L’Espresso
L'Espresso, 16/03/2000
Cavalier Sorriso e capitan Miracolino
In superficie, la campagna per le elezioni regionali è tutta un gioco di aggregazioni nel centro- destra e nel centrosinistra, con gli inevitabili attriti che nascono allorché si tenta di mettere insieme ciò che è incompatibile (come è avvenuto nel Polo con i radicali) o quando gli alleati minori avvertono come un danno il peso e l'ingombro dei Ds (vedi la Bassolineide con i popolari). Ma se si ha la pazienza di guardare sotto le increspature, e al di là del fatale 16 aprile, ci si accorge che è già in corso la grande campagna delle politiche. E che questa campagna, sottotraccia ma rilevabile, si basa sul faccia a faccia tra due protagonisti, Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi: due uomini, due strategie, due parole d'ordine rivolte alla società italiana. Il capo di Forza Italia ha rilanciato la strategia del grande sorriso. Il presidente del Consiglio si aggrappa alla performance economica, alla scia della ripresa, al "miracolino". Berlusconi sparge l'ottimismo del vincitore. Anche se non perde occasione per riproporre i suoi slogan anticomunisti, contro «quell'ideologia che ha prodotto solo terrore, oppressione e miseria», e che ha come conseguenza «l'ostilità all'iniziativa privata, alla sua logica e ai suoi protagonisti, rimasta intatta nei precordi della sinistra italiana», gli scenari che il leader forzista prospetta all'opinione pubblica sono virati in azzurro. Si rivolge "coeur in man" ai giovani, alle piccole imprese estranee all'establishment, all'Italia del privato e della tv, ai professionisti, agli artigiani e ai pensionati, per comunicare un messaggio e uno solo: avremmo in mano la ricetta per fare del nostro paese una terra radiosa e solo un regime occhiuto e "illegittimo" impedisce questa prospettiva di serenità e ricchezza per tutti. Le convinzioni del Cavaliere sono ferree. Sarebbe riuscito a fare da garante all'alleanza con Emma Bonino, se Marco Pannella non ci si fosse messo di mezzo. Avrebbe distinto sottilmente tra valori ideali e programma politico in modo da estinguere sul nascere i conflitti fra i cattolici proibizionisti del Polo e i libertari della droga legalizzata, fra maggioritari e proporzionalisti, fra opposte interpretazioni della bioetica. La formula di base della sua estesa alleanza è naturalmente quella economica: aznariana, spagnola, liberalizzatrice. E soprattutto popolare, con il formidabile richiamo anti-tasse siglato dalla griffe del fiscalista Giulio Tremonti: «no tax area» per i ceti più bassi, il 23 per cento di imposizione fino a 200 milioni di reddito, un'aliquota massima del 33 oltre i 200. E poi, giù un radicale sfoltimento dalle imposte (otto tasse in tutto), leggi speciali per svincolare le grandi infrastrutture, delegificazioni, semplificazioni, sburocratizzazioni. D'Alema e Vincenzo Visco dicono che sono avventurismi economici? Per Berlusconi sono «la nostra ricetta, che tutti conoscono»: l'unica in grado di indurre il paese alla resurrezione. Possibile? Realistica? Praticabile? Oppure l'enunciazione di una politica economica "by magic"? Nessuno fra gli economisti di tendenza ha ancora valutato il programma polista. A fondamento del manifesto politico di Forza Italia per ora c'è il sorriso di Berlusconi, quella straordinaria fiducia in se stesso che gli fa dire, con rimpianto compiaciuto: «Pensate a che cosa avrei potuto fare, in questi tempi di esplosione delle nuove tecnologie, al ruolo di protagonista che avrei potuto avere nella nuova economia mondiale». Anche nel glorioso e splendente 1994 andava così. Il milione di posti di lavoro era stato percepito dal fiuto dell'imprenditore ed evocato dalla fiducia che lui avrebbe suscitato nelle categorie. La "flat tax" di Antonio Martino era stata crivellata dagli esperti, ma il "penso positivo" era stato immediatamente realizzato con i provvedimenti di Tremonti sulla detassazione degli utili reinvestiti, che per la destra sono rimaste un totem indiscusso della politica del Polo e per gli economisti della sinistra anche liberal un esempio di misure "pro ciclitiche", superflue se non dannose. Insomma, tutta la macchina di persuasione di Berlusconi si basa sulla creazione di aspettative, garantite da lui medesimo in quanto eccezionale suscitatore di energie. Il Cavaliere sorride, promette un governo con personalità strabilianti, si propone come esempio di decoro istituzionale (come quando censura D'Alema per il suo impegno elettorale: «Quando ero a Palazzo Chigi, mi guardai bene dall'intervenire nella campagna elettorale europea», dimenticandosi che era candidato in tutte le circoscrizioni e che portò a casa tre milioni di voti). Sempre più sicuro, sempre più convinto. Ma anche convincente? D'Alema, nei suoi precordi, non sorride affatto: per lui i progetti berlusconiani restano «ricette miracoliste». Anzi, non si limita a non sorridere: digrigna. «In questo paese i dati non hanno molto successo». In sintesi, i dati, anzi, «i risultati straordinari» del centrosinistra, quelli che hanno tolto l'Italia dall'ingrato ruolo di «Cenerentola dell'Europa», sono un deficit all'1,9 per cento, la disoccupazione ridotta dello 0,5 (con l'opportunità di limare un ulteriore un per cento nel 2000), puntando al pareggio di bilancio nel 2003, anno in cui potrebbe verificarsi anche il riequilibrio del debito pubblico al livello del Pil. Retorica "boomish", irride Tremonti. Propaganda di regime, «uno scenario irreale, surreale», ironizzano Berlusconi e i berlusconiani. Secondo economisti del Polo come Antonio Marzano e Renato Brunetta i numeri dalemiani sarebbero frutto dell'oppressione fiscale. Per D'Alema invece il mini-boom è la premessa del miracolo grosso. Manca per la verità ancora un dato, quello della crescita: l'1,4 spuntato nel 1999 è banale, visto l'andamento caldo dell'economia mondiale. Ci vuole qualcosa di politicamente spendibile. Prima della sua malattia, Nino Andreatta lo aveva detto con la consueta verve provocatoria: «Per avere una chance politica abbiamo bisogno di una crescita al 4 per cento». Sembrava il libro dei sogni. Ma ora le cifre ufficiali prevedono per il 2000 un ritmo del 2 e mezzo. E le stime, o le aspettative, sembrano modificarsi al rialzo, anche in seguito all'impennata dell'ultimo trimestre dell'anno scorso. Il 3 per cento non appare più un miraggio. Se un manager carismatico come Marco Tronchetti Provera sostiene che la new economy favorisce l'adattabilità, l'inventività, la fantasia delle imprese italiane, se c'è un proliferare di nuove imprese anche nel Mezzogiorno, se anche il governatore Antonio Fazio abbandona le litanie su pensioni e flessibilità, e comincia a metterla sul positivo anche lui, perché porre limiti alla provvidenza? E vogliamo parlare dei mille fuochi di Borsa, del vorticare dei capital gain, del fervore del mercato attivato dalla Internet-euforia? Già, e allora dov'è il bug, per D'Alema e il centrosinistra? Perché ci dev'essere qualcosa che impedisce al governo e alla coalizione di piazzare sul tappeto l'atout della crescita, e di giocarsi per bene il miracolino annunciando l'arrivo del miracolone. Infatti, mentre il Cavaliere benedice e sorride, nell'alleanza di governo ci si accapiglia su tutto, dal tfr alle candidature, e alla selezione della premiership. E così il miracolino di avvio 2000, insieme con le promesse di restituzione del boom fiscale, soffoca tristemente fra le diatribe di coalizione. «Siamo degli specialisti dello spreco politico», si sente dire nel centrosinistra. Infatti, diaspore silenziose avvengono nei popolari verso Forza Italia; a sinistra della sinistra, Fausto Bertinotti insiste a richiedere misure fantapolitiche. Ma salvo trovate da cortile come le elezioni anticipate, c'è ancora un anno per disputarsi le spoglie del rilancio economico. In questo frattempo, riuscire a non argomentare pubblicamente in modo efficace una prestazione di successo sarebbe un miracolo nel miracolo. A rovescio, naturalmente. Certo, di imprese al contrario, anche nella sua storia recente, la sinistra ne ha già combinate tan- te. Ma oggi c'è una posta implicita in più. Perché chi mette le mani su "questo" miracolo è destinato a tenerselo stretto a lungo. Chi perde paga: e soprattutto pagherà per un'eternità, senza più sorrisi né aspettative di miracoli.
