicatezza e brutalità politica, con la distruzione estemporanea di un accordo faticosamente conseguito, accogliendo con un'alzata di spalle le accuse di inaffidabilità e accompagnando il tutto con una serie di clamorosi insulti verso il partner appena ripudiato («il lumacone bavoso se n'è tornato nella sua cavagna, nella cesta democristiana»). Ma nel momento in cui sparava a zero sull'accordo che avrebbe fatto nascere il polo liberale, orientandolo verso il centro e costringendo il Partito popolare di Martinazzoli a scegliere e forse a dividersi nuovamente, non c'erano alternative: Bossi doveva avere una strategia di riserva. Naturalmente, la strategia di riserva sarebbe consistita nel realizzare in tempi estremamente rapidi un accordo diverso, espressamente di destra, con Berlusconi e Alleanza nazionale. Accordo tuttavia di cui ancora non si vedeva traccia. Infatti, mentre Berlusconi filava d'amore e d'accordo con Alleanza nazionale, attraverso cui Fini stava cercando di spostare su posizioni di destra presentabile un partito ancora pieno di madame in nero e borgatari d'assalto, non si avevano ancora notizie sulle prospettive di una coalizione con la Lega. Anzi, Fini non mancava di accentuare polemica contro il federalismo, e la Lega non perdeva occasione per ostracizzare simmetricamente lo statalismo missino. L'unica cerniera possibile diveniva a questo punto Berlusconi. Ma con qualche inevitabile problema. Berlusconi è un imprenditore, mentre la Lega è un partito-società, diffuso in tutti gli strati sociali del Nord. Per i ceti produttivi e la borghesia imprenditoriale delle regioni settentrionali, il messaggio berlusconiano poteva risultare ancora più convincente di quello leghista, e questo poneva sul terreno un notevole problema di leadership e di convivenza. Ciò nonostante, senza un rapido accordo con Berlusconi il violento sabotaggio effettuato ai danni di Segni sarebbe risultato incomprensibile. Insomma, di Berlusconi avevano bisogno tutti. Ne aveva bisogno la destra, per potersi coalizzare superando le proprie idiosincrasie. Ne aveva bisogno la sinistra, innamoratasi dell'idea di poter lottare contro un avversario, anzi un nemico, così ben definito: il Cavaliere nero, il Piduista, il Ragazzo Coccodè del reaganismo all'italiana. Problemi a sinistra In politica, negli ultimi mesi della Prima Repubblica, si alternano alcune grandi previsioni generalmente infondate, che ripetute all'infinito acquistano solidità e autorevolezza, poi diventano certezze indiscutibili, e alla fine si sciolgono rivelandosi semplici leggende metropolitane. La prima leggenda, come forse si ricorderà, raccontava di un'Italia potenzialmente divisa in tre, con l'elettorato del Nord consegnato alla Lega, quello del Centro al Pds, e il Sud lasciato ai resti della Dc. Sono bastate le elezioni amministrative di novembre-dicembre per dimostrare che la situazione è molto più fluida del previsto. Gli stessi risultati del5 dicembre 1993 sono stati sufficienti per far circolare e rendere immediatamente «vero» e pressoché indiscutibile un'altro mito metropolitano: quello basato sulla convinzione per cui l'area progressista, orchestrata naturalmente dal Pds di Occhetto e D'Alema, è già il vincitore in pectore delle elezioni politiche di primavera. La certezza della vittoria della sinistra è talmente forte che, secondo le migliori tradizioni dell'opportunismo nazionale, comincia subito il mercato clandestino per un utile accasamento nella squadra del vincitore, o il gioco di ammiccamenti per guadagnarne il favore. Ora, che esistano numerosi raggruppamenti che si definiscono progressisti o di sinistra è in discutibile. Ma, questo della numerosità, è l'unico dato sicuro. Tanto per cominciare, è tutto da vedere che queste formazioni costituiscano uno schieramento con un minimo di omogeneità politica. Non a caso le maggiori discussioni sono state determinate proprio dal fatto che i progressisti moderati, in particolare Ad e i cristiano-sociali, vorrebbero rendere manifesta una pregiudiziale contro il veterocomunismo di Rifondazione (sintetizzando così una questione che riguarda tuttavia anche il populismo della Rete e l'estremismo di una parte dei Verdi). Certo, la convinzione indimostrabile che tutta la sinistra possa unirsi elettoralmente in un blocco vincente è stata suffragata dai risultati delle elezioni amministrative. Ma si è finto di non vedere che in questo caso era proprio il meccanismo a doppio turno con il ballottaggio a due che portava le ali estreme a convergere sulla persona del candidato rimasto in gioco. E così su Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Sansa a Genova e Illy a Trieste si è convogliato praticamente tutto il voto di sinistra, dai moderati agli estremisti. Non ci si accorge che ciò non sarà replicabile in modo automatico nelle elezioni politiche, che si svolgeranno a turno unico. Per dare luogo a uno schieramento di sinistra in grado di competere con buone chances di vittoria in ogni collegio uninominale occorrono infatti alcune condizioni che in quel momento appaiono tutt'altro che certe. Affermare, come fa Occhetto, che l'unica discriminante sono i programmi, è un modo per nascondere o rinviare i problemi. Problemi che sono più o meno i seguenti. In primo luogo la scelta del candidato premier, che ha un valore politico assai elevato, non solamente sul piano simbolico: se ad esempio il Pds, come si vocifera, candidasse Carlo Azeglio Ciampi, sarebbe automatico l'atteggiamento contrario di Rifondazione comunista e di tutta la parte più demagogica e protestataria della sinistra. In secondo luogo, c'è il problema della definizione delle candidature nei collegi uninominali, che mette in campo contraddizioni ancora più stridenti e politicamente rilevanti. In realtà, l'unica ipoteca sulla vittoria del cartello di sinistra, ampio o ristretto, frontista o liberal, rimane accesa per la concreta (ma temporanea) assenza di un'alternativa efficace. La solitudine del Cavaliere Ciò che cambia radicalmente la situazione è, naturalmente, l'entrata in gioco (la «scesa in politica») di Berlusconi. Con la sua irruzione, accompagnata da ironie e da attacchi violentissimi, si attua un vistoso spostamento negli equilibri. Agendo da cerniera fra Lega e Alleanza nazionale, Forza Italia riesce in brevissimo tempo ad accumulare un consenso che nessuno si sarebbe sognato di prevedere. E allora sarebbe il caso di cominciare a pensare che l'affermarsi di Forza Italia non è semplicemente il frutto maligno di una manipolazione via etere. Oltre che come leader «catodico», Berlusconi si propone come l'espressione di una politica di stampo neoconservatore, piuttosto simile a quella praticata negli ultimi quindici anni dai partiti di destra liberale nelle società avanzate (con la reaganomics negli Sati Uniti e con il thatcherismo nel Regno Unito, ma per certi aspetti anche con l'azione !iberista assunta dalla Cdu in Germania). Per quanto ancora piuttosto sommario e retorico, l'inno al laissez-faire intonato da Forza Italia incrocia le aspettative di quella consistente parte di italiani che da tempo subiscono con irritazione crescente l'invadenza e l'inefficienza dello Stato lottizzato dai partiti. Il messaggio berlusconiano cade in un terreno favorevole. Ma se tutto ciò è vero, se cioè la borghesia italiana era già in attesa di un Berlusconi capace di mobilitarla e di intrattenerla, la costituzione del «polo delle libertà» con la Lega di Bossi e l'Alleanza nazionale di Fini contiene al suo interno serie possibilità di rovesciarsi in un autogol. Il gioco dei tre cantoni allestito fra gli alleati per dividersi il territorio nazionale promette infatti buoni risultati immediati gravi instabilità nel futuro. Le tirate di Bossi, le pallottole promesse «ai nemici e ai falsi amici», le polemiche contro i «fascisti» e le aspre risposte di Fini non testimoniano certamente a favore della credibilità della nuova destra. Alla vigilia delle elezioni, si può pensare allora che sarebbe un notevole paradosso se un grande solitario come Berlusconi alla fine dovrà rimproverarsi di non avere sfidato «a tutto campo» il suo destino politico, di non essere stato protagonista fino in fondo, senza trattative, senza mediazioni e senza compagni di strada: come piace a lui, senza politica, visto che la destra era lì nella società, non nei tronconi politici che in modo così contraddittorio si candidano a rappresentarla. Perdere a sinistra Perdere le elezioni fa parte del gioco politico, ma c'è sconfitta e sconfitta. Per la sinistra, piuttosto che un insuccesso il responso delle urne costituisce una disfatta. Abbiamo visto che dopo le ultime amministrative si erano diffuse tra i progressisti autentiche ondate di euforia. Euforia che era cresciuta insidiosamente dopo l'assemblaggio della «gioiosa macchina da guerra» che aveva messo insieme gli spezzoni grandi e piccoli della sinistra, poiché la fine del «regime» sembrava avere come tranquillo approdo la sostituzione automatica del sistema di potere Dc-Psi con un'alternativa già fatta. Fra il sogno di una sinistra al governo e il risveglio da incubo sotto una maggioranza di destra passano numerosi errori, alcuni di tattica, altri di strategia. Gli svarioni tattici si possono individuare nell'improvvido tentativo (perseguito sin quasi alla fine della campagna elettorale) di delegittimare il centro, e nel conseguente sforzo di individuare in Berlusconi il male assoluto, con la malcelata convinzione che una destra demonizzata, affrescata con tratti demagogico-autoritari fosse più comodamente battibile: questa «costruzione del nemico», perfettamente riuscita, si è ritorta alla fine ai danni di chi l'aveva realizzata, con un contraccolpo di alta spettacolarità. È superfluo poi elencare i conflitti interni alla coalizione progressista, le contraddizioni fra la ragionevolezza espressa dagli uomini del Pds o di Ad e gli antagonismi provocatori e le intransigenze massimaliste di cui si è fatto portavoce Bertinotti. Vale invece la pena di sottolineare la strumentalità con cui a sinistra è stata agitata la questione giudiziaria, con il maldestro tentativo di influenzare sul piano della questione morale una partita politica che cominciava a prospettare un esito imprevisto. Tuttavia gli errori di percorso non devono far perdere di vista gli errori strategici, perché altrimenti si confonderebbe il sintomo con la malattia, con la prospettiva di sbagliare in modo grossolano anche la terapia futura. Sotto questa luce, è lecito per la sinistra deprecare lo spreco di oltre tre milioni di voti consegnati alle formazioni politiche (Psi, Ad, Rete, Verdi) che non hanno raggiunto la soglia per partecipare al recupero proporzionale, ma sarebbe insensato supplire con giustificazioni simili a un approfondimento delle ragioni della sconfitta adeguato alle dimensioni della sconfitta stessa. La sinistra ha perso innanzitutto perché è riuscita a offrire agli elettori solo il messaggio di una sostanziale continuità. Di fronte all'offerta politica della destra, cioè liberazione di risorse, miracoli occupazionali, ostentazione di fiducia negli animal spirits della società italiana, i progressisti non sono riusciti a contrapporre nulla se non un orizzonte grigio, dai contorni poco definiti ma in cui l'opinione pubblica poteva rintracciare qualcosa di piattamente simile al passato più recente. Vedi caso, nell'impossibilità di convergere su un premier, la sinistra moderata non ha saputo evocare altro candidato che Ciampi: vale a dire una soluzione non politica, una figura «tecnica» che configurava l'annuncio «badogliano» che la transizione continuava. È stato apprezzabile che in genere i progressisti abbiano evitato di fare promesse illusionistiche. Ma sul piano politico, mentre il loro avversario dava una scossa all'immaginario collettivo, hanno offerto l'impressione di continuare a proporre con estrema stanchezza intellettuale ricette consumate:da cui è lecito aspettarsi le parole di un programma liberale e una prassi fondata sui più solidi principi del progressismo vecchia maniera: molta retorica solidaristica, molta spesa pubblica, inclinazione verso il «lavorare meno lavorare tutti», con un sentore di socialismo reale fondato sulla distribuzione «equa» della povertà anziché sull'impulso allo sviluppo e alla creazione di ricchezza, possibili o forse inevitabili inasprimenti fiscali, anni di costosa protezione sociale senza nessuno scatto dell'economia. All'idea di una società bloccata, senza dinamismi interni, si confà quindi il ritratto di famiglia dello schieramento progressista in Parlamento: è riapparso infatti l'ectoplasma del vecchio Pci, nei due spezzoni del Pds e di Rifondazione comunista, e con una tenuta elettorale assicurata soprattutto dalle tradizionali regioni «rosse». E si profila quindi con urgenza drammatica la necessità di uno straordinario sforzo culturale, ancor prima che politico, al cui termine non c'è più la prospettiva frontista di mantenere unita tutta la sinistra contro il blocco delle destre, ma l'opportunità di procedere a marce forzate alla fondazione del «partito democratico». Democratico, senza nessun'altra aggiunta che abbia il sentore stantio dell'ideologia. L'enigma del centro La grande svolta politica di fine marzo è in realtà soltanto una tappa nel processo di cambiamento. Il gioco delle alleanze e la molla del sistema maggioritario hanno fatto scattare il congegno del bipolarismo, ma la macchina politica è ancora un artificio barocco. E possibile che una revisione della legge elettorale, insieme con profonde modificazioni istituzionali come l' elezione diretta del presidente della Repubblica o del premier, possano perfezionare lo schema nella direzione del bipartitismo; ma oggi sarebbe fuorviante pensare che nel futuro immediato debbano essere le regole a cambiare la sostanza del gioco. Oggi l'esigenza principale è che siano nuovamente i processi politici a completare la trasformazione italiana. Cioè a fare della destra «una e trina», scarsamente amalgamata, ancora rissosa, una formazione coerente sul piano delle ispirazioni politiche e dei programmi di governo, e a trasformare l'approssimativa coalizione progressista in una forza omogenea e competitiva. Ma per raggiungere questo risultato occorre venire finalmente a capo dell'enigma del centro. Con una certa sufficienza, quasi tutti gli osservatori si sono limitati a constatare che l'alleanza fra Martinazzoli e Segni è stata schiacciata dalla tagliola del sistema maggioritario. I settantasette parlamentari centristi, eletti soprattutto con il recupero proporzionale, sono infatti la testimonianza vivente della scomodità sistemica, antologica, in cui si trova un «terzo polo» dentro un quadro bipolare. Ciò nondimeno, limitare l'analisi a questo aspetto sarebbe erroneo. E sarebbe inadeguato anche limitarsi a esaminare a ritroso le ragioni della sconfitta centrista. Martinazzoli lo ha fatto, e con la solita alta sensibilità estetica ne ha tratto le conseguenze e si è dimesso da segretario del Ppi. Ma in questo momento la questione del centro non riguarda più il passato bensì il futuro del sistema politico del nostro paese. Occorre considerare che, malgrado tutto, sono stati oltre sei milioni gli elettori che alla Camera, nella quota proporzionale, hanno votato per i Popolari o per il Patto Segni. Tutti illusi? Tutti incapaci di comprendere la fenomenale logica riassunta nell'espressione «o di qua o di là»? Oppure, peggio, tutti così irrimediabilmente orfani della Prima Repubblica, delle sue liturgie, del metodo proporzionale da non rinunciare a un voto inutile pur di esprimere inutilmente i loro sentimenti politici? Sono domande retoriche. Rimane piuttosto il fatto che nel cuore politico dell'Italia contemporanea aleggia il mistero doloroso di questi sei milioni di elettori che non hanno voluto saperne di accettare l'ultimatum della scelta fra destra e sinistra. E che questi sei milioni rappresentano oggi un bottino politico preziosissimo, dal momento che è difficile a questo punto ipotizzare che il centro riesca a sopravvivere come soggetto politico. Ora, il problema non è di osservare se Berlusconi aprirà una specie di campagna acquisti rivolta ai parlamentari ex democristiani più sensibili alle lusinghe di Forza Italia; e nemmeno se Roberto Formigoni e Rocco Buttiglione potranno essere un tramite per il dialogo fra destra e centro. Non è particolarmente utile neppure chiedersi a che cosa approderanno certi inviti del Pds, come l'offerta ai Popolari di qualche poltroncina nel prossimo governo ombra della sinistra. Può darsi che il destino del centro non sia segnato dal destino del Ppi e di Segni, e neanche dalle scelte dei pochissimi parlamentari eletti tra le file del Patto per l'Italia, ma dalla posizione che in futuro assumeranno quei sei milioni di elettori che (probabilmente per l'ultima volta) hanno scelto di esimersi dal dilemma destra o sinistra. Risultano quindi assai significative in questo senso le dichiarazioni espresse da Berlusconi nei giorni successivi al voto, che non sono intonate su slogan di destra neoconservatrice del tipo «lo stato sociale si abbatte e non si cambia», ma si caratterizzano per un'esplicita inclinazione centrista. Forse è il segno che il vincitore delle elezioni ha intravisto l'opportunità di trainare dalla propria parte gli elettori del centro (gli è già riuscito di svuotare di elettori la Lega, che ha aumentato i parlamentari ma ha perso voti). E se anche da sinistra venisse il segnale di un'attenzione precisa verso questi elettori quasi senza più partito, se insomma le due tendenze politiche principali dovessero moderare il loro profilo per offrire una sponda ai cittadini travolti dal fiume del maggioritario, il sacrificio di sei milioni di elettori, così inattuale e democraticamente drammatico, non sarebbe stato del tutto inutile. Conclusioni Molti fattori hanno contribuito alla fine della Prima Repubblica. Alcuni di essi, come l'inchiesta Mani pulite, hanno agito contro i partiti. Altri, come i referendum elettorali, hanno giocato contro le regole precedenti. Ma né le inchieste giudiziarie né il cambiamento dei sistemi elettorali, da soli, possono cambiare la storia. E la nostra storia ci dice che in Italia il bipartitismo (certo, ben peggio che imperfetto) esisteva già, ed era fondato sulla Dc e il Pci. Forse sarebbe una buona cosa che alla fine dei molti prodigi che si sono osservati nella luce radente del tramonto del regime, il nuovo bipartitismo, un po' meno imperfetto, sia basato da un lato sugli eredi del Pci, già ampiamente revisionati ideologicamente e definitivamente socializzati alla democrazia liberale; e dall'altra parte - non appaia troppo sorprendente - sugli eredi della Dc. Perché potrebbe darsi che gran parte del lascito democristiano, e non solo il patrimonio elettorale, abbandonato il vecchio simbolo scudocrociato, sia finito o sia in procinto di finire sotto le insegne di Forza Italia. Il prodigio della destra, la vera magia allestita da Berlusconi attraverso lo scintillio di milioni di antenne e il baluginare degli schermi televisivi, consisterebbe allora nell'avere sciolto per sempre l'equivoco democristiano, e contemporaneamente nell' avere rivelato agli italiani che potevano, senza più complessi di inferiorità, dichiarare a se stessi la propria moderata inclinazione a destra: cioè quello che erano sempre stati e che non avevano mai potuto essere del tutto.
Il Mulino, 07-08 1994
Gruppo di famiglia in televisione
Con l'apparizione in Italia di una destra ufficiale, riconosciuta espressamente in quanto tale e in quanto tale proposta senza remore agli elettori, sono tornati sul terreno politico alcuni temi a cui in passato era stata offerta un'attenzione secondaria. Si tratta in particolare della scuola e della famiglia. Sarebbe possibile svolgere analisi in profondità sul significato politico relativo alla scelta di questi temi. Ma, anche a un primo sguardo, si notano facilmente alcune ragioni che hanno determinato la selezione e la sottolineatura di issues convenzionalmente attribuite alla sfera d'interessi del mondo cattolico e in passato sostenute, seppure non troppo strenuamente, dalla Democrazia cristiana. Innanzitutto, come è stato spesso notato, la nascita dell'aggregazione elettorale coagulata da Silvio Berlusconi è stata premiata per il suo intento di sostituire la rappresentanza politica dei ceti moderati, e non invece per la volontà di scomporre questi ceti sulla base degli interessi e di riallineare gli schieramenti in modo netto. Il tramonto di un partito sociologicamente versatile come la Dc suggeriva l'opportunità di creare uno schieramento capace di fare presa a raggio molto vasto. Occorreva quindi, per rendere efficace l'operazione anche sotto il profilo delle simbologie di riferimento, assicurare al Polo delle libertà e del buongoverno un'ispirazione di fondo che potesse contemperare la varietà e talora la contraddittorietà delle ispirazioni politiche delle forze raccolte nel cartello di centrodestra. Il primo fattore di coagulo è stato senz'altro un pronunciato anticomunismo, protratto fino a non riconoscere all'alleanza dei progressisti uno statuto di stampo democratico-liberale, e quindi a negare tenacemente ai competitori una qualità fondamentale di legittimazione politica. Ma in positivo, fuori da questa contrapposizione duramente antagonistica liberali/illiberali, è stato il richiamo alle concezioni cattoliche una delle chiavi più sfruttate dalla coalizione berlusconiana. In parte per obiettive ragioni di interesse dei partiti raccolti nel Polo: sia Alleanza nazionale sia il Centro cristiano-democratico avevano una convenienza primaria nel proclamarsi eredi del patrimonio elettorale democristiano; mentre Forza Italia, che non nascondeva nel suo programma l'obiettivo di divenire un altro (dopo la Dc) «partito-società», virtualmente egemonico su un amplissimo ventaglio di fasce sociali, aveva bisogno di illustrare con un contenuto meno mondano il suo ottimismo neoliberista. Ne è discesa una specie di «retorica del cattolicesimo» in cui si sono espresse connotazioni piuttosto variegate. Di solito è prevalsa l'intonazione sorridente, con revocazione rassicurante di un sentimento generico ma - si suppone - condiviso da una quota maggioritaria della popolazione; talora l'appello ai principi cattolici ha assunto invece coloriture polemiche accese, come quando il ministro dell'Ambiente Altero Matteoli ha definito l'aborto un omicidio (posizione su cui si è dichiarato in seguito d'accordo anche il leader di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini) o in occasione del dibattuto intervento «integralista» di Irene Pivetti al Meeting di Comunione e liberazione a Rimini. Ma più generalmente il richiamo alle idealità cattoliche è echeggiato come una tonalità di fondo, che appariva in grado di aggiungere gradevolezza e moderazione alle promesse di ristrutturazione dello Stato e all'attuazione di una concezione neoliberista dell'economia e della società. È anche per questo che, a dispetto dell'appoggio della gerarchia al tentativo di Martinazzoli di resistere al centro, Forza Italia ha esercitato un'attrazione molto forte su quella parte di mondo cattolico, come la galassia di Comunione e liberazione, particolarmente attenta alle ragioni del fare, dell'operare, dell'intraprendere: e che quindi, trovatasi alle prese con la scelta secca fra le pastoie dello «statalismo» e le opportunità della de-regolazione, ha provato come minimo un'immediata simpatia per chi più evidentemente prospettava opportunità. Sotto questo profilo, la scelta della scuola privata (cioè, se si escludono esperienze laiche assolutamente minoritarie, della scuola cattolica tout court), come tema qualificante dell'attività di governo ha un senso poco più che evocativo, settoriale e limitato com'è, dal momento che il messaggio favorevole all'istruzione privata si rivolge quasi soltanto verso quelle riserve di mondo cattolico particolarmente interessate - per più acuta sensibilità religiosa e per il conseguente rifiuto di una scuola secolarizzata e fuori controllo per ciò che attiene alle ispirazioni dell'insegnamento - a processi di formazione sostanzialmente autogestiti. Invece quello della famiglia è un tema dai contorni pressoché universali, e che contiene una grandissima pluralità di implicazioni, che possono riverberarsi su aspetti molteplici della vita collettiva. Oltre tutto, proprio la famiglia in quanto tale, sia come fondamento sociale sia come simbolo di «eticità naturale», rappresenta un anello decisivo nella catena fra le due polarità ideologiche del centrodestra attuale, vale a dire fra tradizione e modernizzazione. Tanto più interessante perché si situa strategicamente in uno spazio in cui da una parte ci sono matrici di giudizio attinenti al complesso law & order, concezioni para-corporative dell'ordine produttivo, vocazioni nazionalpopuliste, e tutto quanto si può iscrivere in una visione fortemente regolata della vita collettiva; e dall'altra invece una deriva consumistico-individualistica complementare a una concezione in cui è difficile distinguere la società dal mercato, gli individui dai consumatori. Proprio per questo il vessillo della famiglia, «nucleo fondante della società», esposto al pubblico con frequenza rituale, risulta interessante, addirittura a partire dalla stessa condizione familiare dei principali esponenti del nuovo corso. Si badi che le riflessioni che seguono sono esenti da qualsiasi sottolineatura moralistica: ma una delle caratteristiche inedite (una fra le altre, naturalmente) del ceto dirigente emerso al livello più alto con la discontinuità politica sanzionata dalle elezioni del 27-28 marzo 1994 è data proprio dalla presenza, in ruoli politici e istituzionali di primissimo piano, di uomini e donne caratterizzati da una situazione familiare non tradizionale1. Pura casualità, si può dire, oppure fisiologico allineamento del personale politico agli standard comportamentali del Paese reale dopo decenni di mancato ricambio che aveva significato di fatto separatezza. Forse tuttavia è possibile stabilire senza essere accusati di accanimento antigovernativo (le biografie in sé sono piuttosto eloquenti) che, quanto meno per ciò che riguarda le situazioni matrimoniali e familiari, pur rivolgendo intensi atti d'ossequio alla tradizione il centrodestra propende naturaliter per la modernità. Si può benissimo dire, come ha fatto nell'agosto '94 a Rimini la presidente della Camera Irene Pivetti, che la Dc ha dato un contributo risolutivo alla scristianizzazione dell'Italia accettando la legge sull'aborto, «tradendo» cioè i principi a cui dichiarava di rifarsi. Ma resta poi da vedere se l'accettazione democratica di una legge votata dal Parlamento, e passata indenne al vaglio di un referendum popolare, sia stata la maggiore responsabilità democristiana in termini di corrività verso il processo di secolarizzazione. Che sia mancata una testimonianza dura e pura, che la propensione scudocrociata all'accomodamento si sia espressa compiutamente anche sulla questione dell'aborto, è fuori dubbio. Resterebbe da vedere anche se il venire a patti con una deliberazione parlamentare, assunta nel rispetto delle procedure democratiche, sia da ascrivere ai peccati o ai meriti della Dc: e d'acchito verrebbe spontaneo catalogarla nel registro di quella particolare saggezza, sovente tortuosa e non priva di unzione, che la classe politica democristiana ha sempre dimostrato verso la regola democratica. Infine, come ultima cosa da vedere, si potrebbe valutare se la polemica fondata su un cristianesimo intransigente porta politicamente molto più in là di una divisione manichea dei cattolici fra buoni e cattivi, con la cattiveria che starebbe inevitabilmente dal lato dei compromessi modernisti di «Famiglia cristiana » e dei cattolici senza troppe certezze, mentre la bontà allignerebbe fatalmente sul versante dei più convinti vandeani. Se si respinge la fascinazione semplificatoria del «pensiero reazionario», deliberatamente antimoderno e intriso di animose velleità integrali, risulta probabilmente più utile, anche in termini sociologici, cercare di analizzare quali sono stati i veri «peccati contro il cattolicesimo» della Dc. E per una volta si potrebbero evitare i temi di gran fondo: si potrebbe cioè evitare di chiedersi quali danneggiamenti il lassismo di stile doroteo o andreottiano relativamente ai conti pubblici abbia inferto, non solo al bilancio dello Stato, ma anche al tessuto etico della collettività, e fino a che punto l'esercizio del potere abbia logorato, insieme alla fibra morale dei dirigenti politici, la struttura della convivenza civile. Potremmo prendere invece il caso dell'utilizzo del mezzo televisivo, sicuramente uno dei più potenti fattori di produzione culturale, se non il più potente in assoluto, e certamente uno dei principali strumenti atti a creare, se non vogliamo pronunciare una parola impegnativa come consenso, convenzioni politiche diffuse. Certo in questo caso è particolarmente difficile risalire dagli effetti alle cause (ammesso che un rapporto causale ci sia) e individuare se il risultato finale rappresentato da una società che viene giudicata incline a una concezione edonistica della vita, all'ammirazione della ricchezza, alla tutela gelosa delle prerogative individuali o corporative sia da porre in relazione con il messaggio corale che la tv ha propagato negli ultimi dieci-quindici anni. E ci si può anche chiedere, nel caso di una risposta positiva, se esistevano effettivamente possibilità obiettive e realistiche di proporre standard culturali e comportamentali diversi. Sta di fatto che mentre gli intelletti più consapevoli del mondo del cattolicesimo politico si sforzavano, anche nell'ultima campagna elettorale, di richiamare l'attenzione degli elettori sull'importanza della concezione che era alla base del popolarismo cattolico, quel «personalismo comunitario» che impronta di sé la prima parte della Costituzione, la televisione di Stato ha continuato per anni e con sistematicità a proporre una visione del mondo sostanzialmente antitetica. Abdicazione morale? Cedimento alle logiche di un mondo sconsacrato? Non si può escludere, ma è anche possibile che il messaggio individualistico-consumista della televisione pubblica sia semplicemente intrinseco al mezzo, plasmato dalla tecnica e dal rapporto con il pubblico; e che quindi non esistessero possibilità ragionevoli di curvare il complesso di idee trasmesso dal piccolo schermo secondo una traiettoria più consona alle ispirazioni culturali del suo principale, come lo definì Bruno Vespa, «editore di riferimento». In linea di semplice ipotesi si può anche pensare che l'intento di tenere sotto controllo i meccanismi dell'informazione politica avesse sull'altro piatto della bilancia un miope laissez-faire sul versante della produzione di spettacolo. Può anche darsi che la nascita del duopolio Rai-Fininvest abbia determinato automaticamente, con la rincorsa delle quote di audience e la concorrenza sullo share, una programmazione particolarmente attenta ad attrarre il pubblico proponendogli «sogni d'oro», anziché una severa pedagogia socio-culturale. Certo è che il cambiamento negli stili e nelle proposte è stato molto netto. Un esempio, per quello che vale. Nella tv di vent'anni fa, auspice e massimo cerimoniere Mike Bongiorno, uno dei principali prodotti televisivi era il quiz. Vale a dire una struttura spettacolare non esente da una sua implicita, per quanto rozza, moralità, dal momento che i gettoni d'oro costituivano una contropartita alle capacità del concorrente. Dai tempi di Lascia o raddoppia al Rischiatutto, da Degoli alla signora Longari, il premio in denaro, la ricchezza, il sogno di un improvviso benessere avevano come premessa una competenza, magari eccentrica o perfino aberrante, una prestazione eccezionale, qualcosa di talmente raro da far meritare automaticamente la straordinaria ricompensa che veniva dopo la domanda finale in cabina. Il pubblico assisteva agli esercizi di memoria di paranoici della specializzazione così come si poteva assistere al triplo salto mortale di un acrobata: il funambolo apparteneva a una realtà «altra», separata dalla quotidianità; esisteva come fenomeno in tutto e per tutto televisivo, di cui non si aveva altra esperienza se non attraverso l'occhio del piccolo schermo. Invece, a mano a mano che i palinsesti saturavano tutte le fasce orarie e che le ore morte venivano riempite dai programmi, attraverso l'infinita varietà di «giochini» telefonici e di premi grandi e piccoli si veniva configurando un'interazione fra televisione e pubblico in cui la felicità, il denaro, il premio erano praticamente svincolati da una prestazione quale che fosse. La premessa fondamentale, quella che dava di fatto un quasi-diritto alla ricompensa, era semplicemente quella di seguire il programma. Alle solitudini degli appartamenti metropolitani si rispondeva con un'offerta continua di illusioni, per modeste che fossero: facendo capire che quella solitudine era calata in un flusso meraviglioso di immagini, un mondo etereo dove il benessere era a portata di mano. Anche tu, assenteista insoddisfatta, piccolo-borghese inquieta, casalinga frustrata, pensionato ingrigito, potevi indovinare il numero dei fagioli della Carrà, accedere per un momento alla celebrità, «partecipare» a un evento, acchiappare la scia della cometa delle illusioni. Sono i primi esempi di televisione interattiva, in cui lo spettatore può tentare di diventare attore. Si vince sempre. E se non si vince oggi, si vincerà domani, con un'altra telefonata, con un altro programma. D'altra parte, non