LA STAMPA
LA STAMPA, 06.08.1998
NE’ GUERRA NE’ SECESSIONE
La rivendicazione da parte dei «Lupi grigi di Torino» dell'invio del pacco bomba a Giuliano Pisapia è uno di quei segnali indecifrabili che segnano tutti gli itinerari terroristici. Per adesso l'unica cosa che si può dire con un minimo di certezza è che l'«emergenza squatter» ha cambiato radicalmente di segno. Fino a qualche giorno fa, prima della comparsa degli ordigni esplosivi, appariva come una storia di autoesclusione metropolitana. Oggi invece il gioco è cambiato: siamo di fronte a qualcosa che innesca un cortocircuito mediatico. È presto per maturare convinzioni serie. Non si sa da dove vengano effettivamente le bombe, chi le abbia confezionate e spedite, se avevano uno scopo più che dimostrativo, se esiste un'ala o una rete insurrezionale dei centri sociali. Si capisce solo che la scelta dei destinatari si iscrive in una «strategia della suggestione»: chiunque l'abbia ideata e messa in pratica ha individuato alcune figure che hanno avuto un ruolo simbolicamente forte, come il magistrato Laudi e il giornalista Genco, o altre che hanno cercato di tenere attiva una mediazione con il mondo dei centri sociali, come il consigliere regionale verde Cavaliere e il presidente della Commissione giustizia della Camera, Pisapia. Prima dei pacchi bomba, si era capito che l'emergenza-squatter non era un caso soltanto torinese. Il suicidio di Edoardo Massari e di Maria Soledad Rosas erano diventati in diverse città italiane l'oggetto di una mitologizzazione antisistema. Erano apparsi disegni e scritte sui muri in cui queste due morti venivano equiparate a un assassinio e a un martirio. Si erano create insomma molte delle condizioni necessarie per dilatare una tragica storia locale alla dimensione di un mito antagonista serpeggiante nelle aree metropolitane del nostro Paese. Per quanto rudimentali, le bombe hanno fatto rumore come se fossero esplose davvero. Di fronte alla rivendicazione, c'è anche la dissociazione di due centri sociali torinesi, che parlano di «provocazioni». In attesa di qualche spiraglio sulle responsabilità effettive, per adesso non serve a nulla immaginare complotti dei servizi, così come è prematuro giurare che in certi ambienti della marginalità sociale qualcuno abbia deciso di saltare il fosso (passando a una strategia non dissimile da quella di Unabomber, il terrorista americano autore di attentati in chiave antitecnologica). Tuttavia, come si è detto, certo è che oggi muta sensibilmente il profilo degli squatter. Erano stati descritti come protagonisti di una deliberata esclusione dalla vita sociale e istituzionale delle città, come clandestini delle metropoli, riottosi a qualsiasi forma di integrazione, e oggi li ritroviamo al centro di un processo modellato sugli schemi della comunicazione. Ciò non è privo di implicazioni. Intanto ci dice che non è appropriato illustrare i centri sociali e i circuiti antagonisti come un mondo segnato esclusivamente dalla subalternità culturale. Anche prescindendo dai pacchi bomba, la realtà degli squatter comunica. Comunica la sua marginalità, ma comunica anche la sua specificità culturale, la sua separatezza ma anche le sue mitologie, i suoi consumi, la sua musica, i suoi riti di gruppo e il suo modello di aggregazione. Proprio per queste ragioni, era sociologicamente sbagliato considerare gli squatter come un'espressione del disagio sociale classico. Non si trattava di marginalità subita, di gruppi spinti al di là della convivenza urbana dalle forze del mercato e precipitati nell'esclusione senza capacità di recupero. E dunque non c'era alcuna possibilità di trattare gli squatter nel modo in cui le istituzioni trattano le sacche urbane di emarginazione. Non servivano a niente i sussidi e i servizi sociali, cioè tutto ciò che tenta di recuperare alla vita collettiva ciò che si è disintegrato sotto pressioni irresistibili. Nello stesso tempo, detto e ribadito che tutti hanno il diritto sovrano di consegnarsi alla marginalità più estrema, a patto di non ledere le regole di legalità a cui si attiene la maggioranza dei cittadini, va anche sottolineato che la realtà degli squatter non può essere affrontata esclusivamente in termini di repressione. Puntare solo sull'attività di polizia probabilmente non otterrebbe altro risultato se non quello di accentuare di riflesso l'orgoglio della separatezza, la qualità «ideologica» dell'autoesclusione, la mitologia dell'antagonismo verso una società ostile. Occorre piuttosto tenere aperti dei flussi di comunicazione, anche parziali e precari. In modo che la scelta della separatezza, della marginalità definitiva, non diventi una scelta di contrapposizione completamente deregolata e potenzialmente violenta, sul piano individuale o collettivo, come trasgressione o come rivolta. Adesso sappiamo che alcune entità sociali hanno operato una loro secessione. Bisogna evitare che nel nome di quella secessione dichiarino una qualche guerra o guerriglia, magari condotta approfittando degli strumenti della comunicazione e della loro manipolabilità. Perché con le nuove marginalità è obbligatorio convivere: e per una convivenza appena decente è bene evitare che vengano creati nemici assoluti. Meglio una realistica diplomazia che la dichiarazione di una guerra che nessuno sa come sarebbe praticata e dove condurrebbe.