L'Espresso, 23/03/2000
Meglio Detroit che i berluschini
MartedÌ mattina, quando i mercati hanno cominciato a ballare, e i titoli Fiat si sono inabissati, il big Deal con la General Motors ha cominciato paradossalmente ad assumere contorni più comprensibili. Nelle ore precedenti c'era stato un coro quasi unanime sulla storicità dell'avvenimento. Perché sembrava effettivamente che il management di Torino fosse riuscito a quadrare il cerchio: cioè a globalizzare l'auto italiana, con un accordo di respiro atlantico, mantenendo però le posizioni di comando in Italia. La singolarità di un patto industriale imperniato su una "competizione cooperativa" fra Torino e Detroit passava in secondo piano rispetto al sollievo generale per non avere assistito al verificarsi dell'ipotesi più traumatica, la "soluzione tedesca", cioè la cessione secca dell'intero settore dell'auto. In realtà, dietro lo schermo delle technicalities contrattuali, si nasconde una delle decisioni più essenzialmente politiche che Gianni Agnelli si sia trovato a prendere nella sua carriera. L'Avvocato aveva di fronte a sé il turbinare del Grande Gioco. Davanti al suo sguardo si stendeva l'orizzonte delle fusioni colossali, dei merger globali, la furia nichilista del capitalismo del Duemila. Avrebbe potuto prendere atto della tendenza, giudicare improbabile la capacità di resistenza della Fiat nel mercato totale, e seguire il consiglio degli iper-realisti. Vendere. Incassare i soldi della Daimler-Chrysler, passare la mano, uscire dall'auto e puntare su fruttuosi business alternativi. Poteva essere una prospettiva interessante per un bottegaio. Ma con tutto il suo soave cinismo, con tutta la sua capziosa nonchalance, Agnelli non è mai stato né un mercante né un padrone di bottega. È stato un politico purissimo. Nel corso della sua vita si è caricato di responsabilità paraistituzionali: ha incarnato lo spirito societario e aziendale come la maschera di un ruolo pubblico di governo. Poteva liquidare la Fiat, dopo averne festeggiato da poco il centenario? Poteva assumersi la responsabilità di abbandonare al suo destino l'azienda simbolo dell'Italia industriale? Sarebbe stata un'abdicazione. Una specie di fuga a Pescara con l'addio cinico dell'ultimo sovrano. Ragion per cui, giunto alle soglie degli ottant'anni, nel trovarsi a fronteggiare la scelta più drammatica della sua vita, l'Avvocato ha preferito ancora una volta l'immagine alla sostanza. Sapendo che questa volta immagine e sostanza potevano anche coincidere. Sotto il suo regno, non era possibile estinguere il simbolo di un primato morale. Se il Grande Gioco contemporaneo è uno scacchiere dove imperversano i parvenu dell'internettismo, gli inventori di escamotage tecnologici, gli effervescenti della telefonia, l'auto invece è la pesantezza novecentesca: la grande fabbrica, le relazioni con il sindacato, le masse operaie, le crisi e le rinascite che hanno coinvolto e scandito straordinari mutamenti sociali, politici e civili. In sostanza, sarebbe un esercizio certamente malizioso ma alla fine deludente considerare l'accordo con la General Motors alla stregua di un'acrobazia del management torinese per mantenere le posizioni. Si tratta evidentemente di un'operazione difensiva, di qualcosa che a suo modo delude le aspettative di quella gamma di operatori che si auguravano una robusta dose di pirotecnica finanziaria. Ma nello stesso tempo è anche lo sforzo maggiore che il Lingotto potesse produrre per non snaturare la Fiat. Paolo Fresco e Paolo Cantarella hanno puntato sul presente, nella consapevolezza che scommettendo sul futuro l'azienda torinese si sarebbe dissolta nel meccanismo globale. Una linea del genere non sarebbe stata sostenibile senza una regia carismatica. Basta prendere nota della determinazione con cui Agnelli espone i contenuti dell'accordo per valutarne la portata politica generale. Malgrado l'ormai notissima opzione di "put", «non ci passerà per la testa di vendere». Le voci di un disaccordo con Umberto presunto favorevole a una cessione integrale sono «una balla assoluta». Quanto ai livelli occupazionali, resi potenzialmente problematici dalla cooperazione nei motori e nella componentistica, non c'è «nessunissimo pericolo per la manodopera». Proprio quel superlativo, "nessunissimo" dà l'idea di sintetizzare il ruolo avuto dall'Avvocato nella vicenda. Non poteva, confessa al direttore della "Stampa", ritirarsi nell'isola di Tonga portandosi dietro miliardi di marchi.Quindi l'ideologia, se si può chiamare così, dell'accordo con gli amici americani Jack Smith e Richard Wagoner si identifica con esattezza sul profilo storico, politico ed esistenziale di Gianni Agnelli. È un sacrificio di qualche pezzo pregiato, che cerca lo stallo dato che non si può perseguire una vittoria esclusivamente economica e mercantile. Per questo, pur lasciando filtrare alcune riserve, la politica italiana ha dato il suo consenso, da Ciampi a D'Alema e Amato, da Berlusconi a Cofferati. Ha offerto il plauso a un proprio pari, al senatore a vita, al genio tutelare del capitalismo famigliare che ha deciso di interpretare con gesti sovrani la parte di ultimo campione di un capitalismo nazionale. Così, la soluzione dell'affare Fiat getta una luce inedita anche sul Gioco Piccolo, quello che ha portato all'elezione di Antonio D'Amato al vertice della Confindustria. Certo, la spettacolarità della caduta della candidatura torinese di Carlo Callieri è stata fuori dell'ordinario. Ma lo show di un insieme di settori imprenditoriali che sono riusciti a disarcionare il favorito e a insediare l'underdog sembra a questo punto soltanto l'altra faccia, quella domestica, dell'attacco al trono. Che sia finito il tempo in cui l'alto patronato torinese poteva fungere da supergiuria delle nomine è indubbio, lo hanno detto con brutale chiarezza i 96 imprevisti voti riversati dagli industriali sull'antipapa. Ma un'interpretazione tutta politicista, intesa come la revanche della destra e dei "piccoli" contro il politically correct filogovernativo della Fiat, non spiega appropriatamente il ribaltone di viale dell'Astronomia. Anche le sibilanti confidenze attribuite all'Avvocato («Hanno vinto i berluschini») non vanno interpretate come un'espressione di disprezzo ideologico verso gli esponenti del nuovo capitalismo tardoliberista. Piuttosto come l'esorcismo verso i rampanti, verso i ruspanti, verso l'inedita alleanza fra industrie ex pubbliche e i "nuovissimi", fra manager semi-privatizzati e kingmaker della marca di confine a Nordest. Verso coloro che hanno deciso insomma che per entrare nel gioco più grande occorreva sacrificare il re. Forse accorgendosi, tutti coloro, e forse non senza sod-disfazione aggiuntiva, che il regicidio confindustriale implicava non solo l'emancipazione dalla malleveria dinastica di Torino, ma la sconfessione di uno stile, di un approccio, di un metodo, perfino di un lessico. Concertazione, stabilità nelle relazioni industriali, o antipatia verso i temi della liberazione fiscale, abitudine ai disfunzionamenti sistemici del paese: tutto l'universo di pensiero torinese è stato scardinato. E soprattutto è stata sconvolta l'idea cardine dell'agnellismo: quella di un apparato industriale che ruota intorno e insieme alla Fiat, condividendone le scelte e dunque anche le designazioni. Questa rottura del sistema tolemaico significa implicitamente il ridimensionamento della stella fissa: in chiaro, la decisione che d'ora in avanti, nel Grande Gioco, ognuno può giocarsela da sé, senza patronati. Il sistema Agnelli alla fine, ha perso in Italia perché gli altri giocatori, Cesare Romiti in testa, hanno sentenziato che la regola torinese non occorre più, che è un intralcio, che conviene liberarsi di tutti i condizionamenti dettati dalle affiliazioni. E nel Grande Gioco prova a resistere, anziché ad attaccare o a smobilitare, per restare fedele non tanto alla logica d'impresa, bensì a una logica politica intrisa di tradizione. Può esserci, in questa scelta, l'eco di passioni aristocratiche che talvolta hanno sfiorato, sulla scia di ragioni stilistiche, l'etica civile; anche se oggi c'è da chiedersi se questa sfera di dignità e obbligazioni pubbliche, di fronte alla radicale anomia dei mercati, abbia ancora corso, e se abbia qualche chance.