si vinceva sempre anche in Borsa, prima del martedì nero e del venerdì magro, non si stava realizzando il sogno di moltiplicare i soldi senza fatica, semplicemente puntando su questa o quella società quotata, su questo o quel fondo d'investimento? Non si avverava il miracolo di un capitalismo autenticamente popolare, un gioco del lotto a colpo sicuro, in cui tutto il parco buoi scopriva di avere diritto alla ricchezza? «Che ho vinto? Che ho vinto?», chiedevano con perfetta improntitudine al telefono i falsi giocatori inventati da Arbore in Indietro tutta, prima ancora di avere ascoltato la domanda, il quiz, il giochetto. Potrebbe essere noioso e non immune da ritorsioni moralistiche procedere a un elenco delle categorie spirituali prodotte, o se non prodotte selezionate, amplificate e diffuse, dalla televisione. Eppure, che cosa otterremmo se mettessimo nel frullatore l'intera programmazione televisiva e ne distillassimo come quintessenze il significato morale di fondo? Alla rinfusa: un'esasperazione della sessualità presentata di norma come diritto individuale al piacere, a cui fa da sfondo l'esaltazione del corpo, sia nei programmi sia nella pubblicità; una celebrazione enfatica della ricchezza esibita e del consumo vistoso; un clima di festa perenne, di sagra irresponsabile. Nulla di sobrio, niente di austero, ci mancherebbe. Il fatto è che questo brodo molto moderno viene preparato praticamente all'unisono dalla Fininvest come dalla Rai. Da questo punto di vista il duopolio è una finzione, e non è un caso che si cominci a parlare con sempre maggiore appropriatezza di «sistema» televisivo. Si interpreti in tutte le accezioni praticabili il termine «sistema», ma riesce difficile negare che dopo avere partecipato alle giostre di Dallas e di Dynasty (televisione privata) assistere ai mediocri fasti di Beautiful (televisione pubblica) rappresentasse un'immersione nello stesso fiume. Si disse, ai tempi di Dallas, che questo serial concedeva alla «gente comune » (ma forse allora, all'inizio degli anni Ottanta, qualcuno poteva ancora arrischiarsi a dire proletariato senza passare immediatamente per retrò) la chance di sentirsi moralmente superiore ai ricchissimi personaggi della finzione televisiva. A distanza di tempo, registrato il trascendentale successo politico di Silvio Berlusconi, viene da pensare che in realtà il sentimento del pubblico rispetto al perfido J.R. Ewing, il tycoon del petrolio, fosse di tutt'altro tipo. Ma se è adeguata alla realtà l'idea di una omologazione di fondo, negli stili e nei contenuti, fra televisione pubblica e privata, non sembrerebbe allora del tutto convincente nemmeno l'identificazione dell'attuale presidente del Consiglio come il «grande scristianizzatore» dell'Italia contemporanea. Il giudizio è stato espresso con estrema chiarezza dallo scrittore cattolico Vittorio Messori, in alcune dichiarazioni successive all'exploit pivettiano al Meeting di Cl2. È certo che, proprio per stigma genetico, essendo nate con l'obbligo di stare sul mercato senza la protezione del canone d'abbonamento, le reti della Fininvest hanno dovuto rincorrere il pubblico puntando su ciò che fino ad allora la tv di Stato si guardava bene dall'offrire; e quindi, ecco la maggiore spregiudicatezza, qualche strappo alle regole, scollature più profonde, libertà di parolaccia. E forse potrà anche risultare sorprendente che, malgrado tutti gli inchini che si sono visti ai valori del cattolicesimo e della famiglia, una rete Fininvest mandi in onda spettacolini soft core prodotti dalla factory di «Playboy». Ma sono inezie, sfumature, nient'altro che variazioni su un tema: «Ebbene sì, ho fornicato - come diceva l'anziano aristocratico inglese - ma è stato tanti anni fa, in un Paese straniero, e la ragazza è morta». Per l'appunto: si commettono peccati di entità lievemente maggiore quando l'ora è tarda, i bambini sono a letto, e le coppie, regolarmente sposate, in attesa di andarci. Nella morale cattolica «fai da te» che sembra essere il vero criterio assimilato in tutte le sue implicazioni dai ceti moderati (che sono poi quelli a cui si propongono modelli di riferimento in genere smodati), potrebbe darsi che anche questo venga considerato un buon viatico all'intesa coniugale, alla stessa stregua della luna durante la serata romantica nella reggia di Caserta durante il G7. Ci sarebbe spazio per considerazioni non insignificanti sul delinearsi di stili di comportamento che percorrono il doppio binario dell'accettazione di un cristianesimo più che altro sentimental-convenzionale e del rifiuto del carattere vincolante dei precetti ecclesiastici in tema di morale, sessualità, matrimonio compresi; ma fermiamoci a questa idea della famiglia, sbandierata al di là di qualsiasi forma abbia assunto in quanto istituzione e di qualsiasi cosa voglia significare sul piano sociale. Anche con echi lievemente imbarazzanti, tenuto conto che, mentre il senso dello Stato è sempre stato carente, il senso della famiglia non è mai mancato. Forse, ecco, con la differenza che i vecchi imprenditori politici democristiani la consideravano un serbatoio di voti mentre per i manager di Publitalia sarà un target di consumi, e per gli homines novi scremati da Forza Italia l'embrione di un club politico moderato. Sia come sia, dire famiglia evoca qualcosa. E quindi, spettacolo inevitabilmente «per le famiglie» i varietà del sabato sera e della domenica pomeriggio, i Biberon e i Saluti e baci, il nazionalpopolare di Baudo e la telenovela: accomunati, per chi li produce, da una spessa indifferenza per la qualità dello spettacolo, e perciò stesso, come conseguenza diretta, con la convinzione sottostante che anche la qualità delle famiglie non sia gran che. Non si corre troppo in là a dire, se il sillogismo funziona, che anche al culmine del processo di modernizzazione la premessa dell'«ideologia» televisiva è esattamente simmetrica alla convinzione attribuita al realismo di Ettore Bernabei, secondo cui gli italiani erano, fatti i conti, «cinquanta milioni di teste di c.». Alla luce di questa indifferenza estetica ed etica, può anche venire il sospetto che nel giudicare il rapporto fra televisione e società possa essere replicata - su un altro piano ma con la medesima intenzione moralistica - l'idea metafisica della distinzione fra il Paese legale e il Paese reale, fra la politica e la società: potrebbe delinearsi cioè, anche solo a scopi polemici, la concezione di una televisione «cattiva» capace di esercitare un'influenza nefasta su una società intimamente «buona». Si tratta di una riduzione semplicistica che con ogni probabilità non reggerebbe a verifica. È una tesi che nei suoi tratti essenziali può assumere un suo rilievo strumentale se viene fatta propria da settori limitati, «corporativi», di opinione pubblica, interessati a promuovere istanze polemiche proprio nei riguardi dei processi di modernizzazione e quindi a eleggere come bersagli polemici i più vistosi idola di una contemporaneità ritenuta nel suo complesso un inquietante e stordente procedere della perdita di valori. Come si è accennato, se c'è uno schema che inquadra il rapporto televisione/pubblico è piuttosto quello di una loro progrediente identificazione. È anzi all'interno di uno schema di sovrapposizione senza attriti che si potrebbero analizzare i giochi di specchi fra emissione di modelli e comportamenti di massa, esaminando come gli uni interagiscono con gli altri. Si potrebbe registrare, ad esempio, che la tendenza dei programmi di intrattenimento è rivolta a incorporare il pubblico nella trasmissione, annullando il diaframma fra chi produce spettacolo e chi lo riceve. Mentre lo spettacolo televisivo tradizionale (il vecchio Studio Uno, per capirci) non usciva dallo schema teatrale (di qua lo spettacolo, di là un pubblico in platea), a poco a poco la distanza è stata annullata. Una delle prime efficaci sottolineature di questa evoluzione, elaborata in piena consapevolezza «critica», è stata offerta dal programma di Renzo Arbore Indietro tutta, dove spalti di figuranti facevano da pubblico finto e da coreografia vera allo spettacolo. Ma chi ha approfondito più deliberatamente questo modello, perfezionandolo ed esasperandolo via via nel tempo, è stato più propriamente il vecchio sodale di Arbore, Gianni Boncompagni. Prima con il «contenitore» di Domenica In, nel quale un folto gruppo di ragazzine è stato istituzionalizzato come elemento dello spettacolo, «coro» messo rigorosamente in uniforme, chiamato a scandire, ad accompagnare e ad animare i passaggi del programma. E alla fine con l'equazione totale praticata con Non è la Rai, la trasmissione di Ambra. Chi ha fermato almeno una volta il telecomando sul programma di Boncompagni sa che, nel suo genere, è geniale. Si tratta di un evento quotidiano senza pubblico, una «macchina celibe» di intrattenimento, dove i ruoli sono intercambiabili, a rotazione, fra protagoniste e gregarie. Vederlo dal tinello di casa, per un'aspirante Ambra, è come guardare un acquario in cui tutto è variopinto, così spontaneo in apparenza, dove quelle sue coetanee sexy ma non troppo, e belle ma non tanto da mortificarti («Le vogliamo carucce - ha teorizzato Boncompagni - perché se sono eccessive poi non c'è identificazione»), quelle sue virtuali compagne di scuola ridono, ballano, cantano, si entusiasmano, si commuovono e versano lacrimoni di soddisfazione a turno, le une per le altre. Tutto perfettamente confezionato, più vero del vero, per quanto sigillato ermeticamente, sotto vuoto spinto. A prima vista si direbbe che questo congegno è un formidabile produttore di esclusione. E però, in via complementare, chissà che emozione illudersi di essere là, oltre lo schermo, dentro la scatola magica; quindi, chissà che frustrazione umiliante non poterci essere, con le «magiche» Pamela, Francesca e Roberta, e dovere sopportare invece, fuori dalle ore della trasmissione, la noia della vita con papà e mamma e il fratellino piccolo e lo strazio della scuola e dei professori. E dunque, per esserci, nel luglio '94 si affollano e sfilano in quindicimila alla selezione per la nuova serie della trasmissione, davanti allo sguardo allenato di Boncompagni, il quale osserva, giudica, e alla fine approva o condanna. I resoconti sui provini sono rivelatori dell'atteggiamento con cui le ragazze guardano alla promessa di felicità televisiva. Succede per esempio che il regista ne boccia una ma quella capisce invece che l'hanno promossa: «Ed è scoppiata in un pianto liberatorio così terribile, con singhiozzi così esagerati, così bestiali, buttandosi addosso alla ragazza che l'accompagnava che tutti gli occhi si sono appuntati su di me con un rimprovero preventivo. Ho detto: okey, presa, non parliamone più». Per un'Ambra Angiolini che sembra essere nata professionista, che ha in repertorio un catalogo intero di furbizie espressive e di strumenti comunicativi, ci sono migliaia di casi sociologici al ribasso, esemplificazioni rionali, eccessi, ottusità e cecità di una provincia profonda, sconvolta dal richiamo della televisione. Boncompagni - lo ha confidato in un'intervista a «L'Espresso»3 - ha conservato tutti i provini registrati: «Perché sono sicuro che fra vent'anni saranno un documento storico, un reperto d'epoca prezioso». L'occhio clinico-cinico del regista cataloga un campionario sociale ed esistenziale «inquietante», perché le aspiranti sembrano tutte «clonate», «fascia sociale medio-bassa», «tutte apparecchiatissime, acconciate con pettinature inverosimili, con quei tacconi orribili che vanno quest'anno, strozzate in vestiti minimi. Più erano formose più si stringevano». E ancora: «Tutte che dicevano "borza", "danza" con la zeta dolce
Tutte un po' intimidite a spiegarsi con parole assolutamente identiche: facevano tutte ancora la scuola dell'obbligo e, se erano state bocciate, era sempre "perché i professori ce l'avevano" con loro, mentre il tempo libero lo passavano tutte a fare "gnente". Nessuna lettura, nessun interesse preciso». La crudeltà fredda, come da entomologo, di Boncompagni fissa con lo spillo istantanee di solitudine, interni di case dell'hinterland, caseggiati in periferie dove «dal punto di vista dei rapporti uomo-donna la nostra è la stessa civiltà contadina di duemila anni fa», in cui «il maschio è terribile, antico, ignorante», e dove lo schema infallibile di giudizio trasmesso di padre in figlio è «la ragazza che ci sta è una troia, quella che non ci sta è una stronza». Nella crudezza delle espressioni si coglie la visione disincantata di una società italiana in pericoloso bilico fra dimensione arcaica e secolarizzazione apocalittica. Al centro esatto di questo equilibrio così funambolico c'è il mondo colorato della televisione. Che cosa ci si può aspettare allora dalla tv? Che riesca nel miracolo di trasformare l'emarginazione sociale in riscatto, la subalternità culturale in protagonismo? L'afasia in comunicazione? La bambina involgarita della porta accanto in una sophisticated lady? No, piuttosto la produzione di miti, e autoconsumo di mitologie. Cioè conformismo adeguato ai tempi, prodotto dalla televisione e da essa replicato e intensificato all'infinito. Rispondono infatti le giovani italiane, tutte già piccole Parietti e simil-Marini, confessando obiettivi esistenziali da serial californiano e già abituate a replicare alle domande in stile da rotocalco: «Mi vorrei comprare la villa con la piscina, come si vede in tv». «Faccio animazione nelle discoteche». «Non ho assolutamente tempo per i fidanzati». Se è vero quello che dice Boncompagni a proposito delle periferie metropolitane e della provincia più marginale, siamo ancora in una condizione che non trova migliore descrizione rispetto a quella della stranota formula «il medioevo più la televisione». Una società arcaica nei suoi sentimenti più profondi e nei suoi comportamenti primari su cui attecchiscono però, almeno in superficie, tutte le varietà standardizzate del comportamento up-to-date. Ci si potrebbe sbizzarrire a enumerare le possibili combinazioni di arcaico e ultramoderno offerte da un sincretismo di questo genere, le aspirazioni su cui modellare la propria vita. Ciò nondimeno si tratterebbe di un esercizio non eccessivamente fruttuoso, se l'intento fosse di individuare ciò che si ritiene positivo, e di puntarci sopra a fini pedagogici. Proprio l'impasto così difficilmente districabile fra antico e nuovo, fra premoderno e postmoderno, sembra in realtà la cifra più diffusa nella società, al livello collettivo come per gli individui. È per questo che alla fine riesce incongruo proporre come caratterizzazione politica specifica, come interesse selezionato, temi aurorali come quello rappresentato dalla famiglia: proprio perché l'audience è ugualmente sensibile sia all'evocazione sentimentale o melanconica di valori tradizionali sia all'attrazione della convenzionalità «moderna» scandita dai piaceri e dalle trasgressioni (sempre a un passo dal tramutarsi in convenzioni) della civiltà di massa. Un tema che richiama costitutivamente saldezza di convinzioni e coerenza di comportamenti risulta efficace solo per quelle minoranze (avanguardie o retroguardie che dir si voglia) che puntano su fattori forti di identificazione, e che si sentono in grado di sfidare polemicamente il senso comune, l'atteggiamento convenzionale delle maggioranze. Ma su un piano generale la testimonianza, anche nei suoi contenuti di contrapposizione esplicita a una tendenza omologata, tradotta in messaggio televisivo, appoggiata a un supporto massmediale, si presta a una ricezione frammentata, tende a non differenziarsi dagli altri elementi proposti alla sfera del consumo. Anche se fosse spendibile una proposta continua e sistematica di valori, ispirazioni ideali, complessi simbolici riferiti a modelli «comunitari», questa proposta tenderebbe ad appiattirsi, a depotenziarsi, a configurarsi senza soluzione di continuità come una delle numerosissime configurazioni della mappa che disegna l'orizzonte tradizione-modernità. Si potrebbe concludere insomma con un pronunciato realismo, il che equivale detto più esplicitamente a sostanziale sfiducia, verso i tentativi di invertire eroicamente la rotta; ma anche, per ciò che riguarda il passato, verso l'attribuzione di imputazioni e responsabilità specifiche in ordine a processi complicati come la scristianizzazione. Come in Non è la Rai, probabilmente, è caduta la paratia fra spettacolo e pubblico. A questo punto l'identificazione è esatta, la sovrapposizione perfetta. Una certa idea della televisione, così come una certa idea della famiglia, appartengono al passato, quando l'una e l'altra erano diverse. Oggi, presentare alla società - agli spettatori - oleografie pacificanti e richiami a convenzioni nostalgiche vuol dire con ogni probabilità non produrre né intrattenimento né politica, ma più prosaicamente far confluire echi ideologici in una proposta, alla fine, che attiene all'estetica dei mulini bianchi: insomma, alla pubblicità. Questo articolo venne originariamente pubblicato su «il Mulino», n. 4, 1994, pp. 659-670 e successivamente ripreso in E. Berselli, L'Italia che non muore, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 77-94. 1 Almeno in parte, e sotto una luce sarcastica, coglie questo aspetto Massimo Fini su «L'Europeo» del 7 settembre 1994: «Arridatece Forlani perché anche lui aveva una moglie ma nessuno l'ha mai vista. E la cosa, a dire il vero, vale per tutti i leader democristiani: saranno stati quello che saranno stati ma perlomeno non ci hanno mai inflitto le loro mogli, che erano un po' come le consorti dei segretari del Pcus (prima dell'infame Gorbaciov) che si vedevano solo ai funerali degli augusti mariti strette in lise pelliccette di astrakan». 2 «Io ero a Rimini, quando lei ha parlato. Li ho sentiti, gli applausi che riceveva per quella sua sortita sul "popolo in esilio", quando demonizzava la Dc che secondo lei sarebbe responsabile della scristianizzazione in Italia. Io non demonizzo nemmeno Berlusconi, vediamo come va. Ma devo ricordare a Pivetti che se c'è stato un responsabile della scristianizzazione, in Italia, questo è il Cavaliere. Le sue reti sono il simbolo di un'umanità per cui Dio non è neppure un'ipotesi. Certo, il degrado morale è un trend di tutto l'Occidente, ma Pivetti non può ignorare che le paillettes di Berlusconi, che la sua idea di tempo libero come ricerca di cose lontane dalla serietà della vita, son ben più responsabili della scristianizzazione che non la spartizione delle tessere che faceva Sbardella» (intervista a Silvia Giacomoni, «la Repubblica», 30 agosto 1994). 3 Cfr. l'intervista raccolta da Stefania Rossini, Ambra e le altre? Serena disperazione, «L'Espresso», 22 luglio 1994.
Il Mulino, 03-04 1995
Né destra né sinistra. La Chiesa dopo la fine dell’unità politica dei cattolici
Lunedì 27 marzo 1995, il presidente della Conferenza episcopale, monsignor Camillo Ruini, ha aperto una sessione del Consiglio permanente dei vescovi italiani con una prolusione caratterizzata da un forte significato politico. Si è trattato di una relazione nei cui toni si percepiva una drammaticità intriseca, una tensione assai forte, a dispetto della capacità di Ruini di sfumare in formule apparentemente neutre, quasi di teologale astrattezza, la dura consistenza dei problemi. L'intervento di Ruini era assai atteso, perché veniva dopo la gravissima lacerazione del Partito popolare in seguito alla svolta a destra di Rocco Buttiglione; le sue implicazioni sono tuttora in gran parte da valutare. Fine del partito cristiano: si può guardare a destra? Il presidente della Cei ha parlato della politica italiana riconoscendo con profonda amarezza il completarsi di un processo che ha scandito la «fine progressiva dell'impegno unitario organizzato» dei cattolici in politica. Chi ha seguito la tragicommedia del Partito popolare, il lungo conflitto anche pretorile fra Buttiglione e Bianco per il possesso ha capito che anche (ma si potrebbe dire perfino) la Chiesa si è rassegnata a mettere in archivio la vicenda democristiana. Che sia stata una decisione pressoché obbligata, presa sotto dettatura delle cose e degli avvenimenti, è fuori dubbio; ma nello stesso tempo non si può negare che si tratta di un esito di portata storica, almeno se si ci si riferisce alla storia italiana dell'ultimo secolo. Si conclude, o sembra concludersi, un ciclo che aveva visto il mondo cattolico escluso dalla politica, partecipe delle illusioni e dei fallimenti dello Stato liberale, racchiuso su se stesso durante il fascismo a preparare la classe dirigente futura, egemone politicamente lungo il dopoguerra con la Dc, il «partito cristiano al potere». Ora è arduo prevedere quale sarà il ruolo di un «partito cristiano» disintegrato e disseminato a schegge in una pletora di forze politiche. In sé e per sé, sarebbe inutile ripetere che l'unità politica dei cattolici era ormai un feticcio ammuffito. Senza riandare alle vicende delle minoranze e delle avanguardie cattoliche di sinistra nell'immediato dopoguerra, è dalla data del referendum sul divorzio, il 12 maggio 1974, che il mondo cattolico ha imboccato la strada della differenza, talora della diaspora, qualche volta anche della secessione secca. Gli ultimi mesi dell'era del sistema proporzionale e dell'avvio del sistema maggioritario hanno poi visto un proliferare di movimenti e partiti di ispirazione prevalentemente cattolica, dai Popolari per la riforma di Segni alla Rete e ai Cristiano-sociali, fino al Centro cristiano-democratico di Casini e Mastella e a ulteriori e meno significative esperienze di frammentazione politica. Tuttavia, malgrado questa progrediente scomposizione, era rimasto il Partito popolare, che nella vulgata appariva a tutti gli effetti come il vero erede della Democrazia cristiana. Un'isola infelice dentro il meccanismo maggioritario: e difatti Ruini, elencando nella sua relazione di fine marzo le ragioni della disintegrazione democristiana, ha indicato proprio nel sistema uninominale uno dei principali fattori che alla fine hanno determinato «un'ulteriore e più grave frattura nella rappresentanza politica che fa riferimento all'ispirazione cristiana». Eppure, questa spiegazione può indicare una ragion sufficiente, o prevalente, in termini politologici, ma non riesce certo a spiegare perché il partito egemonico della Prima Repubblica si è liquefatto così rapidamente nel passaggio alla Seconda. Tutte le spiegazioni in realtà risultano insufficienti, se prese una per una, e considerandole tutte insieme sembrano rivelarsi troppo efficaci, con un surplus di efficacia che lascia trasparire una specie di banalità implicita. È certamente vero, infatti, che nello stesso corpo politico non potevano più convivere le due anime di destra e di sinistra. Ma così come durante il quasi mezzo secolo democristiano era stato il contesto internazionale a rendere possibile il mantenimento della Dc come fortezza interclassista eretta contro la minaccia antisistema rappresentata dal Pci, è anche possibile che oggi sia il contesto politico domestico a definire le ragioni delle differenze che hanno portato il Partito popolare a lacerarsi. In sintesi fin troppo rapida, si potrebbe dire infatti che è l'atteggiamento verso la destra, prima ancora che quello verso la sinistra, a illustrare la crisi dei Popolari. Può apparire una spiegazione tautologica, una semplice variazione della «logica del maggioritario», ma forse è presente e visibile una sfumatura diversa. Da un lato c'erano Buttiglione e Formigoni, due protagonisti dell'esperienza di Comunione e liberazione. Gente che non aveva paura a «sporcarsi le mani» con la destra. Non va dimenticato che il soggetto politico voluto da Buttiglione, il «suo» Partito popolare, era segnato da un marcato tratto generazionale. Era un partito interpretato da ciellini quarantenni, cioè appartenenti a una generazione che negli anni Settanta, nel periodo dei movimenti, allorché il conflitto ideologico raggiunse l'acme dell'asprezza, aveva sviluppato una coerente e sentita cultura anticomunista. Si può sostenere che proprio lo spontaneo, addirittura felicemente liberatorio, anticomunismo di Cl neutralizza quasi fisiologicamente la paura o il tabù della destra. Per potersi dire anticomunisti a tutti gli effetti i giovani ciellini non rifiutano più con disprezzo l'etichetta di destra. La polemica «anticonsociativa», la rottura delle convenzioni politiche e istituzionali su cui si basava tutto il sistema politico, il pragmatismo deliberatamente assunto a strategia, trovavano in Cl un attore capace di ricoprire la parte con un entusiasmo che sbaragliava dubbi e remore intellettuali. Non è un caso siano stati proprio gli uomini storici della Dc, come Emilio Colombo, uno degli ultimi esponenti di spicco del degasperiano «partito di centro che guarda sinistra», a rimarcare con sofferenza esibita, non celabile, l'estraneità del progetto di Buttiglione rispetto alla storia del partito, e quindi a giudicare perfettamente impraticabile la sua proposta di sintesi. Anche perché al problema teorico e pratico relativo all'atteggiamento da tenere con la destra, si è aggiunto il dilemma hic et nunc riguardante Berlusconi e Forza Italia. Buttiglione lo ha risolto facilmente, secondo la tecnica ciellina che Arturo Parisi ha chiamato «pensiero debole applicato con le maniere forti», in cui la debolezza del pensiero significa l'assenza di discriminazioni nette verso gli alleati possibili: preso atto che a partire dal 27 marzo 1994 l'elettorato moderato della Dc se n'era andato a cercare rifugio sotto le insegne di Forza Italia, ha applicato alla lettera il motto «sono il loro capo, e quindi li seguo». Che il primo criterio di valutazione, e quindi di strategia, fosse l'atteggiamento rispetto alla destra e a Berlusconi è reso evidente ad esempio dalle motivazioni addotte dai pochi esponenti della Chiesa che hanno scelto di esprimere a chiare lettere il loro favore per il blocco di centro-destra. Uno dei protagonisti più volonterosi di questa scelta di campo, l'anziano cardinale Silvio Oddi, ha speso numerose, quasi quotidiane dichiarazioni, per argomentare il suo favore verso Berlusconi e Fini. Eppure ciò implica la capacità di far convivere confessionalismo e spregiudicatezza, dal momento che guardare a destra significa fare i conti con una serie di aspetti piuttosto difficili da mettere a bilancio: la secolarizzazione, il consumismo, l'etica televisiva, il superlaicismo pannelliano. Ci vuole una grande capacità sincretistica per riuscire a miscelare il mercato deregolato e la suggestione solidaristica cattolica; ma in sé l' operazione non è intellettualmente impossibile. Un punto d'incontro, fra destra laica e destra cattolica, lo si trova nella comune awersione verso lo Stato, inteso come un produttore di gravami. Piuttosto, non sembra di cogliere mai, in una scelta di questo genere, il sospetto e nemmeno il timore di poter ricoprire tutt'al più una funzione gregaria, di semplice abbellimento ornamentale: un pizzico di cattolicesimo in più per insaporire una destra che forse ne potrebbe fare tranquillamente a meno. Che cosa c'è sotto lo Scudo crociato Sul piano più immediatamente politico, con l'ultimo intervento di Ruini la Chiesa compie dunque un passo indietro rispetto agli schieramenti. E se ne capisce fin troppo facilmente la ragione: sarebbe infatti troppo insidioso consentire che la logica mondana del meccanismo bipolare facesse sentire il suo effetto dirompente dentro tutti gli organismi ecclesiastici, ai massimi e ai minimi livelli, dentro la Curia come in ogni parrocchia. Il presidente della Cei non si è limitato comunque a inibire ufficialmente lo schierarsi delle organizzazioni ecclesiali; ha anche rammentato con un certo vigore «l'ammonimento del Concilio Vaticano Il» secondo cui «a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della Chiesa». Ni droite ni gauche. Ma questo atteggiamento, nonostante le conseguenze piuttosto rilevanti che può avere nell'immediato, almeno perché toglie un po' di fiato al cattolicesimo sbandierato vigorosamente dalla destra, da Berlusconi come da Fini, è solo la corteccia del problema. Vi si esprime la secolare prudenza ecclesiastica, una posizione sostanzialmente difensiva ma anche inevitabile in una fase di conflitti che proliferano e dilacerazioni che continuano a sanguinare. Tuttavia questa salomonica cautela lascia ancora aperta, anzi, spalancata la questione dell'atteggiamento della Chiesa rispetto alla politica italiana. In teoria, il duplice tramonto della Dc e del Ppi e la frantumazione del cattolicesimo politico italiano potrebbero essere gestite secondo i criteri già indicati più volte nel recente passato, come il principio della «tensione unitiva» orientata nitidamente dai valori anziché opacamente dai partiti; criteri che sono stati ribaditi anche dall'ultimo Ruini, che ha di nuovo sollecitato i cattolici a ispirarsi ai contenuti della dottrina sociale della Chiesa, con l'impegno a «farli prevalere sulle logiche di schieramento». Nelle pieghe della realtà, invece, le cose non sono affatto così semplici. Se lo fossero, non ci sarebbe stato nel discorso di Ruini il rammarico così palese per l'esito di un processo di dissoluzione politica (contro cui egli stesso si è battuto apertamente), e neppure il doloroso richiamo al progressivo indebolimento culturale e morale che ha segnato la vicenda democristiana «fino a forme gravissime di controtestimonianza» (che sarebbero poi, fuor d'eufemismo, gli intrecci politico-affaristici di Tangentopoli, con il peso di maggiore vergogna che ha scaricato sul partito cattolico proprio in quanto cattolico). Nelle parole pronunciate dal presidente della Cei si è avvertito il subentrare alla disperazione una sorta di rassegnazione estrema, come per dire: certo, ora la Chiesa è nuda nel vasto orizzonte della politica e della società; e dunque si impegnerà come soggetto sociale, uno tra gli altri ma con tutto il rilievo della sua tradizione e della sua autorità, per un «progetto culturale cristiano». Un atto dovuto ben più che una libera decisione. Con queste parole la Chiesa italiana dovrebbe entrare senza più veli nella modernità: eppure nelle frasi di Ruini, nel giro delle sue parole, si percepisce un che di crepuscolare, di indefinito, di non detto. Se provassimo a dirlo, sfidando una inevitabile grossolanità, diremmo che la Dc e il suo principale erede, il Ppi, non erano solo un partito. Erano uno strumento essenziale per la Chiesa perché davano corpo a un'idea: l'idea che esistesse un mondo cattolico ampio e coerente, e che attraverso il partito, la sua rete di mediazioni e di potere, si rendesse politicamente visibile il perdurare di una forte presenza cattolica nella società italiana. Insomma, a dirla con tutto il malgarbo possibile, per la gerarchia ecclesiastica la Dc costituiva la prova che c'erano i cattolici. Conta poco che si trattasse di un equivoco, o al massimo di una convenzione. La forma surrogava la sostanza. Per questo, dopo la Dc, gran parte della Chiesa si è aggrappata ostinatamente a quel fenomeno residuale che era il Ppi; per questo c'è stata aspra opposizione verso eresie politiche ritenute a suo tempo catastrofiche come quelle di Segni, e per questo al momento buono non sono mancate le simpatie verso il progetto «tedesco» di Buttiglione, volto a ricostituire un blocco democristiano dentro il Polo. Con il consumarsi della crisi democristiana, la Chiesa si trova all'improvviso di fronte, senza più diaframmi, una società fortemente secolarizzata. Numerosi esponenti politici, Fini, Berlusconi, Casini, Buttiglione da una parte, P rodi, Segni, Gerardo Bianco e la sinistra dei popolari dall'altra, dichiarano tutti di ispirarsi ai valori del cattolicesimo. Nell'impraticabilità di una scelta di campo fra destra e sinistra, la Chiesa potrebbe presto accorgersi che il cristianesimo degli italiani, il loro «cattolicesimo del cuore», è solo un'eco generica, che non costa nulla evocare, e che risuona in un ambiente dominato dal relativismo e da forme vistosamente diffuse di omologazione «postcristiana». E al termine dello sfacelo democristiano ci potrebbe dunque essere prima la percezione che nell'Italia laicizzata che viaggia verso il Duemila i «valori cattolici» sono solo lo sfondo poco più che sentimentale di comportamenti che di fatto piegano senza alcuna remora il magistero e il dettato della Chiesa alle convenienze soggettive; e subito dopo, sul terreno quantitativo, la constatazione che i cattolici non sono più che una limitata minoranza. Allora, nella stordente presa d'atto «sotto lo Scudo crociato, niente», c'è senz'altro la possibilità di una reinterpretazione del ruolo della Chiesa adeguato ai tempi e alle caratteristiche di una società in piena modernizzazione. Ma ci sarà anche la tentazione di offrire un imprimatur di fatto a chi più spregiudicatamente, perché potrà farlo senza subirne costi politici, cavalcherà i temi più brucianti, come l'aborto e la difesa della vita, e quelli più coinvolgenti emotivamente, come la tutela della famiglia. In tal senso, l'enciclica Evangelium vitae non pone soltanto un problema teologico: può anche delineare un discrimine politico. Detto semplicemente, si tratterebbe soltanto di trasformare contrattualmente una maggioranza politica in una maggioranza «morale». Ma se si passasse dal cattolicesimo svilito di marca democristiana a un integralismo interpretato e giocato in chiave strumentale, per la Chiesa il passaggio nella rivoluzione italiana degli anni Novanta sarebbe solo la speranza antistorica di una nuova restaurazione, sotto le forme di un nuovo patteggiamento, da potere a potere, con la politica.
