LA STAMPA
LA STAMPA, 07.07.1996
LAVORI IN CORSO A SINISTRA
A dispetto di una settimana di discussione pubblica molto accesa, non si è ancora capito che cosa abbia spinto Massimo D'Alema a riaprire il cantiere dei lavori a sinistra. Il segretario del Pds era reduce da un successo elettorale insperato. La vittoria dell'Ulivo aveva rappresentato la consacrazione delle sue capacità di tattico. E la formazione del centrosinistra era avvenuta sulla base di un principio politico semplice e lineare, cioè l'alleanza fra il partito ex comunista e la sinistra cattolica. C'era, è vero, qualche fogliolina laica, e c'erano anche alcune figure residuali dell'area socialista. Ma non c'è dubbio che se l'Ulivo ha, o aveva, un cuore, questo pulsava sul ritmo del compromesso fra il Partito popolare e il pds. Compromesso che in parte risaliva alle storiche contiguità fra la sinistra democristiana e il pci, e in parte era stato stipulato come «fronte del rifiuto» verso Berlusconi e la sua creatura politica. Date queste condizioni, non c'era in apparenza alcun bisogno di lanciare messaggi all'area socialista dispersa a suo tempo dal crollo del psi. Sono anni che il pds cerca di accreditarsi, più o meno plausibilmente, come l'autentico esponente ed erede del socialismo riformatore. Niente quindi impediva di considerare definitivo l'incontro politico con i cattolici del ppi, senza cercare avventure, tenendo anche nel debito conto che la vicenda craxiana si era caratterizzata per l'aspra polemica proprio contro la sinistra democristiana e il Pci-Pds, cioè i due futuri sottoscrittori del patto antiberlusconiano. Invece, D'Alema ha sparigliato. Ha riconosciuto a Craxi (al Craxi «buono») di avere intuito «l'esigenza di una modernizzazione» e ha mandato messaggi irresistibili a Giuliano Amato, il politico più abile e l'intellettuale più sofisticato giunto al potere sotto l'ala craxiana. Dopo di che, mentre Amato rispondeva che «vale la pena di tentare», è scoppiato il finimondo, tutto è entrato in movimento. È realistico pensare che il segretario del pds non avesse calcolato gli scossoni che le sue aperture hanno provocato? Insomma che il semi-sdoganamento di Craxi fosse soltanto un espediente retorico per riprendere uno dei giochi preferiti a sinistra, la seduta di autocoscienza su com'è e come dovrebbe essere la sinistra in Italia? Difficile crederlo, per un leader prudente come D'Alema, anche se di fronte ai primi clamori della discussione il segretario pidiessino ha risposto piuttosto accademicamente, segnalando con un certa scolasticità la necessità di costruire una sinistra capace di riassumere in sé le ragioni del riformismo socialista: riflessioni che potrebbero risultare di qualche pensoso interesse in un seminario politico ma di scarso spessore nella politica «pratica», con un pds impegnato nell'acrobazia di governare il risanamento del Paese senza entrare in conflitto con se stesso. Ci sarebbe per la verità anche l'ipotesi del marketing politico: sotto questa luce, D'Alema potrebbe avere giudicato recuperabile da sinistra quel quindici per cento di elettorato che votava psi. Ma è un'ipotesi scarsamente realistica se si pensa che per una quota ampiamente maggioritaria quello socialista non era più ormai da tempo un elettorato di sinistra, se è vero che la sua tradizionale ripugnanza per il connubio «cattocomunista» lo ha portato in prevalenza sulle sponde del Polo. E allora? Si può concedere senza alcun pregiudizio che D'Alema avverta davvero l'esigenza di rettificare in via definitiva l'immagine del pds, raschiando via le ruggini postcomuniste. Tuttavia per comprendere le sue iniziative occorre anche fare i conti non con l'ideale ma con la situazione politica effettuale. D'Alema, innanzitutto, ha fatto capire che dell'Ulivo non gliene importa nulla. Per un realista come lui, le coalizioni elettorali si possono sempre rimettere in piedi, con le contrattazioni al momento dovuto. A lui interessa, com'è logico per un postcomunista perfetto, il pds: e cooptando in qualche forma alcuni generali e colonnelli ex socialisti può facilmente elevare la quota di egemonia del pds sull'intera sinistra. Qualificando il suo partito come una formazione robustamente socialdemocratica, da un lato fa sbiadire i progetti veltroniani ispirati dalla vaghissima idea del «partito democratico»; dall'altro, dicendo «il socialismo sono io», riequilibra la bilancia a sinistra, consegnando Rifondazione comunista a un ruolo di pura testimonianza, a un antagonismo che alla lunga potrebbe risultare sempre meno credibile. E poi, naturalmente, c'è il ruolo particolarissimo di Giuliano Amato. Cioè una figura che evoca alcune caratteristiche attraenti oggi e potenzialmente ancora più interessanti in prospettiva. Amato infatti riassume in sé le qualità dell'uomo di governo e del virtuoso di temi costituzionali. Per le necessità istituzionali di D'Alema, che ha un interesse strategico nel fissare definitivamente il funzionamento del congegno bipolare, l'ex teorico della «grande riforma» craxiana, semipresidenzialista allora come oggi, può essere il meccanico capace di smontare e rimontare le istituzioni nel caso che centrosinistra e centrodestra decidano di mettere in pista la macchina delle riforme. Nel caso poi che le riforme dovessero implicare un governo diverso, non sarebbe colpa di nessuno, ma solo un felice dono del caso, se D'Alema si trovasse a disposizione, nel momento più critico, l'uomo giusto per il posto giusto.