L'Espresso, 06/04/2000
Dal socialismo al network
Pervasiva, irresistibile in ogni dimensione della vita contemporanea, la tecnologia ha una conseguenza ancora tutta da valutare: essere virtuali, alla Negroponte, equivale sempre più a essere reali. E non solo perché il software invade la quotidianità fino a trasformare oggetti d'uso come la lavatrice o il forno elettrico in sistemi di "e-cooking" di "net-washing", mentre il frigorifero è pronto a fare la spesa intelligente nel web. Ma perché le dotazioni tecnologiche plasmano i comportamenti, spalancando infinite possibilità di comunicazione, informazione, lavoro e intrattenimento. Appaiono già lontani i tempi in cui lo speaker repubblicano del Congresso americano, il radicale di destra Newt Gingrich, proponeva contro Bill Clinton nel "Contratto con l'America" forme vicarie di integrazione sociale, basate sulla partecipazione attraverso consultazioni via modem. Alla crisi della cittadinanza, aggredita da processi traumatici di esclusione, il neoconservatorismo d'Oltreatlantico rispondeva immaginando che perfino gli homeless potessero essere reintegrati nella comunità grazie a un computer: nella Rete, anche i dropout avrebbero riguadagnato in quanto "netizens" ciò che avevano perduto in quanto "citizens". Populismo virtualizzato, plebiscito permanente. Eppure, a pensarci bene, questa è la preistoria di Internet: perché presuppone centrali politiche strutturate, istituzioni di governo centralizzate, rapporti verticali fra politica e cittadini, mentre la logica della tecnologia contemporanea è largamente antimonopolistica e orizzontale. E difatti, nel recente vertice europeo di Lisbona, tutto lo sviluppo tecnologico è stato prospettato come un colossale e capillare strumento per intensificare la crescita economica, cioè per incrementare in modo geometrico il potenziale di ogni singolo nodo della Rete. Per molti versi la politica conosce una specie di cyber-crepuscolo: le masse si virtualizzano, e le decisioni avvengono a-narchicamente in qualsiasi punto del processo. Quelli che un tempo erano considerati i poteri forti vengono sterilizzati dai comportamenti praticabili grazie alle nuove opportunità di business: per un Renato Soru che crea Tiscali con i capitali dei fondi di investimento del Midwest, e che comunque sfugge ai santuari politico- finanziari nazionali, ci sono centinaia di migliaia di piccoli investitori che puntano sui titoli tecnologici, magari aprendo conti di trading online e pasticciando fra newsletter virtuali e boatos re-ali. Si potrebbe anche identificarla come una iperdemocrazia, quella della finanza virtuale, almeno finché la tendenza è al rialzo. Davanti allo schermo del trader fai-da-te, tutti i poteri classici, dalla Confindustria ai vecchi salotti buoni, si secolarizzano, perché più che l'alone del potere conta l'analisi tecnica o il Big Bingo sulle nuove quotate (al punto che nascono anche nuove regole, nuovi comandamenti e nuovi peccati, se è vero che un parroco di Como ha invitato i fedeli ad astenersi dalla febbre di massa per le e.Biscom, «almeno durante il periodo della Quaresima»: qualcosa di simile a un "fioretto" tecnologico-finanziario contro la corsa all'arricchimento). Gli effetti sulla politica "old" sono potenzialmente immensi, anche guardando dentro i confini nazionali. E non solo perché la libertà tecnologica è individualistica, e tende a sfuggire ai criteri di regolazione su cui da noi si è costruito l'equilibrio politico (si fa la concertazione, nella Rete?). In una prospettiva di lungo periodo, infatti, i sistemi di comunicazione sembrano favorire coloro che sanno dimostrare adattabilità, flessibilità, inventiva, creatività: e secondo alcuni, da Tommaso Padoa-Schioppa a Marco Tronchetti Provera, dopo avere fallito nella dotazione infrastrutturale pesante, l'Italia si trova di fronte alla chance insperata di poter correre alla pari, e non da "late comer" nel mondo leggero dei cellulari, dell'e-commerce, delle cablature, dei portali, del "business to business". Sotto questa luce, anche i temi più conflittuali dei rapporti fra politica ed economia risultano significativamente ridimensionati. Per esempio, mentre il nomadismo professionale fa svanire la carriera unitaria e la fedeltà aziendale, la stessa discussione sulla riduzione dell'orario di lavoro, spostata dalla "old economy" al versante postindustriale, non riguarda più soltanto la sfera delle relazioni sindacali o il rivendicazionismo fordista di Fausto Bertinotti: è piuttosto uno degli elementi che fanno da sfondo alle nuove modalità di consumo: consumi più sofisticati, compresi naturalmente il consumo di informazione, intrattenimento, conoscenza, richiedono come risorsa essenziale il tempo libero. Si alterano i parametri, franano i termini di riferimento. Al punto che viene il sospetto che la Third Way alla Blair, accusata di leggerezza postmoderna, sia alla fine la sola risposta possibile da sinistra al virtualizzarsi della società: anzi, forse il solo progetto praticabile in politica mentre l'individualismo internettiano sta trasformando il socialismo in un network, la comunità in una folla solitaria.
L'Espresso, 13/04/2000
Amarcord Dc
Malgrado tutto, in area centrista c'è rimasto qualcuno che non vuole rifondare la Democrazia cristiana. E dire che Marco Follini, vicesegretario del Ccd, autore di approfondite esplorazioni dell'arcipelago dc, "moro-doroteo" per sua antica autodefinizione, poteva essere fra i protagonisti del remake. Invece il suo ultimo libro, "La Dc" (162 pagine, 18 mila lire), che esce oggi per i tipi del Mulino, è solo il requiem ispirato da «un dovere verso la nostra memoria, non ancora in pace». Con un ritratto della Dc, come specchio e guida del paese, capace di dire qualcosa anche alle mentalità più laiche e lontane dal cosmo politico cattolico. Ma si può davvero scrivere qualcosa di non scritto, sulla Dc? Per comprendere l'originalità della lettura di Follini conviene sovvertire l'indice del saggio e cominciare dall'ultimo capitolo: perché in quelle pagine, incombenti le metafore del processo pasoliniano («La Dc è un nulla ideologico mafioso») e del "Todo modo" di Leonardo Sciascia, c'è un tentativo inedito di spiegare le ragioni del crollo del partito-sistema, del partito-mamma, del partito-destino. Troppo meccanico, infatti, interpretare il crepuscolo dc con formule politologiche: certo, dopo il crollo del Muro, la sconfitta dell'"avversario cosmico", il Pci, implicava la fine della Dc come bastione, e quindi lo smarrimento «di una missione e di una sfida». Più interessante è osservare il contenuto antropologico, mentale, identitario, della crisi finale. A partire dall'apertura effettiva del Grande Processo, sotto i colpi del piccone cossighiano, sotto l'urto referendario, e l'impatto distruttivo di Mani pulite, la Dc semplicemente si rassegna: «Troppo debole per opporre al processo una politica; e troppo poco consapevole per opporvi una cultura». La Dc insomma «si lasciava andare». Non recitava l'atto di dolore sulle colpe, né tentava una rivendicazione dei meriti. Il partito era stanco: politicamente, ma soprattutto psicologicamente. Dato che il potere aveva surrogato il consenso, subì il fascino distruttivo dell'identificazione con l'aggressore: «Il tributo pagato al sentimento giacobino, il mito di una società civile buona e incorrotta, la vergogna e l'imbarazzo del potere e di una larga parte della propria storia». Con l'effetto di un'attrazione letale in cui «prendeva forma in maniera quasi inavvertita una Dc ansiosa di liberarsi da se stessa». Insomma un suicidio; o un'eutanasia. Comunque una liberazione. Una morte prolungata, in cui si decompone il partito-miracolo che aveva realizzato la coincidenza degli opposti. La Dc era stata, secondo Follini, il partito della società, dello Stato e della Chiesa. In ogni caso, irriducibile alle formule definitive come alle sintesi esclusive. Perché era un partito "doppio": composto per una parte dalla sua classe dirigente, toccata da bruciori ideali (Dossetti), da impazienze tecnocratiche (Fanfani e Mattei), dalla ricerca della mediazione (Moro); e per l'altra il partito del suo elettorato, cioè il popolo minuto, borghese, convenzionale, "doroteo", tragicamente deluso a suo tempo dal fascismo e spaventato poco dopo dalle ombre rosse di Togliatti. La doppiezza dc, unita alla sua vocazione al compromesso, entrò in sintonia con la doppiezza degli italiani: «Da un lato la faziosità, la partigianeria, il particolarismo, perfino la visceralità; dall'altro uno spirito più accomodante, una ricerca di senso comune, un bisogno di costruire argini entro cui lo scontro politico potesse trovare i suoi limiti». Era il partito "femmina", materno, indulgente, rassicurante; il cui ruolo in vesti maschili era tutt'al più quello manzoniano del conte zio e del conte duca, "troncare, sopire", con sapienze melliflue da volpe vecchia. Il processo finale ha messo allo scoperto tutte le facce della Dc: perso il mastice del potere, il partito-contenitore si è disgregato. «L'ultima assemblea democristiana decise all'unanimità che la Dc non esisteva più. Forse perché già da qualche tempo aveva preso a comportarsi come se, per l'appunto, non esistesse». Come ricorda Follini, il corrispondente di "Le Monde" Jacques Nobecourt aveva affermato: «La Dc non si definisce, si constata». Se non sapeva più esistere, non c'era nessuna ragione perché sopravvivesse.