Il Mulino, 09-10 1996
Riforme, rivoluzioni e possibili controriforme
Nelle valutazioni politiche di questi mesi, la debolezza del governo in carica viene attribuita all'eterogeneità dello schieramento di centrosinistra. Si tratta di un'opinione suffragata per vari aspetti dalla realtà, dal momento che non sfugge a nessuno l'asimmetria fra le componenti moderate della coalizione di governo e la parte «antagonista» dello schieramento, rappresentata naturalmente da Rifondazione comunista. Ma un giudizio di questo tipo esprime più che altro la registrazione della condizione di fatto. Per discuterne le implicazioni nella prospettiva del consolidamento istituzionale del sistema italiano conviene quindi ripercorrere brevemente le ragioni che hanno condotto alla situazione attuale c la condizione in cui si trovano gli schieramenti politici nella fase attuale. Gli schieramenti incompleti In estrema sintesi, il problema politico più appariscente nell'Italia uscita dal grande confronto del 21 aprile deriva dal fatto che l'Ulivo è riuscito a produrre un accordo elettorale con Rifondazione comunista, ma non se l'è sentita di legarsi all'ala massimalista della sinistra con un trasparente ed esplicito accordo politico. Questa scelta è stata voluta al fine di evitare l' «inquinamento» della coalizione di centrosinistra, dato che l'Ulivo aveva puntato esplicitamente su un messaggio politico rivolto ai settori centrali dell'elettorato; ma poiché i risultati della consultazione del 21 aprile non hanno consegnato all'Ulivo una maggioranza certa, ciò che non era stato realizzato prima della campagna elettorale si è dovuto realizzare con diversi affanni dopo le elezioni e l'insediamento del governo Prodi. Si deve poi riscontrare che, non essendo stato considerato politicamente opportuno un negoziato alla luce del sole con Fausto Bertinotti, con una carta di impegni reciproci, la trattativa è stata e viene condotta punto per punto e momento per momento, cioè secondo un andamento che finisce con il favorire largamente le possibilità di interdizione politica di Rifondazione comunista. C'è da aggiungere che tutto ciò era non solo prevedibile, ma che lo stesso segretario di Rifondazione comunista lo aveva annunciato al momento della formazione del governo: Bertinotti infatti aveva comunicato la disponibilità a far nascere il governo dell'Ulivo, concedendogli il via libera con il voto di fiducia parlamentare, ma si era riservato nello stesso tempo la titolarità politica di un diritto di trattativa costante con l'esecutivo. In effetti Rifondazione comunista ha negoziato costantemente con il governo, e la sua azione è diventata via via sempre più visibile, dalla discussione sul Documento di programmazione economica e finanziaria alle intese per il varo della legge finanziaria, e anche alle discussioni sulla ristrutturazione delle aliquote fiscali predisposta da Vincenzo Visco. Fino al punto che Rifondazione comunista si è rapidamente trasformata nell'effettivo partner esterno dell'alleanza di centrosinistra, inducendo diversi osservatori a suggerire il suo coinvolgimento nella coalizione, allo scopo di fissare una serie di punti programmatici vincolanti e di neutralizzare quindi, o perlomeno di ridurre al minimo, le sue potenzialità di veto o di ricatto politico. Ma è realistico pensare che una forza politica come quella capeggiata da Bertinotti si faccia imbrigliare all'interno di un patto politico definito? Oppure più verosimilmente Rifondazione è un soggetto politico sostanzialmente irriducibile a una prospettiva di governo? La risposta non è immediata, perché in realtà Bertinotti giostra con una certa abilità su due direttrici: da un lato infatti esercita un ruolo espressamente politico, tratta, patteggia, porta a casa pragmaticamente risultati negoziali; dall'altro, continua a lanciare all'opinione pubblica messaggi di romanticismo antisistema, proponendosi come l'unico soggetto esplicitamente anticapitalista e massimizzando i vantaggi di questo ruolo sino a lasciare molte incertezze sul suo interesse alla persistenza del governo di centrosinistra. Questa duplicità di atteggiamento risulta particolarmente conveniente, in quanto permette a Rifondazione di presentarsi come il fattore che ha impedito c impedisce la presa del potere da parte della destra, ma a mani completamente libere, «lavorando» nominalmente a favore delle fasce sociali deboli, e con in più la serena consapevolezza che se la situazione dovesse precipitare, l'alleanza franare, il governo cadere, anche in questo caso la sinistra oltranzista potrebbe comunque ripresentarsi alle elezioni con la certezza di raccogliere una consistente quota di voti non riconducibili alla sinistra liberal-pragmatica. Sotto tale punto di vista, riesce improbo non attribuire allo schieramento di centrosinistra un più elevato grado di contraddittorietà interna rispetto all'ala di centrodestra. È fuori dubbio infatti che anche il Polo per le libertà è attraversato da divisioni e differenze politico-culturali difficilmente cancellabili. Se il progetto di Forza Italia non era solamente un disegno di restaurazione, architettato per occupare l'area di potere detenuta e controllata in precedenza dalla Democrazia cristiana e dal Partito socialista, se cioè esisteva effettivamente l'aspirazione a creare un ampio movimento modernizzatore, il «partito liberale di massa» che l'Italia non ha mai avuto, non si è ancora capito come questo programma potesse e possa essere realizzato in combinazione con una forza storicamente e tendenzialmente nazionalpopulista come Alleanza nazionale. A meno che, forse, non ci fosse una certa sottovalutazione del peso che An avrebbe assunto. Cioè che il progetto berlusconiano fosse volto a creare una forte combinazione politica di destra, capace di avvalersi strumentalmente del voto moderato del suo partner postfascista e del liberalsolidarismo degli eredi moderati della Dc, ma mantenendo una forte carica egemonica sulla coalizione di destra, capace di imprimere una riconoscibile tonalità liberale al Polo. Resta il fatto che se esistono due sinistre, a quanto si vede non facilmente compatibili, la destra esprime almeno quattro anime, come ebbe a dire proprio Berlusconi presentando la sua coalizione come «il Polo delle libertà, del buon governo, della solidarietà e delle riforme», incorporando quindi anche il radicalismo politico della componente di Marco Pannella e illustrando con un certo ottimismo la coesione del Polo. Ciò nondimeno, e malgrado la battuta d'arresto che ha subito il revisionismo ideologico e culturale di Alleanza nazionale, è sempre sembrato che la coalizione di destra fosse intrinsecamente, se non più omogenea, senz' altro più capace di comporre le proprie diversità in vista della conquista del potere politico. Che poi questa maggiore omogeneità tattica potesse resistere alle proprie contraddizioni al momento di misurarsi con le decisioni selettive imposte dall'attività di governo non è dato sapere, dal momento che la brevissima durata del governo Berlusconi non ha consentito di valutare adeguatamente la tenuta politico-ideologica del Polo, la sua coerenza culturale, e nemmeno la sua compattezza rispetto alla varietà degli interessi socioeconomici rappresentati dalle sue componenti. E va anche considerato che una certa diffidenza sulla credibilità della coalizione di centrodestra si è manifestata nell'elettorato, se è vero che al buon risultato complessivo ottenuto il 21 aprile dai partiti del Polo nella quota proporzionale si è affiancata una cattiva prestazione nei collegi uninominali. Eccezionalità o dzf/icile normalità In ogni caso si può legittimamente sostenere che gli schieramenti configuratisi dopo l'approvazione della legge elettorale maggioritaria sono incompleti o immaturi, e a questo aspetto va aggiunto naturalmente la questione del terzo incomodo rappresentato dal successo della Lega Nord alle elezioni della primavera scorsa, nonché la sua volontà di giocare da outsider totale. Esistono quindi elementi di fatto che agiscono in contraddizione con la dinamica bipolare auspicata e prevista. E l'impazienza attuale della politica, così come l'impazienza dell'opinione pubblica, induce a considerare inevitabile, per completare il processo della razionalizzazione di sistema, la ricerca ulteriore di soluzioni di stampo istituzionale. Se ne capisce anche facilmente la ragione: con la campagna referendaria per il cambiamento della legge elettorale, l'innovazione di processo ha prevalso largamente sull'innovazione di prodotto, ed è stata altissima l'aspettativa per l'effetto che la nuova formula di impianto maggioritario avrebbe dovuto avere sul sistema politico. Sorgono di conseguenza almeno due quesiti. Il primo: c'è stata una sopravvalutazione collettiva dell'impatto che la riforma elettorale doveva determinare sulla politica? Il secondo: oppure è stata l' opacità dei comportamenti a fare da freno al processo di razionalizzazione del sistema? Una risposta risolutiva non c'è, o c'è solo se si sposano tesi dogmatiche. È evidente che il sistema maggioritario, considerato e voluto come una leva destinata a sbloccare la paralisi politica, è stato sovraccaricato di funzioni che da solo non poteva avere; come nello stesso tempo risulta altrettanto chiaro che sono state le forze politiche a introdurre nel metodo elettorale quegli elementi proporzionalizzanti che hanno reso opaca la formula e hanno favorito la persistenza di comportamenti non coerenti con l'architettura della macchina bipolare. È chiaro a tutti che la legge elettorale vigente è un complicato compromesso fra un progetto di tipo maggioritario e un residuo proporzionale, che tende a stabilizzare «riserve indiane» e frammentazioni politiche di ogni tipo, a destra come a sinistra. Oltre tutto, per come è congegnato, il sistema semimaggioritario italiano intensifica tutte le possibili distorsioni del maggioritario a turno unico, concedendo a priori zattere di salvataggio a coloro che defezionano dal modello bipolare, e quindi premiandone l'indisponibilità alla logica di coalizione. Il completamento della riforma elettorale e istituzionale è quindi uno degli aspetti su cui concentrare l'attenzione, ma non certamente l'unico. Il cuore della riforma dovrebbe essere una combinazione di misure tecniche tali da favorire la stabilizzazione dell'assetto bipolare, predisponendo le condizioni per rendere più difficili i conflitti dentro le alleanze, e per stabilire la garanzia della governabilità. Un terzo aspetto, quello della riduzione al minimo del «terzo escluso» (la Lega) implica in realtà non solo correzioni di formula, quanto una serie coordinata di iniziative istituzionali e soprattutto politiche tese a prosciugare l'acqua intorno alla ribellione secessionista. Si tratta di obiettivi di una portata tale da implicare necessariamente strumenti straordinari. come sarebbe la convocazione di un'assemblea costituente? Anche in questo caso la valutazione è piuttosto complessa. La propensione alla scelta di uno strumento come la costituente, infatti, non deriva da un calcolo «freddo» sull'adeguatezza dell'assetto istituzionale attuale e sulle correzioni da introdurre, bensì da una valutazione di eccezionalità storica della situazione italiana contemporanea. Se si sottoscrive il referto secondo cui nel periodo 1992-96 la democrazia italiana ha attraversato il suo fallimento, ed è morta senza rinascere, non ci sono troppe alternative. L' elezione popolare di un'assemblea che prepari il nuovo contratto civile fra gli italiani appare l'unica via d'uscita. Se si è convinti che la scoperta di un intreccio estesissimo di corruttela politica, la fine traumatica dei partiti storici su cui si era imperniato l'equilibrio politico centrale, l'incombere di un potere extrapolitico (quello delle Procure) in conflitto continuo con la politica, una irrecuperabile crisi finanziaria che ci marginalizza rispetto all'integrazione europea, la minaccia secessionista o se non altro l'acuirsi dello squilibrio Nord-Sud hanno dato luogo a una condizione storica effettivamente straordinaria, non si vede in effetti come sia possibile reagire con misure iscritte nell'ambito della normalità. Dunque il problema consiste nel definire se ci si trova davvero in una situazione di assoluta eccezionalità. Certo, se crollasse il governo insediato nel maggio 1996, se il processo di risanamento dei conti pubblici dovesse rivelarsi illusorio, se il sogno del traguardo europeo di Maastricht dovesse dramma ticamente svanire consegnando il paese a un sentiero di decadenza, sarebbe davvero il caso di restituire la sovranità al popolo e di cercare una nuova forma complessiva di convivenza civile e nazionale. In realtà, prima dell'apocalisse, sembrerebbe di poter dire più propriamente che la situazione è gravata da una forte incertezza. Il sistema politico è ancora largamente imperfetto, ma niente vieta di proseguire sulla via dell' aggiustamento, soprattutto se si considera che malgrado tutto la configurazione bipolare è stata largamente assimilata dai cittadini -elettori. A sua volta, il risanamento finanziario dipende da fattori non tutti controllabili politicamente (come la ripresa economica europea e la discesa dei tassi d'interesse), ma non sembra infallibilmente pregiudicato. Nell'incertezza, in assenza cioè di eventi realmente traumatici, sarebbe politicamente infantile non utilizzare lo strumento più ravvicinato, rappresentato dalla Commissione bicamerale per le riforme. Ciò che è sicuro, infatti, è che il Parlamento attuale ha pochi mesi di anzianità, e quindi è perfettamente legittimato, c'è un governo in carica che deve svolgere il suo impegnativo lavoro, e grazie al cielo non sembrano necessariamente profilarsi eventi catastrofici tali da imporre soluzioni eccezionali. Perciò dietro la scelta dell'assemblea costituente sembra di vedere più che altro il riflesso di un'opzione politica. Probabilmente i suoi sostenitori sono convinti che essa potrebbe più facilmente spostare l'equilibrio da un impianto parlamentare a un'intelaiatura basata su una leadership di marca presidenziale, e potrebbe eventualmente introdurre modificazioni istituzionali profonde, capaci di interessare tutta la carta costituzionale passando da un sistema dei diritti a un sistema delle libertà, e di dare un'impronta individualisticoliberale, anziché personalistico-sociale, a tutto il quadro della costituzione economica. Per non rifare il passato Ma anche questa scelta sembra basata per la verità più sugli auspici e sulle preferenze di parte che non sulle prospettive reali. Occorrerebbe spiegare infatti per quali ragioni l'eventuale assemblea costituente potrebbe rispecchiare equilibri politici diversi da quelli attuali, e perché la sua azione dovrebbe sfuggire alle logiche di compromesso che si mettono in bilancio preventivamente a svantaggio della Bicamerale. E anche per quale nobile ispirazione un'assemblea costituente eletta in termini rigorosamente proporzionali non dovrebbe riprodurre, sul piano del progetto di ridisegno istituzionale, tutte le fratture e le differenze che esistono in questo momento tra le forze parlamentari. Sotto questa luce c'è una sottovalutazione del contenuto politico implicito nella costituente, come se la restituzione della sovranità al popolo potesse essere esercitata senza mediazioni, vale a dire come se fosse sufficiente dare vita artificialmente a un momento storico eccezionale per produrre risultati eccezionali, con l'espressione diretta di una volontà di cambiamento trasformabile altrettanto direttamente negli articoli della legge fondamentale dello Stato. Nella soluzione dell'assemblea costituente sembra di percepire, non troppo lontano, l'eco di un'illusione populista, proprio nell'accezione resa classica da William Riker, secondo cui è tipico del populismo pretendere di rappresentare come intenzione generale della società una «volontà popolare» che in realtà è presunta o manipolata. Se si guarda senza pregiudizi scettici alla realtà, l'opzione per la costituente era probabilmente giustificata nella fase di sfaldamento del sistema, allorché il fallimento della «Repubblica dei partiti» era evidente e la bancarotta economica a un passo. Non ci sarebbe stato da stupirsi se, dopo l'uragano valutario del settembre 1992, l'infuriare di Tangentopoli, la liquidazione sommaria di partiti come la Dc e il Psi, qualcosa o qualcuno avesse coagulato tutti i fattori di malattia del sistema inducendo a scegliere la terapia shock, o meglio l'eutanasia della Prima Repubblica e il concepimento a caldo della Seconda su base popolare. Oggi invece si deve considerare che la spinta alla rivoluzione costituzionale non è qualcosa di imposto automaticamente dagli avvenimenti. È desiderato piuttosto da alcune forze politiche, in genere (ma non solo) collocate a destra nello schieramento; ma nello stesso tempo nel sistema agiscono alcune controspinte, perfettamente visibili, che si muovono in significativa controtendenza rispetto al processo di ulteriore razionalizzazione bipolare. Sono spinte illegittime? No, sono semplicemente il frutto di considerazioni legate alle convenienze politiche particolari, come nel caso di Rifondazione comunista e anche della Lega, dato che alle forze «eccentriche» conviene restare legate a formule tendenzialmente proporzionali; oppure derivano altrettanto legittimamente da una valutazione che individua nel formato bipolare una inadeguatezza rispetto alle tradizioni storico-politiche e alle complessità politico-sociali dell'Italia del Novecento. È soprattutto quest'ultima obiezione che deve essere valutata a fondo. Perché è fisiologico che un partito come Rifondazione comunista, proprio per le sue caratteristiche di partito dell'alternativa assoluta, portatore di un antagonismo retoricamente totale, sarà sempre in opposizione a progetti che tendano a ingabbiarla nell'ambito di alleanze circoscritte e «responsabili». Mentre chi guarda al funzionamento sistemico, e reputa che sia proprio la formula bipolare a essere inadeguata, sottolineando l'incongruenza e l'immaturità degli schieramenti in campo, espone un'obiezione pesante, non liquidabile con leggerezza. Se la diagnosi sull'incompletezza e la disomogeneità degli schieramenti porta infatti a valutare inadeguata la configurazione bipolare, l'esito obbligato di questo ragionamento conduce direttamente, prima ancora di condannare la formula maggioritaria, a individuare uno schema che faccia saltare il discrimine fra le ali di destra e di sinistra del sistema politico. La parola «centro», nella politica italiana, è nello stesso tempo rivendicata e screditata. Ma se per ragioni di disfunzionamento del sistema politico si arrivasse a fare saltare la linea di confine che oggi divide il centrodestra dal centrosinistra, l'esito sarebbe facilmente prevedibile. Il sistema maggioritario verrebbe dribblato con una manovra orientata a ricostruire una vasta area politica, da Forza Italia al Pds, in grado di occupare i due terzi dell'area di consenso e di tagliare fuori, marginalizzandoli, i partiti estremi. È naturale che una prospettiva del genere verrebbe ampiamente favorita da un contraccolpo che riportasse il metodo elettorale a un impianto proporzionalizzante, e quindi intrinsecamente favorevole a intese sul centro politico. Ma anche a legge elettorale invariata, nel caso di progressive difficoltà nell'esercizio del governo, potrebbero manifestarsi piuttosto facilmente spinte a concludere accordi centripeti tra le forze politiche «responsabili», dapprima sullo sfondo di una situazione provvisoria, emergenziale, c poi all'interno di una dinamica tendente a stabilizzarsi. Ma questo significherebbe semplicemente la riedizione del lungo centrosinistra che ha governato l'Italia per trent'anni, un altro compromesso di lungo periodo. Con attori mutati, ma con una trama e implicazioni analoghe. Cioè con una situazione di continuo patteggiamento - di scambio, risarcimento e veto -fra i due principali contraenti del patto politico. Non è una visione ignobile, ma implica una concezione della società italiana, sub specie aeternitatis, come di una collettività incapace di dividersi in base all'assunzione di responsabilità definite. E insomma «una certa idea» dell'Italia come di un paese che vive provvisoriamente nella sua immutabile eternità. Di fronte a un possibile sviluppo di questo tipo, non sembra irrazionale né minimalistico spendere una quota di capitale riformistico sull'investimento a breve termine rappresentato dalla commissione bicamerale. L'obiezione principale è che ci possono essere interazioni negative fra le intese eventualmente raggiunte nella bicamerale e il governo in carica: vale a dire che il lavoro della commissione potrebbe entrare in una rete di veti, e che sul governo potrebbero scaricarsi le insoddisfazioni per le intese istituzionali individuate fra i principali attori politici. È un'obiezione tutt'altro che infondata. Ma sancire a priori l'impossibilità della soluzione di taglia minore implica un salto in avanti per superare un'implosione della politica profetizzata come inevitabile. Mentre in questo momento il primo obiettivo è impedire questa implosione, lavorare con quel che c'è a disposizione, facendo i conti fino in fondo con la fatica della politica.
