L’Espresso
L'Espresso, 01/11/2001
Prigioniero del doppiopetto
Saranno gli impacci del doppiopetto. Basta che Silvio Berlusconi metta piede all'estero per assistere a qualche scivolone. L'intempestiva dichiarazione di superiorità occidentale, l'altezzosa lite d'ambasciata con i belgi, la trafelata trasferta alla Casa Bianca, le rivendicazioni della «nostra alleanza con il presidente Bush», l'affannosa offerta di truppe: ciò che al capo del governo riesce benissimo entro i confini domestici, cioè l'autopresentazione come leader carico di compiti storici, sul piano internazionale si affloscia. In questo senso, lo "schiaffo di Gand", cioè il pre-vertice esclusivo fra Chirac, Blair e Schröder, rappresenta solo la glossa a margine di un decalogo europeo e atlantico secondo cui il governo italiano va benissimo quando si allinea, ma va malissimo quando solleva il torace e alza pretese. Era un vieto provincialismo, quello che faceva pronunciare agli esponenti della Casa delle libertà proclami impettiti secondo cui l'Italia «deve contare di più in Europa», ed è una ritorsione provinciale anche la sottovalutazione stizzosa di Berlusconi del nuovo "direttorio" europeo («Avranno parlato di affari loro»). Ci sarà pure un motivo se il capo del centrodestra italiano sembra diverso perfino antropologicamente dai suoi colleghi europei. Sarà ostinazione puerile riscontrare questa diversità anche nell'abbigliamento, eppure non cessa di stupire, ogni volta, l'apparizione del doppiopetto berlusconiano in mezzo a una sequenza di giacche europee a petto unico. Perché il doppiopetto è un capo impegnativo, che segnala un sovrappiù di impegno cerimoniale; oppure indica un senso della personalità che pretende di manifestarsi con un tratto di esteriorità irrinunciabile. Minuzie, ma erano minuzie anche le mutande e le fioriere del G8. La prudenza e la furbizia di un governante ultimo arrivato dovrebbero consigliare capacità di mimetizzazione. Mentre Berlusconi non ha mai nascosto l'irrefrenabile soddisfazione per avere instaurato rapporti di fervida amicizia con i leader mondiali, fino a convincersi che il suo humour e la sua personale esuberanza lo avevano imposto definitivamente fra le «teste coronate» (ipse dixit). Solo che la caratura internazionale non si inventa con le barzellette e neanche con l'entusiasmo velleitario dei parvenu. La dignità europea dell'Italia è stata riguadagnata prima dal faticoso lavoro di Prodi e Ciampi, con il duro risanamento irriso allora dal centrodestra, e poi dalla credibilità internazionale di D'Alema sul Kosovo. Oggi un ruolo più rilevante del "quarto grande" dell'Ue potrebbe essere assunto con una tessitura paziente, con dimostrazioni assidue di affidabilità, piuttosto che con pretese di protagonismo fuori luogo. La Casa delle libertà stenta a capirlo, e di fronte al ripetersi di botte sul muso reagisce con mediocri mugugni dalla provincia profonda, o con piazzate di regime a stelle e strisce. Qualcuno, a cominciare da Renato Ruggiero, potrebbe avviare qualche lezione alla Farnesina per spiegare che per conseguire prestigio non è il caso di gonfiare il petto. Neanche se doppio.
L'Espresso, 08/11/2001
Mercato. Ma corretto
Non è la prima volta che la presidenza della Commissione europea è sotto pressione. "L'italiano" Romano Prodi reagisce alla sua solita maniera. Via dalle polemiche spicciole. REAZIONE FREDDA verso la stampa europea («Mai pensato di dimettermi»). Grande cautela, con un ringraziamento a denti stretti, anche dopo la mossa di Silvio Berlusconi, che ha accusato una "euro-lobby" di procedere a una sistematica denigrazione anti-italiana, legando così i suoi personali problemi di credibilità esterna agli attacchi a Prodi. Guarda avanti, con la solita ostinazione. Perché nella sua visione il compito attuale dell'Europa non è contingente. L'autunno della globalizzazione, dopo l'attacco alle Torri gemelle, è l'occasione per riflettere sulla "rimonta" europea. Su un modello che sembrava superato, e che ora riemerge. L'economia sociale di mercato, la saggezza di un riformismo temperato. Qualcuno ci troverà l'eco di una leadership. Oppure le linee di fondo di un programma politico. Ecco la visione di un protagonista lontano, ma non troppo, dall'Italia del neo-thatcherismo. Ormai è un luogo comune dire che l'11 settembre ha cambiato il mondo. Ma cambierà anche la politica economica nel mondo sviluppato? «La percezione di un cambiamento profondo precede l'attacco a New York. I fatti di Seattle, Göteborg, Genova ci avevano già posti di fronte a processi di portata ingente e, soprattutto, imprevista. Gli eventi americani sono esplosi quando i problemi cruciali della globalizzazione erano già arrivati sul tavolo: proprio mentre si formava la sensazione che gli strumenti politici per affrontare questi problemi erano, e sono, inadeguati». Quindi lei ha preso sul serio i no global? «Vanno presi sul serio tutti quei fenomeni che mettono allo scoperto gli squilibri della globalizzazione. Cioè le espressioni di un disagio, di una serie di contraddizioni che mostrano che nella crescita c'è qualcosa che non va». Ma il "pensiero unico" sosteneva che la cura ai mali della crescita era la crescita stessa. «E così si sono persi di vista gli effetti indesiderati. In un periodo positivo per l'economia, nell'ultimo decennio si sono trascurate le tre grandi ingiustizie che agivano sotto la superficie del processo globale. La prima ingiustizia all'interno dei paesi ricchi, con il crescere del divario dentro le società. La seconda, con l'aumento della diseguaglianza fra i paesi in via di sviluppo. La terza, quella che ha prodotto l'attacco alla globalizzazione, con l'aumento della distanza fra paesi ricchi e paesi poveri». Nelle società occidentali, gli aspetti di iniquità sociale vengono messi in conto alle turbolenze della crescita. Qualcosa di inevitabile. «Già: la finanziarizzazione dell'economia, il taglio delle imposte, la ristrutturazione del welfare hanno creato la convinzione che un certo livello di squilibrio sociale sia intrinseco allo sviluppo. Si è anche pensato che la diseguaglianza sia un implicito fattore di crescita: ma in proposito non esiste nessuna conferma scientifica. Lo ripeto, non esiste. Eppure sotto questa luce si può inquadrare l'abbattimento delle imposte di eredità, non solo in Italia: cioè l'abolizione di uno dei principali strumenti di uguaglianza». Ciò che colpisce è che questa tendenza abbia coinvolto anche i principali paesi europei. «Ha toccato in profondità i sistemi di coesione sociale. Ma intendiamoci, parliamo di un bilancio in chiaroscuro. Infatti ci sono state conseguenze positive: meno strutture monopolistiche, meno incrostazioni, più trasparenza. In un mondo a capitale libero, dove i paesi possono esercitare un certo grado di concorrenza fiscale, diventa automatica la spinta a ridurre il peso delle tasse. È chiaro che tutto questo non deve andare perduto, perché ha significato consistenti vantaggi per i cittadini e i consumatori. Ma sarebbe un errore perdere di vista le iniquità che la liberalizzazione ha comportato». Nessun pentimento sulla via del mercato? «Certamente no. Dobbiamo tenere l'occhio sul mercato, perché c'è ancora tanta strada da fare. Ma ci vuole un riformismo "come Dio comanda", sufficientemente approfondito per ripulire le sacche di inefficienza residue, le distorsioni, i colli di bottiglia, il mancato incontro tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Nello stesso tempo occorre ripensare anche agli strumenti correttivi, tenendo conto che la correzione del mercato non è più solo una questione nazionale, ma va orientata su scala planetaria». Non si sentono molte voci disposte a unirsi all'idea di un nuovo interventismo statale. «È vero. Ma bisogna capire che non si tratta di un interventismo vecchio stile, per lasciare spazio a qualche monopolio. Si tratta di una sfida politica. Bisogna comprendere le ragioni di un'Europa partecipe di una globalizzazione profonda, e nello stesso tempo la necessità di correttivi adeguati alla nostra epoca, sia all'interno dei paesi europei sia nel senso dell'apertura di spazi politici ed economici ai paesi nuovi. Lo slogan da cui eravamo partiti, "trade not aid", era giusto, ma non funziona per i poverissimi. Va da sé, per dire, che l'Africa subsahariana non ce la fa, da sola, sul mercato mondiale». Ma nel mondo "unipolare", il ruolo dell'Europa è limitato. «L'11 settembre ha messo in crisi proprio il modello dell'unipolarità. Ha riportato sulla scena la Russia e la Cina. E l'Europa, con tutti i suoi limiti, può avere un ruolo proprio perché in passato è stata uno fattore di equità, e in molti casi è percepita come tale all'esterno». Anche in Europa però si è avuta l'ascesa irresistibile del laissez-faire. «Si è avuto un lungo processo di deregolamentazione, che è ancora più importante della privatizzazione, reso necessario dall'obbligo di competere con aree economiche molto più libere al loro interno. Un processo di lungo periodo, che ha visto all'opera diversi governi in ogni paese. La Spagna virtuosa di oggi è l'effetto dei governi spagnoli, quelli socialisti e quello di Aznar; il Regno Unito vede una significativa continuità, fuori dalle sigle politiche, fra i governi Thatcher e Blair...». E allora a che cosa serve votare laburista? «Occorre saper ragionare su due linee: la indispensabile deregolamentazione da un lato e la altrettanto indispensabile creazione di nuove e diverse forme di tutela sociale dall'altra. Nell'Unione europea la sfida