LA STAMPA, 24.07.1998
LA RISORSA ESTREMA DELLE RIFORME
Buona parte della classe politica sta guardando al referendum sull'abrogazione della quota proporzionale nella legge elettorale come a un inciampo fastidioso. L'altra parte lo considera una minaccia pericolosa. Il governo lo guarda come l'unica mina su cui potrebbe saltare. Il fastidio e la minaccia vengono intensificati dalla sorpresa, cioè dal fatto che fino non troppe settimane fa sembrava che la raccolta delle firme, cominciata in sordina, dimostrasse un interesse molto tiepido dei cittadini. Ora invece con il referendum si dovrà fare i conti. Questa nuova avventura referendaria vede per protagonisti uomini politici dalle speranze deluse, come Mario Segni e Achille Occhetto, outsider della politica come Luigi Abete, liberali spregiudicati e non facilmente omologabili alle logiche di partito come Antonio Martino, con l'aggiunta del personaggio più ingombrante della realtà politica italiana, Antonio Di Pietro. A guardarla con occhio scettico, si tratta di una iniziativa anacronistica. Con i personaggi sbagliati, con i tempi sfasati. Eppure, anche se si dovrà aspettare il vaglio della Corte costituzionale, appare chiaro sin d'ora che il referendum sulla proporzionale è un elemento di dinamismo, in quanto è destinato a riaprire giochi politici che sembravano saldamente chiusi. Il progetto riformista si è arenato nelle secche della Bicamerale, dopo avere dato forma a un progetto di basso profilo. Nell'opinione pubblica si è diffuso un senso di rassegnazione, l'idea che per ciò che riguarda le riforme del sistema politico e istituzionale si fosse raggiunto il massimo, che coincide col minimo, possibile: dopo di che, i partiti si sono riappropriati dello scettro che con i referendum sulla preferenza unica e sulla proporzionale era temporaneamente passato al popolo. Che adesso quasi settecentomila italiani abbiano deciso di firmare per il nuovo referendum, superando con uno slancio inaspettato le debolezze organizzative e le non grandi aspettative con cui l'iniziativa è stata accolta, dimostra che dentro la nostra società circola ancora una volontà se non altro ostinata. Si potrà giudicare ingenuo affidare ancora speranze di cambiamento a una modificazione delle regole: l'esperienza ha mostrato che la capacità di ricatto di alcune parti politiche è insensibile alle leggi elettorali; il Parlamento prolifera di gruppi e sigle politiche; la struttura bipolare è resa incerta dalla persistenza della Lega, dall'irriducibilità di Rifondazione comunista, dall'artificialità dei Poli, dai rigurgiti neocentristi. Insomma, dalla ventata referendaria a oggi si sono visti esiti deludenti o comunque contraddittori. Allora che cos'è il referendum Segni-Di Pietro, un saldo di fine stagione? Sarebbe così se il sistema politico avesse saputo completare la riforma costituzionale, e se nello stesso tempo avesse riformulato una legge lettorale coerente con lo schema bipolare. Come si è visto, il ridisegno delle istituzioni era di qualità mediocre, la storica scelta semipresidenzialista era avvenuta per un incidente di percorso, e la formula elettorale sottostante, basata sul doppio turno di coalizione, era probabilmente peggiorativa del Mattarellum. Dunque è la cattiva prestazione dei partiti e degli schieramenti a ridare legittimità allo strumento referendario. Il quale oggi rappresenta la risorsa estrema per riavviare dal basso il processo riformatore: non tanto attraverso la via del compromesso fra le parti ma come possibile shock politico a cui la classe