Il Mulino, 05-06 1997
Bertinotti preso sul serio
C'è un indizio che rivela qualcosa sulla figura e sul ruolo di Fausto Bertinotti, ed è che nessuno lo accusa mai di essere un comunista. Il partito che dirige porta nella sigla la parola proibita, ormai esclusa dai galatei politici vigenti. Ma lui, il segretario del Partito della Rifondazione, non è un comunista: non ne ha i tratti intellettuali e nemmeno le fattezze fisiche, come si nota a prima vista e come sottolineano i coloristi della politica. Dicono di lui invece, e ogni definizione che segue contiene un pizzico di verità, che è un anarcosindacalista, un socialista massimalista, un radical, l'esponente di un pensiero fondato sull'antagonismo sociale e politico: e fin qui le etichette non falsano troppo la realtà, nel senso che il leader di Rifondazione comunista si è assunto programmaticamente il compito di rappresentare una posizione esplicitamente anticapitalista, antiliberista, antimonetarista. Che in effetti, nell'epoca del liberalismo imperante, è una delle trasgressioni percepite come più audaci. Ma il tentativo di trasformare Bertinotti nel reprobo, nell'ultimo resistente di una concezione old style della politica, non ha funzionato, e probabilmente non poteva funzionare per mancanza di presupposti. Proprio perché il segretario di Rifondazione non è un truce commissario inviato dalla Mosca d'antan, né il sostenitore di una pianificazione socioeconomica ottusa, né il portavoce ripetitivo di un pensiero sepolto ingloriosamente dalla storia. Parole e cose Comunista non è mai stato, Bertinotti. Socialista e sindacalista sì, e in quanto tale possiede una suggestiva capacità di individuare i punti di crisi, di attrito, di contraddizione dentro la realtà, e di sfasatura fra i modelli proposti e la realtà vera. Si è provato a consegnarlo all'insignificanza inchiodandolocioè una bandiera del terrore agitato contro il mondo «moderato» dei risparmiatori, salvo poi far passare sotto silenzio che - insomma, vabbe' - sollevare la questione della fiscalità sulla rendita finanziaria non era poi una issue eversiva, e che in effetti un problema c'è, se è vero oltretutto che il premio alla rendita penalizza gravemente il mercato mobiliare e gli investimenti produttivi. Si è anche cercato di dipingerlo come il capo del «partito degli irresponsabili», prendendo nota solo marginalmente del fatto che l'antagonista Bertinotti ha appoggiato misure economiche della portata di centomila miliardi, e che l'antieuropeismo e l'antimaastrichtismo neocomunista si sono risolti di fatto in un sostegno al governo dell'Ulivo nel programma di accesso alla moneta unica europea. Parole e cose, la distinzione è di qualche significato. Sul piano delle parole, Bertinotti è inarrivabile. È un frullatore di concetti, un costruttore inesausto di formule. L'equivoco sarebbe di considerarlo soltanto un inciampo nel cammino della storia. Chi scrive lo ha spesso definito qualcosa di simile a un cicisbeo settecentesco, orgoglioso della sua eleganza da trade union, felice di esibire provocatoriamente i suoi gadget come l'orologio al polso destro e il collarino con la custodia di pelle per gli occhiali da presbite, e perfettamente a suo agio nella superfluità parolaia dei talk show in seconda serata. Mea culpa. Nel cuore della transizione politica, mentre il bipolarismo doveva ancora stabilizzarsi (cioè era ancora più instabile e precario di adesso) mi sembrava che Bertinotti rappresentasse in chiave estetizzante una resistenza ottusa al cambiamento. Oggi, se è consentito un salto di livello analitico, mi sembra invece forzata l'idea secondo cui il cammino della storia consisterebbe in una inarrestabile e in sé virtuosa deriva liberista, a cui tutti i soggetti sociali dovrebbero uniformarsi disciplinatamente. In altre parole, determinismo puro. Sarà che ogni forma di dogmatismo, e quindi anche quello basato sulla triade globalité, marché, monnaie, risulta fastidiosa, ma allora non si capisce per quale ragione bisognerebbe considerare il bertinottismo solo come un elemento di eccentricità modaiola nella politica attuale. Rifondazione comunista è per taluni aspetti un incidente di percorso nell'evoluzione del Pci, ma sarebbe improprio ridurre la sua esistenza a un cortocircuito della vicenda politica, magari attribuendone la responsabilità alla pasticcioneria novista di Achille Occhetto. Se Rifondazione fosse rimasta un grigio partito neocomunista amministrato da funzionari politici debitamente poco fantasiosi come Armando Cossutta, probabilmente sarebbe inevitabile il giudizio che la vede come un elemento residuale, una zavorra della trasformazione politica italiana. Di tutto infatti si sentirebbe il bisogno fuorché di un partito postsovietico, tardogorbacioviano, legato psicologicamente a qualche retrospettiva e sorda nostalgia moscovita. Il fatto è invece che Bertinotti non è per nulla vetero, al massimo è post. Appare alla moda perché furoreggia in tv divertendosi a esporre concezioni percepite come provocatorie: ma quale stupido fraintendimento sarebbe considerarlo alla stregua dell'icona di un Macao della politica, «ahi ahi, ragazzocomunista, sei sempre in bella vista...». Agli occhi del benpensantismo politico d'oggigiorno, Bertinotti ha l'irritante difetto di proporre concezioni non omologate. Di fronte alle quali si può benissimo opporre un rifiuto preventivo, come se fossero tutte mozioni irricevibili, ma in questo caso accettando il rischio che quelle visioni del mondo non omologate, in quanto intercettano problemi piuttosto riottosi alle semplificazioni, si ripresentino giorno per giorno sulla strada della politica con una loro imbarazzante carica problematica. In primo luogo, dal lato dell'apparire, Bertinotti rappresenta un raro esempio di correttezza formale. Può darsi che si tratti di un espediente per captare la benevolenza del telespettatore: ma potrebbe anche essere un modo per produrre per imitazione quel rispetto della politica che negli ultimi anni è venuto a mancare. In ogni caso mentre i suoi interlocutori tendono costantemente a deragliare dai binari dell'eleganza, soprattutto quando i dogmatismi politici vengono messi alla prova da contestazioni inerenti allo sviluppo concreto della realtà, lui continua imperterrito a usare il «lei» e a chiamare Gianfranco Fini o Pierferdinando Casini «onorevole Fini» e «onorevole Casini», e a illustrare le sue ragioni. Dal lato dell'essere, invece, il segretario di Rifondazione è invece come si è già segnalato uno dei più strenui pedinatori di conflitti e di contraddizioni nello schema liberal-liberista della politica. Raramente Bertinotti ha soluzioni da proporre. Piuttosto ha ventagli di ipotesi, e soprattutto un'infinità di problemi da sollevare. Le sue soluzioni sono di solito generiche: colpire l'evasione, vogliamo una finanziaria «senza tagli né tasse». Mentre i problemi che evoca sono, quelli sì, «epocali»: nel senso che lui non ha alcuna esitazione a trasportare sul piano politico immediato i dilemmi e i drammi della situazione contemporanea. Allorché propone con plateale improntitudine «anticapitalistica » una tassa sull'innovazione tecnologica, ottiene il risultato subitaneo di fare inalberare il presidente della Confindustria Giorgio Fossa; ma a pochi viene in mente che così facendo e così dicendo Bertinotti sta agitando uno dei più aspri dilemmi dell'evoluzione dell'economia del nostro tempo: è vero o no che la tecnologia distrugge lavoro e occupazione? Di fronte al mundus furiosus e al killer capitalism descritti da Giulio Tremonti, davanti al «turbocapitalismo » tratteggiato da Edward Luttwak, gli altri uomini politici tendono a neutralizzare frettolosamente il problema con considerazioni di breve periodo; Bertinotti pone la questione nei suoi termini «drammatici», fa politica nel senso più oltranzista del termine. Lui offre risposte impertinenti, gli altri evitano di offrire qualsiasi tipo di risposta che non sia un convenzionale ottimismo by magic nei rimedi dello sviluppo che verrà. (Eppure, durante la campagna per le elezioni politiche del 1994, di fronte alle proposte di Tremonti, allora candidato centrista, sulla detassazione degli utili reinvestiti in azienda, anche un rigorista come Luigi Spaventa si sentiva autorizzato a spiegare polemicamente che la defiscalizzazione dei suddetti utili è in contrasto con un programma di sostegno dell'occupazione. E allora? Non è questo un problema decisamente critico per la sinistra? E c'è qualcuno, sempre a sinistra, che sa dire qualcosa di non stereotipato sull'argomento?).Allo stesso modo, se si pensa allo schema con cui Pierre Rosanvallon ha approfondito di recente la crisi dell'Etat-providence, le domande diventano davvero complicate. Secondo l'autore francese, lo stato sociale va in crisi anche perché su di esso si scarica il peso che in passato veniva sostenuto dentro le imprese da «microdispositivi» di ammortizzazione, da sacche di bassa produttività, da inefficienze funzionali che trattenevano occupazione. Mentre «esternalizza » questi costi, la razionalizzazione organizzativa postfordista tende fisiologicamente ad aggravare il costo del welfare. Se procede la riorganizzazione, aumenteranno anche i costi dello stato sociale, malgrado i tagli. E quindi? Purtroppo, davanti alle domande difficili la politica, soprattutto quella italiana, diventa muta. E quando riesce a parlare parla di solito secondo luoghi comuni. Il pensiero dominante è divenuto quello di un liberismo convenzionale, buono per tutti gli usi, capace di spiegare tutto e risolvere tutto a colpi di poche formule. Non si avverte mai un minimo di irritazione, un po' di noia, una qualche stanchezza per le ricette miracolistiche del mercato, della concorrenza, della flessibilizzazione, della liberalizzazione, della scomposizione del mercato del lavoro? Prendere il pensiero liberista sul serio non dovrebbe significare accoglierne indiscriminatamente la vulgata. Altrimenti si dovrebbe accettare la tesi, difatti largamente circolata nei mezzi d'informazione italiani, che la storica e pesante sconfitta dei tories di John Major alle elezioni inglesi sia dovuta alla volubilità dell'opinione pubblica britannica, a una bizzarria dell'indole nazionale d'Oltremanica. Mentre dietro la voglia di cambiamento, direbbe Bertinotti, potrebbe anche nascondersi una certa insoddisfazione per le condizioni sociali della Gran Bretagna post-thatcheriana; e dietro gli strepitosi indici macroeconomici inglesi - inflazione, debito e deficit sotto controllo, occupazione alle stelle, crescita fragorosa - ci potrebbe anche essere un disagio sociale, un divaricarsi nella struttura delle disuguaglianze, un incremento della povertà, che viene percepito dai cittadini e si riflette sull'esito elettorale: o no? Liberali in tv Detto questo, ci sono un paio di episodi che mi sembrano piuttosto significativi per mettere a fuoco e illuminare il bertinottismo. Il primo è l'insuccesso politico, o il mancato successo, o il successo parziale, del candidato sindaco Aldo Fumagalli a Milano. Il quale, la sera del 27 aprile, dopo essere stato staccato di oltre 13 punti percentuali dal candidato del Polo Gabriele Albertini, si è premurato di specificare che non avrebbe stipulato accordi con Rifondazione comunista e che sarebbe andato «avanti con il suo programma». Bisognerebbe capire, in proposito, per quale diffusa sclerosi mentale, per quale ossificazione della politica, per quale irrigidimento delle strutture di pensiero collettive, un imprenditore paracadutatosi nel centrosinistra e che propone un programma civico-tecnocratico dovrebbe risultarepiù attraente, almeno dal punto di vista intellettuale, del medesimo imprenditore che avesse detto: ai miei occhi Rifondazione comunista rappresenta efficacemente il disagio metropolitano, la sofferenza delle periferie, il rapporto problematico con l'immigrazione, i drammi della disoccupazione; e quindi, apparentamento o no, considero un dovere politico confrontare il loro programma con il mio. Un po' di curiosità, santo cielo, un po' di agilità e di immaginazione. I sondaggisti sostengono che l'accordo con Rifondazione non avrebbe portato alla vittoria? In termini strettamente numerici è vero, ed è anche possibile che frange centriste si sarebbero risentite di un compromesso con i massimalisti di sinistra. Ma si dà il caso che la politica non sia fatta soltanto di numeri scolpiti sulla pietra, e su questo punto ha ragione Bertinotti a dire che Rifondazione agisce come un lievito per la sinistra: anche soltanto nel senso più banale che l'impegno dei militanti sul territorio avrebbe suscitato qualche effetto di mobilitazione e di «disciplina» nel voto che invece sono sfuggite (se è vero che al candidato dell'Ulivo è mancato più di un terzo dei voti neocomunisti). Il secondo episodio invece riguarda un faccia a faccia tra Bertinotti e Fini svoltosi all'inizio di maggio al Maurizio Costanzo Show. Sede, si dirà, non propriamente adatta a sviluppare riflessioni politicamente rigorose, dal momento che lo schema costituito dalla declamazione retorica seguita dall'automatico applauso del pubblico induce i protagonisti più alla ricerca demagogica del consenso della platea del Teatro Parioli che non all'approfondimento delle analisi. In questo caso, tuttavia, il confronto è stato lungo e piuttosto educativo. Perché ha consentito di individuare con nettezza la fisionomia dei rispettivi discorsi, insomma le culture, dei due ospiti del programma. Il presidente di Alleanza nazionale infatti elabora, con una certa efficacia retorica, una propaganda politica basata in gran parte sul ricalco degli stereotipi liberisti attualmente in circolazione. Flessibilizzazione del lavoro, ristrutturazione sbrigativa del welfare state, tagli alla spesa pubblica, introduzione di mercato e concorrenza nella sanità, apertura alla scuola privata, lo sviluppo economico come cura di tutti i mali: vale a dire l'intero catalogo della vulgata dominante. Ci sarebbe da discutere se la miscela thatcherian-gollista di Fini integra davvero una proposta politica capace di rappresentare completamente le anime postfasciste di Alleanza nazionale, se insomma la sottolineatura alla francese dell'autorità riesce a essere complementare con il neoliberismo all'inglese, oppure se tutto questo non risulti una copertura molto parziale rispetto alle ispirazioni populiste e corporative che permangono in quel partito. Ma non è questo il punto. Il punto è che di fronte alle fiduciose asserzioni di Fini, Bertinotti oppone i suoi implacabili ed elegantissimi e ironici «non è vero». Perché il presidente di An espone ideologismi liberisti che appartengono a un mondo ideale e non del tutto comprovato, una pacificata e perciò ottimistica utopia del common sense neoliberista, senza il fardello di eccessivi riscontri fattuali che dimostrino le sue opinioni. Fatto sta che di fronte alle ripetute, continue, pignole correzioni di Bertinotti, che contesta con cifre, attestazioni empiriche, confronti internazionali, le sue concezioni imparaticce, Fini si immusonisce sotto l'abbronzatura, protende le labbra strette, si incupisce, poi si irrita e si altera, alza la voce rispolverando vecchie armi polemiche tratte dal suo tradizionale repertorio ideologico: alla fine rivolge al segretario di Rifondazione l'accusa che dovrebbe essere risolutiva, quella di statalismo: strizzando implicitamente l'occhio al pubblico del talk show per segnalare che il vizio di statalismo cela l'irredimibile peccato di comunismo. Ci si potrebbe aspettare una replica stizzosa che tiri in ballo le origini di Alleanza nazionale, qualcosa di vicino alla parola «fascismo». Invece, con suprema leggerezza, Bertinotti sorride: «Mi permetta di ricordarle, onorevole Fini, che la cultura da cui lei proviene attribuiva allo Stato un'importanza notevole». Sinistra sì, e di classe. Un antidoto alle fissazioni Il senso di questi episodi dovrebbe rendere evidente che non è più lecito, e neanche elegante, continuare a trattare Bertinotti come un caso di folklore. Non è censurando con la dovuta causticità i suoi incontri con il subcomandante Marcos o le sue simpatie castriste, e neppure sorridendo con sufficienza davanti al «dissento su tutto» pronunciato davanti agli operatori della City, che si esorcizza la sua politica. Rifondazione comunista rappresenta infatti un problema politico e quindi sarebbe meglio prendere Bertinotti sul serio. Il fastidio principale che lui provoca e impersona è l'irriducibilità del suo partito alla coalizione di centrosinistra. Malgrado tutto, nonostante gli appelli e i richiami, Rifondazione non accetta in modo integrale la logica binaria degli schieramenti. I neocomunisti si rifiutano di rappresentare solo un'area di testimonianza, e di farsi cooptare e neutralizzare in chiave compromissoria nell'alleanza che sostiene il governo Prodi. Hanno dichiarato fin dall'inizio, cioè dalla data della vittoria elettorale dell'Ulivo (o più esattamente della sconfitta del Polo), che avrebbero dato via libera all'esecutivo di centrosinistra ma che tuttavia non si sarebbero fatti stringere in un accordo vincolante. Hanno tenuto fede a questo criterio, guadagnandosi un potere di condizionamento che nessuna frangia estremista possiede in altri contesti politici bipolari. Bertinotti ha giocato con sovrana abilità questo ruolo ambiguo, riuscendo anche a insinuarsi efficacemente fra Prodi e D'Alema, costringendo talvolta il governo dell'Ulivo a ballare ai suoi comandi come un orso in uno spettacolo circense di piazza. Almeno in un'occasione, con il voto contrario alla spedizione italiana in Albania, ha obbligato l'esecutivo a cambiare maggioranza sul filo della crisi di governo, inducendolo a un giro di valzer sicuramente imbarazzante sotto il profilo della linearità politica. Ha dimostrato così di essere pronto a colpire il centrosinistra, anche se il rapido rientro nei ranghi successivo - come se niente fosse accaduto - non ha chiarito fino a che punto Rifondazione comunista è disposta a spingersi nel caso di una scelta senza margini di recupero. È opportuno allora circoscrivere quali sono i punti caldi del rapporto fra centrosinistra e Rifondazione comunista, per esaminare se effettivamente cisono alcuni temi non negoziabili, sui quali Bertinotti può giungere ad ammazzare l'orso che finora ha fatto danzare con tanta abilità al suono della sua fisarmonichetta politica. Il punto su cui c'è una generalissima convergenza di opinioni riguarda inevitabilmente la riforma dello stato sociale. Spesso infatti le posizioni di Bertinotti sul ridisegno del welfare appaiono meccaniche. Si assiste in genere da parte sua a una difesa a oltranza di schemi redistributivi che oggi appaiono condannati, oltre che dall'insostenibilità economica e dalla loro farraginosità particolaristica, dalla loro essenza di produttori di iniquità sociale. È il caso, ogni volta citato, delle pensioni di anzianità. Si può pensarla come si vuole, ed è certamente legittimo avvertire nelle resistenze bertinottiane l'eco del suo socialismo pauperista, che accetta le distorsioni del welfare all'italiana proprio in quanto spalmano comunque redistribuzione sulla società italiana, miscelando privilegi e assistenzialismo e producendo così una media dal sentore socialista, anche se con sfumature brezneviane. Ammesso e non concesso, ad esempio, che una Usl possa apparire più «socialista» di un sistema sanitario che integri pubblico e privato, si tratta di capire se è immaginabile che Rifondazione comunista e il suo segretario siano disposti ad affossare il primo governo con la sinistra al potere nel nome della difesa meccanica di un modello di protezione sociale sgangherato. Considerando il comportamento di Rifondazione comunista durante il 1996, e la ginnastica parlamentare che ha portato al varo di provvedimenti finanziari per centomila miliardi, sembrerebbe più logico aspettarsi da Bertinotti una trattativa modulata, ora aspra e ora politicista, ma tendenzialmente non proiettata fino alla rottura. Anche perché lui, l'irriducibile, non è affatto immobilizzato nei dogmi. Nel maggio 1996 sosteneva: «L'Europa deve allontanarsi da Maastricht e ricordarsi dei suoi 18-20 milioni di disoccupati. Urge una revisione radicale dei parametri perché l'Europa politica è il rovescio di quella di Maastricht: le banche e i mercati sono da una parte, gli Stati dall'altra». Dopo di che, ha via via corretto questa impostazione, accettando il processo dell'unione monetaria; e in ultimo è diventato un sostenitore dell'Euro «per tutti i paesi», limitandosi a criticare le fissazioni sui decimali del deficit (3 per cento, 3,2 per cento...) e a sostenere l'esigenza successiva di un'Europa che faccia politica economica, e che quindi moduli i parametri in funzione di una politica di sviluppo (anziché guadagnarsi le consuete esecrazioni, ottiene nella diretta televisiva di Pinocchio del 27 maggio scorso l'assenso benevolissimo di Mario Monti). Dove invece il capo di Rifondazione ha lasciato intendere di non lasciare margini è stato sul piano della sua esistenza politica. Ogni volta che Massimo D'Alema ha dispiegato la sua ostilità verso di lui, e verso l'insofferenza per il singolare equilibrio tattico stabilitosi tra Rifondazione e Prodi, e ha manifestato la velleità di «stroncare» politicamente e soprattutto elettoralmente l'estrema sinistra, Bertinotti si è rivoltato, proprio come quell'animale così méchant che a prenderlo a bastonate reagisce a morsi. Da questo punto di vista, Bertinotti è davvero una bestia cattiva. Ha preso Rifondazione comunista che era un partito sopravvissuto, un'isola flagellata dai marosi, un bastione dinaufraghi del comunismo ancora legati a un'idea piuttosto tetra della politica, e ne ha fatto un fenomeno alla moda, trasformandolo in un agglomerato postmoderno che raccoglie gran parte dei fenomeni, sociali e intellettuali, di resistenza alla «fine della storia» e al «pensiero unico» (secondo la felice definizione del direttore di Le Monde Diplomatique Ignazio Ramonet). Sarebbe curioso che accettasse di sacrificare questo risultato ai progetti di razionalizzazione del sistema politico attraverso le formule di qualche riforma elettorale tranchante. No, non ci si sbarazzerà facilmente di Rifondazione comunista. Grazie a Bertinotti essa è diventata un prodotto per certi versi artificiale, ma per altri aspetti inestricabilmente legato alla natura dei processi sociali contemporanei. Il segretario dei neocomunisti è riuscito a proporre come un prodotto coerente un sincretismo politico-ideologico capace di miscelare tutto. In parte è immerso nella cultura del Novecento: in un socialismo libertario che non si rifiuta al romanticismo, nell'esperienza di un sindacalismo rivendicazionista che privilegia l'espressività e la soggettività contestativa (e continua a considerare l'azione sindacale come la conquista di diritti e di livelli retributivi); ma anche nei filoni più sedimentati della cultura del secolo, nel richiamo al keynesismo e alla traiettoria socialdemocratica. E perfino con gli estremismi rivoluzionari vagheggiati dalla componente trotzkista interna al Prc. L'eclettismo di Bertinotti si protende poi verso quei temi che rendono più problematica e stressante l'attuale fase storica. Guarda alla Chiesa, ai movimenti cristiani, e dimostra attenzione alle censure di Karol Wojtyla contro le distorsioni del mercato capitalistico. Si anima di fervore per i centri sociali dell'ultrasinistra urbana fino a dichiarare il proprio favore per i rapper della musica alternativa. Elabora le sue teorie sulla globalizzazione, con una certa indifferenza verso chi gli oppone che i suoi convincimenti economici, se interpretati in piena coerenza, porterebbero dritti all'autarchia. Quando gli segnalano che la ristrutturazione europea è resa obbligata dalla concorrenza dei paesi asiatici, che agiscono in condizioni di favore grazie a un minore contenuto di tutela sociale per unità di prodotto, non esita a proporre sistemi compensativi, forse senza ignorare che anche i democratici americani, nei primi anni Sessanta, studiavano l'opportunità di compensazioni tariffarie contro il dumping sociale delle economie asiatiche. Sviluppa poi le sue idee sulla società postfordista, nella convinzione che alla crisi epocale dell'occupazione si può rispondere solo con «la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario», sostenuto in questo dalle analisi di chi osserva, come l'apocalittico profeta della «fine del lavoro» Jeremy Rifkin, che negli ultimi quindicivent'anni anni il premio alla rendita finanziaria è stato giudicato sacrosanto, mentre la richiesta da parte dei lavoratori di redistribuire i profitti è stata valutata più o meno alla stregua di un sabotaggio. In tutto questo c'è un'evidente vocazione postmoderna. Ma c'è anche, nell'azione politica dell'eresiarca salottiero, perfettamente collocato nella mondanità, un contenuto forse sin qui sottovalutato. Perché il bertinottismo, evoluzione estrema dell'estremismo, è uno degli strumenti che consente ditenere nel circuito politico un'area che in sua assenza rischierebbe di cadere fuori dall'arena della mediazione politica, rifiutando il voto e quel tanto di partecipazione che è ancora praticabile. Certo a sinistra infastidisce la concorrenza che esercita. Ma chi reputa un'insidia per la vicenda democratica l'impoverimento della partecipazione, l'astensionismo elettorale, l'autoesclusione rassegnata dall'esperienza politica delle frange socio-politiche marginali, dovrebbe anche guardare alla presenza e all'azione di Rifondazione comunista come a fattori che inibiscono un depotenziamento della vita democratica. Senza dire poi, in conclusione, che il Bertinotti-pensiero è un'ottima e costante occasione per mettere alla prova l'adeguatezza delle proprie opinioni. Se è vero che «è un'eccellente esercizio rinunciare ogni mattina a un'idea prediletta», il radicalismo del leader di Rifondazione comunista è un ottimo banco di prova per sperimentare ciò di cui si è convinti e misurarne l'adeguatezza rispetto alla realtà. La società italiana è talmente anchilosata dalle sue rigidità, dalle sue stratificazioni fossilizzate, che l'esercizio di politiche liberalizzatrici ha ancora davanti a sé territori amplissimi e una infinita quantità di nodi da sciogliere e di lacci da slegare. C'è un imponente lavoro da fare, insomma, per i liberali. Ma se il liberalismo, e il liberismo, all'italiana propendono a cristallizzarsi in una sorta di massimario, se la vulgata si risolve nell'esporre formule e ricette preconfezionate anziché individuare i problemi e studiare adeguatamente le soluzioni, ben venga la provocazione di Bertinotti, l'antidoto.