LA STAMPA, 04.07.1996, SOCIETA' CULTURA & SPETTACOLI
L’ILLUSIONE DEL POPOLO SOVRANO
Cinquant'anni di «Repubblica dei partiti» hanno impedito l'affermarsi di una visione politica populista. Le maglie del sistema partitico hanno stretto la società italiana in modo tale che la «volontà del popolo» è sempre stata incanalata, mediata, trattata politicamente dai partiti. Per trovare nella politica italiana un'eco sinceramente populista occorre risalire fino all'Uomo qualunque di Guglielmo Giannini. Ma nella demagogia di quel giornale, fondato a Roma nel 1944, e poi nell'esperienza politica successiva, ciò che si coglieva in misura maggiore era il rifiuto della politica, dei suoi strumenti e degli uomini che la incarnavano: «Noi non abbiamo bisogno che d'essere amministrati: e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici. Basta un buon ragioniere: non occorrono né Bonomi né Croce, né Selvaggi né Nenni né il pio Togliatti né l'accorto De Gasperi». Se alla voce populismo si controlla invece la definizione che ne ha dato uno dei maggiori scienziati politici americani, William H. Riker, nel volume Liberalismo contro populismo (di recente tradotto dalle Edizioni di Comunità con una introduzione di Daniela Giannetti), il qualunquismo non otterrebbe la dignità dell'aggettivo «populista». Scomparso nel 1993 e noto per avere pubblicato nella prima metà degli anni Sessanta The Theory of Political Cohalitions, un saggio che per la prima volta applicava la teoria dei giochi all'analisi delle coalizioni politiche, Riker vede nel populismo qualcosa di diverso: «L'essenza del populismo è riassunta in questa coppia di proposizioni: 1) le decisioni politiche devono riflettere la volontà di un popolo come un tutto; 2) il popolo è libero quando la sua volontà è legge». Il fatto è che secondo la lettura radicale di Riker non esiste uno strumento capace di rivelare la volontà del popolo. C'è una sorta di vizio ontologico della democrazia: gli individui sono coerenti, la società no. Le elezioni decidono quale alternativa vince, ma sono sempre soggette al sospetto di fondo, ineliminabile, che una diversa alternativa, potenzialmente migliore, meglio organizzata avrebbe potuto battere quella risultata vincente. E se allora non sappiamo realmente qual è la volontà popolare, non c'è alcuna possibilità di tradurla immediatamente in legge. Al contrario l'«essenza dell'interpretazione liberale del voto» consiste nell'idea che esso consente la sostituzione degli eletti», cioè la punizione degli uomini politici che hanno scontentato gli elettori. Liberalismo dunque come concezione «debole», o addirittura debolissima, minimalista della democrazia, ma in quanto tale opposta all'idea «forte» del populismo, che rischia di trasformarsi in tirannide non appena una minoranza pretende di realizzare in modo coercitivo la volontà popolare presunta, o allorché scatta un cortocircuito mistico che salda leader e popolo in un'esperienza plebiscitaria. Ad applicare questi schemi alla vicenda italiana dal 1946 in avanti, la storia del potere democristiano può essere in una certa misura reinterpretata. Erede almeno nominale del «popolarismo» sturziano, la dc non ha mai ceduto a un'intenzione populista: perché sapeva di rappresentare un universo sociale troppo composito per essere semplificato in un programma unitario di governo. Fra le istanze che la dc poteva tradurre politicamente facendosene portatrice immediata c'era la discriminante anticomunista; ma tutto il resto era il riflesso della sua matrice interclassista, e quindi del suo variegato insediamento sociale. La dc poteva invocare le ragioni ultimative del mandato popolare per quanto si riferiva alla sua identità di baluardo contro il pci; sugli altri piani, era il partito dei cavalli di razza, delle correnti, dello stato sociale interpretato in versione assistenziale, particolaristica, corporativa, settoriale: ben più che l'interprete di una coralità nazionale, era un partito della mediazione fra interessi differenti. Sta di fatto che la storia politica della Prima Repubblica va quasi tutta sotto il segno dello scambio fra i partiti piuttosto che sull'applicazione di programmi sanzionati dal risultato elettorale. Negoziato politico continuo e contrattazione parlamentare a usura anziché traduzione del programma elettorale in immediati atti di governo. Forse il solo uomo politico democristiano che avesse una visione in senso lato populista della politica fu Amintore Fanfani, in quanto pensava a una dc capace di sovrapporsi esattamente alla società italiana e di rappresentarla tutta attraverso articolazioni fondamentalmente corporative. Il primo vero strappo rispetto alle convenzioni di questa democrazia contrattata fu operato da Bettino Craxi. Giocando all'interno del bipartitismo dei due partiti maggiori, la dc e il pci, Craxi tentò di guadagnare una posizione di vantaggio facendo concorrenza a entrambi. Grazie a un classico esercizio di «partnership rivale», divenne contemporaneamente capo del governo e capo dell'opposizione alla dc. Per ottenere questo scopo usò senza esitazioni il ruolo del suo partito come portatore di un'alternativa interna all'equilibrio politico, alternativa basata sull'asserzione che il psi fosse il rappresentante di ceti moderni, «emergenti», desiderosi di trovare nella politica una rapido riscontro delle loro aspirazioni, delle loro preferenze e dei loro desideri. Proprio qui risiedeva una delle ragioni principali dell'insofferenza di Ciriaco De Mita per il craxismo. Individare il proprio elettorale come qualitativamente migliore rispetto ai concorrenti era, secondo il leader irpino, qualcosa di profondamente antidemocratico. Sotto questa luce non ha quindi tutti i torti Paolo Flores d'Arcais a cercare il filo del populismo italiano lungo un'esperienza che conduce da Craxi a Berlusconi. Malgrado le ripetute dichiarazioni di liberalismo e di moderazione, il capo di Forza Italia è entrato in politica, nel 1994, dando corpo a un'ispirazione esplicitamente populista. Il Cavaliere alludeva a un'Italia nuova, stanca delle liturgie politiche «consociative», capace di produrre e di guadagnare. Conquistato il governo, ha via via precisato questo tratto populista con immagini come quella dell'«unto del Signore», l'uomo politico divinizzato dalla volontà espressa dal popolo nelle urne, e più in generale con la creazione di una specie di fondamentalismo del sistema maggioritario, secondo cui la vittoria elettorale attribuisce ai vincitori una missione, una facoltà di comando, l'attribuzione diretta del compito di governare. A fronte del quale, ricorda spesso Riker, i vincoli costituzionali che ritardano il processo di traduzione in legge del programma elettorale «sono intollerabili». Chi sono oggi i populisti italiani? Uno degli indiziati maggiori è naturalmente Gianfranco Fini, per la cultura «sociale» di cui è figlio e per la lunga adesione del suo partito d'origine a criteri non liberali. Ma la presenza in An di tratti nazionalisti e perfino autarchici, l'ostilità al mercato, la funzione corporativo-populista di rappresentanza di alcuni ceti (borghesia notabilare, pubblico impiego) non è sufficiente secondo un intellettuale di destra come Marcello Veneziani a fare del partito postfascista un autentico campione del populismo, per l'incapacità a vivere fino in fondo la fusione «bollente» di socialità, cattolicesimo, tradizione culturale italiana, personificazione della leadership. Probabilmente è più populista di Fini, se si vuole, il socialista anarchico Fausto Bertinotti, continuamente alla ricerca di una connessione fra il ruolo parlamentare di Rifondazione comunista e la mobilitazione di piazza. Tuttavia il leader populista per eccellenza, non occorre dirlo, è Umberto Bossi. Non c'è nessuno come lui che riesca a riferirsi a entità misteriose, come il «popolo» del Nord, o la Nord-nazione, e a tramutarle in realtà spendibili politicamente. La forza di Bossi, o il suo bluff populista, prende l'avvio proprio dalla svalutazione del dato elettorale, che attribuisce alla Lega percentuali minoritarie nel Nord; e nell'evocazione di una volontà popolare per ora nascosta, che si rivelerebbe al momento buono, cioè nelmomento fatale della secessione, con una forza unanime e travolgente. Quello di Bossi è un esercizio di altissima acrobazia, visto che da un lato propugna il separatismo come opportunità democratica, cioè espressione diretta della sovranità popolare, mentre dall'altro contesta le consultazioni elettorali, cioè un tipico esercizio democratico, come irrilevanti rispetto all'opzione massimalista, la secessione, di cui lui solo conosce il consenso di fondo nella cosiddetta Padania. E infatti di Bossi si parla come di un animale politico, si allude al suo fiuto, alla capacità di percepire e interpretare umori diffusi. Un analista come Riker, dedito alle sue equazioni matematiche per scoprire perché preferenza individuale e scelta sociale non coincidono, non accetterebbe mai ragionamenti su queste basi: e fra una bacchettata e l'altra darebbe il colpo definitivo a Bossi spiegandogli che il ruolo più efficace del federalismo americano non è la separazione delle funzioni tra il governo centrale e i governi locali, ma il decentramento dei partiti politici che rende impossibile la loro egemonia a livello nazionale. Cioè non è una formula magica, ma un vincolo costituzionale. Anzi, a dirla tutta, uno di quei vincoli che impediscono all'onda populista di dilagare.