del mercato è avvenuta troppo di recente perché si mettesse a fuoco il problema della distribuzione del reddito. Ma oggi che il crescere delle disuguaglianze interne diventa visibile, e può trasformarsi in una prospettiva di incertezza per i cittadini, ritorna essenziale porsi il problema della correzione del mercato, e della costruzione di nuove regole per garantire una performance sociale simile a quella già prodotta dall'Europa continentale nel dopoguerra». Si torna a guardare all'Europa "renana"? Quella di cui lei aveva descritto la specificità, insieme a Michel Albert, rispetto al capitalismo finanziario anglosassone? «Il capitalismo renano non è più quello di allora. È cambiato il rapporto fra banca e impresa, i partiti socialdemocratici hanno assimilato il mercato, la concorrenza si è imposta, la presenza dello Stato nell'economia si è fortemente ridotta. Siamo stati attraversati dall'onda d'urto della visione della Thatcher, che diceva: "Quella cosa chiamata società non esiste". La liberalizzazione ha avuto effetti profondi sul continente. Allorché in Europa continentale, una quindicina di anni fa, fu introdotto il sistema delle stock option, questa novità "americana" venne considerata come una rottura di lealtà entro una società che tendeva a limitare le differenze. Oggi è pura normalità. Ciò malgrado, anche se occorrerà liberalizzare, disincrostare, fluidificare ancora il sistema, occorrerà anche ripensare tutto il sistema delle regole, perché non si creino squilibri ancora più profondi». Per ora non sembra di avvertire in Europa un cambio di fase. «La percezione è troppo recente. Osserviamo l'affiorare di sintomi. Il conferimento del Nobel per l'economia a Joseph Stiglitz è sicuramente un segnale. I partiti europei, dai socialisti ai popolari, attraversano uno smarrimento, perché prima c'era la certezza, oggi c'è il dubbio. Si ricomincia a discutere, con una passione rinnovata, perché di fronte a un modello che va in tensione si riaprono opportunità per la politica». Riemerge il Novecento, se è vero che in America si assiste a una sorta di ritorno di Keynes. «Ho avuto modo di dire che George Bush jr. ha fatto la cosa più keynesiana che poteva fare, ed è un bene che l'abbia fatta un politico come lui, un conservatore. Tuttavia il piano americano da 150 mila miliardi, essenziale per sostenere l'economia statunitense, è ancora un'operazione tecnica, si indirizza largamente sul settore militare: in sé e per sé non induce a mettere in discussione i problemi di fondo». Quindi toccherà alla vecchia Europa porsi alla guida "ideologica" della fase attuale? In realtà molti hanno visto nell'evoluzione geopolitica dopo l'11 settembre un'assenza dell'Ue. «È un errore di percezione, basato su una miopia. L'Unione conta moltissimo oggi, in un mondo che abbandona l'unipolarità, e conterà ancora di più nel futuro prossimo. Ha espresso una grande unità sulla difesa e la politica estera, ma non solo: ha preso decisioni in settori nei quali finora ogni intervento sembrava impraticabile: il mandato di cattura europeo, le misure contro il riciclaggio di danaro sporco. Ma è in prospettiva che si vedrà meglio il ruolo europeo. L'allargamento dell'Unione darà un contributo fortissimo alla globalizzazione "democratica", cioè a un dinamismo che valorizza le opportunità di apertura e di partecipazione. Pensiamo a che cosa significa un'Europa con un 30 per cento di popolazione in più, a cui accedono paesi meno privilegiati. Pensiamo a che cosa significa la presenza di paesi a cui l'Ue potrà offrire aiuti per consentire l'ammodernamento dell'economia, ma che apriranno uno spazio economico capace di fare da volano alla crescita. La nuova equità consiste anche in questo: in un equilibrio fra la crescita dei nuovi e quella dei vecchi». Dubbi e riserve sull'allargamento, o sulle sue scadenze, non mancano. «L'allargamento non ritarderà di un solo giorno. Entro la fine del prossimo anno concluderemo i negoziati con i paesi candidati all'adesione così che i più pronti tra loro possano entrare nell'Unione prima delle prossime elezioni europee. Non c'è nessun elemento per metterlo in discussione. Ci gioco il mio mandato, la mia posizione, la mia faccia. Ma soprattutto ci si gioca una prospettiva storica». Qualcuno si chiede qual è l'interesse dell'Italia relativamente all'allargamento dell'Unione. Ci ritroveremo concorrenti in casa. «È fuori dubbio che l'allargamento implica un dare e un avere. Si perde qualcosa come individualità di nazione, ma si guadagna come ritmo di crescita». Va bene, ma uno scettico obietterebbe: un paese come l'Italia, con le sue debolezze strutturali, la sua assenza di grandi imprese, i suoi squilibri interni, ha davvero interesse a trovarsi i "late comer" come competitori? «Non dimentichiamo la funzione di cerniera che il nostro paese ha avuto rispetto all'Europa centro-orientale. Già oggi, l'Italia esporta a Est quanto Francia e Gran Bretagna insieme. Il suo ruolo come economia di frontiera può essere determinante. La sfida dell'allargamento, per noi, è un appuntamento fondamentale, pareggiato solo dalla priorità della costruzione di un rapporto con la riva sud del Mediterraneo, che per tradizione e per geografia rappresenta l'altro grande compito del paese». Che cosa occorre all'Italia per poter giocare questa funzione di cerniera? «Ci vuole un paese che sappia individuare le sue priorità. La prima priorità è un colossale investimento nelle risorse umane, moltiplicato in modo esponenziale rispetto a oggi e rispetto a ieri. L'altra priorità consiste nella capacità di ridisegnare il sistema delle regole. Perché finora si è fatto un faticoso lavoro di liberalizzazione e di smantellamento dei monopoli. Occorre rendere ancora più mobile il sistema, intervenire anche sul mercato del lavoro, fare in modo che domanda e offerta si incontrino con efficacia, che tutto il sistema economico funzioni in modo fluido. Ma nello stesso tempo, abbiamo l'obbligo politico e morale di reinventare il sistema delle regole. Finora la priorità era stata il laissez-faire. Oggi dobbiamo riuscire a immaginare il mercato come comunità civile, quindi presidiato dalle regole. Regole moderne, ma regole. Perché se non si ha il coraggio di pronunciare questa parola, regole, la forza delle cose sconfigge la politica».
L'Espresso, 15/11/2001
Ora siamo in prima linea
L'Italia è in guerra, e probabilmente sarà impegnata in operazioni militari dirette. A questo punto le istituzioni, i partiti, l'opinione pubblica, l'intera società italiana non hanno di fronte solo il compito di dichiarare la propria generica solidarietà agli Stati Uniti: l'ora della retorica è scaduta, e questo impone atteggiamenti intonati alla gravità della situazione. La lealtà verso l'America, l'America ferita dell'11 settembre, è fuori discussione: ma l'ingresso a pieno titolo nella condizione bellica cambia drammaticamente lo status del nostro paese, i suoi impegni, i costi razionalmente preventivabili. Sotto questo profilo non è un esercizio di speciosità valutare come si è evoluto il ruolo italiano sotto la guida di Silvio Berlusconi. Perché negli ultimi due mesi il capo del governo non si è limitato a mettere in tavola le prove del suo atlantismo: ha anche cercato in tutti i modi, talora esponendosi in modo provinciale, di interpretare un ruolo da protagonista sulla scena internazionale. Ha incontrato Bush, Putin, Blair. Ha reagito con ostinazione all'esclusione dal direttorio europeo dopo lo schiaffo di Gand. Ha convinto l'amministrazione americana ad accettare il coinvolgimento italiano in Afghanistan, piazzando il nostro paese in una posizione nettissima nella guerra al terrorismo, sfidando così le conseguenze che ciò potrà implicare. Berlusconi ha giocato una scommessa altissima, trascinandosi dietro tutta la sua coalizione politica e la parte maggioritaria dell'opposizione. Quanto agli esiti immediati, la sua rimonta è riuscita. Si tratterà di vedere in seguito se saprà gestire, oltre all'investimento effettuato, anche i prezzi che per ora restano invisibili. Il cambiamento di stile è abissale, rispetto a quello della classe politica andreottiana e craxiana implicata dieci anni fa nella guerra del Golfo, ma anche nei confronti del personale del governo dalemiano all'epoca dell'intervento nel Kosovo. Si dà il caso però che né Saddam Hussein né Milosevic avessero la minima possibilità di effettuare ritorsioni militari o terroristiche contro i paesi dell'alleanza occidentale; mentre oggi l'Italia va in prima linea, sul fronte afgano e rispetto alle possibili vendette degli accoliti di Bin Laden. In sostanza, Berlusconi ha messo l'Italia sul fronte. È una decisione lineare, anche se perseguita con un sovrappiù di affanno. Ma è una posizione che ci impegna nella crisi forse più grave dalla fine della seconda guerra mondiale. Sarà bene averlo chiaro in mente. Perché la guerra cambia in profondità sia le condizioni del confronto politico sia la qualità dei comportamenti. Deve influire sull'azione di governo, perché la bipartisanship non può essere richiesta esclusivamente all'Ulivo. E, non ultimo, deve incidere sulla forma dei comportamenti pubblici. Perché a due mesi dall'attentato alle Torri gemelle, e a pochi giorni da un voto parlamentare che spedisce in guerra il paese, la marcia filoamericana a Piazza del Popolo non è più un appuntamento psicologico, un'occasione polemica, una mobilitazione politica. È qualcosa di inadeguato alla durezza dei tempi, all'aspra moralità della guerra, tutto qui.