Il Mulino, 03-04 2001
Qualunquismo
Alle elezioni del 2 giugno 1946 il Fronte dell'Uomo Qualunque conquistò il 5,3 per cento dei voti e 30 seggi, quasi tutti localizzati nel Centro Sud. Il successo vero, per il movimento di Guglielmo Giannini, sarebbe arrivato alle amministrative del novembre successivo: «Il Fronte
ottenne buone affermazioni nei centri settentrionali, dove la sua presenza era stata, fino a pochi mesi prima, addirittura irrisoria. Ma il suo successo fu strepitoso nel Centro e soprattutto nel Meridione. A Palermo, Foggia e Lecce, le liste del torchietto risultarono prime in assoluto, così come a Bari, Catania, Messina e Salerno»1. A distanza di un anno e mezzo, con il voto popolare del 18 aprile 1948 dominato e plasmato politicamente dall'alternativa fra Dc e socialcomunisti, l'Uomo Qualunque fu praticamente spazzato via (alleato estemporaneamente con i liberali nel Blocco nazionale, Giannini vide eletti solo cinque dei suoi candidati). In pochissimi anni si era consumata un'avventura politica che oggi, per i suoi tratti sul filo del grottesco, per l'accanimento espressivo, per l'arcaismo della sua cultura, sembra concepibile soltanto situandola nel momento storico del primissimo dopoguerra: occorre immaginare un commediografo, giornalista, cineasta,giallista, canzonettista - Giannini per l'appunto - che entra in scena, sul palco principale della politica italiana, e da parvenu, con il suo giornale rissoso, si mette a parlare direttamente alla gente, anzi, alla «Folla» di un paese segnato drammaticamente dal crollo del fascismo e tragicamente dal disastro della guerra: e che si mette a propagandare idee sedicenti rivoluzionarie, cercando demagogicamente un ruolo di capopopolo mentre i protagonisti del patto di rinascita nazionale, De Gasperi, Nenni e Togliatti, sono al governo insieme, uniti da un disegno di ricostruzione che non si è ancora spezzato (come accadrà traumaticamente pochi mesi dopo). È superfluo ripercorrere qui l'immaginoso universo dei simboli e delle idee di Guglielmo Giannini, se non per identificare i punti focali del suo discorso pubblico. Il disprezzo per la politica e per i professionisti della politica, i «politicanti». La diffamazione sistematica dei protagonisti della vita pubblica, la messa in ridicolo degli avversari riempiti protervamente di insulti. La rivendicazione della libertà anarcoide per l'uomo della strada torchiato da poteri ostili e impenetrabili (ecco il simbolo del movimento, un pover'uomo messo sotto torchio e spremuto dagli uomini politici). E soprattutto un astio fortissimo, traboccante, irriducibile per la classe politica antifascista, che veniva dipinta come un nuovo regime, con le sue ipocrisie inedite, con le epurazioni che salvavano i potenti e mettevano nei guai i pesci piccoli, con la manipolazione partitica della volontà popolare. IL DOPOGUERRA Il clima che si era creato dopo la Liberazione era determinato da un lato da una classe politica emersa con l'antifascismo e la Resistenza, e dall'altro da una società profondamente divisa, se non lacerata: compromessa con il regime per ragioni di consenso o di interesse, con una borghesia atomizzata dal fascismo, che aveva annichilito le articolazioni della politica,e con una larga parte d'Italia che era rimasta inerte rispetto alla guerra di liberazione. Il messaggio di Giannini riusciva a fondere sentimenti e risentimenti in un vangelo antipolitico che permetteva di prendere le distanze sia dai nuovi «padroni » sia dalle proprie responsabilità o connivenze passate, così come dai sensi di colpa per avere fatto parte di un'esperienza finita nel discredito e, a partire dalle leggi razziali, nella vergogna. Una inclinazione non proprio e non ancora «revisionista», ma certamente relativizzatrice del fascismo, si era espressa subito dopo la conclusione della guerra. Si era manifestato subito con una certa chiarezza il tentativo di ridurre il fascismo a una vicenda provinciale, a una dittatura all'acqua di rose, anzi, «all'italiana», una fiera delle vanità dominata dalla personalità istrionica di Benito Mussolini: era il fascismo inteso come faccenda di faide tra romagnoli, su cui ironizzava Leo Longanesi; era il tentativo di risolvere nostalgicamente e catarticamente la catastrofe nazionale nella constatazione da rotocalco popolare che dalle tasche del Duce, appeso a piazzale Loreto, «non era caduto un soldo»; oppure la più sofisticata costruzione di un «anti-antifascismo» che conduce alla piccola ideologia del «Mussolini buonanima», fino al «buonuomo Mussolini» reinventato nel testamento apocrifo scritto nel 1947 da Indro Montanelli. Ha commentato uno storico senza inibizioni nei giudizi, Sergio Luzzatto: «Il successo di pubblico di Montanelli negli anni della ricostruzione molto doveva alla sua capacità di rivolgersi - da "cattiva coscienza d'Italia" - alla coscienza degli italiani che erano stati fascisti, non volevano più esserlo, ma nemmeno volevano sentirsi in colpa per esserlo stati»2. Che cosa proponeva a questa gente, Giannini? Che cosa prospettava agli epurati, ai ceti medi meridionali, agli attendisti, alla zona grigia, a tutti coloro che avevano vissuto nel fascismo, ma anche a tutti i moderati che avvertivano con fastidio il «mito» ciellenistico della Resistenza e i progetti di rigenerazione catartica dei partiti al governo? Naturalmente, un'estraneità assoluta, un'ostilità plebea verso l'insieme della classe politica uscita dai Comitati di liberazione. E, a seguire, una enfatica rivendicazione dell'inutilità della politica e dei partiti: «Noi non abbiamo bisogno che d'essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici». Il capo dell'Uomo Qualunque proponeva quindi ai vertici dello Stato «un buon ragioniere: non occorrono né Bonomi né Croce né Selvaggi né Nenni, né il pio Togliatti né l'accorto De Gasperi. Un buon ragioniere che entri in carica il primo di gennaio, che se ne vada al 31 dicembre, che non sia rieleggibile per nessuna ragione». La retorica della buona amministrazione contro la politica e i suoi schematismi ha poi avuto una storia lunga e per qualche aspetto non prevista, fino a diventare un topos di tutte le iniziative di destra (criptate ideologicamente ma di destra), che hanno cercato di fare saltare esperienze consolidate storicamente nelle realtà locali (ad esempio in una città come Bologna, dove la sinistra è stata battuta dal candidato «a trecentosessanta gradi», cioè apparentemente non politico, Giorgio Guazzaloca, autoproclamatosi erede del civismo comunista degli anni di Giuseppe Dozza). Invece il movimento qualunquista si è spento non appena lo spazio politico è stato occupato dallo scontro «d'epoca» del 1948: di fronte a un confronto politico che implicava una battaglia tra visioni del mondo, ma anche una scelta di campo esplicita fra i due blocchi internazionali contrapposti, il terzaforzismo maleducato di Giannini, insieme con le volgarità, le arguzie plebee, i soprannomi ingiuriosi, i «Fessuccio Parmi », i «demofradici cristiani», diventarono all'improvviso moneta fuori corso. L'impronta qualunquista Dopo di che, il qualunquismo sopravvive a lungo in Italia quasi solo come criterio di giudizio sugli atteggiamenti politici altrui. La Dc ha avuto un ruolo significativo nel formare alla democrazia i ceti medi usciti dal fascismo. Il suo anticomunismo è stato un cemento efficace anche nei confronti di quelle fasce di elettorato conservatore che cercava protezione ben più che slancio sociale, che nutriva un acuto senso di diffidenza nei confronti della progettualità sociale e delle preoccupanti intenzioni riformiste. In parallelo, il Pci organizzava il suo consenso mantenendo al proprio interno una robusta direttrice ideologica e organizzativa, che in linea di tendenza impediva escursioni populiste o qualificabili esclusivamente in chiave di protesta. Come immagine, il partito di Togliatti era un partito di militanza severa e di strenuo professionismo politico. La sua condanna all'opposizione, cioè a essere minoranza, confermava semmai uno stile di enunciata sobrietà, che più tardi sarebbe sfociata nella rivendicazione della «diversità » morale (Enrico Berlinguer: «Il Pci è l'unico partito pulito e diverso», 1980); ma anche in questo caso, che pure sotto il profilo politico poteva risultare suscettibile di sfumature extrapolitiche, e a indignazioni e denunce non sempre argomentabili come lineare conflittualità politica, l'impronta qualunquista non era visibile se non in alcune espressioni popolari, «antipadronali» e antidemocristiane e forse anche antisistema per necessità sostanzialmente pubblicitarie. Per un lungo periodo, va detto in ogni caso che la politica italiana fu orientata o da progetti di significativa caratura oppure da conflitti di particolare intensità. Ma dai binari ufficiali del confronto politico non si usciva. Gli aspetti più enfatici e folk dell'agonismo politico (il presidenzialismo ante litteram come espressione dell'autorità, la richiesta della pena di morte, insieme agli almirantiani temi «socializzanti», di evidente ascendenza fascista repubblicana) vennero assunti come istanze propagandistiche dall'estrema destra missina, non ancora riciclata in chiave liberalgollista, senza che ciò si trasformasse in una duratura corrente d'opinione osservabile nel corpo della società. Anche le ricorrenti evocazioni della «maggioranza silenziosa», a suo tempo qualificate come espressione di un intreccio fra impulsi qualunquisti e velleità autoritarie, si collocavano in realtà nei binari tracciati dallo scontro terroristico durante gli anni Settanta. Erano una risposta suscitata, e magari sollecitata, dall'esasperazione del conflitto politico e sociale, una richiesta di law and order, ben più che un potenziale manifesto antipolitico o poujadista. Anche perché mancava del tutto l'imprenditore politico, per l'eventuale vocazione qualunquista. Non esistevano soggetti in grado di coagulare fuori dal sistema dei partiti il disagio per la conflittualità sindacale: perfino un evento dirompente come la «marcia dei quarantamila» dell'ottobre 1980, nella Torino dell'ultimo grande conflitto sindacale, si ritrovò in breve orfano di referenti politici in grado di mettere a capitale la rottura di paradigma e l'inversione di consenso che si erano registrate. Sintomi di una disaffezione per i partiti e la politica così acuta da colorarsi di tratti qualunquisti si manifestarono durante il decennio Ottanta. Ma si parla di «tratti» qualunquisti, perché è piuttosto difficile, se non del tutto impossibile, individuare uno specifico «programma » qualunquista. Sarebbe più opportuno indicare il primo manifestarsi di un atteggiamento di rifiuto verso il funzionamento della politica italiana, con le sue formule usurate (l'arco costituzionale, la conventio ad excludendum, l'immobilità sostanziale dell'equilibrio di governo, gli assetti consociativi suggeriti e dettati dall'assenza di alternanza). Il primo segnale di rifiuto si era rivolto verso quella cultura «di sinistra» che aveva egemonizzato nel decennio precedente il discorso pubblico fino a configurarsi, essa sì, come una sorta di ideologismo qualunquistico, per quanto orientato in termini politically correct. Ma ben presto il rifiuto si era indirizzato verso il sistema dei partiti, cioè verso i soggetti giudicati responsabili di una democrazia bloccata. «PIOVE, GOVERNO LADRO» I confini fra qualunquismo e critica del sistema politico sono sottili. Talvolta permeabili. Si comincia infatti a parlare di «partitocrazia», adottando un termine che in precedenza veniva ascritto al lessico della destra non liberale. Ad un tratto, tutte le tradizioni e le abitudini che giustificavano anche i balletti della politica parlamentare, tutti gli echi di una storia che si cristallizzavano nelle cerimonie partitiche, avevano smarrito il loro senso: e con questa perdita si smarriva dunque anche la razionalità del processo politico, con una percezione via via più diffusa di un'autoreferenzialità che slittava progressivamente nell'insensatezza irrimediabile, tout court, della politica. La struttura cosiddetta «poliarchica» della Dc, con il conseguente equilibrio mobile delle correnti, cominciava a diventare peggio che incomprensibile. Il dilemma dell'alternativa, che aveva affascinato le menti migliori della sinistra, si trasformava in puro scontro fra socialisti e comunisti, proprio mentre l'assetto di governo, con il non dimenticato Caf, si proponeva nel segno dell'immutabilità. A quel punto, l'unica possibilità era cercare di capire se era nato prima l'uovo o la gallina. Vale a dire se era il cattivo funzionamento del sistema politico a generare il rifiuto e la presa di distanza da parte dei cittadini, oppure se esisteva e agiva una costante italiana qualunquista, riassumibile nel partito del «piove, governo ladro», già stigmatizzato da Emilio Lussu in un discorso all'Assemblea costituente nel 1946. Chi ha in antipatia il ricorso a categorie antropologiche che fissano la dimensione sociale sub specie aeternitatis dovrebbe rispondere tranquillamente al negativo. Anzi, si potrebbe ribattere che in realtà, nel momento della crisi più acuta del sistema politico, si è assistito a un mobilitazione piuttosto straordinaria, in termini politici, dell'opinione pubblica. Agli inizi degli anni Ottanta l'avvenimento politico principale non è tanto l'emersione della Lega di Umberto Bossi, quanto l'identificazione di una quota ampiamente maggioritaria della società italiana con le iniziative referendarie per la modificazione del sistema elettorale. Prima nel 1991 con il referendum sulla preferenza unica e poi nel 1993 con la consultazione contro il metodo proporzionale si è formato un consenso molto ampio sul tema delle regole e della loro trasformazione. Ciò significa che la critica condotta verso la politica trovava sbocco in strumenti dichiaratamente politicoistituzionali. Con un minimo di ottimismo, si poteva pensare perfino che lo slancio referendario contro la «Repubblica dei partiti» fosse animato almeno in parte da una coscienza «civica». Di sicuro c'è che in quella fase l'insofferenza per la politica effettuale e il desiderio di cambiamento si sono incrociati. Non che tutto fosse così limpido, dal momento che alcune venature qualunquiste erano visibili. Ma era altrettanto visibile, solo a volerlo, anche l'eccesso di aspettativa che veniva collocato sulla trasformazione della formula elettorale: un qualunquismo di secondo livello, se si vuole, che metteva in secondo piano il contenuto rispetto al metodo. Si è argomentata e diffusa l'idea che i referendum elettorali e il passaggio al maggioritario fossero la soluzione fatta e finita anziché la leva della trasformazione. D'altra parte, erano pochissimi gli esponenti politici che avevano il coraggio di rivendicare le ragioni della politica (la politica dei partiti) nel momento in cui queste ragioni erano screditate. Si aggiunga che nel frattempo era deflagrata Tangentopoli, che aveva rivelato un intrico estesissimo di politica e affari di cui tutti sapevano e tutti tacevano, nel rispetto rigoroso delle convenzioni. Ma anche il sostegno corale all'inchiesta Mani pulite, la trasformazione in eroe di Antonio Di Pietro e del pool di Milano, l'apparizione delle tricoteuse che si appassionavano alla telenovela della decapitazione di una classe politica, le monetine gettate a Craxi, sono tutti elementi che vanno interpretati all'interno di una crisi di sistema. Ovvero: ammettiamo pure per un momento che ci sia una vocazione qualunquista all'interno della società italiana. C'è sicuramente chi pensa che Andreotti fosse il capo della mafia e che la storia d'Italia sia una questione di complotti e di istituzioni deviate. Ma, fuori dalla dietrologia, in tutti i momenti cruciali della transizione italiana ha prevalso un impulso essenzialmente politico. La stessa ondata «giustizialista» era situata all'interno di una lotta politica accesa ma delineabile nel lessico della battaglia dichiaratamente politica; di più, perfino l'eventuale manipolazione della questione giudiziaria era uno strumento utilizzabile in termini politici, da una parte contro l'altra ma soprattutto dall'opinione pubblica contro gli attori di un sistema paralizzato. Una delle prove a contrario potrebbe essere questa: la tendenza referendaria ha avuto minor vigore nelle regioni meridionali, cioè proprio nelle aree più indiziabili di conformismo qualunquista e di rigetto anomico della politica. In cui invece gli apparati e le consuetudini clientelari hanno fatto in qualche misura da freno a una iniziativa di cambiamento politico che colpiva e penalizzava i soggetti tradizionali di mediazione e raccolta del consenso. Il qualunquismo, semmai, è tornato dopo, in una nuova veste. Non c'è da riferirsi soltanto ad alcuni stili esemplificati da Silvio Berlusconi, in cui comunque sono rilevabili tracce consistenti di antipolitica. È vero che il capo di Forza Italia si è definito «un sempliciotto» rispetto al deprecato «teatrino della politica »; e che la sua campagna per le elezioni del 2001 si è contraddistinta per lo sforzo continuo di connotarsi come l'uomo del «fare» (l'imprenditore, l'innovatore, l'operaio) a differenza dei «fannulloni» della sinistra, di quei professionisti del dire «che non hanno mai lavorato un giorno nella loro vita». Tuttavia la sfumatura antipartitica è ancora più identificabile, come si è segnalato in apertura, nelle campagne elettorali per le amministrazioni locali, dove spesso si assiste a candidature che si qualificano esplicitamente come una rottura delle convenzioni politiche, enfatizzando la distanza dai partiti e chiedendo il consenso proprio su programmi svincolati da una prospettiva esplicita: candidati per la città, né di destra né di sinistra, tenaci assertori della primazia dell'amministrazione sulle logiche dell'appartenenza politica. Di sicuro, piuttosto, c'è stato un contraccolpo nell'opinione pubblica, determinato dalla sfasatura tra le aspettative suscitate e dai risultati effettivi. D'altronde, allorché si muove dalla promessa del bipartitismo perfetto, e si giunge invece alla proliferazione di micro-formazioni parlamentari e a plateali fenomeni di trasformismo come nell'ultima legislatura, non riesce difficile immaginare le ragioni per cui due nuovi referendum elettorali sono falliti, e per quali motivi un terzo dell'elettorato, a ogni sondaggio, dichiara ormai senza infingimenti la propria distanza dalla politica. UNA POLITICA SBIADITA Dopo di che, e in conclusione, sembrerebbe eventualmente possibile trovare altri indizi di qualunquismo nell'atteggiamento verso la competizione politica e il confronto fra gli schieramenti attuali. Circola e ha successo l'idea che fra destra e sinistra «questa e quella per me pari sono». Si assiste alla rinuncia della presa di posizione, come se non esistessero più differenze rilevanti. Il residuo del qualunquismo è una vulgata aristocratica, socialmente elevata, in cui l'establishment non formula valutazioni, ma assiste alla lotta politica con l'atteggiamento distaccato di chi non si accalora per le parti in gioco. Ma non c'è un partito specifico, né un'istanza predominante, neppure per questo disimpegno di segno nuovo: ci sono compagni di viaggio, una politica usa e getta, un'autopercezione di superiorità vagamente postmoderna rispetto alle differenze novecentesche fra destra e sinistra. Un che di provinciale, questo sì. Come se il mezzo secolo abbondante di vita politica repubblicana non fosse riuscito a fissare un canone politico, una serie cogente di discriminazioni, di lealtà ideali, e l'unica modalità praticabile della politica fosse da un lato l'indifferentismo, e dall'altro l'utilizzo strumentale delle parti in gioco. Sconfitto nel campo storico e reso infrequentabile nel campo politico, il qualunquismo forse assume in avvio degli anni Duemila una veste inedita: nel senso che dipinge la politica come un'arena inessenziale, scolora i conflitti a scontro di fazioni, dipinge i programmi degli schieramenti come varianti di un pensiero omologato. Mentre sullo sfondo permangono straordinarie tensioni, svilite a guerricciole personalistiche; e interessi altrettanto conflittuali, che solo l'ottimismo di Pangloss può ridurre a giochi di ruolo fra gente che in fondo condivide, nel giardino della bipartisanship, le convinzioni generali, gli stereotipi formali, le insignificanze della politica come elementi di un auspicato fair play, non importa se ipocrita, e non importa nemmeno se continuamente infranto. n o t e 1 S. Setta, Il qualunquismo, in La politica italiana. Dizionario critico 1945-1995, a cura di G. Pasquino, Roma - Bari, Laterza, 1995, pp. 370-371. Setta è anche l'autore della principale ricostruzione storica in materia: L'Uomo qualunque. 1944-1948, Roma - Bari, Laterza, 19952. 2 Cfr. S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Torino, Einaudi, 1998, p. 125.
Il Mulino, 05-06 2001
Il bipolarismo realizzato
Una nuova svolta nella lunga transizione politica italiana, questo sono le elezioni del 13 maggio. È presto però per affermare che si sia giunti al termine della stagione iniziata con Tangentopoli. Certo è che il quadro politico si è modificato in maniera radicale e, forse, stabilizzato per vari anni. Berlusconi ha concluso la sua quinquennale «traversata del deserto» dell'opposizione approdando ad una vittoria netta ma non clamorosa. I rapporti di forza tra gli attori politici si sono comunque radicalmente ridefiniti ai diversi piani della nostra complicata architettura. Al piano alto, quello delle coalizioni, la Casa delle libertà ha ottenuto una netta vittoria in termini di seggi, con un margine che promette una navigazione tranquilla delle proprie proposte di legge in entrambe le camere. Al piano intermedio, quello dei rapporti all'interno delle alleanze, sono avvenuti i cambiamenti che promettono di alimentare la cronaca politica per molto tempo. A destra Berlusconi ha attirato su Forza Italia una parte consistente dei consensi degli alleati. A sinistra il tavolo dell'Ulivo ha trovato un nuovo equilibrio tra la componente dei Ds e quella dei centristi radunati nella Margherita. Anche al piano più basso - quello delle singole formazioni politiche, più o meno estemporanee - i prossimi mesi promettono sviluppi importanti, con scelte più meditate, che tengano conto del nuovo quadro politico, dei vincoli dei sistemi elettorali (che, pur diversi, sono accomunati dall'incentivo a creare ampie coalizioni) e della ragionevole prospettiva di avere di fronte un triennio senza elezioni generali. Nelle prossime pagine i risultati del 13 maggio saranno presentati nelle loro linee generali, facendo attenzione a rinvenire le più rilevanti linee di tendenza, sia in termini di confronto con le elezioni precedenti, sia in prospettiva dei possibili sviluppi politici e istituzionali dei prossimi mesi e anni. Una cosa almeno si può dire: dalle urne è uscita la conferma di un sistema finalmente bipolare. Gli elettori (e il sistema elettorale) hanno premiato il centrodestra e il suo leader, cui spetta ora il governo del Paese. Agli sconfitti resta il non facile compito di mettere ordine tra le proprie file, riacquistando credibilità dall'opposizione, con un programma e un leader. La marcia di avvicinamento: un elettorato stabile Il biennio precedente alle elezioni del 13 maggio è stato molto intenso dal punto di vista elettorale e istituzionale. Vale la pena di ricordare brevemente queste vicende perché costituiscono lo sfondo indispensabile per comprendere i risultati di queste elezioni. Nella primavera del 1999 il referendum indetto per abolire la quota proporzionale del Mattarellum non risulta valido per poche migliaia di astenuti. In tal modo gli oltre 21 milioni di voti a favore di un sistema elettorale integralmente maggioritario risultano inutili. Alle elezioni comunali del giugno '99 la sinistra accusa la grave sconfitta di Bologna e perde altri cinque capoluoghi di provincia. Alle contemporanee elezioni europee il sistema elettorale, integralmente proporzionale, permette una precisa conta del peso delle diverse liste. A parte il positivo esordio dei Democratici e il successo della lista Bonino, i partiti che poi hanno costituito la Casa delle libertà ottengono il 44,3%, con oltre 3 punti di vantaggio sui partiti che compongono l'attuale Ulivo (41,2%). Ma la leggera superiorità numerica della Casa delle libertà risulta più evidente l'anno successivo, in occasione delle elezioni regionali. È in quell'occasione che si costituisce l'alleanza del Polo con la Lega, vera e propria chiave della vittoria di Berlusconi non solo alle regionali, ma anche alle politiche di quest'anno. Con la nuova alleanza il centrodestra conquista otto regioni, tra cui tutto il Nord, lasciando al centrosinistra solo le quattro regioni della «zona rossa» e tre regioni del Sud. In termini di voti il vantaggio del centrodestra oscilla tra il 6% (voto maggioritario) e il 7,5% (voto proporzionale). La sconfitta delle regionali è assai pesante per il centrosinistra, e costringe il presidente del consiglio D'Alema a rassegnare le dimissioni, dopo che incautamente aveva rivendicato il voto alle regionali come un referendum sul suo governo. Le elezioni regionali non solo confermano che tra le due coalizioni esiste un vantaggio elettorale a favore del centrodestra, ma attestano una rilevante rigidità dell'elettorato. Come sulla «Rivista italiana di scienza politica» hanno dimostrato Chiaramonte e Di Virgilio - confrontando le elezioni del 1996 con le europee del '99 e le regionali del 2000 - a partire dal 1996 l'elettorato è stabilmente assestato all'interno delle due grandi aree politiche: circa il 55% si colloca nell'area di destra e il 44% si colloca nell'area di sinistra. Gli spostamenti di partito sono in gran parte interni alle due aree. Con queste rigidità, è destinata a vincere la coalizione che riesce a coprire tutta la propria area politica, dove non trova concorrenti in grado di sottrarle voti. Una campagna elettorale lunga diciotto mesi Molti osservatori hanno rilevato come il vero inizio della campagna elettorale sia il 9 ottobre 1998, data della caduta del governo Prodi. Certo è che la caduta del governo Prodi aveva aperto a Berlusconi ampi orizzonti per poter lanciare la sua controffensiva politica, innestata su due buoni argomenti: la mancata investitura popolare del nuovo governo e l'emigrazione di parlamentari eletti nel Polo a sostegno del nuovo esecutivo. In effetti la campagna elettorale è durata un anno e mezzo, senza soluzione di continuità. L'esordio è avvenuto con gli spot pubblicitari di Forza Italia che auguravano buone feste agli italiani in occasione del Natale 1999. Nella politica italiana una novità assoluta, peraltro ben comprensibile: quale altro partitoinserzionista avrebbe potuto permettersi le tariffe pubblicitarie in vigore nelle settimane natalizie? Ma in primavera è arrivato un ulteriore colpo di teatro: la crociera della nave Azzurra intorno alla penisola, che ha ridicolizzato la tradizionale propaganda degli avversari in vista delle elezioni regionali. Appena il tempo di assaporare la conquista di otto regioni ed ecco la campagna d'estate, con i grandi manifesti esposti in tutte le città, da cui il sorriso del leader vegliava sul caotico traffico urbano, accompagnato da messaggi vaghi quanto rassicuranti. Contro questa opulenza di mezzi il centrosinistra ha sostanzialmente giocato di rimessa, finendo per restare subalterno alle mosse del Cavaliere. Così, prima D'Alema ha cercato di recuperare lo svantaggio in termini di legittimazione esponendosi inutilmente alla sconfitta in occasione delle regionali; subito dopo, l'Ulivo ha dovuto bruciare i tempi per definire un candidato da contrapporre al Cavaliere, con effetti opposti a quelli desiderabili. Già l'apertura di una discussione sulla figura del leader rendeva evidente il deficit di leadership che gravava su un centrosinistra orfano delle sue figure più eminenti e prestigiose, traslocate a Bruxelles e al Quirinale. Inoltre la scelta, nel momento in cui veniva dibattuta, indeboliva tutti i papabili e lasciava un alone di debolezza intorno alla figura di Rutelli, sfumato solo nelle ultime settimane di campagna. Nel corso della campagna le mosse più appariscenti sono risultate quelle di figure non direttamente coinvolte nella competizione elettorale, come il durissimo manifesto anti-Berlusconi di Sylos Labini, le prese di posizione di Montanelli, Eco e altri intellettuali, il rilievo offerto al libro di Travaglio e Veltri. Per finire, si è avuto l'inusuale intervento della stampa straniera, a sollevare riserve sulla candidatura di Berlusconi a governare una grande democrazia. Il clima infuocato della campagna era, però, quello più congeniale a Berlusconi. Le denunce del conflitto d'interessi erano non solo tardive, ma destinate a lasciare freddi gli elettori del Polo e a infiammare solo i suoi avversari. Se poi è mancata la discussione sui programmi, non è il caso di gridare allo scandalo in un Paese che vive di antagonismi pregiudiziali. Casomai è da ricordare un'altra particolarità: è mancato un confronto televisivo tra i due candidati proprio dove il nodo delle televisioni assume un significato così rilevante. Un'altra mossa di Berlusconi per screditare Rutelli, considerato solo un «portavoce » di D'Alema e non il capo della coalizione. Il voto deciso dalle alleanze Dunque l'approssimarsi del voto si può osservare in una duplice prospettiva. Se si guarda ai risultati elettorali dal 1996 in poi si desume un quadro di grande stabilità. Gli elettori si muovono certo da un partito all'altro, ma restano in buona parte nello stesso recinto politico. Chi ha orientamenti di destra si muove tra partiti affini, e lo stesso si può dire per gli elettori di sinistra. Quando il sistema elettorale impone di costruire delle coalizioni (cioè sempre, a parte le europee), finisce per vincere l'alleanza costruita con più cura, cioè in grado di mettere insieme più partiti, che evita così il rischio di trovarsi concorrenti nella sua stessa area. Se si guarda alla lunga e inusuale campagna elettorale, il quadro è quello di un grande dispendio di mezzi, e di un ampio ricorso da parte di tutti i contendenti a toni da ultima spiaggia, evocando pericoli per il sistema democratico e la libertà dei singoli, nel presupposto implicito di un ampio numero di incerti da conquistare alla propria causa. I risultati elettorali hanno messo in rilievo che questo investimento ha avuto un solo effetto: ridurre l'emorragia di votanti che era divenuta preoccupante alle ultime prove. La partecipazione aveva segnato il minimo alle europee del '99 (72,2% di votanti) e alle regionali del 2000 (73,0%). Invece, fatti i conti, l'affluenza alle urne è risultata quasi ai livelli del '96 (81,2%), con poco più di un punto di calo. Anche il divario Nord-Sud ha ripreso la consueta fisionomia, con oltre diciotto punti di differenza tra la regione con la partecipazione più elevata (Emilia-Romagna, 88,8%) e quelle con la partecipazione più ridotta (Sicilia 70,3% e Calabria 70,7%). Ma in termini di partecipazione è da segnalare una vera novità per la storia elettorale del nostro Paese: le lunghe code ai seggi nelle città dove si tenevano anche le elezioni comunali, dovute alla riduzione del numero di sezioni elettorali decisa dal Parlamento uscente. A parte la tenuta della partecipazione, i risultati delle elezioni hanno seguito esattamente il trend messo in luce nelle elezioni precedenti. I dati principali possono essere sommariamente esposti secondo i seguenti rilievi numerici. 