LA STAMPA, 30.06.1996, INTERNO
ROMANO MOSTRA I MUSCOLI CON L’ARCO DI ROBIN HOOD
Dev'essere il clima eccitante degli incontri al vertice, quell'atmosfera cameratesca in cui si discute con Bill e con Helmut, con John e con Georges: era già successo a Silvio Berlusconi, entusiasmato dal G7 di Napoli fino da prospettare ipotesi notturne fin troppo complici e comunque assai poco protocollari al Clinton che contemplava incantato la luna dalla reggia di Caserta. Sta di fatto che a Lione anche Romano Prodi si è fatto prendere dall'aria evidentemente frizzantina del summit e all'improvviso ha cambiato marcia, lessico, atteggiamento. E dunque ecco a voi il Prodi pugnace. In parte sarà stata la reazione al trauma causato dal siluro sganciato venerdì dal commissario europeo Mario Monti, il quale aveva segnalato che il dpef, il documento di programmazione economica triennale presentato dal governo, costituisce l'ammissione effettiva, la prova provata di non poter centrare il bersaglio della moneta unica alla data d'avvio. Insomma, un'abdicazione. L'irritazione manifestata dal presidente del consiglio è apparsa così acuta da far pensare che le critiche di Monti siano state percepite da lui non tanto come valutazioni di macroeconomia, un risultato della triste scienza, bensì come il dito nella piaga infilato, da chi?, no, non da un'alta personalità istituzionale europea, e neanche da un accademico pari grado, ma piuttosto da un concorrente pericoloso, chissà, forse il futuro candidato di un Ulivo di centrodestra. Ma soprattutto ha colpito il tono usato da un Prodi «su tutte le furie». Perché a suo giudizio l'irriguardoso Monti «ha ottenuto il singolare risultato di mettersi in contrasto con il presidente dell'Unione europea, il quale ha tessuto le lodi del dpef, e con il governo del suo paese». Berlusconi, lo sappiamo, sarebbe stato più immediato, più icastico: «C'è chi rema contro», ma la sostanza del Professore non riesce a essere troppo diversa dalla forma del Cavaliere. Ieri, poi, il Prodi furioso ha indossato all'improvviso i panni e le parole di un uomo politico che prova (qualcuno dirà finalmente) a costruirsi un carisma, mitologizzando il proprio ruolo. Se Berlusconi si era dato l'effigie di Masaniello, il ribelle sfortunato, Prodi si è sbarazzato di quella di Balanzone, appiccicatagli sul volto gli avversari, e ha scelto quella anti-thatcheriana di Robin Hood: bandito a tutti gli effetti, ancorché buonista. Alle critiche di Sergio Cofferati e della Cgil, ha risposto con puntiglio che invece alcuni esperti del sindacato hanno felicemente riscontrato che la manovra non colpisce i redditi più bassi: «Per la prima volta Robin Hood agisce nella giusta direzione». Già, ma è tutto da vedere che il compito di un governo, per quanto di centrosinistra, sia quello di rubare ai ricchi per dare ai poveri. I precetti socialdemocratici, come insegnava Olof Palme, prevedono la tosatura dell'agnello, non il furto di una parte del gregge. Un bon mot poco riuscito? Può darsi. Eppure sembra indubitabile che l'aria di Lione abbia allargato più del solito i polmoni politici del premier. Prodi ha preso fiato in quella piacevolissima brezzolina gallica e si è sentito davvero ringalluzzire. Ha abbandonato la prima persona plurale in cui si era prudentemente rinchiuso durante la campagna elettorale, ed è tornato con un blitz alla prima singolare. Il «noi» precedente il voto era un pronome significativo, un rametto dell'Ulivo, il sintomo di una coalizione. Mentre l'«io» di ieri è quello di un nocchiero che assume su di sé, sulle proprie capacità di timoniere, le sorti di una nazione: «Ho intenzione di portare in Europa un paese vitale, non un paese morto». Talvolta i mutamenti di stile testimoniano di una metamorfosi del profilo politico. E quindi è possibile che Prodi, consapevolmente o no, stia reagendo alle prime difficoltà del suo governo cercando nel linguaggio e nei toni un contatto più diretto con i cittadini. Si può leggere in questo modo la decisa rivendicazione secondo cui il governo «non può dipendere dalle dichiarazioni né della Confindustria né dei sindacati»: ci fosse stato nei pressi un Tatarella ulivista avrebbe potuto utilmente aggiungere all'elenco dei poteri forti: né della Banca d'Italia (tiepido, fra l'altro, il governatore), né della Fiat, né della Corte costituzionale. Insomma, sabato 29 giugno, in terra francese, potrebbe essere nato un Prodi assai meno professorale e molto più capo politico. Che mostra i muscoli anziché illustrare le teorie. Che dell'Italia dice: «un Paese così non può contare nulla», e sostiene la continuità di governo (il suo) è necessaria per aumentare «il peso della nostra politica nel mondo». Guarda caso: scoppiano le prime difficoltà dentro la coalizione di centrosinistra, Rifondazione comunista e i Verdi si oppongono al dpef minacciando di farlo a pezzi in parlamento, i sindacati si dividono e si accapigliano, e il capo del governo sente il bisogno di offrirsi agli italiani come l'uomo portatore di una responsabilità storica, attribuitagli dagli elettori con il loro voto. Troppo poco e troppo presto per segnalare un rischio populista. Ma già abbastanza invece per indicare un principio di berlusconizzazione: e quindi per supplicare il presidente Prodi, quando verrà davvero quello che lui definì «il tempo delle scelte», di evitarci il «lasciateci lavorare» dei leader troppo consapevoli della propria missione.