L'Espresso, 27/04/2000
Non ci resta che il referendum
«È una sconfitta che viene da lontano. Prevedibile, anche se adesso diranno che col senno di poi è facile dare giudizi. Ma soprattutto è la prova che non tutto si può risolvere con il professionismo politico, con la tattica, con le furbizie». Michele Salvati, una delle anime liberal dei Ds, alterna lucidità nell'analisi e scoramento intellettuale di fronte allo sfondamento del Polo alle regionali. Vuole dire che l'insuccesso del centro-sinistra il 16 aprile era inevitabile? «Il senso di questo risultato non si capisce se si guarda solo al mancato happy end. Occorre considerare che l'eccezione vera, autentica, nella vicenda politica italiana fu il 1996, cioè la vittoria di Prodi e dell'Ulivo. D'Alema ha ragione a rivendicare quell'esito come il proprio capolavoro. Era riuscito a dividere il blocco di centro-destra, a partire dal ribaltone, e quindi a indebolire il campo avversario. Inoltre l'invenzione del-l'Ulivo aveva mobilitato risorse nella società. Un miracolo. Ma le eccezioni, come i miracoli, hanno la pessima tendenza a non ripetersi». Per questo lei si aspettava la botta? «C'è quel proverbio anglosassone secondo cui si può imbrogliare una persona cento volte, o cento persone una volta, ma non cento persone per cento volte. Il che significa, tradotto nella politica di casa nostra, che dopo avere sconfitto Berlusconi e il Polo grazie a una superiore capacità di interpretare la legge elettorale e la logica di coalizione, desistenza con Rifondazione comunista compresa, quelli del centro-destra hanno imparato il metodo. Giulio Tremonti ha ricucito con la Lega, sono stati fatti accordi con Pino Rauti...». Solo un problema di ingegneria politica? «Sono stati commessi errori, anche gravi. Dal punto di vista della strategia si è lasciato passare troppo facilmente il ricongiungimento della Lega con il Polo». Forse non era politicamente decente recuperare il Bossi come "costola della sinistra". «Non era necessario cercare un accordo a tutti i costi. Occorreva la capacità politica di inserirsi fra la destra e Bossi, attraverso programmi e provvedimenti politici che qualificassero il centro- sinistra mostrando la strumentalità del corteggiamento forzista». Significa che occorreva sfidare la Lega sul piano dei contenuti? «Proprio così. Era opportuno pagare un prezzo in termini di federalismo. Se il centro-sinistra fosse stato capace di mostrare originalità sul piano istituzionale, sarebbe stato molto più complicato per la Lega scegliere "Berluskaiser"». Probabilmente a sinistra si pensava che la Lega fosse una forza residuale. «L'errore principale è consistito nel pensare, in modo ultra-razionale, che l'ingresso nell'euro e la prospettiva dell'unificazione europea togliessero di mezzo il problema della Lega. Bisognava capire che la politica italiana è composta da due blocchi cristallizzati, e che ogni tassello che una parte riesce ad aggiungere può costituire un vantaggio irrecuperabile». Quindi D'Alema ha commesso un errore di sottovalutazione. «Probabilmente si è convinto che bastasse un'idea di buon governo, il prestigio recuperato sul piano internazionale, il via libera dell'establishment, a trasmettere un messaggio capace di creare consenso generale. La sottovalutazione consiste nel non avere circoscritto problemi specifici. Per esempio, nel non avere saputo guardare al Nord. Il che implicava un progetto esplicito di decentramento, l'avvio di un programma di grandi opere infrastrutturali, l'identificazione del problema della sicurezza dei cittadini». Può essere che il presidente del Consiglio non avesse fiducia nella propria maggioranza? «D'Alema ha pagato tutti i pedaggi possibili all'"ottobre nero" del 1998, quando fu liquidato Prodi. È in quel momento che si esaurisce la spinta riformista del centro-sinistra. Ma si erano perse occasioni significative anche in precedenza: il lavoro compiuto dalla commissione Onofri sulla riforma dello Stato sociale era finito nel cassetto. Vale a dire che un intelligente programma di ristrutturazione del welfare è stato lasciato cadere». C'era di mezzo il rapporto con il sindacato. «Lo showdown con il sindacato doveva essere fatto nel primo anno di legislatura, in modo da affrontare il conflitto da posizioni di forza. Adesso è tardi». Quali chance rimangono al centro-sinistra, ammesso che si arrivi alla fine della legislatura? «Qualche spazio c'è ancora, ma è sempre più risicato. Bisognerebbe produrre iniziative politiche di forte effetto simbolico. Un intervento secco sulle telecomunicazioni, con la privatizzazione almeno parziale della Rai. Una politica nitida nei confronti di quei segmenti di settore pubblico che bloccano la vita del paese come nei trasporti. Invece ci sono timidezze: anche l'ultima legge sugli scioperi pubblici, pur essendo un passo nella direzione giusta, debole». Ma si può fare in un anno ciò che non si è fatto in quattro anni? «È difficile, ma l'alternativa è l'inerzia. Quando si perde emergono immediatamente due linee: ci sono quelli che dicono che si è stati sconfitti perché non si è stati abbastanza riformisti, e quegli altri che sostengono che non si è stati abbastanza socialisti, e che si è persa identità. Se aggiungiamo che nella maggioranza la componente centrista è particolarmente friabile, le difficoltà vengono fuori tutte». È uno scenario da incubo. Viene da chiedersi se in questo incubo D'Alema avrà un ruolo. «La domanda brutale è se D'Alema ha ancora qualche carta come leader dello schieramento di centro-sinistra. Con il realismo che anche il presidente del Consiglio apprezzerebbe, si può rispondere dicendo che lo scontro fra Berlusconi e D'Alema lo abbiamo già visto. È avvenuto il 16 aprile, ed è finito come è finito. Credo che si stia completando un processo di ricomposizione del sistema politico, che ci riporta tendenzialmente al periodo precedente gli anni Novanta». Si è persa un'occasione storica? «Per adesso possiamo solo riscontrare che la debolezza di D'Alema sul piano pubblico non significa che qualcun altro possa fare meglio nel confronto con il centro-destra. Non è detto che con qualcun altro come candidato premier si vada a vincere facilmente. L'occasione storica era quella di fissare in modo permanente la coalizione, l'Ulivo, per sottrarre il paese a una fatale antropologia moderata. Questa occasione è stata persa, anche se potremo assistere a rilanci e a promesse di resurrezione ulivista». Sono illusioni? «Peggio, potrebbero essere illusionismi. Al centro-sinistra rimane una sola carta da giocare, quella del referendum elettorale del 21 maggio. Perché se si sbriciola lo schema bipolare e salta il confine con il centro, la partita è finita. Dunque, D'Alema deve aggrapparsi alla zattera del referendum, con tutti i rischi che questo comporta. Perché in un sistema bipolare D'Alema può perdere ancora. Ma, in un sistema neo-proporzionale, D'Alema è condannato alla sconfitta. Ritorneremmo nel bipartitismo imperfetto, con una simil-Dc eternamente centrale, e un post-Pci di nuovo ai margini. Con tanti saluti non solo all'ipotesi di una sinistra competitiva, ma anche all'idea di un paese capace di modernizzarsi in modo decoroso».
L'Espresso, 27/04/2000
T’adoriam Silvio divino
Travolgente, micidiale, irresistibile Berlusconi, proprio come ai vecchi tempi del Milan trionfante di Gullit e Van Basten, o nelle radiose giornate intorno al 27 marzo 1994. Lo si può chiamare ironicamente "Cavalier Traballa", come fa talvolta il politologo Giovanni Sartori sottolineando i suoi ondeggiamenti in dribbling sul filo della legge elettorale. Si può infilzarlo come ha fatto Arturo Parisi, il piccolo leader dei Democratici ridotti al lumicino, nel salotto di Bruno Vespa, ridicolizzandone l'autismo anticomunista. Si può deprecarne la furbizia elusiva, visto che ha rifiutato il faccia a faccia televisivo con Massimo D'Alema. Mentre coloro che conservano un'i- dea illuminista della politica possono anche levare lamenti per il modo in cui ha trasformato la consultazione regionale in un'ordalia politica. Eccetera eccetera. Ma alla fine, dopo la spallata del 16 aprile, sarà meglio interrogarsi sulle ragioni profonde della vittoria berlusconiana. Anche per provare a capire se il debordante successo alle regionali può diventare il trampolino di lancio per la campagna di liberazione finale, quella delle elezioni politiche. In cui si assisterà ineluttabilmente al grande ritorno, ai danni degli usurpatori. Ci sono tutte le premesse, per la verità. Eppure il cavaliere non è cambiato. È sempre lui, inceronato, con i suoi doppiopetti squadrati, con l'eterno sorriso stampato sul volto o digrignante quando accusa le "sinistre" di brogli. I suoi avversari continuano a pensare che sia il capo di un partito di plastica. Ha suscitato ironie con il "kit del candidato", provvisto di orologi, cravatte aziendali e manuale di retorica forzista. L'invenzione della "cafonave", come l'ha chiamata Michele Serra, sembrava il suggello simbolico di una visione politica fra lo show e la crociera, un "love boat" per platee televisive corrotte nel gusto dai serial Mediaset. E allora che cosa è accaduto? Dove è cambiato lo schema? Dal 1996 a oggi il centro-sinistra avrà pure commesso numerosi errori, taluni follemente autodistruttivi, ma in ogni caso ha portato a casa risultati sostanziali. L'approdo europeo, in primo luogo. Che aveva creato le condizioni per passare dall'epoca dei sacrifici a quella del rilancio economico. Tassi d'interesse ai minimi, inflazione bassa, crescita ancora lenta ma in promessa di accelerazione. Era difficile perciò immaginare spazi che consentissero al Polo di incunearsi giocando sulla qualità della sua proposta politica "virtuale". Sarebbe stato legittimo invece pensare che l'abitudine, se