1) Al Senato l'Ulivo+Rifondazione comunista hanno battuto la Casa delle libertà di 400.000 voti ma il sistema elettorale maggioritario ha fatto la differenza. Così per ottenere 3 senatori il Prc ha raccolto oltre 1,7 milioni voti e, in termini aritmetici, ha determinato la sconfitta dei candidati dell'Ulivo in 32 collegi. Analoga considerazione riguarda la lista Di Pietro: oltre 1,1 milioni di voti per ottenere un seggio, il più caro dell'intera tornata elettorale. 2) Sia alla Camera, sia al Senato la distribuzione dell'elettorato è stata pressoché analoga rispetto al 1996. Nel 1996 al Senato Polo+Lega ottennero il 47,7% contro il 44,1% di Ulivo+Rifondazione. Tuttavia l'accordo elettorale consentì a questi ultimi la conquista di 167 seggi, contro i 116+27 di Polo e Lega. Nel 2001 al Senato Polo+Lega hanno ottenuto il 42,5% contro il 43,7% di Ulivo+Prc. Tuttavia l'accordo elettorale ha garantito alla Casa delle libertà la conquista di 177 seggi, contro i 128+3 di Ulivo e Prc. 3) Alla Camera, nella competizione proporzionale, nel 1996 le forze di sinistra hanno ottenuto il 43,8%, contro il 52,2% di Polo+Lega. Nel 2001 le forze di sinistra hanno ottenuto il 40,5%, contro il 49,6% di Polo+Lega. Da questi pochi dati sintetici il lettore può desumere quanto i risultati del 2001 siano allineati con quelli delle elezioni del periodo 1996-2000, ricordati sopra. La distribuzione dell'elettorato nelle due aree politiche è sostanzialmente stabile nel quinquennio. Entrambi hanno subito una leggera flessione di 2-3 punti che mantiene una differenza a favore della destra. Ai fini della vittoria finale, quello che conta è la geometria delle alleanze: l'area politica che si presenta unita è sistematicamente favorita; la coalizione che invece si trova un concorrente sullo stesso versante viene penalizzata e perde pesantemente in termini di seggi, anche se ottiene più voti. Sta proprio alla politica di mettere a punto le condizioni per creare alleanze. D'altra parte l'equilibrio tra i due elettorati rende particolarmente preziosa la cattura di alleati anche piccoli. Si tratta della «maledizione del Mattarellum» perché comporta come conseguenza l'eterogeneità delle coalizioni vincenti, che ha portato alla caduta prima del governo Berlusconi e poi del governo D'Alema. Berlusconi si è mangiato gli alleati Un altro modo per leggere questi risultati è che gli italiani hanno votato «a prescindere». Gli elettori sembra non si siano minimamente curati dell'interminabile campagna elettorale, dei toni accesi che denunciavano il conflitto d'interessi e paventavano pericoli per la democrazia. Tanto meno sembrano essere rimasti impressionati degli articoli allarmati della stampa straniera o degli sgravi fiscali generosi che qua e là facevano capolino. Il 14 maggio è emersa una fotografia quasi sovrapponibile a quelle già scattate nel '96 e nel 2000. In termini più concreti: Berlusconi ha vinto le elezioni quando ha siglato l'accordo con Bossi alla vigilia delle europee e - per analogia - Rutelli le ha perse quando Bertinotti è rimasto fuori dalla coalizione. Ma occorre aggiungere un'annotazione di rilievo: come leader della coalizione ha solo vinto le elezioni, senza stravincere. Infatti ha perso due punti e mezzo (Camera proporzionale) e ben cinque punti (Senato) rispetto alla somma dei voti di Polo e Lega nel '96. In termini assoluti mancano all'appello quasi 1,2 milioni di voti, sia al Senato che alla Camera. Dunque la faraonica campagna elettorale è stata inutile? No, perché la campagna è servita a Berlusconi per fagocitare gli alleati, che hanno perso tutti, anche mancando il quorum (Lega e Biancofiore). In tal modo si è assicurato nuovi equilibri a suo favore, con un partito che sfiorando il 30% risulta assai più forte della somma degli alleati (che insieme arrivano a poco più del 20%), e soprattutto riducendo fortemente il peso dell'alleato meno fidato, la Lega. È attraverso la focalizzazione dell'intera campagna elettorale sulla figura di Berlusconi che questi si è garantito le condizioni parlamentari per liberarsi della maledizione del Mattarellum, per uscire cioè dai condizionamenti di alleati scomodi. D'altra parte gli alleati sono stati ben lieti di mettersi all'ombra del Cavaliere, una volta rassicurati da un congruo numero di candidati in collegi sicuri. Così An ha ottenuto 142 parlamentari (96 deputati e 46 senatori), il Biancofiore 69 (40 alla Camera e 29 al Senato): rappresentanze parlamentari di tutto rispetto, che danno piena soddisfazione agli stati maggiori dei partiti. Ma la competizione proporzionale ha assunto in questi anni il significato di un metro di misura del peso elettorale dei diversi partiti, per cui - a parte la consistenza parlamentare - il peso politico degli alleati è in prospettiva destinato a cedere di fronte ai numeri di Forza Italia. Bossi ha capito subito di essere stato la principale vittima di questa eclisse degli alleati e ha subito cercato di rivendicare una parte del successo di Forza Italia e di alzare il prezzo del suo appoggio, in modo da poter recuperare un margine di manovra politica ripartendo dal modesto capitale di 47 parlamentari e del 3,9% di voti. Il bipolarismo è vivo e sta bene In queste elezioni, a differenza che nel 1996, erano molte le liste che si erano chiamate fuori dalla logica bipolare, contestando sia l'esistenza di una significativa differenza tra Casa delle libertà e Ulivo, sia la capacità del meccanismo maggioritario di garantire la governabilità. Se queste forze avessero ottenuto un ampio successo la duplice conseguenza sarebbe stata una maggior difficoltà a costruire una stabile maggioranza di governo e, in tempi medi, una forte spinta verso la modifica del sistema elettorale in senso proporzionale. Tutto questo non è avvenuto, dunque il bipolarismo si è rafforzato sia a livello sistemico, sia in base ai risultati nell'ambito dei due schieramenti. Vediamo di chiarire. 1) Il meccanismo bipolare ha funzionato a livello sistemico: coloro che hanno provato a sfidare il meccanismo maggioritario sono stati duramente puniti. Le principali liste fuori dai poli hanno sprecato oltre 4,7 milioni di voti (13,7%) per ottenere 6 seggi da senatore. Alla Camera le liste non allineate hanno dissipato il 15% dei voti proporzionali (più degli elettori della Margherita). Dal punto di vista politico occorre però sottolineare un punto importante: si tratta di un elettorato anelastico, che è rimasto insensibile alla differente efficacia del voto a seconda del tipo di scheda. Così la percentuale di voti è analoga sia nel proporzionale sia nel maggioritario della Camera. Addirittura i voti per le liste di D'Antoni e Di Pietro sono più numerosi nel maggioritario che nel proporzionale. Evidentemente si tratta di un elettorato che contesta entrambi i poli e ne rivendica l'equidistanza. Certo è un elettorato che ha sottovalutato la durezza dei verdetti del maggioritario e della soglia di sbarramento, e che finisce per assumere il valore di una testarda, sterile critica. Il sistema, alla fine, ne ha guadagnato in termini di riduzione del numero degli attori e in una più nitida fisionomia degli emicicli parlamentari: dopo i trasformismi della legislatura passata, non è davvero un guadagno da poco. 2) Il meccanismo bipolare ha funzionato all'interno dei due poli, premiando le formazioni che esprimevano il candidato premier. Nei due casi ovviamente la spiegazione è diversa, data la diversa esposizione mediatica e il differente modo attraverso cui si è arrivati alla designazione. A parte le molteplici differenze, Berlusconi e Rutelli hanno concentrato un'elevata quota di consensi anche nel proporzionale, contribuendo sensibilmente al successo di Forza Italia e Margherita. È impossibile non leggere in questi dati una esplicita adesione al meccanismo di contrapposizione primario, quello tra candidati premier, piuttosto che a quello tra partiti, più tradizionale ma proprio per questo capace di scaldare meno gli animi degli elettori. Berlusconi, segno di divisione e segno di contraddizione Si potrebbe dire in sostanza che il bipolarismo italiano, per come si è delineato, è il frutto della campagna-referendum su Silvio Berlusconi. Sembrerebbe persistere quindi, nella struttura della competizione politica, un elemento intrinseco di debolezza, o di fragilità costitutiva, se è vero che dal 1994 a oggi il capo di Forza Italia rappresenta il segno e il principio di divisione che solca gli schieramenti e designa il criterio di appartenenza e di scelta di campo per l'elettore mediano. È un uomo solo a creare le differenze, e a plasmarle politicamente. Dal punto di vista politico - anzi, addirittura ideologico - Berlusconi ha avuto il merito di innovare radicalmente lo schema italiano. Allorché nel 1993, ancora prima di «scendere in campo», dichiarò la propria sintonia politico-culturale con Gianfranco Fini (che competeva con Rutelli per la carica di sindaco a Roma), dal punto di vista fondativo il più era fatto. Si prefigurava in quel modo la disgregazione dell'«arco costituzionale», con le sue convenzioni classiche e stereotipate, che avevano sempre tenuto al margine l'estrema destra. Veniva identificato e delimitato uno spazio politico esplicitamente di destra (l'appellativo «centrodestra» costituiva e per qualche verso costituisce tuttora un eufemismo, legittimo simbolicamente ma non molto rilevante nella sostanza), che ridava decoro politico a una serie di posizioni che in precedenza non avevano cittadinanza al di fuori di settori circoscritti e tenuti al confine del mainstream pubblico. Una tendenziale relativizzazione della Resistenza e dei suoi valori fondanti, la contestazione dell'egemonia culturale della sinistra, la costante polemica antiazionista, la sponsorship a posizioni cattoliche di militanza confessionale, neoguelfe à la Buttiglione, e su altri piani la scelta di programmi politico-economici sufficientemente radicali nelle intenzioni per essere etichettati come neoconservatori, erano tutti fattori che inducevano a pensare che né Forza Italia nel suo codice genetico, né i suoi alleati, potessero riproporsi alla lunga come successori della Democrazia cristiana. L'eredità democristiana era incorporata, fino alle elezioni del 1994, nel Patto per l'Italia, con le due figure di Mario Segni e Mino Martinazzoli a rappresentare il primo la vena moderata e il secondo il partito «che guarda a sinistra», secondo la tradizionale inclinazione degasperiana. Il sacrificio della costellazione centrista sette anni fa, allorché la conquista di sei milioni di voti si tradusse in una drammatica sconfitta sul piano dei numeri parlamentari, fu il segnale che riedizioni democristiane erano improbabili, e non solo per meccaniche questioni di formula elettorale. È vero che per certi aspetti Forza Italia sollecita assonanze scudocrociate, fino ad assomigliare, a uno sguardo superficiale, a una «Dc senza preti». Ma oltre agli elementi di identità già citati, la differenziano la fortissima caratterizzazione leaderistica, che ha in Berlusconi il centro propulsore del partito e che sarebbe stata inimmaginabile nella prima Repubblica, e naturalmente un codice genetico marcatamente laico, o comunque secolarizzato, anche se facilmente propenso a espressioni confessionali. Privata della mediazione democristiana, l'Italia non è diventata improvvisamente un «paese normale». È diventata un paese che porta i segni di una secolarizzazione politica brutale, che ha smantellato l'area politica di governo (la Dc e il Psi con i loro alleati minori) e ha posto la sinistra postcomunista in una crisi che sembra produrre tutta la sua forza a tempo differito, come se i cerchi concentrici sollevati dalla caduta del Muro facessero sentire i loro effetti progressivamente, uno dopo l'altro, portando via a ogni passaggio un po' di sostanza vitale. La persistenza nel tempo dei due blocchi politici principali, di cui abbiamo già detto - anzi, la sostanziale impermeabilità fra gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra - dà l'idea di una società che non ha ancora metabolizzato questa secolarizzazione. Forse non esistono più ideologie distintamente riconoscibili, ma fanno sentire il loro effetto gli ideologismi residui, gli echi della contrapposizione fra comunisti e anticomunisti, le esclusioni, le antipatie e i rancori che hanno segnato la storia del dopoguerra, l'avversione per una destra che ha abbandonato il fascismo ma non certe volgarità di stampo missino, e così via. Non si spiegherebbe altrimenti la facilità con cui l'opinione pubblica filoberlusconiana ha accettato la persistenza del conflitto d'interessi come un elemento inessenziale nella situazione politica. E non si spiegherebbe neppure come sia stato possibile passare da un'esaltazione giustizialista, ai tempi di Mani pulite, con Antonio Di Pietro eroe popolare, all'assoluta indifferenza per la condizione giudiziaria di Berlusconi, che continua a restare problematica nonostante il successo evidente della protratta iniziativa anti-procure. In questo senso, il giudizio della stampa straniera - a partire dall'intervento più noto e più pesante, il reportage dell'«Economist» su Berlusconi, giudicato in copertina «unfit» di governare l'Italia - ha potuto essere consegnato senza esitazioni dal centrodestra alla categoria del giornalismo spazzatura, o all'«internazionale della calunnia», quando non addirittura a una «congiura di sinistra» (non importa se gestita da un giornale programmaticamente neoliberista, e sulla base di un reportage di notevole qualità professionale). L'indifferenza per la condizione patrimoniale di Berlusconi e per le sue interferenze con l'azione politica sembrano rispecchiare non solo la campagna mediatica che nel corso degli anni ha tentato, con notevole successo, di ridurre il conflitto d'interessi a una fisima bizantina, gestibile tranquillamente attraverso l'onestà personale, l'equilibrio, le capacità discrezionali del leader di Forza Italia; ma rispecchia anche uno spirito di corpo, se non di fazione, che ha condotto gran parte dell'elettorato forzista e polista a giudicare irrilevante la ricchezza personale di Berlusconi, il suo coinvolgimento in numerosi settori di attività, così come il problema del possesso e del controllo del duopolio televisivo italiano. Di conseguenza si giunge a considerare strumentale, da parte degli avversari politici, l'individuazione del conflitto d'interessi come tema politico cruciale nel funzionamento della democrazia. Per comprendere il berlusconismo occorre dunque identificare una miscela di valori nuovi e antichi, in una combinazione a suo modo postmoderna, probabilmente déracinée, che per alcuni aspetti sembra sovrapporsi con buona esattezza alla miscela di arcaismo e di modernità che fa da sfondo alla vicenda italiana contemporanea. Questi valori delineano una risposta ai problemi della società italiana radicalmente contrapposta rispetto a quella offerta dalla classe dirigente democristiana e comunista nella vecchia «Repubblica dei partiti». Le classi politiche tradizionali, generalmente allineate con la tradizione risorgimentale, intendevano lo stato come fattore di modernizzazione della società e dell'economia. Nel collage postideologico di Berlusconi, lo stato è «leggero», «snello», depurato finanche da qualsiasi sospetto di finalizzazione etica, una macchina che deve incamerare tasse (poche) per rilasciare servizi (efficienti). Nonostante le capacità persuasive del leader di Forza Italia, sono molti gli aspetti della sintesi berlusconiana che risultano gravemente sospetti di incoerenza. C'è innanzitutto un embrionale programma politico-economico che mette insieme supply side economics (taglio delle tasse per fare schizzare in alto la crescita) ed economia sociale di mercato, in puro stile da modello renano. Neoliberismo più Welfare, per capirci. C'è un liberalismo declamatorio che tuttavia risulta poco sensibile e permeabile alle regole, almeno quelle che investono il patrimonio. L'accettazione tiepida della matrice antifascista si affianca alla propensione irresistibile verso qualsiasi sperimentazione «revisionista». L'adesione pubblicitaria ai valori «cattolici» si combina con l'assecondamento di stili di vita di stampo televisivo, largamente plasmati da una concezione di fondo tipicamente edonista. Tutto ciò è servito per offrire prima una sponda ideologica e poi una casa comune a tutti coloro che contestavano la diagnosi di arretratezza della società civile (e quindi la simmetrica funzione dello stato in termini di Zivilisation) formulata dai settori «progressisti». Borghesia law and order, ex e post-fascisti emancipati grazie al successo di An e al fortunato congresso di Fiuggi ma comunque rancorosi verso la tradizione resistenziale, e desiderosi di ridurre il fascismo storico a una variante dell'antropologia italiana (quindi qualcosa di inevitabile, sottratto alle responsabilità politiche). Nuovi ceti imprenditoriali liberati dalla pressione dei partiti dopo la scoperta di Tangentopoli, ma anche insofferenti al sistema delle regole e delle garanzie imposto sul mercato del lavoro e in azienda dai partiti pro labour, compresa naturalmente la Dc e ovviamente i sindacati. Cittadini disposti a vedere nella nascita di Forza Italia un'alternativa allo strapotere dei vecchi partiti, e un baluardo all'azione dei magistrati, comunque inclini all'idea, testimoniata da un formidabile coming out televisivo di Iva Zanicchi, che valga la pena dare una chance a un uomo che ha dimostrato di saperci fare. E, non ultime, classi di «poveri» disposte ad affidare ai ricchi il management della società, nella speranza di ritagliarsi al margine qualche vantaggio economico. Forse il rapporto con il mondo cattolico è la spia più evidente dell'eterogeneità implicita del progetto berlusconiano. È sufficiente sfogliare Una storia italiana (il rotocalco spedito massicciamente agli elettori nelle settimane prima del voto) per rendersi conto delle pruderie sul secondo matrimonio, dell'enfasi sulla famiglia, la moglie e i «cuccioli», sulla vecchia madre e l'indimenticabile papà. Senza citare, è ovvio, la foto che immortala l'incontro con Karol Wojtyla: non occorre una vena troppo pronunciata di moralismo per identificare un post-cattolicesimo che riesce a tenere insieme devozione formale e edonismo, consumismo euforizzante e dichiarazione di impegno morale alla solidarietà per chi «è rimasto indietro», adesione ufficiale alla morale sessuale cattolica e comportamenti disinvolti, almeno secondo quella stessa morale. Un cattolicesimo «divertente» se non mostrasse una tendenza ricorrente a usare il lato confessionale come strumento di ricerca del consenso, sensazione che si ha spesso allorché dall'empireo dei valori, dalle ispirazioni sturziane e dalla sussidiarietà, si passa alle prospettive pratiche (sulla parità scolastica, per esempio). Lopposizione, in prospettiva Detto questo, un'ipotesi molto malevola indurrebbe a pensare che la contraddizione principale del centrosinistra consista nell'avere attaccato con un certo accanimento Berlusconi proprio sui temi che non avrebbero spostato un voto. Ciò è avvenuto presumibilmente perché la sinistra, e i Ds in particolare, non hanno prodotto uno sforzo significativo per capire e interpretare politicamente gli orientamenti della società italiana. Bastava una conoscenza sommaria delle indagini sociologiche sulle preferenze nazionali, sui codici valoriali, sugli orientamenti culturali, sul costume, sul gusto e i consumi, per comprendere che ogni riferimento al conflitto d'interessi come fonte di incompatibilità politica avrebbe lasciato freddi buona parte degli elettori, e soprattutto quelli propensi a votare a destra. Magari il cinismo italiano non ci fa abboccare alla fotoromanzata biografia di Berlusconi; ma nello stesso tempo quel cinismo esorcizza le preoccupazioni attinenti alle regole, nel senso che il conflitto d'interessi rappresenta su scala maggiore un tipico problema italiano di frizione tra sfera privata e sfera pubblica: a suo modo intensifica il problema. In questa cecità delle forze di sinistra rispetto alla condizione del nostro spirito pubblico, o se si vuole della nostra cultura civica, risiede con ogni probabilità il motivo che ha indotto l'Ulivo a gettare via il doppio miracolo della vittoria politica del 1996 e dell'ingresso nell'euro. Ha scambiato per tattica combinatoria la costruzione del centrosinistra, e ha inteso come esercizio di potere la pratica del governo, senza interrogarsi a fondo sulle ragioni che avevano consentito i due miracoli, sul «valore aggiunto» del prodismo (ancor più che del centrosinistra). Valore aggiunto che da un lato implicava il rapporto con le élite culturali, con l'establishment economico, con il mondo cattolico specialmente di base; dall'altro, lo sforzo di aggregazione del consenso sui temi programmatici fondamentali come il risanamento dei conti pubblici in chiave europea, per conseguire l'approdo dell'euro, e il ridisegno selettivo dello stato sociale. Uno sforzo sostanzialmente riuscito, dal momento che ha plasmato un'opinione pubblica orientata positivamente (anche se nel caso del Welfare i risultati sono stati molto inferiori rispetto alle ambizioni originarie). Avere lasciato filtrare l'impressione, magari anche con qualche compiacimento, che l'arte di governo coincidesse essenzialmente con la tecnica del potere, ha fatto sì che Berlusconi potesse accusare ogni giorno la sinistra di avere occupato illegittimamente il governo dopo l'operazione trasformista che aveva condotto al governo Massimo D'Alema (oggettivamente trasformista, si potrebbe dire per usare un lessico consono alle radici culturali del leader diessino). La sconfitta del centrosinistra è risultata tanto peggiore quanto poco contrastata. Per concedere al candidato Francesco Rutelli una dignità politica sufficiente a competere, diversi partiti e formazioni del centrosinistra hanno atteso gli ultimi giorni di campagna elettorale, quando l'impegno fisico e mediatico a cui l'ex sindaco di Roma si è dedicato lo hanno imposto sulla scena pubblica. In precedenza si era tenuta una sagra di errori politici, di cattive valutazioni, di egoismi partigiani, che erano andati sotto l'etichetta di «sconfittismo». L'accordo con Rifondazione comunista, che avrebbe potuto rovesciare il risultato, è scivolato via come per inerzia, probabilmente perché al momento opportuno Rutelli non aveva ancora la caratura del leader riconoscibile, e quindi in grado di impegnare credibilmente un possibile partner riottoso. Ora invece, il periodo post 13 maggio risulta sismico, per l'Ulivo, perché nel panorama politico- elettorale si stagliano ormai due figure precariamente compatibili, i Ds precipitati al loro risultato storicamente peggiore e la Margherita rutelliana, che invece ha smentito i sondaggi e si è issata a poche centinaia di migliaia di voti dal partito di D'Alema e Veltroni. A causa delle elusive posizioni assunte in campagna elettorale dai principali leader della Quercia, con Walter Veltroni impegnato nella corsa per il Campidoglio e D'Alema autoconfinato nel collegio di Gallipoli, manca anche il capro espiatorio. Non c'è un responsabile oggettivo della sconfitta, e i Ds appaiono come un partito acefalo, che si trova a fare i conti con la novità emersa il 13 maggio, e cioè l'affermazione della Margherita. Si tratta di un successo non esclusivamente politico. È un successo infatti che rivela l'esistenza di ceti irriducibili a Forza Italia. Nello stesso tempo il movimento fortemente voluto da Francesco Rutelli è l'incarnazione politica di un progetto radicalmente alternativo a quello centrato sull'egemonia diessina. Ancora sfuocata culturalmente, indefinita come profilo politico, la Margherita sembra interpretare comunque una domanda dell'elettorato. Riporta nell'arena politica l'eco prodiana di un programma orientato ad assecondare lo sviluppo e nello stesso tempo a reinterpretare modernamente lo stato sociale. Può apparire una proposta ancora debole, ma la sua indeterminatezza non cela il fatto che essa si colloca in antitesi ai progetti attribuiti alla componente «socialdemocratica» dei Ds. Purtroppo per D'Alema, la prospettiva socialdemocratica è stata stroncata dalla combinazione del notevole risultato di Forza Italia e dalla pessima performance diessina. Il realismo politico dice che non si possono coltivare illusioni di egemonia con un partito che numericamente è la metà della formazione guidata da Berlusconi. A questo punto l'orgogliosa tesi dalemiana del «partito della sinistra europea che non delega a nessuno la rappresentanza dei ceti moderati» (un'espressione che riprende il lessico della rifondazione mitterrandiana del socialismo francese) sembra più una velleità che un progetto effettivamente praticabile. Non esiste nessun partito socialista competitivo in Europa che abbia alle spalle i numeri minimali dei Ds. Le riflessioni su una nuova Epinay socialista in versione italiana sembrano illusioni e il frutto della coazione a ripetere, più che una prospettiva culturale e politica. La realtà è che il 13 maggio probabilmente è entrata in gioco la leadership sostanziale della coalizione. La sinistra dovrà rendersi conto piuttosto rapidamente che il risultato elettorale ha fatto emergere quel pilastro centrista dell'Ulivo che era sempre mancato e che ora si propone come l'elemento di resistenza del centrosinistra dopo la grandinata berlusconiana. Perché di fronte all'egemonia postmoderna di Berlusconi sarebbe anacronistico ricorrere alla nostalgia dei grandi progetti novecenteschi. Per tornare a essere competitivo, al centrosinistra serve ovviamente una politica, e una politica delle alleanze. Ma la tonalità complessiva di questa politica deve rifarsi a concezioni modernizzanti: capaci di eludere i riflessi condizionati dei Ds e di fronteggiare la sfida liberalizzatrice del centrodestra. In grado di contestare il patrimonialismo di Forza Italia ma anche di smarcarsi dal sistema delle garanzie ineguali tutelato dal sindacato. Negli ultimi due anni il contenuto e il ritmo del confronto politico sono stati dettati dal Polo delle libertà. A Rutelli tocca il compito di mettere allo scoperto l'aspetto politicamente decrepito delle ovvietà rassicuranti di Gianfranco Fini, le contraddizioni programmatiche di Forza Italia (l'industrialismo delle grandi opere e il terziario depauperato della New Economy, le demagogie subculturali delle «tre i»), il confessionalismo anche questo rétro di Rocco Buttiglione: vale a dire tutto il catalogo delle meraviglie del centrodestra, che forse meraviglie non sarebbero, se non si pretendesse di smascherarle con i santini socialdemocratici, cioè con un partito che non c'è più.