L'Espresso, 29/11/2001
I falsari di Tangentopoli
Riscrivere la storia è stato il vero successo di Silvio Berlusconi. Gli anni post-1992 sono divenuti una "guerra civile" condotta dalla sinistra infiltrata nella magistratura. Mani pulite si è trasformata in un complotto contro i partiti liberaldemocratici. Tangentopoli, il simbolo di un'aggressione comunista contro le forze di governo. A furia di ripetere questi slogan, il pool di Milano è stato ridotto a un'avanguardia leninista. La versione è distorta per molti motivi. Ignora ad esempio il fatto che tra gli anni Ottanta e i Novanta l'intreccio della corruzione aveva trasformato l'economia in un oligopolio drammaticamente imperfetto, con effetti pesantemente distorsivi sul mercato. Qualcuno ha dimenticato la processione del mondo economico negli uffici dei piemme milanesi, in parte per cercare di mitigare l'azione processuale, ma in parte anche per liberarsi dal peso insostenibile del network tangentizio? Il revisionismo di Berlusconi e dei suoi ispiratori è forzato proprio perché attribuisce ai giudici la caduta di un sistema politico: mentre in realtà i partiti di governo crollarono in quanto esausti, incrostati di corruzione, incapaci di autoriformarsi. Attaccare i magistrati significa scambiare strumentalmente la causa con l'effetto. L'azione delle procure non sarebbe bastata a sbriciolare il sistema di potere di Dc, Psi e alleati. Per fare saltare il banco c'è voluta l'irruzione leghista, sono stati necessari i referendum maggioritari di Mario Segni, ha dovuto manifestarsi l'incapacità rigeneratrice di Mino Martinazzoli e dei numeri due socialisti. Ciò detto, viene da chiedersi per quale motivo, ottenuti tutti i suoi scopi, Berlusconi continui nel suo forcing contro le "toghe rosse". E di conseguenza perché la fazione degli avvocati presente in Forza Italia, a partire da Carlo Taormina (il sottosegretario che invoca gli arresti per i magistrati di Milano), mantenga altissimo il tiro, sfidando l'accusa di rendere abissale il conflitto fra le istituzioni. La spiegazione per cui si tratta di una tattica, tesa ad alzare difese preventive contro eventuali altre iniziative giudiziarie, sembra perlomeno incompleta. C'è del vero, ma probabilmente il disegno berlusconiano è più complesso. Con un'opposizione fiacca, e con un sistema dell'informazione in procinto di uniformarsi quasi in toto alla linea governativa, Berlusconi ha solo un nemico, reale o potenziale: cioè un'istituzione dello Stato, la magistratura. Che ormai difficilmente può metterlo sotto accusa. Ma che è ancora un rischio, o un fattore imprevedibile, per tutto quel blocco politico berlusconiano che fa ampio ricorso al personale politico, socialista e democristiano, dei vecchi tempi, in posizioni di governo e di sottogoverno. I progetti di Berlusconi (sul Csm, sulla Corte costituzionale, sulla separazione delle carriere) non appartengono più al contesto della guerra civile o semplicemente della vendetta: mentre si va integrando un sistema di potere, sono piuttosto le mosse della guerra preventiva.
L'Espresso, 06/12/2001
La maionese impazzita
Uno zapping quotidiano sulle reti a tiro di telecomando significa mediamente un accesso di schizofrenia. Perché in tempi "storici", tra avvenimenti debitamente epocali, nel corso del virtuale scontro di civiltà, uno chiederebbe non esattamente la Cnn ma una intonazione plausibile. Sobrietà di accenti, tempestività sui fatti e puntualità degli aggiornamenti. E naturalmente un'evasione di qualità, quando occorre (e come, se occorre). Invece per inseguire un'ombra, un indizio, uno spunto d'interesse, non si può fare affidamento sui palinsesti. La tv dell'epoca afgana è brodo di dado, o una marmellata con gli ingredienti che non si amalgamano, e la logica che va, più o meno letteralmente, a letterine. Dato che intrattenimento e approfondimento non hanno più confini riconoscibili, il logo di un programma non garantisce di per sé il prodotto. Il talk show di seconda serata svaria fra tragedie belliche e dive da calendario, geopolitica, oleodotti, strateghi, ereditieri, e per menù il faccia a faccia tra Vissani e Marchesi in cui Vespa sovrintende al risotto. Se malgrado tutto l'appetito televisivo perdura, resta alla fine uno spezzone dello show di Costanzo con la sua galleria di freak. Pazienza per le reti private, in sostanza il polo Mediaset, che hanno per missione aziendale il lavoro sporco sugli ascolti, complice la taricona Mascia del "Grande Fratello" o la fumeria d'oppio basso-popolare di Maria De Filippi. Ma la televisione pubblica, che infila le micidiali perle di commedia dell'arte manipolata nella stringa pomeridiana Panicucci-D'Eusanio, in attesa della riapparizione di nostra signora delle lacrime Raffaella Carrà, che giustificazioni può addurre? Quali logiche, quali finalità, quale servizio? Ci si ritrova pienamente schizofrenici nel senso che il trash di Panariello sul marsupio tramuta in un classico il ricordo delle vanvere di Celentano sui trapianti, ma anche perché ci si sorprende a scovare la cultura (eh sì, la cultura, gli approfondimenti, le interviste, i libri, le donne musulmane, il conflitto di civiltà, il conflitto d'interessi, il conflitto sulla bioetica) nelle ore della eccentrica coppia mattutina Saluzzi-Giurato, oppure nel game-show serale e "alto", dati i termini di paragone, di Pippo Baudo, e l'informazione in un incrocio fra "Le Iene" e "Striscia la notizia". Mentre a difese travolte qualcuno troverà accenni di rispetto per il codice scolastico- nozionistico nell'intrattenimento famigliare di Gerry Scotti. Ma può essere un'illusione ottica, e che in realtà le tracce di qualità siano spore residuali: mentre il destino della tv consisterà semplicemente nell'occupare spazi, strisce obbligate di spreco del tempo per un pubblico forzoso. In questo caso, resta solo da chiedersi a che cosa servono i consigli di amministrazione, le commissioni, i grandi budget, i cast, gli autori. Tanto vale lasciare che la tv si faccia, con paranoia autoreferenziale, tutta da sé.
L'Espresso, 13/12/2001
Il mal minore democristiano
Il venticello della rifondazione democristiana è forse la dimostrazione più puntuale, benché involontaria, che per la componente moderata del centrodestra il formato attuale della Casa delle Libertà non è così soddisfacente né così definitivo. Dopo le elezioni in Molise e in Sicilia la nostalgia scudocrociata si è sublimata in euforia: benché si possa escludere che i risultati nelle due regioni siano proiettabili aritmeticamente su scala nazionale, i cantieri sono stati immediatamente riaperti, con la partecipazione di vecchi capimastri come Paolo Cirino Pomicino e Calogero Mannino, a cui si è aggiunto Sergio D'Antoni, mentre Rocco Buttiglione squaderna ogni giorno i suoi progetti di rifacimento, e con regolarità si ventila il ritorno dell'eterno inquilino Clemente Mastella. Il piano di ricostruzione della Balena sembrerebbe una di quelle operazioni venate di velleitarismo, in grado di mettere insieme spezzoni di sottobosco politico piuttosto che di attrarre quote significative di elettorato. Tuttavia aleggia sulla politica, richiama discussioni, sollecita care memorie: e quindi assume valore di indizio. Si parla tanto di nuova Dc proprio perché all'interno del centrodestra, malgrado i numeri inattaccabili e un consenso per il governo ancora non scalfito, la situazione non è così limpida come si penserebbe. Nulla di serio, ovviamente. Ma innanzitutto continua a incombere il dilemma di Alleanza nazionale, che in Sicilia ha registrato una nuova battuta d'arresto, e che appare un partito dissociato fra il successo personale di Gianfranco Fini e uno sfondamento elettorale sempre rinviato: nonostante l'indubbia spregiudicatezza nell'occupazione del potere (testimoniata dal vitalismo dei suoi colonnelli Gasparri, Alemanno e Storace), An potrebbe rivelarsi inadatta a sganciarsi dal gregariato. In secondo luogo, certi malesseri della Casa delle Libertà vengono esposti dai contorcimenti di Umberto Bossi, obbligato a sottrarsi dalle spire del moderatismo centrista ma soffocato nelle iniziative e per ora impossibilitato a ridare fiato ai progetti leghisti. L'ipotesi di rilancio democristiano segnala infine anche le incertezze di identità di Forza Italia, che una parte della classe politica della Prima Repubblica aveva accettato come zattera nel fortunale: mentre oggi, davanti al richiamo della foresta dc, Berlusconi e il suo partito si configurano di nuovo come un accidente della storia, non più come i salvatori dei naufraghi. In sostanza, la riemersione democristiana è un indice di malesseri intestini nell'alleanza di centrodestra: ed è per questo che ex dc non nostalgici, e sicuramente ispirati a un chiaro disegno bipolare, come il leader del Ccd Marco Follini, hanno sempre dimostrato freddezza per i progetti di restaurazione del partito cattolico. Si tratta di malesseri lievi, indisposizioni di stagione, un mal d'ossa. Eppure la scarsa ostilità e anzi una diffusa non-antipatia che si coglie per i sogni dei "revenant" democristiani sono a loro modo rivelatrici: come se il passato dc e l'eventuale reincarnazione apparissero oggi un male minore rispetto alle squillanti innovazioni del berlusconismo.