LA STAMPA, 25.06.1996, SOCIETA' & CULTURA
I NUOVI BOIARDI D’ITALIA
Ogni volta che si prendono le distanze dagli affanni della cronaca politica, riesce sbalorditivo pensare al grande massacro di classe dirigente a cui si è assistito a partire dal 1992, l'anno di Tangentopoli. È vero che quella classe dirigente e quella classe politica (spesso i termini si sovrappongono, data la pervasività della politica) avevano dato una incontestabile prova di inadeguatezza. Ma la loro sostituzione si è rivelata tormentosa. In certi momenti, soprattutto dopo il grande ricambio parlamentare del 27 marzo 1994, si è avuta la sensazione che il nuovo personale politico fosse anch'esso perfettamente inadeguato. «Spesso ci chiediamo - ha scritto Giuliano Amato - perché la classe politica emersa dalla "rivoluzione" italiana non sembra pari al suo compito. E almeno in parte ciò dipende dal fatto che i popolani che maneggiano la ghigliottina sono generalmente meno colti e raffinati degli aristocratici a cui tagliano la testa». Resta il fatto che in Italia mancano strutture come l'Ena, la scuola francese di alta amministrazione, quella che produce gli «Enarchi», strutturatissima aristocrazia di funzionari pubblici che innerva la tecnostruttura della Francia contemporanea al di là di qualsiasi trasformazione politica; e mancano pure le grandi università, le punte di eccellenza della ricerca e della didattica. E quindi si è assistito a un procedere per prove ed errori. Oltre che come invenzione politica berlusconiana, partito-azienda, dimensione postmoderna della politica, Forza Italia può essere anche considerata come il tentativo di portare a faccia a faccia con il governo del paese l'Italia delle professioni e dei professionisti, una classe di non-politici convocata per gestire la cosa pubblica. Avvocati, medici, notai, ma anche operatori turistici, venditori di pubblicità, mediatori finanziari: uno strato di lavoratori autonomi accomunato dall'idea che l'Italia, cioè una società complessa, potesse essere amministrata con le tecniche semplificatorie dell'azienda individuale. Tuttavia il partito delle partite Iva non poteva trasformarsi in classe dirigente in un lasso di tempo così breve. Prima infatti c'erano i partiti storici, con le loro lente ma sicure tecniche. C'era il pci-pds, che a lungo ha allevato i suoi dirigenti alle Frattocchie (e il nuovo libro di Miriam Mafai, Botteghe oscure, addio, è esemplare nel raccontare come la scuola di partito non insegnasse soltanto un burocratico breviario marxista, ma anche uno stile di vita, una sorta di moralità proletaria con le sue regole e anche le sue ipocrisie). Oppure la dc, abituata a reclutare i propri uomini sia dentro istituzioni come l'Università cattolica e all'interno delle strutture del cattolicesimo impegnato politicamente (come la Fuci e l'Azione cattolica prima della scelta religiosa), sia nelle forme tradizionali di attività politica dentro il partito e le correnti. Erano processi di formazione lenti, dentro apparati solidi, sicuri, apparentemente immutabili. Ma il crollo di molti dei vecchi partiti ha lasciato nuda la politica. Soprattutto sul piano culturale. Perché per la politica la cultura non serve a nulla quando c'è: se non è solo un ornamento, è al massimo uno strumento parallelo di formazione e aggregazione del consenso; ma quando manca sono guai. Il mercato e il privato formano professionisti, ma non professionisti della politica. Così Silvio Berlusconi deve rivolgersi a un professore della Bocconi, Giuliano Urbani, per costituire l'embrione programmatico di Forza Italia, l'Associazione per il Buongoverno, e a un giovane intellettuale cattolico moderato, Paolo Del Debbio, per coordinare il programma elettorale del nuovo movimento politico. E non è stato sufficiente. Per rilevare con più precisione la fisionomia liberale del Polo, Forza Italia ha dovuto portare poi in parlamento un intero partitino di intellettuali (Lucio Colletti, Marcello Pera, Saverio Vertone, Piero Melograni, Giorgio Rebuffa), appaltando loro la «linea». Mentre a Gianfranco Fini non è bastato l'apporto di Domenico Fisichella, il progettista «ideologico» di Alleanza nazionale, per rendere immediatamente plausibile sul piano culturale la svolta postfascista dell'msi. E difatti il lato più debole delle tesi di Fiuggi, in cui an cercava di precisare la propria revisione, era proprio quello culturale: «Nella cultura politica della Destra c'è posto per il decisionismo di Schmitt e le elaborazioni del sociologismo politico di Pareto, Mosca e Michels, per l'antistatalismo di don Sturzo e la critica alla partitocrazia... per Prezzolini e Papini, Marinetti e Soffici, Evola e D'Annunzio»: se uno ci cercava un fondamento liberale trovava piuttosto «una cultura che raccoglie in modo eclettico i nomi più disparati, molti dei quali francamente nemici di quel primato di libertà affermato con enfasi dalle tesi» (Gian Enrico Rusconi). La cultura non si inventa. Tanto è vero che nella «Pontignano di destra», nel seminario di san Martino al Cimino, gli esponenti di an sono stati felici di farsi maltrattare dal sadismo intellettuale di Lucio Colletti. Perché cultura significa identità, convenzioni, abitudini, comportamenti, un galateo adeguato alle diverse circostanze in cui ci si trova e quindi anche all'appuntamento col potere. Non è un caso quindi che in una fase di acutissima crisi politico-economica il presidente della Repubblica abbia pescato la soluzione dal vertice della Banca d'Italia, con l'incarico a Carlo Azeglio Ciampi nel 1993 (ma riesce difficile dimenticare che anche Lamberto Dini, prima ancora che ministro del governo Berlusconi, era il direttore generale della Banca d'Italia). Perché l'istituto di via Nazionale non costituisce soltanto un'«autorità indipendente» del massimo prestigio, o un potere «forte» secondo l'interpretazione dell'ex ministro dell'Armonia Pinuccio Tatarella, ma rappresenta anche un luogo di elaborazione di stili peculiari, di concezioni condivise, in nome di un «servizio» pubblico interpretato con elegante e studiato rigore. Ciò significa che quando si interrompe la catena che assicura la trasmissione politica delle competenze, le istituzioni vanno alla ricerca di «riserve», di bacini di competenza rimasti