non il consenso, al governo, avrebbe sterilizzato il forcing del Polo. Invece no. Berlusconi è riuscito a imporre il proprio "modello". A convincere la maggioranza degli italiani che la coperta del Polo può stendersi confortevolmente sull'intera società nazionale. Che la "Casa delle libertà" è la residenza naturale per la maggior parte dei cittadini dell'Italia che ha virato la boa del secolo (e soprattutto dei tormentati anni Novanta). Agnelli dixit Un miracolo. O, meglio, un secondo miracolo, un miracolo ulteriore dopo quello del 1994, reso ancora più clamoroso dal fatto che allora il creatore di Forza Italia poteva presentarsi sulla scia del nuovo, mentre adesso il suo modello è composto di materiali risaputi. Della riscossa berlusconiana, in realtà, c'erano stati segnali e indizi, per chi voleva coglierli. Per esempio, la sintesi attribuita all'Avvocato Agnelli dopo l'elezione in Confindustria di Antonio D'Amato («Hanno vinto i berluschini») interpretava con un sottofondo di stizza ma anche di intuito un coacervo di sentimenti diffusi nel mondo imprenditoriale. Tuttavia, malgrado l'affiorare di una sbrigativa voglia di trattare più rudemente con Palazzo Chigi, e nonostante un evidente risentimento contro i vincoli della concertazione e i freni sindacali, sembrava improbabile che si potesse manifestare una corale volontà contraria al centro-sinistra. Già: che cosa offre infatti Berlusconi all'Italia contemporanea? Offre una miscela eterogenea, composta di passato e di presente. Il passato è quello para-quarantottesco, fondato su un anticomunismo così veemente da apparire fuori tema e fuori tempo. Non solo: al passato sono da ascrivere anche le sue propensioni verso il sistema proporzionale, dopo essersi esibito come fervente adoratore del maggioritario. E passatista, a rigore, appare anche l'impegno a ricostruire un centro politico simil-democristiano. Quanto al presente, c'è in campo tutta la sua fantasia economica. Ispirato dai programmi liberalizzatori del leader popolare spagnolo Aznar, il leader di Forza Italia è riuscito a trasformare una promessa in una realtà effettuale. Nelle sue parole, la "ricetta" di Forza Italia assume la consistenza di un programma rigoroso e infallibile, destinato a resuscitare le energie depresse dal centralismo post-comunista. Una simile combinazione ideologico-programmatica sarebbe sembrata implausibile fintanto che il centro-sinistra poteva mostrare una "mission" esplicita, quella del risanamento dei conti pubblici in chiave europea. È diventata invece un'arma letale nella bonaccia fiacca che ha impaludato il governo D'Alema. Ma bisogna aggiungere che non solo il centro-sinistra, una volta disseccato l'Ulivo, è entrato nel piattume, ma è stata buona parte della società italiana ad abbassare le braccia: come se non desiderasse altro che il ritorno al laissez faire domestico, dopo gli impegni imposti dall'Europa. Il popolo delle partite Iva Il gran ritorno di Berlusconi viene celebrato infatti mentre si chiude macchinosamente la parentesi di mobilitazione pubblica durata da Tangentopoli all'ingresso nell'euro. Sotto il profilo politico, con il ritorno all'ovile della Lega si ricompone una delle fratture che avevano attraversato il corpo dell'Italia democristiana. L'aggregato elettorale del Polo, a questo punto, si sovrappone quasi esattamente a quello del vecchio pentapartito. Ecco un ceto politico di democristiani senza troppi preti, di socialisti senza socialismo, di liberali senza ubbie veteroliberali. Che al Nord si identifica con il popolo delle partite Iva, con l'antistatalismo leghista, con le pulsioni di una piccola borghesia ipersensibile ai richiami della "libertà", a cui si promettono fragorose riduzioni fiscali e la prospettiva dell'"enrichissez-vous". E che nel Mezzogiorno si avvale dell'apporto nazionalpopolare di An, forse non più essenziale ma comunque ancora utile. A smontare la costruzione ideologica del Polo rimangono in tavola gli elementi sparsi di una macchina politica totale. Un supermarket che offre "valori" cattolici, liberalismo "sturziano", libertà economico-imprenditoriale in versione antistatalista, insofferenza per le regole, disattenzione per i diritti, severità verso l'immigrazione, mano dura sul problema della sicurezza, moderazione nelle enunciazioni ed estremismo nei modi. Il modello politico di Berlusconi è una combinazione assolutamente postmoderna. Sfonda perché è postmoderna l'Italia di oggi, in cui le ideologie e le tradizioni culturali sono state disciolte dal potentissimo solvente della televisione e dei consumi. Per contrastarlo, non basta né il "partito del premier" né qualche trovata di coalizione: occorre ritrovare il filo per comprendere in profondità la società italiana, al Nord come al Sud, senza distinzioni.
L'Espresso, 04/05/2000
Cercasi Prodi disperatamente
Vietato illudersi che si possano replicare formule che in un passato anche recente avevano l'alone del successo. La mutazione della politica italiana rende impraticabile il continuismo. Perché l'onda lunga della trasformazione sociale impone un cambiamento radicale nelle strategie e nei programmi del centro-sinistra. Altrimenti, tenendo fede a un'idea stereotipata della politica, si cade dentro la "sindrome Martinazzoli": cioè si individua una personalità ispirata, intellettualmente sofisticata, che alla fine si rivela drammaticamente perdente contro lo sbrigativo Formigoni di turno. È per questo che il centro-sinistra si trova in un vicolo cieco. Perché sotto sotto continua a pensare di opporre al dilagante Berlusconi attuale dei competitori che non hanno chance. Tutti selezionati in base al criterio che sia possibile rintracciare un filo tra il passato e il presente, e che l'opinione pubblica sia disposta ad accogliere e votare un candidato per la sua capacità di impersonare un legame fra la tradizione della Repubblica e un avvenire politicamente secolarizzato. Favole belle, che preludono a illusioni letali. Se si guarda la galleria dei protagonisti, la sensazione è che l'unico schema sia il "tutti a casa". Oggi per il centro-sinistra il "primum vivere" significa soprattutto sgombrare il campo dalle aspettative sbagliate. Meglio il realismo: a costo di non salvare nessuno. WALTER VELTRONI. Caduto D'Alema, si poteva pensare che il suo alter ego ulivista fosse in "pole" per tentare la leadership solitaria. Veltroni rappresenta una delle più acrobatiche passerelle tese fra la storia nobilmente minoritaria della Prima Repubblica e la cultura dell'Ulivo mondiale. Ma le sue visite alle tombe di monsignor Dossetti e di don Milani, insieme ai pellegrinaggi nella casa torinese di Norberto Bobbio (sconsolatissimo quest'ultimo, perché gli italiani si sono consegnati ai barbari), costituiscono un omaggio intellettuale che l'Italia della new economy o del Nord-Est/Far West si rifiuta persino di comprendere. Così, il "mai stato comunista" di Veltroni assomiglia a una giustificazione più che a un programma, e le sue proiezioni africane sembrano un tentativo di acchiappare la globalizzazione dalla parte delle buone intenzioni anziché dell'enrichissez-vous, come invece fa la destra, che ha meno fisime e quando pensa all'Africa progetta di detassare le missioni, perché all'Africa ci pensino loro. MASSIMO D'ALEMA. Lo schian- to del leader Massimo, del Migliore reincarnato, del "comunista più intelligente e affidabile" (secondo Berlusconi) è stato tale da proiettare al di là del prevedibile le sue possibilità al rilancio. Ma lui non se n'è dato per inteso: poche ore dopo la batosta ha cominciato a rilasciare dichiarazioni contro la nuova partitocrazia (forse dimenticando che è stato lui, a suo tempo, a scommettere sulla Cosa 2, cioè il partito, contro la propria coalizione, vale a dire l'Ulivo), e tentando una velleitaria candidatura a capo degli innovatori contro i conservatori: come se in questo momento schierarsi per il maggioritario contro Berlusconi, e insistendo ostinatamente sulle regole anziché sui contenuti, significasse davvero essere progressisti. L'illusione di D'Alema è che sia possibile cercare una riscossa cavalcando una spinta riformatrice che era viva fino al 1998 (anno della caduta di Prodi), e che anche lui ha contribuito a insabbiare. CACCIARI, BASSOLINO, RUTELLI. Ogni volta che la politica va in crisi si rispolvera la storia che bisogna ripartire dal basso, dai sindaci, dal territorio. Ma Cacciari non era quello che si lamentava, dopo la seconda trionfale elezione dei sindaci ulivisti, dell'assenza di un'opposizione, e se ne diceva angosciato? Adesso l'ha trovata, l'opposizione. Dal canto suo Bassolino accarezza l'idea di poter diventare il salvatore del centro-sinistra, confortato dai riconoscimenti di Berlusconi, che non rinuncia alla possibilità di scegliersi l'avversario più comodo. E per Rutelli, il presunto "Prodi bello", si avvicina l'ora in cui si capirà che l'Ulivo può fare acclamare un sindaco, mentre è molto più improbabile che un sindaco possa rivitalizzare l'Ulivo. EMMA BONINO. A rigore non ha molto da spartire con il centro-sinistra. E quindi se ne parla di striscio, data l'infausta idea di D'Alema, pochi giorni prima del voto per le regionali, di chiedere ai radicali il voto disgiunto, chiamato opportunisticamente "voto utile". Un'improvvisazione dettata probabilmente da sondaggi (sbagliati) che attribuivano alla lista Bonino percentuali vicine alle due cifre. Mentre in realtà, come ha ripetuto un vecchio gourmet della politica come De Mita, la Bonino era una "bolla elettorale". Smaltita l'euforia delle europee, la fanciulla e il vampiro, Emma e Marco, sono tornati ai loro valori standard. Restano liberali, liberisti, libertari, maggioritari, "americani": ma il bluff per trasformare una minoranza in un'egemonia è ormai stravisto.