L'Espresso, 27/12/2001
La sinistra sono io
Nel mezzo del cammin della sua vita, Lorenzo sembra Jovanotti soltanto nel- l'abbigliamento, nel maglione, nella barbetta etno, nei capelli giovanilisti. Sta finendo i missaggi del suo nuovo album, che si intitola "Il Quinto Mondo", dopo una polemicuccia con Massimo Bubola che aveva indiziato di plagio il titolo precedente, "Vita morte e miracoli". Siamo in uno studio della periferia milanese. Canzoni d'amore, violini, accordi brasiliani. Ma poi si scatena l'urlo punk di "Salvami", il singolo che esce in radio il 28 dicembre (nei negozi l'11 gennaio in un cd che contiene altri tre brani inediti non presenti nel nuovo disco e una traccia interattiva di trenta minuti con le immagini delle sessioni di registrazione). "Salvami". Una protesta, una preghiera, un'invocazione. Un grido contro la guerra, contro la Fallaci, a favore della convivenza fra diversi. Rivolta a un popolo, a una tribù. Indistinta ma presente, soggetta al carisma genuino di un leader. Perché lei è un capotribù nato, non è vero, Lorenzo? Fin dal suo primo disco, che si intitolava "Jovanotti for president". «Ma no, sono uno che dice delle cose. Ho sempre avuto un gusto particolare per la parola. Anche il rap dei miei esordi lo interpretavo come una forma elementare di espressione, in cui le parole esprimevano una cultura: non letteraria, ma pubblicitaria, costruita su una serie di slogan». A un certo punto della carriera lei ha cominciato a lavorare soprattutto sui testi: come se avesse deciso che aveva qualcosa da dire. Un programma, un progetto. «All'inizio le mie idee musicali erano esteriorità immediata. Niente elaborazioni. Dominava il desiderio di rompere con una tensione nuova gli schemi della musica anni Ottanta. Sulla scena italiana, l'unico uomo di rottura era Vasco Rossi: un rivoluzionario vero, con frasi musicali composte di tre o quattro parole. Mentre i cantautori erano logorroici, Vasco sparava espressioni pubblicitarie come "Coca, Cola", o "C'è chi dice no". Ritmo, slogan, efficacia dura senza filtri». E lei si è detto: ci provo anch'io, voglio diventare anch'io un capopopolo. «Non avevo progetti di leadership, non sapevo se ero effettivamente un capotribù, ma sentivo di avere una marcia in più. Ero sicuro di farcela. Sentivo di essere un solitario, un individualista. Però, con una generosità innata, con la voglia di spendermi». Un individualista che ha trovato un popolo. «Forse, ma non sono stato io a cercarlo. Mi sono sempre sentito "alla periferia di nessun centro". Sono nato in Vaticano, dalle finestre si vedevano i pullman dei pellegrini. Si sentiva di essere nel cuore di un pellegrinaggio gioioso. Durante l'infanzia vedevo la cupola di San Pietro, e in piazza i pellegrini in festa. È stato un imprinting. Se tutti noi cerchiamo qualcosa del nostro passato, se Adriano Celentano cerca sempre la sua via Gluck, io cerco questo universo di gente, gioioso e variegato». Ha avvertito un'insufficienza della musica come discorso pubblico? «Insufficienza della musica? No, eventualmente insufficienza mia rispetto alla musica. Poiché non ho mai sviluppato l'aspetto tecnico, mi accorgevo di un limite. Per questo ho puntato sul contenuto. Il mio vero strumento l'ho trovato nella parola, nel testo». Ma avrà avuto qualche punto di riferimento fra i grandi della musica. In Italia e all'estero. «In Italia sicuramente Celentano, il Celentano tra gli anni Sessanta e Settanta, quello di "L'albero di 30 piani": populista, sfrontato, capace di sublimare il banale. Rispetto a lui credo di avere un po' di senso autocritico in più. Ma anche Adriano fa una musica "etica", in quanto mette se stesso prima delle sue canzoni». Indichi anche qualcuno meno etico. «Vasco, come ho già detto: in lui canzone e artista si identificano. Poi i cantautori, De Gregori, De Andrè, Pino Daniele, Edoardo Bennato, Rino Gaetano. Sono stati come una paternità non cercata». E nella musica internazionale? «Bob Marley è il più grande. Sono cresciuto con la musica nera americana, con il rap, Public Enemy. Anche se alla lunga il rap si logora, diventa un genere, un cliché. Diventano tutti epigoni di una maniera». Mentre lei si è reinventato. Da "È qui la festa" a "Penso positivo". «È la mia condanna: a ogni disco ricomincio da capo. Io non sono un cantante. Non sono un cantante popolare negli schemi convenzionali. Ogni volta devo trovare una forma di espressione inedita». Ma si può ripartire da capo con un'industria musicale che chiede repliche continue? «Nel lavoro sono completamente libero. Ci sono persone con cui mi confronto, come Claudio Cecchetto, che resta una figura di riferimento essenziale. È un uomo di intuizioni, con un punto di vista particolare, molto pop. Non ho più rapporti di lavoro con lui, ma il confronto è sempre assiduo». Lui è pop. E lei, invece, è politico. Perlomeno nel senso di proporre una politica delle emozioni. «Non mi era mai venuta in mente come definizione, ma credo nella politica delle emozioni: vengo da una generazione apolitica, e mi sono sempre sentito poco ideologico...». Cattolico come Celentano? «Sarebbe facile rispondere che sono cristiano. Il cattolicesimo era l'ambiente naturale. Capirà, con un padre entrato in Vaticano come gendarme. Ho visto Madre Teresa di Calcutta, i pontefici, papa Luciani, Giovanni Paolo II». Ci manca solo che adesso faccia l'elogio dei valori tradizionali. «Ma i valori tradizionali possono essere applicati modernamente: come pietas, come rispetto delle differenze». Vediamo. La famiglia è un valore? «È un valore in mutazione. Un valore da ricercare. La pratica della fedeltà è un valore. Il lavoro è un valore, oltre che un modo per vivere nel mio tempo. Ma il valore assoluto è la comprensione del dolore». Quale dolore, quello dell'11 settembre? «Quella cosa lì, così terribile, apparentemente incomprensibile... Eppure non mi ha sorpreso: mi ha fatto stare male, ho passato un mese in un torpore assoluto. Ma proprio perché non mi ha stupito lo shock è stato ancora più forte. Vede, in Pakistan ho visto esposte le foto di Bin Laden: assurdamente per loro, per i poverissimi, rappresentava qualcosa. Noi abbiamo fatto finta di niente. Bin Laden non è un problema di religione, è un problema di potere: di un potere che sfrutta l'ignoranza e l'isolamento, e che fa diventare Bin Laden una specie di Che Guevara. Falso. Non c'è nulla di positivo. Ma capisco il meccanismo, perché generare odio dove c'è povertà è facile». Non è colpa nostra. «Eppure non abbiamo fatto una politica per la povertà, siamo stati collusi con le dittature, silenziosi, complici. Non ci si può nascondere dietro la giustificazione che tutto questo ha assicurato benessere e libertà. Ha garantito la libertà di qualcuno, il benessere di pochi». Si capisce che lei è contrario alla guerra. «Sì, sono contrario. Non credo che serva per onorare o riscattare le vittime di New York. Credo che sia terribile pensare che la morte di persone innocenti possa essere uno strumento politico. La guerra legittima implicitamente un atto terroristico». Di fronte a una posizione del genere di solito si chiede qual è l'alternativa. «Sarò banale, ma la risposta al terrore è la diplomazia, la polizia, l'intelligence. Che la guerra sia la continuazione della diplomazia con altri mezzi è un'idea che mi ripugna». Sulle magliette dei suoi fan c'è Guevara, che faceva la guerra. «Ma anche il Che non mi appartiene, o almeno non mi appartiene il pensiero che conduceva dalla politica alle armi». Pacifista, disarmato, utopico, cristiano con sfumature buddiste: Jovanotti è un collage culturale, una profeta del sincretismo. «Sincretismo? Ma certo: come si fa a non essere aperti, spalancati di fronte alle meraviglie delle culture? È il mercato che pretenderebbe l'omogeneità totale, il pensiero unico». Un compagno di strada dei No global. «Non mi piace il termine. Le parole che negano mi fanno paura. Tuttavia il mercato non può essere l'unica legge. Il mercato è uno strumento di libertà, ma l'idea che siano dieci multinazionali a fare le regole è spaventosa. E la politica balbetta di fronte al movimento che lotta contro una globalizzazione sbagliata». Ma nel momento della scelta elettorale lei che cosa fa, vota a sinistra? Oppure scappa via? «Voto a sinistra. Sono legato all'idea di un aspetto pubblico della vita economica, allo stato sociale, alla sanità, all'istruzione. Sono un grande pagatore di tasse: mi inorgoglisce l'idea di contribuire alla costruzione e al mantenimento di strutture pubbliche». Non salterà fuori un Jovanotti moderato? «Perché no, politicamente sono moderato. Al seggio sono pragmatico. Fra Berlusconi e Rutelli voto Rutelli. Estremista posso esserlo sui principi. Non sarò moderato sull'ambiente, sulla tutela delle differenze, sulla convivenza multietnica. Ma credo nel voto utile. Fra Gore e Nader, scelgo Gore». Bisognava spiegarlo meglio agli italiani. «Già, la destra ha vinto perché ha avuto la capacità di comunicare. Che il centrosinistra invece ha smarrito». Ipotesi da "anno nuovo vita nuova": le chiedono di trasformarsi da capotribù in uomo politico. Che cosa risponde? «No. Con un piccolo rimpianto, perché ogni volta che vedo i vincitori, Berlusconi, in televisione, mi dico: "Io saprei come rispondere. Io potrei ribattere. Io saprei comunicare meglio di loro, vincerei nel faccia a faccia in tv"». E allora? «Non ne parliamo nemmeno. In confronto alla politica, il mio lavoro è una passeggiata».