intatti, di risorse inutilizzate o in precedenza escluse dal grande gioco. Fintanto che i partiti hanno dovuto semplicemente fare operazioni di maquillage, o introdurre quote aggiuntive di competenza tali da correggere l'occupazione partitocratica, è bastato attingere dall'università (e c'è stato un «tempo dei professori» in ogni ente pubblico, dall'Iri all'Eni e alla Rai). Anche la magistratura ha fornito un folto personale alla politica. Ma quando la crisi è entrata nella fase acuta, si è assistito alla ricerca sempre più affannosa di operatori politici qualificati, anche se soltanto potenziali. Lo stesso caso del Mulino può essere interpretato non tanto come la storia di un'ascesa al potere sulla base di un progetto politico quarantennale, quanto come un serbatoio di intelligenza politica che «era lì», e che certo era già stato utilizzato, ma che nel momento critico, allorché occorreva costituire l'intelaiatura operativa di un governo, offriva un'amplissima rete di intellettuali e di esperti, una riserva in larga misura inesplorata di conoscenza tecnica e di sapere disciplinare. Il fatto è che i tempi della cultura sono lunghi, mentre ormai quelli della politica ormai sono brucianti, scanditi dalla quotidianità, da aspettative di brevissimo periodo. Per improvvisare un candidato in un collegio uninominale ci vuole relativamente poco, mentre per fare un discreto ricercatore universitario ci vogliono perlomeno vent'anni. E quindi, essendo venute a mancare le strutture politiche entro cui avvenivano le carriere, si è passati al reclutamento dall'esterno. Si cerca il manager fatto e finito e lo si coopta dal settore privato: è il caso di Letizia Moratti alla Rai e, recentissimo, quello di Franco Tatò passato dalla Mondadori all'Enel. Eppure, malgrado la rivoluzione, gli ultimi mohicani, i grandi boiardi di Stato resistono senza considerevoli difficoltà. C'è uno strato di establishment impermeabile a qualsiasi mutamento, che si adatta in modo camaleontico a ogni trasformazione. Non c'è legge maggioritaria o «sistema delle spoglie» che tenga: i dirigenti dell'economia pubblica possono sempre selezionare un referente politico interno alle coalizioni vincenti, e su quel referente attestare la propria posizione, con una controassicurazione reciproca che li rende inamovibili (un esempio dello schema: dopo la vittoria del Polo, si assiste a una conversione di massa ad an, individuando il partito di Fini nella coalizione di centrodestra come l'imprenditore politico del settore statale; dopo la controvittoria dell'Ulivo, si punta su Dini, che per un certo periodo promette di essere un'ottima sponda politica). Si direbbe quindi che l'Italia contemporanea è esattamente in bilico fra necessità del ricambio e legge ferrea delle oligarchie. La trasformazione politica ha portato segmenti di élite prima marginali rispetto al circuito politico a diretto contatto con il potere; ma ciò è avvenuto in stretta connessione con il cedimento del sistema politico. Ciò significa che nel frattempo sono venute a mancare quelle risorse politiche che in precedenza venivano assicurate dai partiti: le solidarietà e i patti di lealtà fra persone e fra gruppi, l'immediato adeguamento di un sottosistema politico alle direttive della centrale politica di riferimento. Ora sono le burocrazie ministeriali ad assicurare la continuità, gli apparati diplomatici, le strutture che garantiscono lo svolgimento della routine. Ma proprio questo potrebbe dare luogo a un conflitto impercettibile ma dalla sorte già segnata: gli uomini che arrivano al governo del paese, proprio perché non sono più automatica espressione dei partiti, tendono ad agire individualmente, senza essere vincolati da una catena di comando. È la situazione migliore per cadere prigionieri dei direttori generali dei ministeri, della opacità delle pratiche operative, dei centri di decisione non trasparenti che costituiscono la mano invisibile che aziona, o preferibilmente blocca, la macchina dello Stato. Ma è anche la prova che un sistema che ha alimentato se stesso sempre per cooptazione, o viene riformato in profondità, oppure resterà il più sicuro fattore di conservazione.
LA STAMPA, 24.06.1996
SE RITORNA IL TEMPO DEI PARTITI
Gli animi semplici potrebbero giudicare curioso tutto l'agitarsi che si avverte nel sistema politico, dentro gli schieramenti e nei partiti. È troppo presto, naturalmente, per formulare giudizi fondati sul grado di consolidamento dello schema bipolare e per individuare eventuali ragioni di insoddisfazione all'interno delle due coalizioni principali. Che esista un «disagio del bipolarismo» è in larga misura fisiologico, dato che la struttura delle alleanze attuali è il risultato di una costruzione artificiale, condotta allo scopo di combinare nel modo meno incoerente possibile ragioni storico-politiche di fondo e interessi politici assolutamente contingenti. Si tratta di capire quindi se le increspature che stanno manifestandosi nella superficie della politica italiana sono il risultato naturale di piccole scosse di assestamento, oppure se sono il sintomo di tensioni che la formula politica attuale nel lungo termine non riuscirà a comprimere. Detto in altre parole, occorrerà verificare se il confine fra la destra e la sinistra è un confine stabilizzato oppure no. Perché se questo confine è un crinale che non lascia possibilità, se non estreme, di attraversamento da un versante all'altro, sarà certo di qualche interesse analizzare come il Polo e l'Ulivo si riorganizzeranno, ognuno al suo interno. Ma se il confine è una traccia indistinta, che può permettere osmosi da un'area all'altra, allora l'attuale formicolio potrebbe presto diventare una turbolenza, e rimettere in discussione tutto il processo politico. Insomma, la prima domanda è se il Polo e l'Ulivo sono fenomeni politici di lunga durata o se invece sono figurazioni transitorie del cambiamento politico, e per ora non ci sono risposte precise. Allorché De Mita rilancia la necessità di rifare la dc, almeno su un aspetto è difficile dargli torto: perché nel nostro paese il bipartitismo, ancorché molto imperfetto, c'era già, ed era quello fondato su dc e pci. Era sterilizzato dal metodo proporzionale e dai comportamenti negoziali dei partiti, ma in quanto