L'Espresso, 11/05/2000
L’Italia al tempo degli 883
Uno arriva alla Marton, la società di produzione di Claudio Cecchetto situata nella perife- ria di Milano, in una villa patrizia che è tutta un tripudio del postmoderno, tra affreschi e maxischermi, stucchi ottocenteschi e divani in acciaio, e pensa: qui dobbiamo essere nel pieno della nuova tendenza. E se il trend è: soldi, consumo, tecnologia, immagine, new economy, tombola del centrodestra, allora per deduzione Massimo "Max" Pezzali, voce e anima degli 883, potrebbe essere l'aedo pop dell'Italia di Forza Italia. «Ma figurarsi», si schermisce lui. «Come faccio a simpatizzare per Berlusconi? Oltretutto sono disperatamente interista...». Timido, un po' teso: e si capisce allora perché quasi si strangolava dall'emozione quando è finito sul palcoscenico di "Francamente me ne infischio" a cantare "Ciao ragazzi" con Adriano Celentano, la passione di suo padre (e il papà, in quel momento lì, ha capito che il ragazzo ne aveva fatta, di strada). Non strizza più gli occhi perché nel settembre scorso si è fatto il laser, che gli ha tolto cinque-sei diottrie di miopia, «una roba che, giuro, cambia la vita». Dopo di che il trentatreenne Pezzali è tornato ingrassato di quattro o cinque chili dalle 20 date del tour italiano del suo gruppo. Il tour è stato il solito successo. Grandi città e provincia, palazzetti con 4 mila paganti al colpo. Nord e Sud, pubblico giovanissimo accompagnato dai genitori, ma anche trenta-trentacinquenni un po' ritardatari che ormai non si vergognano più della "Weltanschauung" di Max, perché «ci hanno sdoganati». Adesso, dopo una dieta rigorosa, gli 883 sono in attesa di ripartire, a metà maggio, per una serie di concerti promozionali in Germania, «dalla Baviera in su», dato che la loro nuova casa discografica (la Wea) è convinta di poter trasmettere la sindrome 883 in tutta Europa, dopo che loro hanno sbancato in Italia a suon di cinque milioni di dischi venduti e alla faccia dei critici che facevano le smorfie solo a sentirli nominare. A vederlo, Pezzali non sembra uno che si sia montato la testa. Si è concesso una Audi TT, un coupé da 70 milioni, ma niente di più. Continua ad abitare a Torre d'Isola, un piccolo comune a due passi da Pavia, proprio nel parco del Ticino, in un complesso edilizio semipopolare insieme con i genitori. «Dev'essere la mentalità ereditata dalla mia famiglia. Prudenza, pochi esibizionismi. Mi ripeto sempre: potrà anche arrivare il periodo di magra, in cui non venderò più lo straccio di un disco e mi guarderanno con compatimento. Ma almeno non avrò fatto il fenomeno, quello che fa il divo coglione». Tanto per dire, i suoi genitori hanno ancora il negozio con l'insegna "Fioraio" nel centro di Pavia. Classica famiglia della provincia bianca: il padre che lavora fin da adolescente e che a un certo punto si mette in proprio sperandi di non affogare nei debiti; la madre, figlia di un coltivatore diretto, che faceva la segretaria a farmacologia, e poi è entrata anche lei nel negozio di famiglia. Cattolici, democristiani, poi attratti dalla Lega, e infine diffidenti verso Berlusconi, storcendo il naso perché il cavaliere si presenta come il campione dei piccoli commercianti, ma loro lo percepiscono come quello delle grandi catene commerciali, che i piccoli alla fine li frega. Dalle benedettine a Vasco Figlio unico, Max ha tutte le caratteristiche per essere un perfetto esempio di italiano post: del post-dopoguerra, del post-Sessantotto, del post-Settantasette, della post-politica. Elementari dalle benedettine: «Ricordo il giorno del rapimento di Moro, l'atmosfera luttuosa, con le suore che si aggiravano con addosso l'espressione fisica della tragedia. Eravamo bambini, mica sgamati come adesso, ci fece un'impressione terribile». Poi il liceo scientifico al Copernico, meno esclusivo del Taramelli, «un asilo da cretini» con professori in costante complesso di inferiorità e quindi più feroci: ogni anno una sofferenza atroce con la matematica e anche una bocciatura in terza. L'iscrizione a Scienze politiche, con un unico esame in Sociologia. Infine, scoraggiato dall'insuperabile esame di Statistica fino a farsi venire l'esaurimento nervoso e dire addio all'Alma Mater. A raccontare come ha cominciato a fare musica non ci si crede. Con un suo amico e compagno di banco, l'extrabiondo Mauro Repetto, e grazie alle mance natalizie derivanti dalla distribuzione dei fiori per le feste, si erano comprati le prime tastiere e la batteria elettronica della Roland. Max fanatico per la voce calda dei Wall of Voodoo di Stan Ridgeway, Repetto più mercantile, Duran Duran e dance nera. Bisogna dire subito che il biondo Repetto, a Pasqua del 1994, se ne sarebbe filato in California a inseguire una sua avventura cinematografica; poi a New York, e adesso è a Parigi, ha fatto la guida turistica, lavora a Eurodisney, scrive sceneggiature, fa l'impresario, insomma, è uno che ha rinunciato con un'alzata di spalle al mucchio di soldi chiamato 883. Devono essere passati due anni dall'ultima telefonata. Ma agli inizi, seconda metà degli anni Ottanta, i due erano inseparabili. E senza sapere niente di musica, si erano subito messi a fare canzoni, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non come i loro coetanei, che di solito tentano l'avanguardia, l'house, l'acid, la techno, la jungle, tutta roba inascoltabile: «Macché: primo, facevamo musica per imparare a usare tastiere e computer; secondo, a me è sempre piaciuto fare canzoni, fatte e finite, perché nel mio genoma dev'esserci ben piantata la melodia italiana. Mi piace Vasco Rossi, Eugenio Finardi per cui ho fatto quasi una malattia al tempo dei movimentismi e dei primi centri sociali, il De Gregori di "Rimmel", il Battisti ermetico che faceva sperimentazioni con anni di anticipo sugli altri. E così dopo un paio di rap piuttosto artefatti ho messo giù "Come mai", una canzone maledettamente romantica». Già: quella che a distanza di anni sarebbe risultata un successo delirante con le ragazzine che si fanno venire le lacrime agli occhi non appena Max attacca: «Le notti non finiscono all'alba sulla via...». Sembrerebbe il ritratto tipico del conformismo nazionale. «Vero fino a un certo punto. Perché come per tutti, a un certo punto, è scattata la rivolta generazionale. Rispetto ai miei genitori, e alla loro mentalità secondo cui non cambia mai niente, ogni cosa si ridimensiona e alla fine tutto torna sempre uguale, malgrado i computer e l'Euroflora che va online, io non avrò una grande coscienza politica ma mi sembra di sentire ancora l'eco di un'idea secondo cui qualche cosa può essere cambiato. Sono ingenuo? Ma no, sono una via di mezzo. Sono ancora condizionato dalla mia formazione cattolica, sono un po' centrista, un po' di sinistra moderata». Da Marx al punk Dunque dove sareb- be la famosa rivolta? «È arrivata prima: avevo 14 anni, leggevo "Frigidaire", ero innamorato di Andrea Pazienza e di quella banda lì. Nello stesso tempo avevo cominciato a frequentare il circolo operaio di "Lotta comunista" che come livello iniziatico sembrava Dianetics, virato sul marxismo-leninismo e sulla militanza di sinistra. Una sinistra molto vecchia, molto sospettosa. Ti guardavano storto solo perché eri giovane. Riuscivano ancora, all'inizio degli anni Ottanta, a portare l'eskimo. Chissà dove lo compravano. Poi c'è stata l'epoca del punk, in cui invece grazie al cielo c'era pochissima teoria: ero il classico miope con fondi di bottiglia davanti agli occhi, e quindi fare il punk voleva dire affermare una personalità. Si andava a Milano, al Virus, e a Piacenza, e soprattutto a Bologna, che era la capitale morale del movimento. Ma anche a Pavia, ad esempio per la performance dei Chelsea Hotel, quattro gatti a vederli, con il cantante che prese a tagliuzzarsi le vene e venne portato via dalla Croce verde... Un paio di volte, per curiosità, sono anche andato a vedere che cosa facevano quelli del Fronte della gioventù, ma era solo un trip per cui uno si alzava fascista la mattina e al pomeriggio decideva di fare il nazi, e io ho detto questi sono fuori come un balcone, e me ne sono andato senza salutare». Il fatto è che il mondo vitale di Pezzali è rimasto quello di sempre, della provincia, del bar Dante fuori dalla cinta muraria, e con i tavolini d'estate, immortalato in alcune canzoni come "La dura legge del gol", "La regola dell'Amico", "Rotta per casa di Dio", frequentato con gli amici di sempre. Ovvero Francesco Bertolotti, alias "Cisco", coscienza storico-critica del bar, tornitore in un'azienda meccanica di Binasco. Oppure "Apo", cioè Claudio Apone, contabile in un'agenzia di assicurazioni, e "Yeye", diploma di geometra, una storia di sette anni di tossicodipendenza risolti con una radicale terapia in comunità, accolto dagli altri come un trionfatore, uno che ce l'ha fatta, una vita ricostruita nel settore agricolo. A parte il bar, Max si alza alle dieci e mezzo, e lavora a casa con le sue tastiere nella sua stanza. In studio di registrazione, a Bresate, gli danno una mano gli altri componenti della factory 883, Pier Paolo Peroni (amico di Jovanotti, ex programmatore di Radio DeeJay) e Marco Guarnerio (fonico-arrangiatore), mentre il pallidissimo Cecchetto, quello che li ha tolti dall'anonimato chiamandoli dopo avere sentito una loro cassetta, è lo stratega, quello che sovrintende alle operazioni complessive, dal packaging al lancio. Perché gli 883 sono effettivamente un prodotto industriale, rivolto al mercato: con l'aggiunta di un atteggiamento scanzonato, da buona compagnia, che riesce a frullare insieme il professionismo con il dilettantismo, il calcio con l'immaginario giapponese. Dalla discoteca allo stadio Con il risultato che pezzali, men- tre prima era considerato trash puro, è stato recuperato. "Famiglia cristiana" ha scritto che la sua ultima prova, "Grazie mille", contiene un senso quasi religioso della vita. E lui sembra fare di tutto per confermare l'idea di essere uno dei tanti che però parla a nome di tutti. Il figlio di una provincia lombarda che si rivolge a una provincia italiana apparentemente eterna: «Anche in questi tempi di New economy, io, che pure sono curiosissimo, e ho cominciato a trafficare con Internet sei anni fa, mi rendo conto che in provincia tutto arriva filtrato e come in ritardo. Il mio timore è che la provincia e la metropoli si stiano allontanando, altro che omologazione. Di fronte a Tokyo, a New York, noi restiamo sempre dei ragazzi italiani, che hanno paura a entrare in un locale, che sentono la distanza». Perché in provincia si guarda con diffidenza alle novità. La depositaria ideologica di famiglia, cioè la mamma, ha come dogma che le cose si ridimensionano sempre. Lui tradurrebbe: «Stessa storia, stesso posto, stesso bar», come il libro che ha scritto. Trading online? Ma neanche a parlarne. Il mattone. I bot. Avventure nisba. Quando il Nasdaq collassa, la mamma, che ha rifiutato con una smorfia le proposte di investimento azionario della banca locale, lo prende in giro: «Eh, Massimo, t'è vist i tecnologici? T'è vist el to Internet?». Lui scrolla le spalle. Non sembrerebbe assatanato di danaro. È solo uno che ce l'ha fatta, anche se in un settore improbabile. «Sono sempre quello che è cresciuto a pane e fumetti, i Supereroi, Alan Ford di Magnus & Bunker, e anche Tex Willer e Zagor, fino a Dylan Dog di Tiziano Sclavi, che oltretutto è di Broni, proprio qui dietro casa. "Hanno ucciso l'uomo ragno", o "Nord Sud Ovest Est" nascono proprio dai fumetti». E naturalmente quello che andava per discoteche, dove lui ha imparato a fare il sociologo sul campo, a osservare le coppie che «si baciano come nei film, poi si tradiscono dopo un'ora» ("Nella notte"): «C'erano due discoteche, a Pavia, il Docking per i fighetti, e il Celebrità, poi ribattezzato Matisse, più girato sul rock. Ci si andava un paio di volte la settimana. La discoteca era il luogo in cui entravi in contatto con la città, perché venivano quelli di Milano, o per meglio dire dell'hinterland, a farti concorrenza con le tipe. Uno scontro fra provinciali. In ogni caso la discoteca era anche un luogo che veniva interpretato come un palcoscenico. Capirai, in provincia ci si conosce tutti, tutti sanno che fai la parrucchiera o il meccanico, eppure tu vai nel locale e fai la divina o il dark». Cultura? «Tutte le mattine il "Corriere", la "Provincia pavese" e naturalmente la "Gazza", perché il calcio è la mia antropologia. Libri, pochi. Mi piacciono gli spaccati storici. Impazzito per "Fatherland" di Robert Harris, cioè di un'idea di storia parallela, di che cosa poteva succedere se Hitler avesse vinto la guerra. Romanzi ancora meno, l'ultimo che ho letto è il "Bastogne" di Enrico Brizzi. Molto Bukowski, a suo tempo, e molto Stephen King, anche adesso». Ultimamente lo sguardo fenomenologico di Pezzali ha lasciato il campo a una vena più intimista. Le canzoni sono diventate più romantiche: «Ma è anche per reazione a tutto l'insieme dei fallimenti amorosi che si vedono in giro. Adesso, quando qualcuno che conosciamo si sposa, si aprono subito le scommesse. Tempo quattro mesi e quella torna a dormire dai suoi. E grande soddisfazione cinica quando accade davvero. Fatto sta che nel mio giro non conosco nessuno, dico nessuno, il cui matrimonio sia durato più di tre anni. Non c'è più il problema della sopravvivenza, l'idea che il matrimonio era un un progetto di vita. Si riconosce che ci si è rotti le palle, e via». Al punto che l'ideologia di famiglia, che prima faceva regolarmente la classica domanda «quand'è che ti sposi, Massimo», adesso si è rassegnata alla sua vita più o meno da single, sospirando «eh, chissà, forse fai bene, con le ragazze che ci sono in giro oggi...». Così lui si è fabbricato una specie di rimpianto morale per la coppia stabile, un affetto quando vede due dei vecchi tempi insieme col bambino: «Perché penso che sarebbe bello, o che poteva essere bello, e che al loro posto potevo esserci io. Una miscela di nostalgia e di disincanto: «Dettata anche dal fatto che sento molto il problema della velocità del cambiamento, e dell'adeguatezza del mio cervello ad assimilarla. Siamo cresciuti in un'epoca in cui la carta geografica non cambiava mai, e in Italia cambiavano i governi ogni tre mesi ma la sostanza no, restava uguale: in fondo era rassicurante». Quando la vita era più facile, ha scritto in una canzone che si chiama "Gli anni". Mentre adesso? «Adesso, eh, adesso è tutto diverso».
L'Espresso, 11/05/2000
La fortezza comunista
A leggere i verbali della direzione del Pci pubblicati in questo numero dell'"Espresso" sembra di precipitare in una preistoria del nostro paese. La stenografia toglie pathos alle parole dei protagonisti, ma fissa in modo oggettivo abitudini di pensiero, stili di argomentazione, dubbi indotti da un dramma cruciale e irrigidimenti dettati dall'autoconsapevolezza di un partito investito dalla missione di rappresentare la consistenza dello Stato. Ciò che colpisce a prima vista è l'immediatezza con cui la tragedia personale di Moro viene liquidata. Nel momento in cui si ha notizia dell'agguato di via Fani, il leader dc scolora da individuo a problema politico. Ogni ipotesi di salvezza svanisce di fronte alle questioni strategiche. La leadership comunista si trova di fronte a un dilemma duplice: deve fronteggiare la Dc, all'interno della solidarietà nazionale, qualificando il Pci come il partito della tenuta istituzionale; e nello stesso tempo sente l'obbligo di mobilitare la società per sterilizzare la sfida brigatista. Ecco perché ricorrono continuamente le parole d'ordine della mobilitazione, della vigilanza "di massa", della compattezza del partito. Ma nello stesso tempo serpeggia l'ombra di un uso strumentale della tragedia: non tanto per cinismo, quanto per un'autorappresentazione che assegna al rigore del Pci il ruolo centrale nella resistenza di uno Stato che "non può e non deve" essere identificato soltanto con la Dc. Tutto ciò si esemplifica dopo il ritrovamento della prima lettera di Moro. Il regista del compromesso fra Dc e Pci viene immediatamente dequalificato al rango di una non esistenza. Sotto la guida di un taciturno Berlinguer, si affronta la pratica negando ogni qualità politica al suo messaggio. Moro a quel punto è un frammento in un meccanismo che inesorabilmente lo schiaccia. Fino alla conclusione del dramma, il Pci appare come un fortilizio che si compatta grazie alle sue logiche esclusive. Fuori ci sono i guerrieri rossi, organizzati ed efficienti. Fuori c'è la Dc, un ventre molle spaventato e imprevedibile. Dentro, all'interno della fortezza comunista, c'è invece un partito che si racchiude in se stesso. Un partito che non ha informazioni significative sugli avvenimenti, ma che dà fondo alla propria strumentazione e da quella non esce. È il partito della fermezza: ma anche dell'immobilità, che mentre si sforza di essere il titolare della resistenza istituzionale, si configura come un'isola in un passato.