Il Mulino, 09-10 2002
Nudo come un pallone
Alla fine di agosto, mentre il calcio italiano era squassato dal terremoto economico- televisivo che ha portato al rinvio del campionato, Alberto Arbasino scriveva alla «Stampa» una delle sue provocazioncine in forma di lettera: «In qualità di tifosi impegnati e non trasgressivi, ci si preoccupa e allarma vieppiù per la quantità e la frequenza di "facce da pirla" nelle attuali foto di carattere calcistico. Che la crisi in corso possa dipendere anche da ciò?». Perdere la faccia Non è immediato capire a chi si riferisse nello specifico colui che ormai sfiora l'unanimità nella considerazione di massimo scrittore italiano contemporaneo (con evidente dispiacere di tutti gli altri): ma se si pensa che le pagine sportive, o comunque dedicate al calcio, sono largamente costellate da figure di calciatori, e in misura minore di presidenti e dirigenti di società calcistiche, nonché di veline e letterine che intercettano l'orbita sentimentale di qualche campione o presunto tale, non c'è bisogno di troppe spiegazioni per capire qual è l'universo di riferimento; poi sarà solo questione di proporzioni, un tot di calciatori, un tantum di presidenti, un quid di squinzie. Si potrebbe anche considerare quella di Arbasino come la boutade di un outsider, cioè un intellettuale che ha sempre confessato lo snobismo di preferire altri passatempi rispetto allo spettacolo e al «dibbattito» calcistico, se non fosse che l'ultima stagione del pallone è stata suggellata proprio dalle barzellette. Già la spedizione italiana al campionato mondiale in Estremo Oriente era cominciata con una notevole campagna di freddure sull'atleta che negli auspici degli appassionati avrebbe dovuto essere il diamante tattico, la fonte del gioco, l'agente della verticalizzazione in campo, e cioè il romanista Francesco Totti. Era un pessimo augurio, a pensarci bene, che la malevolenza nazionale si esercitasse sul ragazzo di Porta Metronia, il «coatto» nel linguaggio Telenovele e barzellette del calcio italiano In un calcio povero di eroi e di geni ma ricco di inventiva, unico «O'Rey» resta il business. C'è voluto il fenomeno Chievo per mostrare come in Italia il mondo del pallone fosse una bolla tecnica e organizzativa; e poi, in estate, la vicenda della cessione dei diritti televisivi per palesarne anche la bolla finanziaria e quella mediatica. Per fortuna non mancano barzellette e telenovele. E la storia continua. e nell'abbigliamento (ingiudicabile secondo le giornaliste sportive la polo con il colletto rialzato), proprio mentre una lunga campagna d'opinione, suffragata anche dall'autorevolezza del presidente della Repubblica, stava per riuscire nell'impresa inimmaginabile di costringere i campioni della pedata a cantare in coro, prima del fischio d'avvio, «Fratelli d'Italia». Stringiamci a coorte, anche se per il momento la fraternità italica si esprimeva con storielline come questa: i tre anni più difficili per Totti? Quelli della prima elementare. Oppure l'autentico exploit stagionale, riciclaggio e adattamento di una vecchia barzelletta sui veneti, da raccontare con l'accento romanesco, voce rauca e occhio liquido: c'è la commissione d'esame di terza media che chiede al trequartista giallorosso di comporre due frasi con il gerundio dei verbi essere e avere. Risposta sicura, poiché è stato informato prima da una gola profonda: «Essendo che er presidente Sensi m'ha regalato 'na Ferari, gialla, e a me er giallo nun me piace, io che faccio? 'A vendo». Ghignate solidali. Tuttavia, a dispetto della malevolenza antiromana, chissà, forse frutto della propaganda leghista, i selezionati della nazionale erano partiti dall'Italia accompagnati da vibranti dichiarazioni d'amore collettivo, ed erano giunti in Giappone accolti da un tifo esorbitante degli appassionati giapponesi. Perché agli occhi nipponici gli atleti italiani rappresentavano una sintesi di stile, di look, una versione sportiva e mediatica del made in Italy: «italiani belli!», ripetevano le ragazze intervistate dalle troupe televisive. Dietro il ritratto di Del Piero esposto nei negozi giapponesi non c'era soltanto il talento non del tutto compiuto dell'attaccante juventino, quanto il fascino irresistibile di un'immagine, di un cartoon, o meglio di un manga «globale». In realtà, dicono i tecnici, è possibile che sul piano strettamente calcistico il leggendario «Alex» si fosse giocato la fiducia del commissario tecnico Trapattoni rifiutando il ruolo di suggeritore, cioè una posizione in campo più arretrata rispetto alle punte, in una stanca partita premondiale; ma fino al momento in cui contano le chiacchiere e l'esteriorità, il touch estetico più che il gioco effettivamente espresso e il tocco di palla, Del Piero per i giapponesi non era soltanto un calciatore, bensì un'icona, la personificazione del calcio come evento da mondovisione e magia virtuale da play station. Ma anche tutti gli altri azzurri, panchinari compresi, venivano percepiti come altrettanti simboli del glamour contemporaneo, ancor prima che della tecnica del novecentesco dribbling game: vedi il bellissimo centrale Nesta, di classe mondiale eppure quasi femmineo, con i capelli lisciati sapientemente con certi oli essenziali, così come lo strenuo difensore Cannavaro, esemplare da spot di maschio napoletano, e il veterano Maldini e l'agile Montella e tutti gli altri nessuno escluso sollecitavano brividi di ammirazione nel pubblico femminile e passione calciofila nel pubblico maschile: sicché quando Del Piero entra finalmente in campo contro il Messico, e realizza il gol del pareggio (una rete di testa in tuffo, bellina, superflua ai fini della qualificazione ma importante in quel momento quasi disperato come segno di reattività morale della squadra), lo stadio impazzisce. Però si sa come va a finire, negli ottavi di finale, il 12 giugno a Daejeon, nonostante la certezza ontologica degli italiani di essere candidati alla finale mondiale: con la complicità di un arbitro «dallo sguardo bovino», un essere sovrappeso e quindi impresentabile esteticamente, discutibile tecnicamente, l'ecuadoriano Byron Moreno; ma grazie anche a una improvvida sequela di errori in zona gol, e alla classica paura di vincere che induce Trapattoni a difendere secondo l'abitudine «italianista» un vantaggio minimo, la nazionale italiana prima subisce il pareggio negli ultimi minuti e poi le prende nei supplementari dalla Corea del Sud; e tutti a casa. Per la curiosità dei non esperti, il «golden gol» decisivo lo realizza l'attaccante coreano Ahn, una riserva del Perugia, che verrà additato più o meno come un traditore della casa madre italiana, che gli passa lo stipendio. Ci sono numerose sequenze registrate che scandiscono il dramma politico- calcistico, ma forse anche antropologico, di un Mondiale fallito. C'è l'isterismo di Trapattoni, che di suo sarebbe un lombardo di buon senso e di buone ispirazioni pragmatiche, il quale tuttavia prende a pugni il plexiglass della panchina con una scena da energumeno, oppure pratica un suo rito cattolicopagano versando sul terreno l'acqua benedetta contenuta in apposita bottiglietta, in attesa di miracoli che non arrivano. Tuttavia la sequenza forse più esplicativa è quella in cui ancora Totti, espulso ingiustamente dall'inqualificabile e complottardo arbitro Moreno per una simulazione molto presunta nell'area coreana, si avvia desolatamente a bordo campo: è statuario, il volto immobile, inespressivo, l'occhio sbarrato, il labbro muto, l'aspetto impenetrabile. Il glamour alla romana si è trasformato in una tragedia greca. Succede quando la bieca realtà provvede inopinatamente a dissolvere i sogni. Così, mentre in Italia si scatena un grandguignol giornalistico e televisivo per i torti geopolitici subiti dalla nazionale («Ma allora non contiamo un c
, nel mondo», ad onta dell'autorevolezza planetaria di Silvio Berlusconi e dei suoi rapporti privilegiati con l'amico Bush e l'amico Putin), e il ritardatario presidente della Federcalcio, Franco Carraro, arrivato laggiù giusto in tempo per assistere allo scempio, annuncia discorsi forse apocalittici che dovrebbe fare al ritorno in patria (e che ovviamente non farà), passa subito la linea della conferma di Trapattoni, grazie anche al coro generale che attribuisce l'eliminazione italiana a un complotto internazionale gestito dal grande maneggione della Fifa, il presidente Sepp Blatter, in combutta con non si sa più quale tycoon coreano, che avrebbe approfittato del Mondiale per aprirsi una carriera politica. In realtà, le vedette italiane hanno buttato via il campionato. Giocavano male, come no. Ma diverse altre favorite anche peggio. Potevano arrivare lontano, le nostre sciccose e pettinatissime star. Sinistri scricchiolii Il «dibbattito» prosegue ovviamente per giorni, inanellando altre barzellette: si racconta con un certo compiacimento da guappi che gli azzurri per la rabbia hanno disfatto lo spogliatoio, che stavano per linciare l'odioso arbitro Moreno incrociato per caso all'aeroporto; si stabilisce che una congiura di quella portata significa un danno all'Italia calcistica ma anche il discredito strutturale del calcio; se non fosse che in finale arrivano due potenze calcistiche classiche, Germania e Brasile, a conferma di una storica battuta di un buon centravanti inglese, Gary Lineker: «Il calcio è un gioco che si fa in undici, e alla fine vince la Germania». La Germania non vince, e il Brasile è campione del mondo per la quinta volta nella storia del calcio, ma il senso del discorso non cambia: la dimensione tecnica del Mondiale asiatico è stata riscattata, data la caratura delle finaliste. Ci si potrebbe preparare così alle ferie e poi alla ripresa del campionato con una certa tranquillità sociale, sbollita la delusione: si sa che ogni scarrafone è bello a mamma sua, e Gianni Brera ricordava che il calcio riesce ad appassionare anche chi assiste al torneo notturno dei bar. Oltretutto, questa volta è stato zitto anche Berlusconi, non come quando attaccò polemicamente il ct Dino Zoff, dopo la tremenda delusione della sconfitta in extremis con la Francia nella finale degli Europei del 2000: «Anche un cretino avrebbe capito che bisognava marcare Zidane
». E dire che ricevendo gli azzurri prima del viaggio intercontinentale verso il Giappone li aveva invitati a non tornare, ecco l'amichevole minaccia, se fossero stati sconfitti anzitempo. Calma piatta, quindi, in attesa che il Barnum riaprisse i battenti. Questa volta non c'era un catastrofista Zoff a dimettersi, e quindi nessun caso politico incombente. Calma piatta un corno. Lì per lì cominciano a circolare voci preoccupate sulla tenuta dei conti del calcio nazionale. Il presidente della Roma Sensi, proprio quello della «Ferari» gialla, aveva lanciato messaggi piuttosto espliciti sulla possibilità del rinvio del campionato di serie A. Inoltre, il calciomercato langue. Comincia a circolare la frase «bambole, non c'è una lira». Al punto che uno dei più grandi barzellettieri del calcio italico, l'invidiatissimo centravanti Christian Vieri, detto Bobo, uno che ha girato tutte le squadre d'Italia e ha compiuto un'escursione anche in Spagna, telefona al suo presidente, il generoso Massimo Moratti (un petroliere che in pochi anni ha speso di tasca sua almeno mille miliardi di vecchie lire per rafforzare inutilmente l'Inter), per annunciargli che ha deciso di autoridursi lo stipendio. Non solo, gli comunica anche che ha preso contatto con due rinomatissimi colleghi, il brasiliano Ronaldo detto il Fenomeno e l'uruguagio Recoba, per convincerli a fare altrettanto, e ne ha ottenuto un immediato ed entusiastico consenso. Siccome non si è mai visto un calciatore che di sua volontà rinuncia a una parte di compenso, lo sbalordimento è collettivo. Si scomodano anche gli psicologi. Va bene che il 5 maggio l'Inter ha perso lo scudetto con una sciagurata sconfitta nell'ultima giornata di campionato, con Ronaldo che ha versato caldissime lacrime in panchina, quasi commuovendo anche gli juventini più cinici; e ammettiamo pure che anche i giocatori si rendano conto che la grande festa finanziaria assicurata dall'esplosione dei diritti televisivi sia finita. Ma nessuno capisce per quale motivo tre assi di quel valore annuncino una decisione simile. Il calcio non è uno sport per signorine, come dice il proverbio della corporazione, ma soprattutto non è giocato da filantropi. Gli atti di generosità sono rari. Fare un gesto volontario di moralizzazione, o di calmieraggio, non appartiene alle logiche di un'«azienda», il calcio Spa, in cui le società sono diventate un'entità azionaria (alcune come Lazio, Roma e Juventus sono entrate in Borsa), e in cui si sprecano pagine di giornale e intere filosofie sulla managerialità della conduzione, sulla professionalità degli operatori, sulla serietà dei bilanci, sulla trasparenza dei conti. È vero che le quotazioni a Piazza Affari sono precipitate, e che i bilanci sono stati inquinati dal trucco delle «plusvalenze», con cui le società si scambiavano campioni e bufale a un prezzo significativamente superiore al loro verificabile valore di mercato: è vero tutto, e il sistema sta scricchiolando sinistramente, ma il calcio è abituato a danzare sull'orlo dell'abisso, in passato ha visto follie miliardarie e scandali come il calcioscommesse: se per spiegare il beau geste di Vieri e degli altri due martiri i nerazurro corrono espressioni talmente romantiche da risultare incredibili, vuol dire che la situazione è fuori controllo. «Un gesto di stima verso il presidente», «Un segno di disponibilità », e poi via con l'affetto, l'amore per la maglia, la promessa di un futuro più moderato e di un campionato migliore. Cani, gatti e procuratori Fingono di crederci quasi tutti. E tutti fingono di non vedere che in realtà il bubbone si è già aperto. Al punto che «Il Sole-24 Ore» del 1° settembre rispolvera provocatoriamente una vecchia perizia di Luigi Spaventa, l'attuale presidente della Consob, che venne chiamato nel 1986 alla Fondazione Giulio Onesti dall'allora commissario straordinario della Federcalcio, Franco Carraro, per «sviscerare la situazione giuridico-economica e finanziaria delle società professionistiche». L'ordinario di Economia politica Spaventa si era dimostrato impietoso sulle prospettive del calcio nazionale: «Si imporrà una severa revisione delle società del settore per distinguere i casi recuperabili da quelli disperati». La disperazione originava dal fatto che l'andamento economico era precario, il margine operativo delle società spesso negativo, e quindi «per contenere o celare gli effetti di questo peggioramento effettivo nel conto economico aggregato si ricorre sia a un contenimento degli ammortamenti sia a evidenti operazioni di window dressing volte a un ingrandimento fittizio di una voce attiva del conto economico». Spaventa aggiungeva che «il window dressing è evidente nella valutazione delle plusvalenze, che dipendono dall'attribuzione di valori arbitrari all'oggetto di operazioni di puro baratto. Se scambio un cane con due gatti il valore del cane e del gatto è arbitrario: basta che il primo sia il doppio del secondo». E con la sua nitida crudeltà concludeva che nella stagione 1985-86 «solo grazie alla panna montata delle plusvalenze la serie A è riuscita a trasformare un risultato negativo per 107 miliardi di lire in uno positivo per 11 miliardi». Ciò che si capisce da quel lontano seminario è che i malanni del calcio sono antichi, incorporati nella sua struttura, e che sotto il «movimento» calcistico c'era qualcosa di simile una bomba a tempo. Il quotidiano della Confindustria metteva in rilievo come in vent'anni le retribuzioni lorde dei calciatori siano passate, nella media della serie A e B, a valori correnti, dai 52.430 euro del 1982-83 ai 711.161 euro di oggi: «In pratica - conclude l'articolo di Paola Bottelli - nella scorsa stagione ogni calciatore ha ricevuto una busta paga tredici volte più pesante di un collega di vent'anni fa». Che non si tratti di annotazioni soltanto storiche è dimostrato dall'andamento dei fatti. All'improvviso il calcio miliardario si rivela una voragine contabile. Il 29 agosto scorso, sulla pagina dell'economia del «Corriere della Sera», Alessandro Penati scrive che un'azienda «che non produce mai ricavi sufficienti a coprire i costi e l'ammortamento del capitale o chiude, o cambia il management e ristruttura. Le nostre società di calcio, perfino quelle con i bilanci più solidi, si trovano in una situazione simile. Gli introiti non bastano a pagare stipendi, ingaggi e ammortamento del "cartellino" dei giocatori; e per pareggiare i conti hanno puntato sulle plusvalenze generate dalla cessione dei giocatori. Ma i prezzi dei campioni del pallone non potevano salire in eterno. La bolla è scoppiata, mandando in crisi il pianeta calcio». Gli aspetti tecnici della grande crisi, con i suoi addentellati televisivi, sono piuttosto complicati. Penati li sintetizza così: «Le società italiane
hanno scatenato una rincorsa al rialzo di ingaggi e cartellini, contando sull'Eldorado dei diritti televisivi. Ma, a loro volta, le pay-Tv, alla conquista di un mercato che esisteva solo nei sogni, hanno fatto esplodere le quotazioni degli eventi calcistici, puntando sulla popolarità dello sport. Ovunque stanno crollando sotto una montagna di perdite». Insomma, si è innescato un circolo vizioso di costi crescenti non compensati da introiti adeguati, e il buco rischia di diventare un abisso. Il più noto commentatore calcistico nazionale, Giorgio Tosatti, sul «Corriere della Sera» (31 agosto) ha fornito il quadro seguente. Le emittenti televisive italiane han sempre pagato per i diritti del calcio un prezzo non commerciale ma strategico. In regime di monopolio la Rai sborsava solo due miliardi a stagione. Persa l'esclusiva della diretta, dovette contrastare le offerte di Mediaset, alzando di molto i compensi. Nel pieno della competizione (ai tempi di Agnes) il calcio era essenziale per garantire all'ente pubblico il primato degli ascolti. Quando Cecchi Gori (padrone Tmc) si garantì i diritti con un'offerta folle - tanto da non poterla onorare - la Rai li riprese a quel prezzo, perché li considerava strategici. Per lo stesso motivo è arrivata a pagare 10 miliardi ogni partita della nazionale: un'assurdità economica. Ma quando Cecchi Gori le sottrasse (a metà prezzo) Inghilterra-Italia, la Rai fu sepolta di critiche perché molti italiani non poterono vedere la diretta. Anche Telepiù e Stream han pagato il calcio più del suo valore di mercato. Era l'unico mezzo per costituirsi una clientela così ampia da sopravvivere e guadagnare. Senza la pirateria ci sarebbero, forse, riuscite. Ora le aziende televisive sono in difficoltà e vogliono, ragionevolmente, ridurre il prezzo dei diritti calcistici, avvicinandolo ai veri valori di mercato
Mediaset non può e non vuole contendere alla Rai i diritti in chiaro, avendo già investito nella Champions League, più remunerativa. Stream e Telepiù stanno per fondersi
Dunque, la crisi nasce dal fatto che dopo investimenti non commerciali le televisioni criptate intendono ridurre l'entità dei trasferimenti alle società calcistiche, e che anche la Rai rimette in discussione il rapporto economico con il calcio. Si può aggiungere che in una realtà meno vischiosa di quella italiana, in una situazione di mercato televisivo corretto, la mancata stipula del contratto con la Rai avrebbe chiamato naturalmente in causa con un'offerta il concorrente della televisione pubblica, cioè Mediaset. Che però è disgraziatamente una proprietà del presidente del consiglio Berlusconi, a cui manca soltanto di farsi accusare di avere approfittato delle difficoltà della Rai. Inoltre, il neo-eletto presidente di Lega, il geometra con pensione sociale Adriano Galliani, è anche in procinto di assumere la carica di presidente del Milan berlusconiano, e quindi la sua mediazione per trovare un accordo con la Rai era un funambolismo vertiginoso dentro il conflitto d'interessi. Alla fine, dopo avere chiesto impudicamente al governo lo stato di crisi, i ras ci mettono una pezza, il campionato è salvo, si ricomincia. Il calcio nazionale resta più o meno quello di prima. Con i suoi trecento procuratori, cioè gli «agenti» dei calciatori (secondo la dicitura professionale ufficiale), una categoria che presenta «nodi e viluppi capaci di far impallidire persino i conflitti d'interesse di Berlusconi e Galliani» (Maurizio Crosetti, «la Repubblica», 2 settembre). I doppi, tripli e quadrupli ruoli recitati dal presidente del Consiglio e dal suo fido scudiero hanno evidentemente innescato emulazioni varie. La più clamorosa si chiama Gea (sta per «General Athletic»), meglio nota come «la lobby dei figli di papà», oppure «la confraternita del dieci per cento». Trattasi di una società che gestische diritti d'imagine (cioè pubblicità) e contratti (cioè stipendi) di una ben nutrita scuderia che comprende tra gli altri Nesta, Di Vaio, Tacchinardi, Liverani, Baiocco, Conte, Gatti, Blasi, Pancaro, Poborski, Iuliano, più i diritti d'immagine di Buffon, Totti e Fabio Cannavaro [
] Ma la squadra davvero interessante non è quella degli atleti, ma di chi li amministra: Alessandro Moggi (figlio di Luciano), Chiara Geronzi (figlia del presidente della Banca di Roma), Francesca Tanzi (figlia del proprietario del Parma), Giuseppe De Mita (figlio di Ciriaco De Mita ed ex capo ufficio stampa della lazio), Riccardo Calleri (figlio dell'ex presidente di Torino e Lazio), Davide Lippi (figlio dell'allenatore juventino). C'era anche Andrea Cragnotti, poi il babbo gli ha detto che non forse non è il caso. La banda si occupa pure di allenatori: Mancini (amicissimo dei Geronzi, suoi veri sponsor), De Canio, Del Neri [
] In un vortice di parentele, vicinanze, persino fidanzamenti, questi strani personaggi trattano contratti miliardari con i loro genitori, si mettono in tasca il dieci per cento e sfruttano una ragnatela di amicizie: la seconda figlia di Geronzi, Benedetta, è stata assistente di Franco Carraro, ex capo della Lega e attuale presidente della Federcalcio, il cui figlio Luigi è presidente di Mediocredito centrale, di proprietà della Banca di Roma. Un cerchio tanto perfetto non l'avrebbe dipinto neppure Giotto. Il che sarebbe solo un esempio delle modalità relativamente comiche con cui viene gestita l'«industria» calcistica. Ovvero di come il calcio sia una specie di ordinamento feudale dentro la vita nazionale. Vassalli, valvassori, valvassini, inviati dell'imperatore, brancaleoni, bertoldi, tagliagole. Una situazione divertente, per certi aspetti, come poteva risultare divertente ed eccitante la vita pubblica ai tempi della crisi della prima Repubblica, dei nani e delle ballerine, dei ras dell'immobilismo politico, in attesa del disastro annunciato dalla cassandre. Novela ronaldica Mentre i nodi della grande crisi venivano al pettine, per la gioia dei giornali esplodeva il caso Ronaldo, cioè un'altra grande barzelletta a sfondo calcistico. A poche settimane di tempo dalla vittoria nel Mondiale, e dopo avere accettato con prontezza sciagurata la proposta di autoriduzione dello stipendio avanzata da Vieri, il campione dell'Inter faceva sapere che si era stufato di Milano, dell'Inter, dell'allenatore Cúper, della dirigenza societaria, e che voleva andarsene al Real Madrid. Lasciava anche capire che l'Inter avrebbe potuto certamente pretendere il rispetto del contratto fino alla scadenza stabilita, ma in quel caso Moratti non avrebbe dovuto aspettarsi molto in termini di impegno. Nel frattempo, tornato in Italia, si allenava giocando a golf. La sceneggiata ronaldesca sembrava un tuffo nostalgico nel calcio cialtrone dei vecchi tempi, dell'epoca beata dei «ricchi scemi», quando allenatori e giocatori erano capaci di mille ricatti, e i presidenti di altrettanti cedimenti sul filo del folklore. Comunque, un tormentone che si annunciava lunghissimo, ottimo per ravvivare la noia d'agosto. In realtà, era una storia già scritta fin dall'inizio. Già, Inter e Real Madrid se lo sono contesi accanitamente, tra una folla di musi lunghi, dichiarazioni piene di sottintesi ricattatori, trattative frenetiche e underground; eppure il Ronaldo rientrato sui campi di gioco dopo il Mondiale e visto nell'amichevole del Brasile contro il Paraguay era grasso come un'oca. Saranno stati i temibili allenamenti a cui si era sottoposto in patria, sarà stata la feijoada di mamma Sonia, l'irresistibile piatto con orecchie, cotiche, zampetto e coda di maiale. Per la verità Ronaldo era in carne anche ai Mondiali, ma la speranza di rivedere il formidabile campione d'un tempo induceva al sogno: a scambiare per un tocco geniale uno stiracchiato colpo di punta, a emozionarsi ancora per quella sua finta, il frullo di gambe (un po' più macchinoso adesso). Si intuiva fin dall'inizio del teleromanzo che Ronaldo doveva (sottolineato doveva) andarsene. Ma non per le fissazioni tattiche del malinconico Cúper, e neanche perché il calcio italiano è nevrotico, oppure perché l'ambiente interista l'aveva stufato. E nemmeno per via delle strategie mercantili dei suoi procuratori così spregiudicati, e per le mene del furbo presidente del Real Madrid, Florentino Perez, machiavellico fin dal nome. No: il Fenomeno se ne doveva andare, appena possibile, per continuare a essere il Fenomeno. Restando in Italia, a dispetto del tatticismo dell'allenatore, della formidabile iella che da anni incombe sull'Inter, e fra tifosi incattiviti pronti alla rima Ronaldo/Bastardo, ogni week-end avrebbe dovuto dimostrare la sua classe, sui campi infidi del campionato più carogna del pianeta. Ma si sa che Ronaldo, più che un'incognita, è un'ipotesi. È un attaccante provato dall'inquietante malore occorsogli prima della finale del Mondiale francese, da due disastri articolari al tendine rotuleo, forse da abitudini non proprio in linea con il rigore della vita sportiva. Qualche decennio fa, di fronte a una tecnica sontuosa e a un fisico declinante, allenatori sapienti inducevano i grandi attaccanti ad arretrare l'azione, a ridefinirsi come uomini-squadra, a gestire con la classe e con l'intelligenza in campo ciò che non era più possibile realizzare con lo scatto. Accadde anche al più grande di tutti, Di Stéfano, e proprio in un Real leggendario. Non accade invece a Ronaldo perché la logica del calcio contemporaneo è un'altra: se anche diventasse un asso del centrocampo, un giocatore capace di trascinare i reparti, di dettare i tempi, di costruire gioco come uno Schiaffino, un Sani, un Suarez, un Falcao, il Fenomeno risulterebbe comunque meno fenomeno. Non entrerebbe nelle sintesi televisive, non resterebbero negli archivi i fotogrammi di gol rapinosi. Le multinazionali non si contenderebbero il suo look, e l'acconciatura a mezzaluna inaugurata ai Mondiali verrebbe giudicata semplicemente demenziale, l'indizio evidente che il campione ha, letteralmente, altro per la testa. Invece, cambiando squadra, il più è fatto. Accolto da tifosi osannanti, Ronaldo avrà alcuni mesi a disposizione per rimettersi in forma, lanciare sulla stampa proclami di vittoria, «Real aspettami», infortunarsi, recuperare a fatica, segnare qualche gol capace di evocare fra le nebbie contemporanee l'antica magia, concludere senza infamia e senza gloria la prima stagione. E l'anno successivo annunciare la riscossa, «sarò il migliore acquisto », mentre continueranno a gripparsi i muscoli, a dilatarsi le attese, ad affiorare il disincanto, ma in ogni caso a correre gli spot. Tanto, non è più un giocatore, è un'icona. È una sintesi di business, un distillato affaristico, un feticcio del calcio globale: dopo la realtà dell'Inter e il sogno del Real Madrid, ci sarà ancora l'illusione di un altro mondo calcistico, l'Arsenal, il Manchester, il Bayern, qualunque società in grado di accogliere non un calciatore bensì una mitologia, una merce sublime. Se si conserva bene, se si cura, se si allena dignitosamente, avrà un altro Mondiale dove mostrare le residue scintille di talento calcistico. Forse un'altra apoteosi, perfettamente plausibile in un calcio internazionale povero di eroi e di genio. E naturalmente un altro ingaggio stellare (i barzellettieri di professione, in particolare quelli che amano l'humour nero, scommettono che l'ironia della storia lo riporterà all'Inter, fra lacrime, pentimenti, mozioni degli affetti, dichiarazioni d'amore, sceneggiate varie. Arrivederci nel 2006, per la riprova). Nesta con noi Nel frattempo si era alzata l'ondata moralizzatrice. I dissipatori si vestivano come da copione da risanatori. Parsimonia negli stipendi, cautela negli acquisti. Niente follie. Sobrietà, austerità, soprattutto decenza. Il 23 agosto, al Meeting di Comunione e liberazione di Rimini, Silvio Berlusconi viene accolto da una claque politica che scandisce un po' stancamente «Silvio dacci la luce», e da qualche tifoso milanista che implora: «Compraci Nesta». Accattivante come al solito, rilassato malgrado la brezza gelata sui conti pubblici e le inquietudini popolari sull'inflazione «commosso, sbalordito, carburato», il presidente del Consiglio si rivolge paternamente alla platea e spiega il nuovo trend. Bisogna fare tutti un passo indietro, darsi una regolata. Per quanto riguarda l'acquisto di Nesta, la questione è molto semplice: «Se pó no», non si può. «Nel calcio siamo arrivati a livelli che non hanno più nulla di economico e di morale. Abbiamo sbagliato». Non tira più aria mecenatizia, non si può risolvere tutto dicendo «ghe pensi mi», non si possono più buttare i soldi nella centrifuga del campionato. Il buonsenso deve finalmente prevalere. Applausi compiaciuti del popolo ciellino. Non conviene tirarla per le lunghe e illustrare il clima virtuoso che si è diffuso sui circenses calcistici. Meglio passare direttamente alla conclusione: nel giorno di chiusura di un mercato molto depresso, si accendono nel cielo del calcio tre entusiasmanti fuochi artificiali: Ronaldo se ne va effettivamente al Real Madrid, «come Giuda», chiudendo come si prevedeva la dolorosa pratica, mentre all'Inter arriva la punta della Lazio Hernan Crespo. E il concupitissimo, non solo dalle fan, Nesta? Lo prende, ci mancherebbe, proprio il Milan, per 30,2 milioni di euro: un affare, rispetto alle quotazioni di un anno fa; uno scialo rispetto alla micragna corrente. E le promesse di risparmio? «Non ho ancora sentito Galliani», spiega Berlusconi da Elsinore, dove si trova per il vertice dei ministri degli Esteri dell'Unione europea, «ma lui ha piena autonomia di spostare risorse e acquistare un fuoriclasse che ha un costo maggiore, magari dismettendo qualche giocatore che non serve». Dismettendo, 'a vendo. È la «flessibilità interna» dei bilanci. E il ministro degli Esteri ad interim rafforza il concetto con un severo paragone istituzionale: «Metteremo nella prossima legge finanziaria una norma che consentirà, all'interno di un ministero, spostamenti di risorse in una certa percentuale da una parte all'altra del dicastero. L'importante è che il bilancio resti entro i limiti prefissati». Clemente Mastella, l'uomo politico che passò agli annali per avere detto di preferire i mercati rionali ai mercati internazionali, e quindi dovrebbe avere una certa conoscenza anche del calciomercato, emette la sentenza definitiva: «Temiamo solo che le sue parole sull'economia e sull'inflazione siano uguali al fermo e deciso no all'acquisto di Nesta pronunciato una settimana fa». Ma questo è il catastrofismo dell'opposizione, l'abuso della critica che conduce alle self-fulfilling prophecies, le profezie che avverano catastroficamente se stesse. La ripresa verrà, una volta o l'altra. Il campionato non parte? Il Cavaliere, uomo legatissimo al calcio, un giorno lontano, quando i rossoneri avevano sconfitto la Steaua Bucarest, chiarì il suo pensiero geotattico: «I valori dell'Occidente hanno battuto il socialismo reale». Di questi tempi, invece, intervistato sulle domeniche senza calcio, quella sagoma di Berlusconi l'aveva già messa sullo scherzo, mentre il vecchio bolscevico e disfattista D'Alema si imbarcava in sarcasmi su un governo incapace perfino di fischiare il calcio d'inizio del torneo: «È la rivincita delle mogli, delle fidanzate e del turismo: la domenica si possono fare bellissime gite». Appendice di un romanzo Il campionato dopo il rinvio di due settimane ricomincia a metà settembre, in seguito a interventi del governo, trattative furibonde, contumelie alla Alvaro Vitali fra presidenti di società (Franco Sensi: «Galliani non conta un c
») e alla fine l'elargizione di una mancia alle squadre minori della serie A, che avevano minacciato di lanciare una loro piattaforma televisiva e di organizzare tornei alternativi al torneo nazionale. Francesco Totti alla vigilia della ripresa si confessa con il «Corriere della Sera», che gli chiede come si sente ad avere sostituito i carabinieri nelle barzellette, e dopo avere ammesso che la situazione di bersaglio fisso dell'ilarità popolare non gli piace, si scarica la coscienza in chiave campanilistica: «Tutto questo succede perché sono romano