schema politico era visibile, ideologicamente motivato, e anche profondamento assimilato dal corpo elettorale. E dunque, se non ci fosse stata la frattura apertasi nel 1992 con la scoperta di Tangentopoli, e la grande sconfitta del «terzo polo» di Martinazzoli alle prime elezioni bipolari, quelle del 27 marzo 1994, niente avrebbe vietato che il bipolarismo venturo fosse basato da un lato sugli eredi della dc (e i loro storici alleati) e dall'altro sugli eredi del pci. Nella realtà, invece, la dc è esplosa, disintegrandosi in vari spezzoni, ed è nata un'articolazione di alleanze contrapposte: che nell'Ulivo risponde a una logica storicamente conosciuta, dato che sulla scia di una vocazione antica ha indotto la sinistra dc all'alleanza con gli ex comunisti; e che sull'altro lato ha dato luogo a una destra frammentaria, in parte autarchica, in parte liberale, in parte cattolico-moderata. Di solito è la storia a produrre gli schieramenti politici. Da noi è stata la cronaca. Ma ci sono due leader che hanno interesse a considerare definitivo il formato delle alleanze attuali. Uno è naturalmente Silvio Berlusconi, inventore del Polo e sdoganatore dei postfascisti, che ha bisogno di coprire la propria debolezza di leadership con la tenuta della coalizione; l'altro è Massimo D'Alema, che è riuscito a mantenere intatta la forza del suo partito e ad avere sul centro un raggruppamento numericamente subalterno. D'Alema non ha nessuna voglia di disperdere il pds nel generico partito democratico che piace a Veltroni. Anzi, ha intenzione di «laburistizzarlo» (è significativa in questo senso l'offerta della presidenza del partito a Giuliano Amato), facendone un classico partito europeo di sinistra, capace di offrire una casa comune anche ai laico-socialisti, e confermando senza confusioni di ruoli l'alleanza con la ristretta area dei popolari. Per questo D'Alema ha fatto capire ripetutamente di non avere nessun interesse alla caduta di Berlusconi e alla conseguente dispersione di Forza Italia. Anche il segretario pidiessino pensa che il bipolarismo esiste in quanto esiste il Cavaliere. Senza Berlusconi, il «disagio del bipolarismo» lascerebbe il campo alla piena turbolenza, gli scricchiolii e le increspature si trasformerebbero in una situazione tellurica, capace di sconvolgere tutto il panorama politico. Si aprirebbe un vuoto nel cuore del sistema politico, tale da attrarre automaticamente risorse ed energie politiche oggi divise. Ma prima di pensare al grande terremoto, si può anche immaginare che assisteremo a piccoli smottamenti, capaci di aprire brecce nello steccato fra gli schieramenti (qualche voto al governo da parte dei centristi del Polo, ad esempio). E, a destra, a prevedibili tentativi di spostare l'equilibrio politico del Polo al centro, con la simmetrica marginalizzazione di an. Fino al 21 aprile la politica italiana si era imperniata sulle alleanze; ora sembra tornato il tempo dei partiti. Visto che quasi nessuno, tranne la Lega o Rifondazione comunista, osa ancora proporre il ritorno alla proporzionale, l'unica conclusione possibile è che stiamo assistendo oggi a un'esercitazione, se non già a una battaglia, sul bipolarismo: fra chi accetta cioè il bipolarismo reale, sancito dai risultati elettorali, e chi pensa a un bipolarismo possibile, dai contorni ancora sfumati, molto simile tuttavia alla storica alternativa dc/pci. Poiché la politica è la scienza del possibile, non c'è da scommettere una lira sulla possibilità che partiti e cespugli si accontenteranno della realtà così com'è.
LA STAMPA, 23.06.1996
LA DAMA NASCOSTA DALLA RAGION DEL CALCIO
Dalla lettura incrociata di Cuore e di Novella 2000 si apprende non solo che il (quasi ex) commissario tecnico della nazionale italiana avrebbe una love story con un'avvenente bionda ventiquattrenne; ma soprattutto che Arrigo Sacchi e Antonio Matarrese hanno concertato un'adeguata pressione sul direttore di Novella 2000, Federico Andreoli, per impedire la pubblicazione della foto dello scandalo (il cittì sorpreso nel quartiere a luci rosse di Amsterdam abbracciato alla ragazza). Pressione riuscita, naturalmente, con conseguente macero della tiratura: perché nel nostro paese è consentito ai giornali rivelare che il capo del governo impegnato in un'assemblea internazionale anticrimine ha ricevuto un avviso di garanzia, ma turbare la pace del profeta della Zona e dei suoi generosi interpreti, quello no. La patria è la patria. E quando la nazione, o la nazionale, è impegnata sul campo di battaglia, o sul terreno di gioco, nulla deve scalfire la serenità dei fratelli d'Italia. Peccato: sarebbe stato divertente se il caso fosse scoppiato prima delle partite decisive. Avremmo ascoltato le severe parole di Sacchi sulla privacy, letto le dichiarazioni di solidarietà dei giocatori, preso atto della solenne testimonianza con cui Matarrese avrebbe richiamato tutti ai sacri doveri, «adesso dobbiamo essere uniti e pensare solo al bene della nazionale». Anche per Sacchi la rivelazione delle sue passeggiate olandesi sarebbe stata vantaggiosa. Al momento buono, anzi, nel momento peggiore, dopo l'odiosa eliminazione, tutti avrebbero attribuito l'insuccesso agli affari di cuore dell'Uomo di Fusignano e al grave turbamento provocato nell'ambiente dall'irresponsabilità dei rotocalchi. Invece dobbiamo accontentarci delle spiegazioni di Sacchi, secondo cui «ci hanno sconfitto i risultati, non il gioco», cioè siamo stati battuti dalla realtà ma siamo vincitori nel mondo delle idee. In attesa di un nuovo cittì finalmente aristotelico, pragmatico, empirista, si temeva insomma di dover sopportare ancora a lungo le dottrine platoniche, i miti della caverna sacchiani, in cui il mondo delle cose non è che una pallida imitazione del Modulo, e la sconfitta è un rovesciamento fastidioso ma irrilevante dell'Idea della vittoria. Poi si viene a sapere che l'Arrigo, a quanto pare, platonico non era affatto. È già qualcosa. Ma che questa cattiva novella sia stata coperta da un poderoso omissis fa vacillare ogni certezza: cherchez la femme, si diceva una volta dopo le sconfitte. Qui invece ha prevalso la Ragion di Calcio, e dopo averla trovata l'hanno occultata. Nascondete la femme. Perché evidentemente le donne, nello sport, sono sempre fatali.