L'Espresso, 27/12/2001
Ho due delusioni, Ciampi e Berlusconi
Il processo politico a Francesco Cossiga si mescola con le malevolenze su presunti scompensi psicologici. E Cossiga risponde facendo il processo a tutti gli altri. «Legga, legga». È un articolo per "Libero", il giornale di Feltri. «Di un giovane giornalista...». Magari Franco Mauri, che conosce Cossiga meglio di Cossiga? «Lui». Mi scusi, ma allora come devo chiamarla: presidente Cossiga o presidente Pessoa? «Pessoa?». Sa, quello scrittore portoghese, che si mascherava dietro pseudonimi. Dopo le interviste, le lettere, gli interventi di Cossiga, abbiamo questo Mauri, che pare un Cossiga al cubo. «Giovane giornalista...». Sarà portoghese come Pessoa. «Lo ammetto: di madre portoghese». Che fra l'altro attribuisce ai corridoi del Quirinale uno sconforto per la sua salute mentale. «Diagnosi tardive. Sa quando sono nate le dicerie sulla mia psicologia? Nel 1977. Durante una visita in Romania, incontrammo Ceausescu, che allora era "buono". Nel programma c'era una visita alla clinica della dottoressa Aslan, quella del Gerovital. Ci andammo, e nella relazione il nostro servizio segreto militare scrisse che mi avevano fatto l'elettroshock». Patrioti. Ma anche lei, presidente, non scherza. Attacchi contro tutti. A cominciare dal presidente del Consiglio. «Obiezione. Silvio Berlusconi "è" ma non "fa" il presidente del Consiglio. Il premier di un paese moderno deve decidere, non può limitarsi a giocare continuamente di rimessa». Che cosa c'è che non va, in lui? «È un eccezionale uomo d'impresa, ha fiuto per l'opinione pubblica, capisce la tv e la piazza. Ma è la decisione quella che fa il grande uomo politico. Lui è gentile, con una gentilezza tale da imbarazzare gli interlocutori. Tuttavia è diffidente verso chi gli usa cortesie senza chiedere nulla in cambio. Io lo difendo senza secondi fini, solo perché non voglio che il premier italiano sia preso a pesci in faccia in Europa...». E lui, Berlusconi, come risponde? «Con la sua gentilezza, infinita come la sua diffidenza. Sa che quando mi hanno operato, di tumore, mi ha mandato un biglietto? Diceva: "Benvenuto nel club K"». K come Kossiga? Ha senso storico. «K come cancro. Ha senso diagnostico. Sotto l'aspetto umano, Berlusconi è unico. Le riserve sono legate alla sua concezione della politica. Esistono leader "funzionali", connessi a una struttura di partito: come Blair, ad esempio. Se Blair se ne va, mica finisce il Labour. Mentre Berlusconi è un leader "esistenziale". Se va via lui, Forza Italia scompare». Questo non gli impedirebbe di governare. «Ma è proprio l'assenza di una connessione con un partito che lo tiene nel vuoto pneumatico. Tutti guardano lui, l'uomo che ha preso i voti, lui guarda i suoi, non decide, e così alla fine regna l'impasse». Ne può uscire? «Dovrebbe reinventare un grande gioco politico, convocando un'assemblea di tutta l'area che si richiama al Ppe. In modo da farlo davvero questo partito centrista, e trasformarsi in un leader funzionale. Altrimenti c'è solo un verticalismo aziendalistico». Intanto però nel governo le discordie sono all'ordine del giorno. C'è Ruggiero continuamente sotto tiro. «Ruggiero per me è un caso umanamente imbarazzante. L'ho conosciuto, giovanissimo diplomatico, e l'ho avuto come sherpa per i vertici. Berlusconi mi chiese un consiglio su di lui come ministro degli Esteri. Noti che Silvio è uno che sente ma non ascolta, e non mi illudo mai che segua i miei consigli. Comunque caldeggiai la scelta di Ruggiero. Adesso abbiamo un ministro che non difende Berlusconi, e sembra un estraneo nel governo». Ha avuto come sponsor Agnelli e Ciampi. Fa la politica di qualcuno? «No, fa la sua. Buonismo sul piano internazionale, convinto che l'Italia sia troppo debole per mostrare i muscoli. Arrendevolezza sull'Airbus, cioè l'A400-M. Vistose oscillazioni sulla guerra. Ma come, si è presa una posizione che ha scosso drammaticamente la sinistra, che ha diviso il mondo cattolico, e poi si dice che i nostri soldati non faranno la guerra? Come dire: scusate, abbiamo scherzato». E Berlusconi che fa, tace e sopporta? «Non vuole turbare Agnelli, a cui è grato per il viatico. Forse teme di non averlo contraccambiato abbastanza. Eppure ci sono stati almeno tre episodi che hanno mostrato la gratitudine di Berlusconi: il via libera all'operazione con Edf per la conquista di Montedison; poi la riapertura del dossier A400-M; e infine l'assenso al blocco dell'operazione che doveva condurre Mario Draghi, candidato eccellente, alla presidenza di Mediobanca». Ma come è nato l'asse Agnelli-Berlusconi? «Voglio farle una rivelazione. Parlando di Berlusconi con Ciampi, nell'inverno scorso, ci dicemmo: questo vince, ormai è chiaro. E ci dicemmo anche: per difendere l'Italia, vista l'ostilità che c'è all'estero verso il Cavaliere, dobbiamo sostenerlo. Trovare un consenso dentro i poteri forti. Così approfittai di un viaggio a Torino, per un convegno su Carlo Donat Cattin, e mi recai in visita a Villa Agnelli». Metà ambasciatore, metà congiurato. «Nevicava. Parlai con l'Avvocato, chiarendogli che ciò che gli esponevo era anche l'opinione di Ciampi. Agnelli ammise che avevo ragione. Era suo interesse far crescere il peso politico della Fiat mentre stava diminuendo quello industriale». Di certo c'è stato poi il via libera di Agnelli, quel «non siamo una repubblica delle banane» che ha aiutato il Cavaliere. «Avrebbe vinto lo stesso, perché il problema principale, in una democrazia come la nostra, è la situazione dell'attuale opposizione. Si sa che il mio cuore batte, poco compreso in verità, per la sinistra. La quale si trova in una condizione desolante. Equivoca. La mia polemica con Prodi è tutta sul famoso trattino. Centro-trattino-sinistra per me. Senza trattino per lui. Io dico che occorrono due pilastri, uno socialdemocratico, l'altro centro-riformista. Di recente Rutelli sembra avere fatto qualche passo su questa linea: adesso dovrebbe sfidare tutti quelli che hanno preso i voti sotto la Margherita e fare un partito vero». A destra la sentono ma non la ascoltano. A sinistra invece non la amano. «E sbagliano. Perché sono stato io che ho spezzato il tabù della conventio ad excludendum, vero o no? Chi è andato al Quirinale, dopo la caduta di Prodi, a proporre l'incarico per D'Alema? Anche loro sono berlusconiani di complemento: non si fidano, e credono sempre che abbia un retropensiero, o un avampensiero, in ogni caso un pensiero nascosto». Mentre lei è del tutto trasparente. «Prendiamo il caso di Ciampi. Gli ho sempre dato il mio appoggio, da politico, proprio perché sapevo che non era un politico di professione». Ma lei ha infranto il consenso sul capo dello Stato. Fino a chiederne di fatto le dimissioni. «Quando ho visto che in consiglio dei ministri applaudivano Ruggiero, dopo le polemiche sull'A400-M, e ho saputo che poco prima il ministro degli Esteri, che io avevo criticato, aveva visto il capo dello Stato, intrattenendosi con lui per un'ora e mezzo, la figura di Ciampi mi è apparsa in tutta la sua modestia». Che cosa significa modestia? «Modestia. È dotato di grande prudenza, che è soprattutto volontà di non esporsi. Insomma, una delusione. E forse avevamo ragione io e Massimo D'Alema, quando nei nostri conversari, di fronte all'incombere della candidatura Ciampi per il Quirinale, voluta da Prodi e Veltroni, ci dicemmo che sarebbe stata una disgrazia politica». In che senso? «La candidatura di Ciampi fu creata per impedire la saldatura del centrosinistra-col-trattino. Se non ci fossero state ubbie uliviste, se al Quirinale fosse andato un cattolico come Mancino o come Marini, prodismi e veltronismi si sarebbero dissolti, e il centro-sinistra sarebbe durato vent'anni». Vuol dire che lei e D'Alema concordavate anche in un giudizio negativo su Ciampi? «In quelle conversazioni a due, fu detta questa frase: qui finisce che Prodi e Veltroni ci buttano fra i piedi la candidatura Ciampi. E l'altro convenne». Chi la disse, questa frase? «Fu detta. E forse avevamo ragione. Sono sempre dalla parte di Max Weber, la politica "als Beruf", come professione, e quindi come vocazione. Cioè uno spazio per una dedizione assoluta, non l'esercizio di un funzionariato».