politica sarà obbligata a offrire una risposta. C'è comunque una differenza consistente rispetto ai primi anni Novanta. Allora i referendum erano, o apparivano, il nuovo contro il vecchio, la società civile coalizzata contro una società politica che subiva senza reagire. Oggi, proprio perché rappresenta un inciampo o una minaccia, il referendum verrà giocato anche dai partiti, cioè diventerà oggetto di lotta politica. Prima i partiti proveranno a sterilizzarlo; se non ci riusciranno, ne faranno l'oggetto di una competizione dalle prospettive imprevedibili. A questi aspetti va aggiunto la forte personalizzazione che il referendum incorpora. Il ruolo di Di Pietro rischia infatti di tramutare la consultazione referendaria in un plebiscito fra opposti: fra garantismo e giustizialismo, fra partitocrazia e populismo, fra politica e antipolitica. Sarebbe un errore disastroso configurare il referendum come un giudizio di Dio su Di Pietro, rappresentante della giustizia di popolo, su Berlusconi, in quanto nemico delle procure, o su D'Alema, per la sua inclinazione partitocratica. Conviene guardare al referendum esattamente per quello che è, vale a dire l'ultima carta di un processo riformatore che rischia di sfumare oltre i confini del millennio. L'ultimo chance di terminare la razionalizzazione del sistema politico. Senza sagomarlo sulle figure e sui problemi dei protagonisti politici. Senza farne una guerra di religione. E magari chiedendo ai partiti, grandi e piccoli, uno sforzo di fantasia: affinché non facciano battaglie sante contro il referendum, che nessuno capirebbe, e perché non lo usino come arma politica l'un contro l'altro, aprendo conflitti che i cittadini sarebbero grati di vedersi risparmiare.
LA STAMPA, 21.07.1998, SOCIETA' CULTURA E SPETTACOLI
ROKES PIANGI E PROTESTA
senza descrizione
LA STAMPA, 20.07.1998
L’ULIVO E LA SINISTRA ITALIANA
L'Ulivo è un albero che appare nei momenti di crisi. Fu fatto crescere artificialmente per battere Berlusconi; poi fu accantonato, e trattato come la sigla esteriore di un'alleanza fra partiti. Naturalmente questa ricostruzione è sintetica sino alla forzatura. Ma se oggi l'Ulivo si rimaterializza nel dibattito politico della sinistra, se Bassolino ha ipotizzato una costituente ulivista, se Veltroni sembrava non aspettare altra esca per agitare il rilancio del centrosinistra come partito o «quasi-partito», in prospettiva forse non ci sarà la grande crisi, ma c'è sicuramente una serie di crisi, piccole e meno piccole. La crisi maggiore è ovviamente quella sulla giustizia, emersa in tutta la sua acutezza dopo le ripetute condanne penali di Berlusconi. Ed è una crisi che investe in pieno il centrosinistra: dall'altra parte infatti, il Polo agisce come una pacchetto di mischia, senza nessuna incertezza; l'Ulivo invece è una baraonda di posizioni, con una lussureggiante varietà di garantisti e non garantisti, di sostenitori delle procure e di fautori del primato della politica e del realismo (fra i quali è certamente Massimo D'Alema). È su questo sfondo che alla Camera il presidente del consiglio Prodi ha attaccato vigorosamente Berlusconi in tema di giustizia. Per sottolineare, con una distinzione implicita fra le segreterie dei partiti e l'opinione pubblica ulivista, che il centrosinistra sarà diviso, ma l'Ulivo è unito; che i partiti della maggioranza avranno idee differenziate sulla magistratura e sui giudici, ma l'Ulivo mantiene verso il capo di Forza Italia il rifiuto metafisico dei primordi ed esprime un sostegno pieno all'ordine giudiziario. La