LA STAMPA, 14.06.1996, INTERNO
SOLIDARIETA’ E RIGORISMO LE DUE ANIME DELL’ULIVO
senza descrizione
LA STAMPA, 13.06.1996, TUTTOLIBRI
DOVE FALLI’ IL RISORGIMENTO VINCE IL CONTROPIEDE
«Le passioni e gli interessi» è il titolo di un classico libro di Albert Hirschman, economista atipico, diciamo un trequartista, che dà l'idea di avere scritto diversi saggi con un occhio all'Italia. Ecco infatti la lealtà, la protesta, la defezione; e poi la futilità, la perversità, la messa a repentaglio: decida il lettore se questa terminologia si adatta meglio alla politica o al campionato. E allora, dato un terreno di gioco con le passioni sulla linea di fondo e gli interessi a centrocampo, c'è qualcuno capace di spiegare come si può trovare un modulo equilibrato fra la difesa dell'interesse, che secondo Umberto Bossi spingerebbe il Nord al separatismo, e l'attacco della passione, che eccita al tifo per l'indivisibile Italia del calcio? Altro che secessione. Perfino il federalismo di tutte le magie, nel football, non sembra la soluzione universale. Il pallone ha bisogno da un lato di orizzonti europei, mondiali, globali, dall'altro di campanili, di municipalismi, di antagonismi stracittadini. Nel mezzo, il Big Bang della passione, che alla fine, quando il gioco si fa duro, attrae anche i più duri: perché il calcio è davvero la scintilla che fa scattare l'identità nazionale, nel senso che dove fallì il Risorgimento talvolta riesce il Contropiede. Qualcuno forse ha dimenticato la festa di massa del 1982, dopo il trionfo sui tedeschi al Santiago Bernabeu? Sia lecito ricordare che dopo la vittoria nel Mundial tutti gli osservatori, a partire dall'uomo di regia Alberto Ronchey, cominciarono a parlare di nazionalismo, ben prima della virile partita contro gli americani a Sigonella. Calano i voti della Lega e aumentano le quotazioni della nazionale. Ci dev'essere una relazione. La secessione, ma in questo campo sarebbe più gentile chiamarla Sezession (in memoria di Sindelar, della Mitteleuropa, del gioco danubiano), verrebbe facilmente battuta dalla Zona corta. E intanto è piuttosto suggestivo che la Russia venga sconfitta con due gol di un gran «lumbard» trapiantato a Roma. Vittoria di un giorno? Quanto a domani, be', ci si prepara ad affrontare la grande e crucca Germania con tutta la solennità richiesta da un avversario effettivamente storico. Viene anche il sospetto che potrebbe bastare una semifinale, non si dice la vittoria nel torneo, per rivelare che tutto sommato il Nordest non ha nessuna intenzione di iscriversi a qualche campionato straniero ma sta solo manifestando il bisogno di essere allenato meglio. Cinicamente, qualcuno segnalerà che la nazionale è l'unica forma di organizzazione collettiva che nel paese raccolga consenso, o comunque emozioni forti. Ma è comprensibile: se lo Stato non funziona sono guai senza appello; ma se la squadra di Sacchi non va, si può sempre fare entrare, per dire, Chiesa. Per l'appunto: Stato, Chiesa, stato di grazia, e sperare nel miracolo.
LA STAMPA, 10.06.1996, SOCIETA' CULTURA & SPETTACOLI
MATTEUCCI, IL "DURO" DEI LIBERALI
Ad accennare ai suoi settant'anni si può rischiare una reazione brusca. Perché a Nicola Matteucci, filosofo, costituzionalista, teorico del liberalismo, non piacciono le smancerie private così come non ha amato le convenzioni accademiche. Eppure alla fine ha accettato di buon grado che nei giorni scorsi l'università festeggiasse la fine della sua carriera di docente. E ieri una maxifesta nella sua villa immersa nella campagna bolognese ha dato l'ultimo tocco, quello mondano, al suo compleanno più importante. Non ha mai voluto accettare etichette: «Sono un liberale». E tutto orgoglioso citava Mario Melloni, il Fortebraccio dell'Unità, che lo punzecchiava chiamandolo nei suoi corsivi «il generale Dalla Chiesa del liberalismo». E Beniamino Placido durante qualche scambio polemico: «Matteucci? Era un liberale, ora sembra un fondamentalista del liberalismo». Matteucci ha studiato a Napoli con Benedetto Croce, ma la sua vita è stata consegnata al Mulino. Entra tutte le mattine nel suo ufficio nel centro di Bologna, uno sguardo ai giornali, qualche battuta con chi passa da quelle parti (uno dei più affezionati, Angelo Panebianco). Fra le mura di Strada Maggiore si sente a casa sua: ancora oggi nelle riunioni del Mulino si picca di avere diretto la casa editrice con piglio decisionista ma soprattutto «con sprezzo assoluto del mercato», e di avere diretto la rivista con il più sovrano disinteresse per le simpatie o le appartenenze politiche degli autori. Aristocratico naturaliter, si è avvicinato agli studi sulla democrazia come a un antidoto agli irrigidimenti, al potere che si ossifica, alle élite che non circolano più. È stata la grande lezione della Democrazia in America di Tocqueville a comunicargli il brivido della esperienza democratica come qualcosa di continuamente attuale, collettivamente eccitante, formicolante di modernità. L'amore per Tocqueville si concretò a suo tempo in una serie di saggi e si completa oggi in un volume, che uscirà a fine anno sempre con il Mulino, che presenta una biografia ricostruita attraverso l'epistolario del grande intellettuale francese. Ma al di là di Tocqueville è difficile costringere Matteucci a identificarsi su un autore, su una teoria, su un filone di pensiero. L'unico aspetto che ne ha sempre contraddistinto la riflessione è lo sforzo costante di collocare l'analisi filosofica in una dimensione storica. Lo si avverte nei suoi libri, da La rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale agli studi come Il liberalismo in un mondo in trasformazione. Lo si avvertiva anche nel lavoro svolto con Norberto Bobbio nel coordinamento del Dizionario di politica, una delle opere che hanno raggiunto la dimensione del classico, e lo si avverte nel lavoro che conduce oggi nell'ambito della direzione dell'Enciclopedia delle scienze sociali. Ma lo si percepisce soprattutto ad averne osservato da vicino le simpatie intellettuali, dai flirt intellettuali più rapidi agli amori e alle passioni più costanti. Perché è vero che è un uomo di autori definitivi: Machiavelli, Tocqueville, Croce, con i quali dialoga continuamente. Ma ciò non gli ha impedito di guardare con occhi spregiudicati a tutto il Novecento, ora facendo i conti con la democrazia «dialogica» di Hannah Arendt, ora appassionandosi alla produzione di uno studioso come Friedrich von Hayek, economista capace di incursioni folgoranti nella psicologia e nell'antropologia. Liberale, liberista? Matteucci ha seguito fino in fondo le sue scelte politiche, schierandosi a destra e scrivendo sul Giornale di Vittorio Feltri articoli fiammeggianti contro i peccati veniali e mortali dell'Ulivo. Ma da quando rimase orfano di Ugo La Malfa, il filosofo bolognese è una specie di orfano della politica. Perché il suo conservatorismo contiene una nota radicale che si accoppiava benissimo con il radicalismo del leader repubblicano. Ancora oggi, Matteucci insegue una forma ideale di vita democratica in cui i leader sono figure esemplari, i militanti gente sicura sino in fondo delle proprie idee, con cui ci si misura duramente e senza infingimenti. Ecco, se non ci fosse il rischio di provocarne nuovamente il risentimento, si potrebbe dire che il testimone del liberalismo, il conservatore, l'aristocratico Matteucci ha una concezione della politica da cui traspare un'acuta nostalgia per i partiti di massa, per i comizi, per le piazze animate dalla passione politica: insomma, per qualcosa di autenticamente e sorprendentemente popolare.