L'Espresso, 10/02/2000
Vi conquisterò con Forza Dc
Forza Italia È a un bivio. Il Polo, nel suo insieme, anche. Per il sistema politico italiano si può prospettare un rimescolamento complessivo. Tutto dipende dalle scelte che verranno compiute prossimamente da Silvio Berlusconi. Il quale ha aperto una fase movimentista: un passo avanti, uno di lato, un rilancio, un'esitazione. Ma in fondo alla strategia (e alla psicologia) berlusconiana forse non c'è più un'Italia maggioritaria e liberista. C'è la proporzionale e un fantasma centrista, con l'attrazione magnetica di un modello neodemocristiano. Ha davvero un futuro una svolta simile? Sicuramente ha un passato, una storia. Eccola. Al capo del centro-destra l'osso del maggioritario rimase in gola il 21 aprile 1996. Già: perdere non fa piacere a nessuno, e meno che mai a un "addict" del successo come Berlusconi: non poteva piacere né al presidente del Milan pluriscudettato né al trionfatore politico del 1994, cioè all'uomo che dopo le gioie sublimi del campionato, delle coppe e dell'audience aveva scoperto le estasi della "religione del maggioritario". Andò troppo storta, nel 1996. Il Polo si presentò in campagna elettorale convinto di riprendersi a mani basse ciò che gli era stato sottratto per via ribaltonesca, e per qualche tempo quelle aspettative sembrarono solo in attesa della conferma. Romano Prodi, la maschera alla bolognese, il "simpatico ciclista", la controfigura inventata dal togliattismo di D'Alema, non reggeva i faccia a faccia in pubblico e in tv. L'Ulivo appariva come una coalizione tenuta insieme soprattutto dal tentativo di allestire un cln antiberlusconiano: per motivi etici, per problemi estetici, e magari anche perché "questa volta non faremo prigionieri", secondo l'icastico programma di Cesare Previti. Invece, il Polo vinse "alla grande" quasi tutte le battaglie e i sondaggi, e perse la guerra. Riuscì anche a rastrellare più voti, rispetto all'Ulivo, ma venne sconfitto nei collegi: a riprova che le candidature nell'uninominale non dovevano essere così convincenti, e che la sua credibilità come coalizione risultava problematica. Il disamore per la formula maggioritaria cominciò a manifestarsi ben presto. Malgrado la quadruplice etichetta catch all inventata nel 1996 per tenere insieme tutti gli spiriti del centro- destra (Polo per le libertà, il buon governo, la solidarietà, le riforme), Berlusconi cominciava a sentirsi stretto nei vincoli del bipolarismo reale. Perché il bipolarismo ha un aspetto intrinsecamente fastidioso: tende a mettere l'opposizione in un angolo. La costringe a un grigio lavoro di contrasto, a una partita opaca. Il Polo assisteva semi-impotente alla mobilitazione pubblica realizzata da Prodi e Ciampi sull'euro, alla bonifica dei conti pubblici, alla prospettiva di un paese in via d'uscita dalla sindrome emergenziale, e presto in grado di redistribuire quote di benessere. Intollerabile. Per questo il comportamento del centro-destra ha oscillato vistosamente fra atteggiamenti bipartisan (la missione in Albania, la guerra del Kosovo, l'elezione di Ciamp)i, e irrigidimenti aventiniani, quando il governo decideva di procedere a marce forzate (ad esempio sulle leggi finanziarie). Ma il punto critico della questione era esplicitamente politico. Era possibile fare saltare il confine bipolare? Non si poteva spezzare il vincolo della formula maggioritaria? In altre parole, qual era la strada per andare effettivamente oltre la divisione in due blocchi, in modo da riportare nella parrocchia comune dei moderati gli elettori centristi rimasti nel recinto di sinistra? Mentre Gianfranco Fini teneva duro sul rito bipolarista, Berlusconi cominciava a intingere la mano nell'acquasantiera proporzionale. Tanto più che dopo la crisi del governo Prodi nel 1998 era apparso evidente che le capacità di autoconservazione della maggioranza ex ulivista erano più salde del previsto. Lo sbarramento a destra teneva; Francesco Cossiga si era impegnato in un sovrumano disegno politico che in un futuro imprecisato avrebbe portato alla ristrutturazione del sistema politico in chiave europea, ma intanto si alleava con D'Alema, trascinandosi dietro spezzoni del centro-destra. Occorreva quindi un progetto diverso. Con l'intuito che anche i più fieri avversari gli riconoscono, il Cavaliere aveva avvertito una brezzolina revisionista. In fondo, la prima Repubblica aveva già conosciuto un bipartitismo, ancorché imperfetto, quello fondato su Dc e Pci. Svanita la foga "novista", smorzatasi l'onda alzata da Mani pulite, attenuatasi la fede salvifica nel dogma maggioritario, si delineavano le condizioni per il progetto "tutti a casa". I moderati con i moderati, le sinistre con le sinistre. Ecco allora l'idea sparigliatrice. Ci voleva una simil-Dc, una Dc del Duemila. L'adesione al Ppe costituiva un ottimo viatico. Il mancato quorum del referendum antiproporzionale nella primavera 1999 rappresentava un complemento insperato quanto benaugurante. Già nelle azzurre giornate del 1994 Berlusconi digrignava quando lo definivano di destra: "di centro, Forza Italia è di centro". Il capo del Polo era pronto per la sua seconda grande operazione politica dopo l'invenzione di Forza Italia. Una Dc senza preti e sacrestie, una Dc patrimoniale, secolarizzata e pubblicitaria. E non solo: dato che nella prima Repubblica il sistema Dc implicava una costellazione di alleati, occorreva anche ricomporre il mosaico del pentapartito. Un settore cattolico era già in casa, con il Ccd di Pierferdinando Casini, marchio di garanzia post-dc. Una quota di socialisti era presente anch'essa. Sciolto dai suoi gravami giudiziari, il senatore a vita Giulio Andreotti rilasciava dichiarazioni di studiata cura verso Forza Italia. La scomparsa di Craxi, con l'esplosione mediatico-politica del lutto per la morte, la "Repubblica dei partiti", era un richiamo della foresta. E infine anche Giorgio La Malfa si faceva rilasciare dal suo congressino il mandato ad aprire a Berlusconi. La strada verso la nuova Dc è complessa, anche perché lo schema bipolare sarà pure stato annichilito dai comportamenti politici effettuali, ma è stato assimilato dall'elettorato. Quindi Berlusconi sfoggia due facce. Da un lato sorregge l'alleanza di centro-destra, cercando di allargarla. In questo senso, l'accordo con Umberto Bossi per le regionali di aprile sarà pure, come ha scritto Indro Montanelli, "una machiavellatina di borgata", ma da un altro punto di vista è la ricostituzione del "partito dei produttori", è la pacificazione con la provincia settentrionale, è il ceto medio più la televisione. Dall'altro lato, Silvio continua il lavoro in vista della "sua" Dc. Grande freddo verso il nuovo referendum antiproporzionale. Gelo verso i referendum "sociali". Scarsa enfasi sul mercato e le liberalizzazioni. Spot rivolti alle famiglie e ai giovani, segnali alla gerarchia ecclesiastica, sguardi d'intesa verso il cattolico liberale Antonio Fazio. Ci siamo dimenticati che la Dc classica è stata a suo modo un partito pro labour? No, naturalmente. In questo senso, sulla strada della democristianizzazione rimangono due ostacoli: uno robusto, quello dei referendum, e l'altro fastidioso, cioè Gianfranco Fini. Chissà, forse la "vecchia" Forza Italia si sarebbe tuffata a pesce dentro i referendum sul lavoro, esibendo i Tremonti e i Martino, nel nome di un liberismo euforico; mentre la "nuova Dc" non può farsi imbrigliare in una posizione neoconservatrice à la Thatcher o, si parva licet, alla Bonino. Quanto a Fini, malgrado le ripetute dichiarazioni di compat-tezza del Polo, c'è verso di lui una strategia di breve periodo, nella quale An risulta un portatore di voti essenziale, e una di più lungo periodo, in cui la destra è un accessorio. Il capo di An infatti è troppo cocciutamente bipolarista, troppo referendario, troppo schematicamente decisionista (vedi il suo blitz referendario). Così il Cavaliere gli fa pervenire messaggi obliqui, con i risultati di sondaggi sempre più nefasti, sotto il 10 per cento. Nel frattempo, Berlusconi sommerge l'Italia di numeri, con dati che innalzano Forza Italia oltre la soglia del 30 per cento. Ma nella realtà è di fronte a un compito che va al di là degli appuntamenti elettorali contingenti. Dopo essere stato il fragoroso innovatore, si accinge al compito della grande e totale restaurazione. Il partito neodemocristiano, da miraggio che era, si staglia come una profezia capace di autoadempiersi. Si tratta di vedere se il "regime", le sinistre e i loro impauriti alleati di centro avranno voglia di mettersi di traverso e di tenere duro sulla trincea bipolare. O se la sirena centrista, moderata, proporzionalista farà risuonare una canzone irresistibile. E se la paura della sconfitta non consiglierà di ritagliare il potere anziché disputarlo. Perché a quel punto Berlusconi non sarebbe più il "competitor" di D'Alema o di chi per lui, il virtuale capo di un eventuale prossimo governo di centro-destra, bensì il regista supremo, il demiurgo di qualcosa più grande di lui, più grande del bipolarismo, più grande della contrapposizione destra/sinistra: vale a dire il Padre Pio in grado di miracolare, resuscitandone le spoglie sconsacrate, un partito in cui si riflette la forza e la debolezza dell'Italia, il suo eterno centrismo, il suo perenne desiderio di riconoscersi in un partito sistema, in un'estesa, tiepida e benedetta Italian Family.