premessa costitutiva di questo atteggiamento è la convinzione che esista effettivamente, ancorché sia poco visibile, una realtà non immaginaria chiamata Ulivo, diversa dai partiti dell'alleanza di centrosinistra e che a essi si sovrappone, nonché capace all'occorrenza di esprimere posizioni proprie, tendenzialmente più vicine ai sentimenti del «popolo», o meglio dell'opinione pubblica, di centrosinistra. Le altre crisi minori avvengono più o meno tutte nella casa dei Ds, e investono inevitabilmente la figura di D'Alema. Non potrebbe essere altrimenti. Al di là del successo elettorale del 1996, e il merito di avere sostenuto lo sforzo per l'euro, il segretario del maggiore partito italiano ha tentato diverse operazioni tutte potenzialmente «storiche», senza riuscire a incassarne una. L'insuccesso che brucia di più è certamente quello della Bicamerale, perché probabilmente rimanda la modernizzazione costituzionale oltre il millennio. Ma difficilmente qualcuno accuserà D'Alema di avere sbagliato i calcoli, con la Bicamerale, e di avere danneggiato così il proprio partito o la propria alleanza. Sotto il profilo più esplicitamente politico, cioè dove le conseguenze possono essere più stringenti, l'errore di D'Alema, o almeno la scelta che gli potrà essere contestata dagli avversari interni, è di avere deliberatamente snobbato l'Ulivo, dopo averlo usato come strumento elettorale, per infilarsi nella vicenda deludente della «Cosa 2» e del partito socialdemocratico. Senza dubbio il processo che ha portato alla nascita dei Democratici di sinistra è stato asfittico. Non solo: mentre il compito primario consisteva nel consolidare il centrosinistra, fissando stabilmente la sua fisionomia, e la presenza nell'alleanza di quella quota di cattolici e di moderati che hanno scelto di schierarsi contro il Polo, la soluzione di D'Alema è sembrata privilegiare il sacro egoismo di partito. Soluzione tanto meno preveggente, almeno a giudizio degli ulivisti, in quanto nel frattempo sono ripartite le grandi manovre neocentriste di Cossiga, che hanno come scopo di minare il confine bipolare e non nascondono di voler ricondurre in una nuova alleanza i Popolari e i laici moderati. Il realismo di D'Alema quindi può apparire come un'operazione senza respiro, che blocca i Ds in posizione marginale, e non lo abilita né per numeri né per idee a candidarsi direttamente alla guida del paese, e che anzi, nella prospettiva più apocalittica, potrebbe consegnare i Ds a una funzione di eterna minoranza. Ieri, agli «stati generali» della sinistra a Napoli, D'Alema non si è sottratto alle sollecitazioni di Bassolino e di Veltroni. Ha dedicato qualche frase all'Ulivo, e si è detto perfettamente d'accordo sulla necessità di restituire profilo politico alla coalizione. Ma lo ha fatto senza riuscire a nascondere del tutto il suo scetticismo. Il senso delle sue parole era essenzialmente: credo a tal punto nell'Ulivo da invitarlo caldamente a farsi vivo. È possibile che il segretario, con il suo realismo scettico, abbia ragione per il presente. Ma se si pensa che il passaggio continuamente rinviato alla «fase 2» del governo ha bisogno di un programma politicamente impegnativo; e, guardando più in là, che per competere politicamente con la destra (quella destra di cui D'Alema sottolinea continuamente che è «maggioranza nel paese») occorre ormai qualcosa in più di un cartello elettorale, forse si può pensare che a Napoli è ricominciato un dibattito su cui si misurerà nei prossimi mesi e anni il potenziale politico della sinistra italiana.