LA STAMPA, 09.06.1996, INTERNO
IL PREZZO DELLA SCELTA
Se vivessimo nel paese «normale» annunciato da Prodi e D'Alema, in questi giorni si discuterebbe di come il governo dell'Ulivo sta affrontando i primi impegni. Sarebbe infatti di qualche interesse seguire da vicino il modo in cui l'esecutivo sta programmando la sua azione, anche perché per un governo a tutti gli effetti politico i primi mesi di lavoro costituiscono un banco di prova fondamentale: non solo in quanto dalle prime misure adottate si potrebbe capire con più precisione quali sono le direttrici che intende seguire, ma anche perché da esse potrebbe venire qualche chiarimento in più rispetto all'ampio programma illustrato in Parlamento dal presidente del consiglio. Invece le giornate politiche ormai sono saturate dall'offensiva leghista sul secessionismo, con l'opinione pubblica già in larga parte nevrotizzata dall'indipendentismo folk di Bossi, Maroni e Pivetti. Va da sé che il lancio di ipotesi politiche estreme riesce sempre ad avere la meglio sulle piattezze dell'attività di gestione; ciò malgrado in questo momento risulta piuttosto curioso che non ci sia, neppure da parte dell'opposizione, un'attenzione significativa per l'avvio della fase di gestione. Il fatto è che del governo Prodi sappiamo tutto di ciò che è, mentre sappiamo pochissimo di ciò che farà. O meglio: è un elemento assodato ciò che l'esecutivo di centrosinistra produrrà sul piano della politica economica, dal momento che la scelta di Carlo Azeglio Ciampi come grande timoniere dell'economia parla come un libro aperto: l'ex governatore condurrà la nave italiana sulla rotta della concertazione, inducendo sindacato e imprenditori alla collaborazione triangolare con il governo per programmare rientro dell'inflazione, discesa dei tassi d'interesse, correzione dei conti pubblici, consolidamento della stabilità monetaria. Vecchio metodo, buon metodo, con tutti i suoi limiti. Ciampi ha una stella polare, che è il pieno rientro italiano nell'Unione europea, e si può stare certi che la seguirà fino in fondo. Sotto questa luce la sua presenza nella compagine ministeriale è una garanzia di rigore. Ma è un'illusione pensare che questo governo, un governo finalmente a piena legittimazione politica, possa funzionare alla stregua di un consiglio d'amministrazione, e gestire l'azienda Italia con modalità e strumenti svincolati dalla base politica di cui è espressione. Anzi, il rischio maggiore del governo consiste proprio nel dimenticare di essere figlio di una scelta politica nitida. Il che significa che la sua non può essere un'azione volta solo a ridefinire regole e condizioni di fondo dell'assetto politico-istituzionale (per togliere fiato alla Lega, sul tema federale, e per coinvolgere nelle riforme istituzionali il Polo evitandone una pericolosa digregazione), e neppure una serie più o meno elegante di provvedimenti tesi a riportare sotto controllo le grandezze macroeconomiche. Se la politica ha un senso, il governo Prodi ha il compito di dare risposte al paese facendo riferimento agli elettori che hanno votato per il centrosinistra. Finora su questo terreno non è riuscito ad andare più in là di generose genericità. Né le tesi programmatiche di Prodi né la presentazione del suo programma alle Camere hanno offerto indicazioni stringenti. Il governo ha prospettato un panorama di praticabilità, al cui interno sono iscritte le parole d'ordine dell'Ulivo, quelle secondo cui si dovrebbe coniugare solidarietà e mercato, efficienza e occupazione, privatizzazioni e stato sociale, tagli alla spesa e sviluppo. Il tutto tenuto insieme da uno sforzo collettivo e solidale di mobilitazione, capace di portare il paese verso un approdo sicuro. Le cose per la verità sono più complesse. Fuori dalle astrazioni, c'è da fare i conti sul serio con le condizioni di una società che in molti settori è stata duramente colpita a partire dalla grande manovra di Giuliano Amato dell'autunno 1992, e in cui i segnali di disagio sono fortemente cresciuti. Al momento di passare dai modelli alle scelte, realismo vorrebbe che si valutasse con attenzione la realtà effettiva del paese. Ad esempio: in Italia esiste un'autentica questione salariale, che investe il lavoro dipendente, colpito da una severa politica di contenimento. Questione che si staglia con nettezza ancora maggiore se si considera che la compressione dei salari è avvenuta sullo sfondo di processi di ritorno al mercato o di sensibili aggravi tariffari (come nel caso dell'equo canone o della sanità), che hanno ulteriormente messo in crisi gli standard di reddito di interi ceti. Bene, sarebbe un errore drammatico se il governo dell'Ulivo trascurasse situazioni di questo tipo. Drammatico, l'errore, perché esplicitamente politico. La composita alleanza che ha formato il centrosinistra è nata in parte come comitato di liberazione contro il Polo, ma in parte anche come abbozzo di progetto politico di lungo periodo. Ciò vuol dire che esiste oggi un classico problema di equilibrio e di simmetria tra la funzione di governo affidata all'esecutivo e la funzione di rappresentanza politica propria dei partiti dello schieramento che lo sostiene. Se Prodi perde di vista questo aspetto, magari inseguendo il miraggio di un confuso unanimismo nazionale, sulla base di una «tecnica del governare» data per neutra, i conflitti che rifuggirà all'esterno si scaricheranno tutti all'interno della sua maggioranza. Sono i primi frutti del ritorno alla politica: che in quanto tale incorpora prezzi, e scelte, che non possono essere evitati.