L'Espresso, 17/02/2000
Giovani soli, senza padri né utopie
Se qualcuno ha in mente le tradizionali organizzazioni giovanili di estrema destra, lasci perdere: esisteranno ancora giovani inquadrati in formazioni politiche legate ai partiti di destra, o attivi in qualche esoterico gruppo dell'antagonismo noir; ma per identificare l'immagine contemporanea del "giovane di destra" conviene dimenticare il mondo politico ufficiale e mettere sotto osservazione i comportamenti diffusi. Oggi infatti la partecipazione a esperienze politiche è un fenomeno minoritario, dal momento che sfiora meno di un quarto della popolazione fra i 18 e i 29 anni. Anzi, la prima ragione per cui una parte del mondo giovanile può essere definita tendenzialmente "di destra" deriva dal fatto fisiologico che si è molto attenuata la partecipazione a esperienze che plasmavano alcuni momenti della crescita personale e che erano riferibili a una cultura di sinistra; e che nella vita quotidiana, nelle scuole, nelle università, nel lavoro, la rivendicazione di appartenenza progressista non è più una distinzione qualificante. Al massimo, gli intellettualini di sinistra riappaiono nelle occasioni canoniche, cioè nelle occupazioni o nelle autogestioni scolastiche, di solito esponendo un pensiero "new age" contro la globalizzazione, il mercato, il privato (e forse senza accorgersi che contro il tardissimo capitalismo una certa destra funziona altrettanto bene della sinistra, De Benoist come Alain Caillé). Ma la tendenza non è lì, la vita reale è altrove. La tendenza va individuata ad esempio mettendo a fuoco che nel giugno scorso, a Bologna, nel ballottaggio fra la candidata del centrosinistra Silvia Bartolini e il candidato appoggiato dal Polo, Giorgio Guazzaloca, oltre il 70 per cento del voto giovanile si è riversato su quest'ultimo. Vale a dire che in una comunità civica animata da una lunghissima tradizione di sinistra, la defezione è stata altissima. Ma si poteva anche segnalare che la socialità progressista non era più trendy da tempo, e che le indagini sul campo avevano messo in rilievo già da almeno un decennio «l'assenza sostanziale di ogni forma concreta o ideale di solidarietà nella rete di valori dei giovani dell'Emilia- Romagna». Dunque per capire perché i giovani pendono a destra occorre fare un passo indietro. Innanzitutto, dire "destra" non significa una visione estremistica, da ultrà, da coatto. Nella società media non ci sono nemmeno giovani haideriani, più o meno connotati in termini nazionalisti o xenofobi. In secondo luogo occorre uscire dagli stereotipi classici, quelli che vedono l'età giovanile come una condizione di "disagio", suscettibile di reazioni politiche in controtendenza verso le idee e i governi in corso. Sostiene Franco Garelli, un sociologo torinese che ha offerto con assiduità analisi del mondo giovanile: «L'indebito ricorso al termine disagio è l'espressione degli imperativi culturali prevalenti nella società italiana. Qui l'idea dell'accompagnamento, dell'apprensione, del sostegno, della comprensione, prevale nel modo di considerare i giovani». Se non c'è disagio, anche le etichette nichiliste con cui da una ventina d'anni vengono ritratte le nuove generazioni vanno interpretate diversamente. Nel 1980 Loredana Sciolla e Luca Ricolfi parlavano di giovani «senza padri né maestri», mentre qualche anno dopo lo stesso Garelli alludeva a una «generazione del quotidiano", cioè immersa nel contingente, e via via le definizioni si sono moltiplicate, quasi tutte sul leitmotiv della perdita di senso, di dispersione nella frammentarietà: «generazione senza ricordi», «senza tempo», «suoni nel silenzio», «generazione di sprecati», «generazione in ecstasy». Ci manca solo Vasco Rossi, con la sua vecchia e urlata «generazione di sconvolti, senza santi né eroi», per arrivare alla perfetta coincidenza fra sociologi e rockstar, fra analisi e autoconsapevolezza. La conseguenza è che di fronte a un panorama simile riesce difficile immaginare la tenuta delle idee e dei simboli politici prevalenti tra la fine dei Sessanta e per tutti i Settanta. L'antifascismo, la Repubblica nata dalla Resistenza, le grandi masse, i lavoratori hanno l'apparenza di oggetti di modernariato. Oggi tutto ciò che appare collettivo tende ad andare fuori corso; perfino il volontariato assume fisionomie locali e specifiche, talora isolate, non riproducibili, poco inclini a dialogare con le istituzioni. Anche prendendo le distanze dagli stereotipi apocalittici (quelli che vanno per la maggiore: il disagio, l'idea della giovinezza come prolungamento infinito dell'adolescenza, un'irrimediabile passività sociale), Garelli riconosce che da un punto di vista culturale i giovani d'oggi sono assai più distanti dalla generazione del Sessantotto di quanto quella generazione fosse distante dalla precedente. I boys della rivolta sessantottina credevano nella politica, e condividevano con i loro padri perlomeno l'idea base dell'agire pubblico, quella del cambiamento. Oggi un terreno comune non c'è, il relativismo è completo, chissà dov'è finita la fede nel partito o nell'utopia. Nella ricerca di qualche punto di riferimento, i giovani d'oggi mettono ai primi tre posti, nella classifica delle istituzioni meritevoli di fiducia, le forze dell'ordine, l'Unione europea, la chiesa cattolica. Vale a dire la polizia, i tecnocrati e i preti. Paradossale o no, per i nipotini della grande festa rivoltosa di tre decenni fa? Ecco allora che un altro esploratore della società contemporanea, Ilvo Diamanti, con l'occhio puntato sulla destrutturazione comunitaria del Nordest, parla di «una generazione poco visibile e poco amata». Che diventa "di destra" perché non sa dove guardare. Al punto che non si capisce neppure se gli inni "di sinistra" del rock system nazionale (tipo Il mio nome è mai più, della banda Jovanotti-Ligabue-Piero Pelù) vengano recepiti e acclamati dagli stadi come un manifesto della sinistra che verrà, quella oltranzista e irriducibile alla moderazione, oppure come uno sberleffo qualunquista verso il politically correct delle sinistre moderatine, tutte unificate dalla guerra santa del Kosovo. D'altronde, per restare nell'intrattenimento popolare, chi potrebbero essere i guru dei "nuovi" giovani: il sessantenne Francesco Guccini, riscopritore della sua passione giovanile per Che Guevara? Una band massimalista, castrista, ed esplicitamente rétro come i Nomadi? I rapper nel circuito autoreferenziale dei centri sociali? E su ben altro versante, qualcuno riesce a vedere in giro un idolo pop più adorato dalle folle giovanili di papa Wojtyla? Tutto questo per dire che il mondo dei giovani vive la sinistra soprattutto come un'assenza. Nemmeno i "new leader" come Tony Blair riescono a lanciare messaggi riconoscibili, e l'universo simbolico di Walter Veltroni, con don Milani, Dossetti e Bobbio, rimane inaccessibile. Gli studiosi cattolici come Pier Paolo Donati sostengono piuttosto che la necessità di vivere in una società eticamente neutra, "che trasforma le scelte etiche in questioni tecniche", impone ai giovani un atteggiamento streetwise, in cui si circola per strada con estrema circospezione, attentissimi a ciò che avviene a ogni incrocio. Insomma, dentro la «società-risiko» descritta dal sociologo Ulrich Beck, ognuno si attrezza come può, in solitudine, senza nessuno che faccia da maestro o da tramite. Appare inutile replicare auspicando visioni «repubblicane» o puntando sulla «religione civile», come indicano studiosi di sinistra come Maurizio Viroli e Gian Enrico Rusconi. Sul piano degli atteggiamenti di massa, scegliere una prospettiva di destra significa semplicemente adattarsi alla pressione dei circuiti di consumo. Di fronte al grande mercato, ma anche in una festa rave, l'unica chance strategica è quella individuale. Insieme con la disgregazione delle agenzie di socializzazione tradizionali, dalla scuola pubblica all'esercito di popolo o alla fabbrica fordista, si afflosciano anche tutte le strategie collettive. Non è un caso che le esperienze di sinistra più radicali, come quella degli squatter, puntino sulla separatezza, anziché sulla richiesta di integrazione. Una volta tagliato il legame con le organizzazioni sociali primarie, e in attesa di vedere se il Seattle movement farà scuola, è naturale che venga tagliato anche quello con la sinistra, che è la meno attrezzata per fornire carte e mappe a una gestione individualista della vita. I giovani diventano di destra, quindi, perché l'atteggiamento di destra è il vero unique mood nel mondo del Duemila. Dentro contesti in cui la socialità si azzera, e in cui il tabù residuale della solidarietà risulta annichilito perché nessuno sa essere solidale né con chi esserlo, l'adesione a una prospettiva individualistica equivale all'assimilazione di una prospettiva di destra. Colpisce che le indagini demoscopiche realizzate dalle grandi imprese o dalle associazioni imprenditoriali mettano in luce, nei settori giovanili interpellati, atteggiamenti favorevoli alla flessibilità, al rischio, al lavoro atipico, con disponibilità al cambiamento e alla mobilità, alla formazione continua e alla competizione permanente. Quale può essere per questi giovani il richiamo politico e sindacale? Insomma, o la sinistra riesce ad allestire in politica "macchine desideranti" capaci di sollecitare pathos e consenso, come ha cercato di fare Anthony Giddens con Blair («lottare contro la povertà, attaccare gli squilibri di potere, agire per la conservazione della natura, creare la nuova tecnologia del sapere»), trasformando la old style social-democracy in un rap postmaterialista, oppure non ha grandi speranze. Nel momento infatti in cui l'unica strategia da definire è quella relativa alla conquista di un oggetto del consumo, cioè quando un comportamento potenzialmente pubblico viene ridotto a una scelta di efficacia tecnica, personale e privata, il pensiero "di destra", c'è poco da fare, diventa irresistibile come un riflesso condizionato.