LA STAMPA, 16.07.1998, TUTTOLIBRI
CHAMPS ELISEES: I FUOCHI FATUI DI UNA FOLLA POSTMODERNA
Parigi è sempre Parigi, e la Francia è pur sempre la patria di Voltaire e dei Lumi. E allora, assistere allo spettacolo dei seicentomila che hanno affollato gli Champs Elisées per vedere gli eroi della «vittoria in blu» al Mondiale produceva un effetto spiazzante: proprio come un rigore. A cui si aggiunge la concatenazione con il 14 luglio: un giorno Zidane e compagni, per la festa contemporanea del calcio; il giorno dopo la festa storica per la Rivoluzione. È naturale che una quantità così imponente di folla e di possibili simboli induca a riflessioni in cui il brivido sull'epidermide risveglia pulsioni nel profondo. Ed ecco allora l'epinicio mediatico sulla vincente Francia multietnica, la Francia che si riscopre nazione, la Francia come «una certa idea della Francia»: il 3 a 0 contro il Brasile fa scattare il cortocircuito tra la filosofia e il gioco, fra la politica e la storia, fra lo show e l'ideologia. Meraviglioso, se fosse tutto vero. Ma è vero solo in parte. L'ideologia della vittoria pluri-razziale appiccica etichette di tolleranza e di civiltà virtuali a un problema sociale difficilmente riducibile a virtù civica egemone, la coscienza nazionale recuperata per via calcistica è un velo fragile rispetto alle dinamiche della devolution europea, l'identità francese stinge nell'incertezza sullo sfondo delle spinte «globali». E allora, che ci stanno a fare le migliaia che inneggiano e festeggiano? Esattamente ciò che è stato descritto, fanno da coro al simbolo nazionale ritrovato, espongono un'identità solidale, repubblicana, filosoficamente salda. Ma fanno, anzi sono, anche qualcosa in più. Qualcosa che si sovrappone a tutto questo e lo dissolve: sono un grande spettacolo postmoderno, che un interruttore piccolo e semplice, il trionfo su Ronaldo, ha acceso nel vuoto. Questo flash incongruo illumina Parigi, e rivela il bisogno di comunità, di emozioni collettive, di identificazioni intense. Oggi a Parigi per Zidane, ieri a Londra per Lady Diana, domani chissà dove e per chi: dovunque possa scattare una'identificazione. Solo che questa identificazione è un fuoco fatuo. Il londinese Nick Hornby, in Febbre a 90', sostiene che la condizione naturale del tifoso è «un'amara delusione». Risulta irresistibile dilatare questo pensiero, e sfidare la conclusione che la delusione è la condizione del mondo. Si esulta, per un giorno, quando la fortuna fa ribollire nella coscienza pubblica il tricolore, la Repubblica, la nazione, la Storia. Subito dopo, di quel falò sentimentale restano tracce inerti disperse nella realtà frammentaria. Di fronte alla quale, agitare le bandiere, sgolarsi per la nazione, o fare il tifo per una filosofia apparirebbe come il sintomo non tanto di una pazzia, quanto dell'idea peregrina di poter fare convivere stabilmente i sogni e la realtà. Dato che oggi la vita non è sogno, ai sogni è consentito di esistere, ma solo per un giorno.
LA STAMPA, 16.07.1998
IL GRANDE AZZARDO DEL CAVALIERE
In Silvio Berlusconi c'è una determinazione straordinaria. Basti pensare che buona parte della classe politica italiana, partiti storici come la Dc e il Psi, leader di razza ed esponenti importanti della vita pubblica sono stati spazzati via dall'offensiva giudiziaria. Sotto le inchieste di Mani pulite buona parte del sistema politico si è afflosciata, quasi con rassegnazione, senza nemmeno resistere.. Invece il Cavaliere è sempre lì. Una volta bastava un avviso di garanzia per liquidare un ministro. Lui, pluricondannato, ha fatto diventare le sentenze ai suoi danni la trincea del Polo. Non solo: ieri ha nuovamente attaccato il «disegno politico-giudiziario» di alcune procure, e questa non è una novità; ma ha aggiunto che se gli fosse tolta la libertà personale «sarebbe il loro ultimo errore perché la mia parte politica sarebbe largamente vincente nel paese». Può essere la naturale iattanza di un combattente: già da qualche giorno infatti Berlusconi diffonde sondaggi trionfali sui consensi del Polo e di Forza Italia. Ma può essere anche qualcos'altro. E cioè una scommessa politica, spregiudicata come tutte le scommesse del capo di Forza Italia: la scommessa secondo cui in questo momento si è coagulato un fronte garantista, antigiustizialista, pronto a trasformarsi in un fronte politico. Berlusconi non sta scommettendo a vuoto. Con il passare del tempo è riuscito a imporre l'idea di essere un