al Nord mi hanno messo sotto tiro». Fra i protagonisti del Mondiale coreano-giapponese, l'arbitro Moreno viene accusato di corruzione, si difende con una certa animosità rivendicando la perfezione dell'arbitraggio di Corea-Italia e paragonando tutti gli italiani a Mussolini, ma poi fa il patatrac: nella partita fra il Liga di Quito e il Barcelona di Guayaquil, concede 12 minuti di recupero nei quali la squadra di casa ribalta il risultato e vince 4-3 (al novantesimo era in vantaggio il Barcelona per 3- 2). Fischia due rigori dubbi, espelle due giocatori, concede e poi annulla un gol regolare, convalida il gol decisivo un attimo dopo avere fischiato la fine. Scrive madornali falsità nel referto. I tifosi del Barcelona lo accusano di avere favorito la squadra di Quito in vista della sua candidatura come consigliere municipale della capitale. La commissione arbitrale ecuadoriana lo sospende a tempo indeterminato; potrebbe essere radiato. Quanto a Ronaldo, al Real Madrid si infortuna immediatamente: ma promette un recupero rapidissimo (intanto i suoi procuratori vengono misteriosamente emarginati; Moratti dice che ha fatto la figura di quello che piatisce un ingaggio). I medici madrileni dicono che non sarà più il giocatore di una volta. Il contratto prevede la possibilità di un infortunio grave. Come volevasi dimostrare. Insomma, la storia continua. Ma un pensiero dev'essersi insinuato nella mente di tutti, dai dirigenti calcistici ai tifosi. E se fosse che il grande show non vale il biglietto? E che quindi il grande business è una costruzione artificiosa, dove tutto è sovrastimato? Proprio la logica mercantile, «capitalistica», contraddice uno dei fondamenti del calcio, e cioè il legame metafisico fra le squadre e i tifosi. Quanto tempo ci vorrà ancora, prima che gli appassionati si rendano conto che c'è una sfasatura irreparabile fra la passione calcistica e il funzionamento economico di ogni singola società? Che fra la logica del tifo e la logica delle società per azioni non c'è compatibilità? Ma lasciamo sullo sfondo il fatto che appassionarsi al Milan o alla Juventus equivale più o meno a tifare per l'Eni o per Mediobanca; la realtà è che i più sottili sospetti sulla razionalità del pianeta calcio avevano cominciato a diffondersi nella stagione scorsa, allorché una società come il Chievo Verona, composta da scarti e ritagli di tutte le categorie del calcio professionistico, appena promosso in serie A aveva infilato un girone d'andata strepitoso, finendo poi il campionato ai piani alti della classifica. Da un lato era un miracolo: una buona società, un eccellente direttore sportivo dal suggestivo nome di Giovanni Sartori, un ottimo allenatore, una magnifica organizzazione di gioco. Ma dall'altro lato il fenomeno-Chievo, stipendi all'osso e bilancio ridicolo rispetto alle altre squadre, rappresentava un fenomeno imbarazzante. Rischiava di essere la dimostrazione sul campo - in tutti i sensi - che il calcio italiano era una bolla finanziaria, organizzativa, tecnica, mediatica. Durante il campionato scorso risultava esilarante sentire gli allenatori delle squadre altolocate che parlavano con compunzione della forza del Chievo, squadra di un sobborgo di Verona assurta al ruolo inopinato di spauracchio. All'avvio della nuova stagione, niente vieta di continuare a cullare la consueta illusione di ogni annata: ma può anche darsi che il gioco non appaia più così entusiasmante, che il «dibbattito» si riveli sempre più logoro, e che le barzellette non facciano più ridere. Che il re sia nudo è già stato gridato. Bisognerà vedere se il calcio italiano continuerà a credere ai propri miti, e se l'illusione, nel trionfo mediatico delle «facce da pirla» e del loro look trendissimo, continuerà a essere più forte della realtà
Il Mulino, 03-04 2003
La tv, la politica e l’antidoto del mercato
Nello scorso mese di marzo si è constatato senza possibilità di dubbio come la televisione rappresenti un problema politico; e subito dopo come questo problema politico si sia dilatato fino a rivelarsi un severo problema istituzionale. Non che prima potessero esserci tante incertezze in proposito. Ma l'autentica nevrosi che ha sovreccitato tutto il sistema politico durante i giorni che hanno condotto alla nomina del nuovo Consiglio d'amministrazione della Rai è l'esemplificazione più chiara della portata politica che viene attribuita al controllo della televisione pubblica, nel contesto della situazione patrimoniale che investe il presidente del Consiglio; e il processo decisionale che ha condotto alla soluzione del caso creatosi con la caduta del Cda precedente, presieduto da Antonio Baldassarre, costituisce la prova che la questione politica si proietta inevitabilmente, e non proprio con riflessi positivi, sulle presidenze delle Camere, a cui la legge del 1993 assegna la titolarità della nomina. Perché la televisione è una risorsa politica Nell'attesa di conoscere l'esito parlamentare della cosiddetta legge di sistema, messa a punto dal ministro delle Comunicazioni, Maurizio Gasparri, e a cui l'Ulivo oppone i soliti duemila emendamenti, conviene provare a definire alcuni aspetti di fondo, riguardanti l'orizzonte contemporaneo della televisione generalista, nei quali si può riscontrare come agisca l'intreccio fra politica e struttura televisiva. Prima di tutto, è utile chiarire le ragioni per cui oggi la classe politica considera il sistema della televisione, e in particolare l'apparato della televisione di Stato, come una risorsa cruciale per la formazione e il mantenimento del consenso politico. C'è in primo luogo l'evidenza secondo cui l'assetto proprietario delle reti Mediaset, in quanto riconducibile a Silvio Berlusconi, «scarica» sul secondo ramo del duopolio, la Rai, l'interesse essenziale di tutto il sistema politico. Una metà sostanziale della televisione italiana, infatti, non è né contendibile sul mercato né negoziabile in termini politici. Al di là della correttezza giornalistica e dell'equilibrio professionale delle principali figure che gestiscono l'informazione di casa Mediaset, dovrebbe essere chiaro che l'indirizzo culturale, il contenuto e l'orientamento politico delle reti berlusconiane appartengono a una sfera larghissimamente discrezionale. Ciò vuol dire che non esiste nessuna garanzia formale e sostanziale che i telegiornali e i programmi d'informazione debbano rispondere a criteri di imparzialità. Il privato è il privato, e il fatto che la proprietà di mezzo duopolio sia da ricondurre al capo del governo è un semplice incidente della storia politica italiana. È vero che sono state create le norme sulla «par condicio», ma esse sono state attive soltanto durante le campagne elettorali. A sua volta, il pluralismo dei contenuti politici delle reti Mediaset è garantito, ammesso che si possa usare questa espressione, da fattori impalpabili. Nel 1994, conferendo l'incarico di formare il governo a Berlusconi, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro si assunse un ruolo di garanzia informale, come se dovesse essere paradossalmente il sovrano a coprire la responsabilità politica del capo del governo; in seguito la legge sulla par condicio ha tamponato il problema alla meno peggio, ma al prezzo di ulteriori rigidità al dibattito pubblico, tali da recare danno alla stessa libertà di informazione, e di favorire ulteriori processi manipolativi. Nel 2002 Carlo Azeglio Ciampi è ricorso allo strumento non proprio ovvio del messaggio alle Camere, e in seguito a interventi tutti ispirati da una preoccupazione acuta per la tenuta del pluralismo nell'informazione. Su questo terreno è arduo immaginare rimedi, se non radicali. Ma poiché il radicalismo dell'eventuale terapia entrerebbe in conflitto con l'interesse di una parte del sistema politico, è più conveniente per il momento limitarsi all'aspetto diagnostico. Un approccio meno scontato potrebbe ad esempio prendere in considerazione le altre ragioni (altre rispetto a un rischio monopolistico conclamato) per cui l'informazione televisiva riveste un'importanza essenziale per la politica italiana. Ora, se è evidente che i grandi numeri dell'audience televisiva costituiscono un fenomeno di rilievo immediato, tale da testimoniare con nettezza il peso potenziale della televisione nella formazione delle opinioni, meno evidente risulta tuttavia per quale motivo dovrebbe esserci una congruenza così forte tra il controllo del medium televisivo e la formazione del consenso politico. Occorre una visione pessimistica della società italiana per immaginarla come una sudditanza indistinta, dominata dalla potenza intrinseca del medium stesso. E in realtà anche le indagini che hanno cercato di misurare l'influsso della televisione sull'espressione del voto, come quelle del gruppo di ricerca ITANES, mostrano una platea segmentata, su cui non è il caso di immaginare un imprinting deterministico delle visioni del mondo proiettate dal sistema televisivo. È vero che ITANES ha mostrato un particolare parallelismo fra il voto per il centrodestra di alcune fasce sociali, in genere «marginali», e la loro esposizione ai programmi Mediaset; ma questo aspetto semmai offrirebbe una spiegazione supplementare dell'accanimento mostrato dalle parti politiche nella battaglia per il controllo dello spazio televisivo residuale, ovvero la Rai. E non spiegherebbe affatto per quale motivo i ceti più moderni e preparati dovrebbero essere inerti davanti al piccolo schermo fino a risultare succubi della sua influenza politica. Un pessimismo di questo tipo è forse concepibile sul piano di una critica sociale di tipo antropologico, o filosofico: le masse televisive «implose nella privacy» si stagliano come una suggestiva immagine di Carlo Galli (La guerra globale, Laterza, 2002), che allude a un universo sociale amorfo, e in quanto tale strumentalizzabile e manipolabile dalla ratio implicita nel processo complessivo della postmodernità. Tuttavia, prima degli esiti finali della grande omologazione, non è inutile concentrarsi su aspetti più circoscritti, attraverso i quali sia possibile una spiegazione almeno parziale del dominio televisivo sulla formazione dell'opinione pubblica. Anche la spiegazione di Giovanni Sartori, secondo il quale la ricerca obbligata dell'audience innesca un meccanismo qualitativamente al ribasso, appare di taglia troppo ingente per essere efficacemente esplicativa di processi più parziali. Sul terreno empirico in questo momento non è in gioco la televisione «cattiva maestra», bensì il complesso di ragioni che designano il peso politico dell'informazione televisiva in una società come quella italiana. Sotto questo profilo, un'ipotesi da valutare è che l'incombere dei messaggi televisivi vada di pari passo con la perdita di autorevolezza della stampa quotidiana. Le ragioni che possono spiegare questo dato di percezione sono numerose, ma una di esse ha un contenuto più «politico» delle altre. Nei quotidiani d'opinione, la necessità dettata da comprensibili motivi di marketing di apparire il più possibile neutrali rispetto al conflitto politico contingente, e generalmente in posizione «terza» riguardo al confronto fra i due schieramenti ufficiali, tende a stemperare le posizioni o a renderle percettivamente irrilevanti: in questo senso, la denuncia delle viziosità intrinseche al centrodestra e al centrosinistra si qualifica agli occhi di molti lettori non tanto come una posizione sopra le parti, ma come un patteggiamento continuo, una compensazione manieristica e alla lunga irritante. Ancora: l'attenzione meticolosa alle minuzie quotidiane della vita politica romana, la spettacolarizzazione del gossip, il retroscenismo, fanno perdere di vista la portata reale del confronto politico; mentre il logorio inevitabile dei commentatori principali, ciascuno preoccupato di non essere identificabile come una figura sbilanciata verso uno schieramento, può rendere irrilevanti le loro posizioni, e condurre il pubblico a una sostanziale diffidenza verso i loro giudizi. Detto a margine, ciò contribuisce inoltre a spiegare il successo - ovviamente di critica - di un giornale come «Il foglio», in quanto il quotidiano di Giuliano Ferrara si propone come il campione di un'informazione partisan, senza dissimulazioni retoriche. O viceversa spiega il successo di mercato dell'«Unità» diretta da Furio Colombo e Antonio Padellaro, che ostenta un atteggiamento critico più estremizzato di quanto non sia la linea del suo partito di riferimento. Su questo sfondo, pur tratteggiato con sommarietà, la brutalità espressiva dell'informazione televisiva assume un segno di forza grandissima. Mentre la carta stampata approfondisce e moltiplica, senza per questo risultare autorevole e credibile, il piccolo schermo seleziona e intensifica, diventando nel medio periodo molto più persuasivo. Oltretutto, si nota facilmente che la televisione si appropria con prontezza degli elementi di novità che appaiono sui giornali, e li proietta in tempo reale nell'opinione pubblica, facendoli diventare ulteriori schegge della propria sfera di contenuti politici e di immagini pubbliche. Quando la televisione «produce» lassetto politico In televisione il pluralismo è una condizione necessaria ma non sufficiente ad assicurare un'informazione distaccata o «corretta». Le possibilità distorsive offerte dal montaggio, dalla titolazione, dalle scalette dei telegiornali, dalla scelta degli argomenti e dal taglio e dal contesto delle dichiarazioni pubbliche sono talmente numerose per cui la faziosità si può esprimere anche in un prodotto ineccepibile dal lato professionale. Ma non è tutto. Si è dato con bella chiarezza almeno un caso in cui è stato lo stesso formato di una trasmissione politica a sovrapporsi in modo prepotente sul processo politico in corso, assecondando e nello stesso tempo influenzando l'esito di una fase politica. Si ricorderà infatti che nella campagna elettorale del 1994 esistevano tre entità politiche in competizione. Il bipolarismo era ancora in formazione, e sulla scena politica erano presenti l'alleanza capeggiata da Berlusconi, la «gioiosa macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto, e il Patto per l'Italia siglato da Mario Segni e Mino Martinazzoli. Ebbene, il clou di quella campagna fu rappresentato dal confronto, quello sì «bipolare» fra Berlusconi e Occhetto negli studi di Canale 5. Con ogni probabilità il polo centrista era stato già sconfitto da un sentimento collettivo, suggerito dai mezzi d'informazione e da molti improvvisati fondamentalisti del maggioritario, secondo cui nel nuovo schema elettorale lo slogan di fondo era «o di qua o di là», senza la possibilità di sfumature intermedie; tuttavia il confronto fra il capo dei moderati e il leader dei progressisti esprimeva anche plasticamente la necessità o l'obbligo di adeguarsi a un principio alternativo, a una scelta esclusiva, alla cogenza aristotelica del «tertium non datur». In chiave di sistema, questo rende manifesta l'importanza strategica dell'accesso all'informazione; d'altronde, è noto che, sottoposti a un test demoscopico, numerosi elettori inglesi negli ultimi decenni dichiaravano la propria disponibilità almeno astratta a votare per il «terzo partito», uscendo dalla gabbia del confronto bipartitico fra Labour e Tory, «se i liberaldemocratici avessero una possibilità di vittoria»: il che dice qualcosa sull'esistenza di barriere all'ingresso del mercato politico-elettorale, dal momento che le chance di successo nelle urne dipende anche dalla presenza e dalla visibilità nel dibattito pubblico, ovvero dall'accesso alla risorsa dell'informazione di massa e dal modo in cui il sistema dell'informazione presenta la competizione elettorale. Come si sa, il polo centrista alle elezioni del '94 vide sacrificati sull'altare del bipolarismo nascente i propri sei milioni di voti. In seguito, i casi sono stati meno clamorosi, dal momento che la macchina bipolare si era andata assestando, e il confronto si imperniava sui due schieramenti principali: tuttavia non occorre una mentalità particolarmente incline alla dietrologia per accorgersi che l'ampio spazio dedicato dai talk show a Fausto Bertinotti non rispondeva soltanto all'interesse giornalistico per l'oltranzismo sofisticato del capo di Rifondazione comunista, ma aveva come sottoprodotto anche la conseguenza di recare danni seri alla compattezza e alla capacità di attrazione dell'Ulivo. E forse è di qualche rilievo che alle elezioni del 2001 alcuni partiti come L'Italia dei valori di Antonio di Pietro, la Lega di Bossi, il cartello postdemocristiano Ccd-Cdu, e il movimento di Sergio D'Antoni Democrazia europea non siano riusciti a raggiungere la soglia di sbarramento del 4 per cento al proporzionale: un segno della loro irrilevanza numerica o, anche, un prodotto della semplificazione informativa? La lottizzazione di maggioranza Una delle conseguenze più palesi del «bipolarismo non temperato» deriva dal fatto che la formula maggioritaria si è impressa a forza su un'architettura istituzionale, e su quella serie di convenzioni che i giuristi riferiscono alla costituzione materiale, investendone profondamente la tenuta. Ai tempi della scoppoliana «Repubblica dei partiti», la spartizione politica delle posizioni di vertice nell'establishment pubblico e i suoi criteri di attuazione costituivano un sub-sistema pervasivo. Se i partiti di governo gestivano in regime di monopolio pratico gli enti di Stato, con l'Iri e l'Eni che esemplificavano la logica della coabitazione democristiana e socialista, esistevano ampi settori, a cominciare dall'elezione del capo dello Stato per venire agli istituti parlamentari, dalla presidenza delle Camere alle commissioni parlamentari, in cui il ruolo dell'opposizione comunista era riconosciuto e negoziato. La Rai era l'esempio forse più plateale di quella che Alberto Ronchey definì «lottizzazione». La spartizione avveniva per aree di influenza, si delineava nel controllo delle reti, nella direzione dei telegiornali, nelle nomine di tutta la costellazione dell'emittenza pubblica, nelle assunzioni dei giornalisti. Una volta che il metodo maggioritario ebbe travolto il sistema di pesi e contrappesi, risarcimenti e veti su cui si basava la convivenza politica e parlamentare, le ripercussioni furono vistose. Mentre in precedenza la televisione di Stato garantiva un pluralismo contrattuale, in cui il servizio pubblico si qualificava come la camera di compensazione della trattativa politica, la durezza implicita del sistema maggioritario non poteva non squilibrare anche il balance of power televisivo. All'epoca della proporzionale le convenzioni accettate consentivano una rappresentanza sufficientemente congrua con la consistenza dei partiti. Il calcolo dei rapporti di potere permetteva ad esempio una divisione «verticale» delle reti e dei telegiornali, ancorandoli al ruolo dei tre pilastri principali del sistema politico di allora (Dc, Psi e Pci). Sotto i cartelli di appartenenza politica dei vertici, la logica della spartizione e della compensazione dava luogo a una trama fittissima che alla fine produceva un rispecchiamento degli equilibri politici generali. Che il sistema fosse perverso è fuori discussione; ma sembra altrettanto chiaro che l'impatto del maggioritario abbia prodotto l'effetto dell'elefante nella cristalleria. Come se la dittatura della maggioranza si fosse sommata al manuale Cencelli. Il primo presidente del Cda nominato dal Polo delle libertà (con Irene Pivetti e Carlo Scognamiglio al vertice delle Camere), ovvero Letizia Moratti, è passato alla cronaca per avere esplicato un programma di gestione della Rai orientato a rendere la televisione pubblica «complementare» alla programmazione delle reti Mediaset. Il che significa che dal duopolio formalmente competitivo si passava automaticamente a un duopolio collusivo. Quanto al Cda nominato dall'Ulivo, il suo presidente, Roberto Zaccaria, ha interpretato la sua parte proponendosi in modo esplicito all'incirca come un leader politico vicario (per un disinibito editoriale del «Foglio» il suo Cda «è affondato nella più bestiale faziosità elettorale»). Infine, il Consiglio d'amministrazione nominato dopo le elezioni del 2001 ha reso manifesto che la lottizzazione era divenuta doppia, interessando sia le posizioni attribuite alla maggioranza sia le nomine riferibili all'opposizione. La formula del «3+2» ha esordito con la soluzione di per sé grottesca di un presidente che elegge se stesso, sciogliendo lo stallo fra consiglieri di maggioranza e d'opposizione con il proprio personale voto. In seguito la lunga, lenta, interminabile caduta del Cda presieduto da Baldassarre, dopo le dimissioni dei consiglieri di centrosinistra Carmine Donzelli e Luigi Zanda, e poco dopo del centrista ago-della-bilancia Marco Staderini, ha messo in pubblico l'insostenibilità perfino estetica dei criteri di nomina, dei loro risultati pratici e dei loro esiti politici e istituzionali. Il destino della terzietà Per reagire al discredito suscitato dalla fine ingloriosa del Consiglio d'amministrazione dei «giapponesi», del Cda «Smart», i presidenti di Camera e Senato avevano una sola carta: riunirsi in separata sede e uscirne solo con il foglietto con la cinquina dei designati. Ma questa è un'ipotesi astratta, eroica nel modo in cui viene esposta e ragionevolmente impraticabile sul piano empirico. Quando Marcello Pera ha escogitato la trovata di replicare nel Cda la formula che vige alla Commissione parlamentare di vigilanza (con la presidenza affidata a un membro dell'opposizione), almeno in un primo tempo è sembrato che essa non fosse più che un escamotage causidico per sparigliare il gioco. Ma, subito dopo, su quell'intenzione dei vertici parlamentari è sceso un clima di trattativa clandestina. Che cosa fosse accaduto è presto spiegato. Mentre la parte diessina dell'opposizione tentava di tenere ferma una posizione che rivendicava la totale e assoluta responsabilità di Pera e Casini nelle designazioni, il vertice della Margherita si faceva coinvolgere nel negoziato («Sarebbe un errore politico chiudere la porta», secondo le indiscrezioni attribuite a Francesco Rutelli): avanzava terne di candidati, discuteva in silenzio, intravedeva la possibilità di incamerare un vantaggio politico frazionale. Tanto che a nomina avvenuta il diessino Vincenzo Vita avrebbe sintetizzato in questo modo: «Siamo caduti dalla brace nella padella». La designazione a presidente di Paolo Mieli è stata il tentativo estremo di uscire da un groviglio in apparenza inestricabile e ad un tempo lo sbocco politico di questo negoziato condotto sottotraccia. La composizione del Consiglio era stata studiata con una certa accortezza, almeno nel senso che gli altri quattro consiglieri (Francesco Alberoni, Angelo Maria Petroni, Giorgio Rumi, Marcello Veneziani) rappresentavano più che altro un contorno intellettuale alla figura professionale di Mieli. La scommessa consisteva nell'ipotesi che una personalità come quella del direttore editoriale del gruppo Rizzoli-Corriere della sera potesse incarnare il ruolo di garante di tutti gli equilibri politicoculturali intrinseci alla Rai, di gestore diplomatico dei prevedibili conflitti futuri, di ispiratore culturale di una televisione sopra le parti (o meglio, in cui le parti trovassero una continua mediazione). A posteriori, è netta la sensazione che l'attribuzione a una sola persona dell'insieme di queste funzioni fosse all'origine della debolezza della designazione. La nomina del Consiglio inoltre appariva inevitabilmente squilibrata se si considera che, al di là della proclamata autonomia dai partiti dei suoi componenti, non si vedeva nessuna figura che potesse «garantire», secondo il normale codice spartitorio, uno dei partner di governo, ossia la Lega. Non appare un caso che il primo e più violento attacco contro il presidente designato sia venuto dalla prima pagina della «Padania», mentre Umberto Bossi non nascondeva diffidenze spirituali significative rispetto a «Mielig»: «È un sessantottino, e io non dimentico». Tutto il resto, comprese le scritte antiebraiche alla sede Rai di Milano, ha contribuito più che altro ad agitare le acque. La diffidenza se non l'ostilità di Silvio Berlusconi per il direttore nel 1994 che aveva pubblicato la notizia dell'invito a comparire spedito al premier dal pool di Milano, e che nella campagna elettorale del 1996 aveva scritto sul «Corriere » un editoriale inequivocabilmente avverso al Cavaliere, costituiva un ostacolo forse non insuperabile, se si tiene conto delle sperimentate capacità equilibratrici di Mieli; mentre i punti subito rivendicati dal presidente «sotto riserva», cioè la nomina di un nuovo direttore generale, le richieste retributive e l'annuncio del ritorno in prima serata di giornalisti chiaramente d'opposizione come Enzo Biagi e Michele Santoro («Cominciamo bene», aveva commentato Berlusconi), che in un primo momento erano sembrate un test per misurare preventivamente il raggio della propria autonomia, in pochi giorni hanno contribuito a bruciare una designazione che sotto l'apparenza di una solidità ineccepibile conteneva evidentemente una criticità politica rilevante. La caduta della designazione di Mieli, per «difficoltà di ordine tecnico e politico» assecondate dal ticket Bossi-Tremonti, è comunque significativa anche per alcuni effetti collaterali. Secondo le interpretazioni più ottimistiche, l'«invenzione» del Cda presieduto da una personalità d'opposizione ha fatto compiere un passo avanti alla politica italiana. Lo ha sottolineato lo stesso Mieli: «Il mio stato d'animo è quello di uno scienziato che ha assistito ad un esperimento in provetta assolutamente inedito il cui risultato sarebbe stato utile per tutti». E ancora: «In questa settimana è come se nel Paese si fosse manifestato un bisogno generale di professionalità e terzietà. È un segnale positivo e fruttuoso. Resta in piedi un metodo nuovo: per una volta mi è sembrato di vedere venir fuori le parti responsabili dei due schieramenti». Secondo questa tesi, con una decisione di questo genere il bipolarismo italiano dimostrerebbe di non essere più in una fase di «guerra civile». Si sarebbero individuati settori della vita nazionale tutelabili rispetto alla logica dell'occupazione politica maggioritaria. Ma si può immaginare che abbia un futuro una concessione dall'alto determinata da un momentaneo calcolo di opportunità? Che cosa resterebbe delle convenzioni nel momento dell'acuirsi del conflitto politico? Secondo una visione più venata di pessimismo, la rinuncia forzosa di Mieli ha messo in chiaro invece un aspetto ulteriore del rapporto fra politica e informazione televisiva. Questo aspetto ulteriore è la concreta impotenza di quelle posizioni politico-culturali che si fanno ascendere all'idea di «terzietà», cioè di dichiarata distanza dal conflitto fra gli schieramenti, non appena esse vengono a contatto con quell'ambito in cui la politica esprime la durezza delle sue decisioni. La terzietà, o il «terzismo», di cui Mieli è uno dei teorizzatori più assidui e convinti, è un'eccellente disposizione intellettuale, che può esprimersi nelle scelte culturali, nell'osservazione analitica del confronto politico, nella sollecitazione alla maggioranza affinché non cada in tentazioni sfrontate, e all'opposizione perché non si rattrappisca in un aventinismo ostruzionistico. Ma non regge allorché l'esercizio del potere, con le sue divisioni così nette, e con gli attriti anche sul piano personale che implica, porta alla scelta fra un sì e un no, allo sciogliersi traumatico di un'alternativa netta. Per completezza descrittiva si può aggiungere che, in modo simile, si è rivelata illusoria l'idea che a contatto stretto con la politica potessero avere un ruolo prevalente le reti di solidarietà culturale e professionale di cui Mieli è uno degli snodi più importanti nell'informazione italiana attuale. Secondo le prime ricostruzioni, poteva sembrare che la designazione del direttore editoriale del gruppo Rcs fosse il risultato dell'appoggio e del lavorio di un network che oltre a Mieli si estendeva agli ambienti marcati dall'iniziativa politica e di indirizzo ideologico di Giuliano Ferrara e del «Foglio». Anche in questo caso si è visto che il potere di queste reti (di solidarietà professionale, di «complicità » giornalistica con i suoi giochi di sponda) sarà sicuramente utile per costruire un consenso nell'opinione pubblica e anche in alcuni settori della realtà politica, ma si arresta di fronte al primato della decisione politica. Una soluzione radicale Ciò che si è subito dimenticato è che la rinuncia di Mieli e la nomina della Annunziata erano state precedute dalla trovata estemporanea del Cda Baldassarre-Albertoni di spedire Raidue a Milano; dalla resistenza accanita fino alla provocazione dei due consiglieri, che per andarsene hanno dovuto subire la minaccia di una mozione di sfiducia nella Commissione di vigilanza da parte An e Udc; da una sfilata impressionante di candidature, da Enzo Cheli a Ottaviano Del Turco, e nel mezzo da un pazzesco ballon d'essai berlusconiano, che per il Cda spiattellava una cinquina capeggiata dal presidente di McDonald's Italia, Mario Resca, e alla direzione generale un tale «leghista di governo», ex presidente della provincia di Varese, parcheggiato da Bossi alla direzione del centro di produzione Rai di Milano (funzione che svolgeva da sette mesi). Una «vicenda lunga e grottesca», quella del Cda della Rai secondo «L'Osservatore romano». Sulla scia di questi avvenimenti si è avuta la conferma implicita e definitiva che nelle condizioni date è illusorio pensare che siano sufficienti buone motivazioni di carattere comportamentale per risolvere uno stringente problema politico sistemico. Vale a dire che anche la soluzione individuata con esatto tempismo e con chirurgica esattezza politica dai presidenti delle Camere dopo la rinuncia di Mieli (cioè la designazione come presidente di Lucia Annunziata che si è aggiunta ai quattro consiglieri già nominati, con il via libera di Piero Fassino e la fierissima e ormai inutile opposizione di Francesco Rutelli, costretto ad accettare a denti stretti il colpo della risposta diessindalemiana) segnala una formula che affida alla personalità dei designati, e in special modo della neopresidente, la tutela di tutto ciò che parlando della Rai si associa a termini come «servizio pubblico», pluralismo, autonomia dalla catena di comando politico. Con tutto questo, forse è venuto il momento delle soluzioni radicali, ed è ovvio che come si è accennato in apertura le soluzioni radicali siano politicamente impegnative. Occorrerebbe ad esempio mettere a frutto l'idea che nel nostro Paese il processo di privatizzazione dell'economia pubblica è stato utile non solo e non tanto nel tentativo di snellire un apparato economico e industriale che per molti aspetti era una macchina inefficace; ma soprattutto perché ha sottratto ai partiti un sistema feudale, una manomorta che era il campo ideale per la spartizione e lo scambio consortile. Qualcuno sa immaginare, in uno scenario controfattuale, che cosa sarebbe accaduto se il sistema maggioritario avesse invaso anche il sistema di norme non scritte che prima presiedeva alle nomine nell'economia pubblica, nelle banche, nell'industria di Stato? La domanda grazie al cielo è irrealistica, ma solo perché nel frattempo si è largamente privatizzato. Tuttavia, seguendo la logica che sottostà a questa domanda, è pressoché impossibile resistere alla suggestione che oggi, per ciò che riguarda l'informazione televisiva e la televisione tout court, la «cosa» che assomiglia di più alla libertà, al pluralismo, alla garanzia che posizioni politicamente e culturalmente diverse siano adeguatamente rappresentate è il mercato. Non regole imposte dall'alto, ma il principio della concorrenza, della ricerca di un proprio pubblico, della possibilità di accesso paritario alle risorse pubblicitarie. Se ciò significa una inevitabile diffidenza verso la difesa di «valori» difficilmente precisabili come il servizio pubblico, va tenuto presente, a scanso di equivoci, che mercato significa mercato, e concorrenza significa concorrenza. È vero che alla privatizzazione della Rai si accennava anche nelle «88 tesi» che costituivano l'embrione programmatico dell'Ulivo di Prodi nel 1996. Ma il corollario della richiesta di mercato è che non si risolve il problema del duopolio imperfetto, o del duopolio collusivo, semplicemente mettendo sul mercato la metà del duopolio medesimo. Se mercato dev'essere, che mercato sia. E se questo contiene implicitamente anche la prospettiva dello smantellamento della posizione di Mediaset, non è il caso di menare scandalo per l'attacco alla proprietà privata «inviolabile» o arrestarsi di fronte alla definizione preventiva dell'intrattabilità della pratica. Ciascuno può valutare anche intuitivamente che cosa significherebbe un sistema televisivo con sei-sette protagonisti liberi da filiazioni politiche certificate. È vero che in prospettiva la legge Gasparri modifica le modalità di nomina, prevedendo che il presidente sia indicato dall'azionista pubblico, il ministro dell'Economia, con la ratifica della Commissione parlamentare di vigilanza con la maggioranza «di garanzia» dei due terzi (salvo nuovi interventi riduttivi già profilatisi nell'iter parlamentare). Ed è vero che il futuro può essere segnato da un sistema dell'informazione in cui satellitare, digitale, procedure web, sistema generale delle telecomunicazioni modificheranno le condizioni di mercato attuali, rendendo forse obsolete le considerazioni sul mercato imperfetto della televisione generalista. Eppure, se si accetta la nozione che il pluralismo costituisce una questione di principio, conviene prenderla alla lettera: e cominciare, per l'appunto, dal principio.