L'Espresso, 02/03/2000
L’Italia che canta è l’Italia che conta
Chi vince? E chi se ne frega, chi vince. L'importante è esserci, farsi vedere, mostrarsi, sorridere. Farsi vedere anche da tutti gli sfigatissimi che aspettano assiepati sulla passerella sistemata davanti al teatro Ariston, e che non pagherebbero mai diecimila lire per un concerto dei cantanti in gara, ma siccome guardare è gratis fanno urletti quasi convinti quando riconoscono una faccia nota. Qui a Sanremo non è il caso di fare gli schizzinosi. Malgrado la nonchalance di quelli, fra i cantanti, che ostentano di disinteressarsi al risultato del voto delle giurie, dalla prestazione su quel palco dipendono carriere, rinascite, vendite, ricollocazioni sul mercato, presenze televisive. Se toppi lì, puoi uscire dal Barnum. Se ti va bene, ci puoi rientrare. La posta è elevata. E quindi tutti sono gentilissimi con tutti, con le radio minori, con gli scocciatori, con le telefonate in diretta delle casalinghe che dicono tranquillamente «sei un mito», e con quelle del padroncino di turno che fa chiamare dalla segretaria (ma forse è la moglie che dà una mano nell'aziendina) per poter dire a Gianni Morandi che ha tutti i suoi dischi, compreso l'archeologico "Go kart tuist". Complice un sistema di voto da delirio, un sistema a due turni prima con il voto popolare di una giuria Abacus e poi con una giuria "di qualità" che potrebbe ribaltare il giudizio del popolo, non si sa che fine farà Morandi. È arrivato da vincitore, sulla scia di una iperpromozione mediatica, con i giornalisti che hanno accreditato i boatos di un pezzo da leggenda, grazie anche alla produzione di Eros Ramazzotti, improvvisamente divenuto un genio della musica leggera: ma per non saper né leggere né scrivere il suddetto popolo ha detto boh. Il sistema di voto trova difensori convinti solo nella pattuglia Rai, nel suo Saccà-Maffucci, ma i loro argomenti sembrano una difesa d'ufficio del Mattarellum condotta da Casini o da Mastella. Conflitto d'interessi. Oltretutto dopo la prima serata i risultati del voto pop non vengono forniti (Fabio Fazio annuncia solo i primi tre della classifica, la bambola triste Gerardina Trovato, la bambola allegra Irene Grandi, gli scongelati Maria Bazar, senza un dato che sia uno), e i dietrologi cominciano subito a pensare a quali micidiali casini potrebbero combinare nella serata finale i giurati "de qqualità". Nell'attesa, ci si accapiglia sul poco: il sindaco di Sanremo, il forzista Giovenale Bottini, spalleggiato dal coordinatore nazionale di Forza Italia Claudio Scajola, litiga con la Rai perché la Rai non è andata a cena con lui. I cronisti se la prendono con Michele Serra perché ha definito la sala stampa una «suburra». Ma in genere tutti vanno d'accordo con tutti, si fanno i complimenti a vicenda, e quando si incrocia Sergio Bardotti, paroliere d'annata e membro influente della commissione selezionatrice, gli si dice che quest'anno il livello medio delle canzoni è molto, molto alto, così lui è soddisfatto. Si può vedere lo storico direttore di "Sorrisi e canzoni", Gigi Vesigna (di cui tutti hanno dimenticato la sfortunata avventura del "Telegiornale", il defunto quotidiano che aveva il vivente Antonio Di Pietro come garante dei lettori), che fa i complimenti ad Alice, stilizzatissima fino all'immobilità, e quest'ultima che familiarizza con i simil-amburghesi Subsonica, nel nome dell'avanguardia e della coscienza trendy. I popolari di fascia medio-bassa come Ivana Spagna, Mietta o Gigi D'Alessio fraternizzano fra loro, e si confermano a vicenda quanto sono bravi, perché la regola di Sanremo è che ogni cantante ha i suoi fan, e quindi va rispettato, come per una specie di patto consociativo o di Cencelli canoro. Nel frattempo la critica esalta gli Avion Travel, dei guaglioni stropicciati che ogni volta rifanno Napule in salsa brechtiana, e anche Samuele Bersani, forse perché ha presentanto una canzone che sfiora forse involontariamente il dodecafonico. Soprattutto, vanno d'amore e d'ac-cordo i Tre presentatori, Fazio, Pavarotti e Teocoli: anche se ci sarebbe da giurare che sulle note della sigla, il pucciniano e fatale "Nessun dorma" strillato da Big Luciano (ineluttabilmente definito da Fazio «la più bella voce del mondo», oh yes), qualcuno della Rai abbia fatto scongiuri. Perché mai citare il sonno di fronte a una platea di venti milioni di ascoltatori con l'occhio già cadente alla seconda apparizione delle gengive di Inés Sastre? Vanno d'accordissimo anche con Jovanotti, che mobilita energie di alta consapevolezza politica con un rap in cui, in quanto affiliato da tempi non sospetti a Jubilee 2000, chiede a D'Alema di darsi da fare perché si abbatta il debito dei paesi del Terzo mondo: «Presidente del consiglio io mi rivolgo a lei/ promuova un incontro del G7 e lo dica agli altri sei...». Già, eravamo quattro amici al bar. Quanto a Teocoli, alias Avvocato Prisco, alias Cino Ricci, alias Valentino Rossi che purtroppo è uguale a Cino Ricci, ormai è candidabile a tutto. Basta che ci sia un programma con una certa sfumatura di rischio o un certo rischio di flop, ed ecco Teo e le sue Macchiette. Infallibile. Ormai manca solo una candidatura a premier e poi è fatta: qualcuno ci pensi. Nel backstage, lo staff della Rai fa i complimenti alle tette di Alessia Marcuzzi, ride per i Fichi d'India, che sarebbero niente più che i nevrotici Brutos del Duemila, segue con complice compiacimento lo stile di Fazio e le sue timidezze, dicono, davanti alle telecamere. Dopo di che, uno si potrebbe davvero convincere che è tutta una Nashville delle ipocrisie, una enorme parrocchia precipitata fra noi dagli anni Cinquanta, e mediatizzata in modo compulsivo dalla complicità dei media. Ecco a voi il grande carnevale, con i sosia dei sosia, i nani, le ballerine, perfino la componente socialista rappresentata da Caterina Caselli e dal premiato alla carriera Tony Renis. E che fuori, nel mondo reale, la "gggente" abbia invece un occhio più critico, più disincantato, più scettico, insomma più normale o semplicemente più scocciato. Invece no. Lasciamo pur perdere che il Polo prenda sul serio le rapperie di Jovanotti e protesti aspramente contro il presunto "spottone" dalemiano. Ma se si accende la radio, e si ascoltano le telefonate della società civile, ci si può rendere conto che ormai il paese reale è infetto come la sua capitale Sanremo. Pochissimi che chiamino per dire, no, guardate, il festival è stato una vaccata, il re è nudo, Pavarotti sembra il nonno del Re di bastoni, e le canzoni oddìo. No, sono tutti omologati, figli del bipartitismo imperfetto Rai-Mediaset, pronti a fare da platea al Maurizio Costanzo Show, e quindi dicono compuntamente che il livello quest'anno era alto e che mamma mia è difficile scegliere, e che gli Avion Travel, ah che arte, anche se a loro piace di più la coppia tardissimo-trucidissimo-romantica composta per l'occasione da Mariella Nava e Amedeo Minghi. Ecco allora che se qualcuno pensava che solo là, nel paese dei fiori, esistesse il regno del conformismo, e delle mezze parole, e della conventio a non escludere nessuno, eccolo smentito. Le radio popolari che organizzano votazioni via Internet, cioè su un campione di pubblico tecnologicamente avanzato, fanno sapere che il più votato sarebbe il tradizionalissimo e non tecnologico Morandi. Insomma, la verità è che non c'è alibi. Non per stramenarla con il paradigma della sociologia da talk show secondo cui il Festival sarebbe uno specchio dell'Italia, o viceversa, ma il fatto è che Sanremo e l'Italia coincidono. Semplicemente. È l'Italia contemporanea che ha imparato a dire: mi piace questo ma non mi dispiace neanche quello, e complimenti per la trasmissione, auguri per il disco e saluti alla Marcuzzi. È l'Italia che dice «sono sereno» di fronte al rischio della galera o di fronte alla sconfitta all'Ariston. È l'Italia che canta, è l'Italia che conta.
L'Espresso, 09/03/2000
Peggio le tribune d’onore o le curve degli ultrà?
Damiano Tommasi, centrocampista della Roma, la mette sull'"I have a dream": «Vorrei vedere due squadre, insieme al centro del campo, vincitori e vinti ugualmente sereni, salutare il pubblico al triplice fischio come si usa in qualsiasi teatro alla fine dello spettacolo». Purtroppo non è possibile. Perché anche il calcio, come potrebbe dire un grande antropologo come Clifford Geertz, è l'esatta e imbarazzante riproduzione del conflitto fra mondo globale e mondi locali. Nella realtà mondializzata e interdipendente, nell'universo della new economy, il calcio infatti è un tassello della megamacchina, materiale per il trattamento mediatico, dove non importa se sei bianco e tendenzialmente coatto come Totti, nero e bionico come Davids, giallo e sponsorizzato come Nakata. In questo dominio della tv analogica e digitale, le differenze etniche e culturali sono svanite. Si archiviano facilmente le magliette pro Milosevic del serbo Mihajlovic così come le trovate umanitarie di Batistuta per il bambino malato e tifoso. Ma si dà il caso che l'iper-calcio attuale conviva con il tifo razzista degli ultrà, con le croci runiche, con il razzismo delle curve, con la richiesta di forni crematori per gli ebrei o di colate laviche per le squadre del Sud. Dove il lessico dominante è davvero quello dell'allenatore del Bari Eugenio Fascetti, che attacca i "negri" che sputano in faccia agli avversari sangue potenzialmente infetto, e dove il rumore di fondo è dato dai cori dei laziali contro il "negro" Van Gobbel del Feyenoord. Razzismo? Sì, ma più che altro come scontro di fazioni. Il nostro "negro" è un prodigio di classe, di fisicità, di dinamismo creativo: il vostro è un intruso, sporco e magari portatore di retrovirus. Quindi i decreti governativi contro gli striscioni razzisti sono un palliativo pedagogico. Perché come a suo tempo l'antisemitismo era il socialismo degli sciocchi, l'indecenza intollerante dei "buuuh" dà voce a un residuo di vocazione tribale, in cui si esprime l'ultima e distorta appartenenza comunitaria. Mentre le squadre diventano compagnie di mercenari, la sola identità calcistica residua è quella del tifo organizzato e haiderizzato. Dato che non è possibile abrogare il mercato, non sarà meglio abrogare i tifosi? Perlomeno bisognerebbe uscire dall'equivoco delle tribune piene di establishment e delle curve popolate di clan incanagliti: senza che l'élite politico-economica si ponga il problema che con la sua presenza nei posti d'onore, in fondo, possa legittimare i comportamenti di quelle tribù.