perseguitato politico. È riuscito anche a trasferire sulle sue posizioni tutto il Polo, dai postdemocristiani al partito di Fini. Anzi, proprio la posizione di An, un partito che non annovera nel proprio passato ispirazioni particolarmente garantiste, e che è stato uno dei più colossali beneficiari dell'opera della Procura di Milano, proprio la posizione di An rivela che la linea di Berlusconi ha avuto successo. In sostanza, il Cavaliere è riuscito nell'impresa di trasformare la propria posizione personale nella questione cruciale della politica italiana. Talmente cruciale che in questo momento, di fronte al dilemma della Commissione parlamentare (d'inchiesta o di indagine, come si discute adesso), tutto il resto sfuma tristemente sullo sfondo. Ormai, ciò che conta è il conflitto terribilmente reale, ma anche terribilmente mediatico, giocato nei tribunali ma anche nell'immaginario, ad un tempo concreto e astratto, fra Berlusconi e la magistratura. La magistratura nel suo insieme: non è possibile infatti distinguere la Procura di Milano o di Palermo dal resto dell'ordine giudiziario. La scommessa di Berlusconi implica necessariamente che il regolamento dei conti avvenga con tutta la magistratura, in quanto istituzione complessiva. Il calcolo non è affatto illogico. Il leader di Forza Italia mette nel conto che il clima è cambiato vistosamente dai tempi di Tangentopoli. Oggi settori consistenti dell'establishment vedono nelle disgrazie giudiziarie berlusconiane qualcosa che li colpisce per interposta persona; e nell'opinione pubblica sembra diffondersi insofferenza per «l'accanimento» del pool di Milano. Ma la razionalità di questo calcolo e della scommessa conseguente forse trascura un particolare. Certo, è probabile che la scorta di indignazione sia esaurita. Tuttavia le velleità di ritorno al passato stanno assumendo una tonalità francamente eccessiva. Cossiga che chiede l'amnistia, i molti che fanno atto di contrizione rispetto al destino di Craxi, il coro dei complici, se non altro, del grande intreccio politico-affaristico chiamato Tangentopoli, che rivendica un ruolo e un avvenire. C'è qualcosa di troppo. Certo, è possibile che la storia del sistema italiano sia ancora tutta da fare, da analizzare con equilibrio e senza demonizzazioni. Ma la consueta genialità strategica di Berlusconi, la capacità di convincere l'opinione pubblica di essere una vittima, l'abilità strepitosa nel vellicare l'anticomunismo del proprio elettorato anche in assenza dei comunisti, si portano dietro anche il fardello di una parata di revenant da fare impressione, insieme a una ventata di restaurazione che lascia disarmati. Per lo spirito provocatorio di Cossiga, gli «straccioni» dell'Udr, il plotone di semi-leader e mezze figure recentemente riemerse nelle sale romane, costituiscono una rivendicazione della politica in quanto tale. Per il Cavaliere, questa specie di esercito della santa fede, di lazzari che vogliono tornare, potrebbe essere al contrario una delle peggiori compagnie possibili. Perché la scommessa di convincere la «gente» di essere condannato ingiustamente può avere successo, malgrado la sua carica anti-istituzionale; ma se in questo modo si legittima il ritorno del passato - di quel passato, così ben noto - anche nella strategia di Berlusconi potrebbe aprirsi una crepa.
LA STAMPA, 08.07.1998
L’INCUBO DELLA GUERRA INFINITA
Ciò che colpisce, nella sentenza su Silvio Berlusconi, non è soltanto il caso del capo dell'opposizione condannato a due anni e nove mesi di reclusione. Questo è l'aspetto più clamoroso, che mette allo scoperto tutta l'oggettiva fragilità della eterna transizione politica italiana, e insieme il potenziale di conflitto ancora inesploso che essa incorpora. Ma alla fine di un lungo iter processuale, l'altro aspetto che deve essere sottolineato è anche l'inevitabilità del procedimento giudiziario, la sua concatenazione irrimediabile, una specie di automatismo fatale. Presa nel suo significato letterale, la sentenza dice che un imputato si è reso responsabile di corruzione. Ma considerare la decisione del tribunale milanese come la semplice conclusione di un atto giudiziario sarebbe una prova di astrazione suprema. Silvio Berlusconi infatti è entrato sul terreno politico portandosi dietro il peso dei suoi affari: erano scomparsi i suoi referenti politici, e quindi il suo impero mediatico rischiava i colpi di un attacco politico. Con una invenzione straordinaria, è riuscito a sconvolgere la politica italiana, e nello stesso tempo anche a risolvere il problema patrimoniale. Ma proprio il trapianto del Cavaliere dall'azienda nella politica ha fatto crescere il problema giudiziario. Da quel lontano 21 novembre 1994 in cui la procura di Milano gli spedì l'invito a comparire, questione politica e questione giudiziaria si sono intrecciate senza scampo. Berlusconi ha aumentato via via i toni delle sue polemiche contro le «toghe rosse», fino alle dichiarazioni furenti di ieri in cui minaccia un'opposizione senza quartiere al «regime». Bisogna osservare che sulla politica aveva nutrito anche molte illusioni. In primo luogo, l'illusione che la politica stessa fosse una protezione sufficiente per resistere a un'offensiva giudiziaria. Cioè che fosse possibile trattare, con le buone, o con le cattive, con il potere giudiziario. Allorché cercò la prima prova di forza, con l'emanazione del decreto Biondi, trascurò il fatto che in quel momento l'opinione pubblica e settori consistenti dei partiti offrivano un sostegno travolgente a Mani pulite. Più tardi, l'illusione fu che si potesse risolvere il problema giudiziario attraverso un patto con il più importante interlocutore politico, Massimo D'Alema. La sede del patto era naturalmente la Commissione bicamerale; il suo contenuto un accordo costituzionale che ridefinisse la giustizia in termini così garantisti da implicare una certo grado di revanche sulla magistratura; il lato illusorio era la speranza che un caso personale potesse essere risolto con una riforma «di sistema». E quando mai: in un sistema politico senza più o senza ancora grandi padrini, la magistratura è straordinariamente più libera, meno soggetta ai condizionamenti che derivavano per esempio dagli equilibri della Prima Repubblica. Oltretutto, la ricerca dell'accordo «costituente» sulla giustizia rendeva evidente l'errore di atteggiamento di Berlusconi: l'errore di non avere semplicemente individuato e denunciato l'ostilità di una certa procura, ma di perseguire obiettivi generali di ridimensionamento della magistratura. Un risultato comunque l'ha ottenuto, Berlusconi; anzi, più d'uno. Ha diffuso ampiamente nell'opinione pubblica l'idea che «l'accanimento giudiziario» nei suoi confronti sia qualcosa di democraticamente e civilmente intollerabile. Inoltre è riuscito a spostare sulle proprie posizioni tutto il Polo. È sufficiente leggere le dichiarazioni di Gianfranco Fini («una sentenza politica degna di un tribunale speciale»), per rendersi conto del cambiamento avvenuto nel centrodestra, e in un partito dalla storica pulsione giustizialista. Il fatto è però che questo risultato complica ancora di più la situazione. Perché trasforma la «questione Berlusconi» in un conflitto politico a vastissimo raggio. Ci si immagina infatti che a sinistra ben pochi abbiano intenzione di mettersi di traverso rispetto al pool e al tribunale di Milano. Qualcuno tacerà, qualcun altro dirà che nessuno può essere «legibus solutus» e che occorre avere fiducia nella giustizia. Il che agli occhi di Berlusconi equivale a una complicità di fatto con la magistratura. Se la lotta politica si intensificasse, c'è poi da scommettere che l'arma impropria dell'aggressione al Berlusconi «pregiudicato» verrebbe usata allegramente, così come in passato è stata cullata a lungo la speranza di poter battere la destra non attraverso un duro e legittimo confronto politico, bensì per la scorciatoia giudiziaria. Quindi la sentenza di Milano aggrava sia il rapporto fra le parti politiche sia quello fra politica e giustizia. Ma è interlocutoria: non è sufficiente né per provocare una risposta dura della politica, né per indebolire o liquidare definitivamente un leader politico e il suo partito. Continuerà l'attrito, si presume, e continuerà rumorosamente. Berlusconi si appellerà alla lettera della legge, secondo cui nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio, e proseguirà la sua lotta contro le procure. Si entra in uno stallo percorso da fibrillazioni spaventose, in una micidiale guerra di posizione: e nessuno ha la chiave per sbloccare il meccanismo. Tutti coloro che ci hanno provato in passato, da Amato e Conso in poi, si sono scottati le dita, e oggi non si vedono aspiranti martiri. Ma se questo oggi appare il principale problema politico italiano, la soluzione non può essere lasciata ai congegni giudiziari: alla politica si risponde, e non può essere altrimenti, con la politica.