L'Espresso, 18/05/2000
Ginettaccio, il pedale di Dio
Nell'archivio ciclistico di Daniele Marchesini, professione storico, c'è di tutto: articoli di giornali specializzati, cartoline illustrate, réclame d'epoca. Anche un foglietto del cantastorie bolognese Marino Piazza (ovvero Piazza Marino, il poeta contadino, autore anche di un "Attentato a Togliatti"), che celebrò nelle sue strofe il Ginettaccio «intramontabile campione». Leggende di un'Italia senza tv, da cantare nelle piazze e nelle sagre. Appassionato di ciclismo, classe '48, l'anno fatale della sconfitta del Fronte popolare, degli spari di Antonio Pallante e della salvifica vittoria di Bartali al Tour, Marchesini insegna Storia dell'Italia contemporanea all'Università di Parma. Nel 1992 fece qualcosa di insolito per un accademico: dato che stava progettando un libro sul Giro d'Italia, chiese a Carmine Castellano (il direttore di corsa del dopo-Torriani) di poter seguire la corsa dal vivo. Quell'avventura ciclistica ha fatto da sfondo alla stesura di "L'Italia del Giro d'Italia", un saggio pubblicato dal Mulino nel 1996, seguito nel 1998 da "Coppi e Bartali", con i due campioni interpretati come due facce dell'identità italiana. C'era Bartali, al Giro del 1992? «Come no. Maglietta e berrettino, guidava una Golf bianca, con una grande scritta "Bartali" sulla fiancata. Era molto consapevole di essere un personaggio: avvertiva intorno a sé l'ammirazione di tutto l'ambiente, che nel ciclismo è molto rispettoso dei valori espressi in una carriera. Tuttavia questa consapevolezza si manifestava non come arroganza, ma come generosità schietta verso gli altri, con la disponibilità a stare in mezzo alla gente». Vuole dire che la leggenda non ha deformato l'uomo? «Ciò che si diceva di lui era tutto vero: era cattolico fervente, terziario carmelitano, devoto della Madonna. Bigotto, invece, no. Teneva a confermare l'idea di essere un buon cristiano, un solido capofamiglia, marito e padre senza grilli per la testa, a differenza evidentemente, come diceva ai tempi della grande rivalità con Fausto Coppi, di quell'altro, "l'altro", "quello là", quello della Dama bianca». E sotto il profilo della politica? «Ha sempre sostenuto che lo stemma dell'Azione cattolica era l'unico distintivo che avesse messo all'occhiello in tutta la sua vita. La sua prima visita al papa risale al 1938, quando fu ricevuto da Pio XI. Anche se Togliatti lo aveva in simpatia, nel febbraio del 1949, quando donò la sua seconda maglia gialla a papa Pacelli, "L'Unità" gli scrisse addosso un corsivo malevolo intitolato "Datti all'ippica": scherzi del post 18 aprile». Un democristiano purosangue, in fin dei conti. «Mai stato iscritto alla Dc. Al massimo, c'è stato un suo impegno a favore della candidatura di Vincenzo Torriani, il patron storico del Giro. Nella campagna elettorale del 1958, la mattina dell'11 maggio la Dc organizzò una manifestazione a Milano, in Piazza Duomo, con Amintore Fanfani. Al pomeriggio il movimento giovanile dc promosse al velodromo Vigorelli una iniziativa a sostegno di Torriani, con la presenza di ciclisti famosi come Aldo Moser, Antonio Maspes, e con un corteo di nobili glorie fra cui campeggiava proprio Bartali. Torriani comunque non fu eletto». Evidentemente il carisma di Bartali non era politico, anche se Montanelli lo definì "il De Gasperi del ciclismo". «La contrapposizione politica fra Bartali e Coppi era artificiosa. I due schieramenti erano davvero trasversali. Nel registro all'ingresso della casa di Bartali a Firenze si trova anche la firma di un tifoso comunista che gli ha lasciato scritto, con orgogliosa passione, "Sei il Togliatti della strada"». Chissà che piacere, per uno che dedicava le vittorie al papa e alla Madonna del Carmelo. «Il suo cattolicesimo è stato quello di alcuni italiani che l'hanno sempre inteso come distanza dal potere. Sotto il fascismo, l'appartenenza cattolica mostrata esplicitamente era anche un contrassegno di opposizione, o perlomeno di non subordinazione al regime». Strano impasto d'uomo, con lo spirito rivolto al cielo e nello stesso tempo così radicato alla terra, duro, corrugato. «Il faccia a faccia politico fra bianchi e rossi è stato un potentissimo fattore simbolico, che ha disegnato su Bartali il profilo del crociato. Quella del ciclista di Dio, ardito della fede, era una fama che poi veniva amplificata dal passaparola. Tanto è vero che quando alla fine degli anni Quaranta abbandonò la Legnano e creò una propria squadra, la Bàrtali, si diffuse la voce che anche la marca della bicicletta utilizzata, Santamaria, fosse un omaggio alla Madonna. È una leggenda che viene ancora confermata perfino dagli annali della "Storia d'Italia" Einaudi. In realtà, Santamaria era più laicamente il cognome di un ingegnere di Novi Ligure». Eppure sotto la pelle del ciclista di Dio c'era un uomo di appetiti genuini. «Anche se può sembrare incredibile per il ciclismo "scientifico" di oggi, Bartali non era un monaco dell'atletismo. In corsa era un fachiro. Ma fuori gli piaceva mangiare e bere bene; e si era sempre concesso qualche sigaretta, anche prima e dopo le gare. Lui si proponeva come un atleta a pane e salame, vantandosi di non essere mai ricorso ai sostegni della chimica. Quindi anche nella sua tolleranza per i piccoli piaceri non da atleta, come il fumo e il vino, veniva esibita l'immagine di un corpo sano, e che proprio perché integro, non intaccato dalla farmacia, poteva concedersi certi modesti vizi. Altri tempi, altro ciclismo. Con Marino Piazza che strillava: "Centoventi corridori / nel gran lungo gir di Francia..."».
L'Espresso, 25/05/2000
L’ultimo referendum
Comunque vada, domenica 21 maggio si chiude un'epoca. Sipario. Finisce la lunga stagione in cui si È pensato che l'intervento sulle regole potesse cambiare in meglio anche i contenuti della politica italiana. Si conclude con una rassegnazione malcelata, che sembra investire anche i promotori storici dei referendum, da Mario Segni a Emma Bonino. Stanchezza, disillusione, insofferenza. Oltretutto, dopo lo sfoltimento operato dalla Corte costituzionale i sette quesiti sottoposti alla consultazione hanno perso il carattere di un giudizio di Dio fra liberisti e antiliberisti. Anche per questo, i referendum residui hanno l'aria di sette nani politici. Quelli sulla giustizia sembrano lasciati al confronto tra corporazioni avverse, quelli sul sindacato e il licenziamento assomigliano a una partita tra la Confindustria e Cofferati. Neppure il finanziamento pubblico scatena passioni antipartitiche. Resta sul tappeto, a dividere le forze politiche, il quesito sull'abrogazione della quota proporzionale: ma l'emozione che il principio maggioritario suscitava nel 1993, allorché fu interpretato dai cittadini come una leva per scardinare i partiti della Prima Repubblica, è tristemente svanita. L'aspetto più preoccupante non riguarda nemmeno il grande dubbio relativo al raggiungimento del quorum. Concerne piuttosto la sfiducia verso lo strumento referendario e, in modo ancora più insidioso, verso la possibilità di trasformazioni incisive del sistema politico. Il comportamento di Silvio Berlusconi, autore di una lenta quanto amplissima virata dalla "religione del maggioritario" al miracolismo neoproporzionalista, un risultato (pessimo) lo ha ottenuto: quello di togliere consistenza e credibilità alla riforma elettorale, facendola diventare di nuovo oggetto di uno scontro fra i partiti. Altro che atteggiamento "bipartisan". I referendum, secondo il capo della "Casa delle libertà", sono una truffa, una malevola invenzione dei comunisti. Per potergli rispondere adeguatamente, bisognerebbe che i suoi avversari avessero le idee chiare, specialmente nel centro-sinistra. Perché l'approfondimento del sistema maggioritario non è un semplice mutamento regolamentare, che lascia tutti a mani libere. Il referendum ha un senso se si accetta una tendenza non tanto bipolare quanto esplicitamente bipartitica. Spiantato l'Ulivo, tentativo embrionale verso questa prospettiva, parlare di maggioritario non ha senso se non implica una riprogettazione di schieramento. Quindi occorre andare di nuovo al nocciolo, e sapere che non si vota per Veltroni contro Berlusconi, o viceversa per Fini contro i cespugli centristi: si vota per afferrare, probabilmente per l'ultima volta, la scia di un cambiamento di sistema. Se il referendum elettorale fallisce, tutta l'iniziativa finirà ancora una volta nelle mani dei partiti; e a quel punto sarà inutile lamentarsi della frammentazione, della conflittualità interna alle coalizioni, delle smanie centriste o neodemocristiane, e anche dell'impossibilità di completare la razionalizzazione del sistema politico. Detto questo, occorre dire che lascia ammaliati, se non sgomenti, la capacità di Berlusconi di politicizzare fino all'autismo ogni aspetto della discussione istituzionale. Il cavaliere ormai è convinto che il rifacimento delle regole non serve più. Quale sia il calcolo del leader di Forza Italia è presto detto: a suo giudizio il bipolarismo esiste già nei fatti, e quindi non vale la pena di legarsi le mani con alleanze troppo vincolanti, con partner egoisticamente orientati a chiedere seggi sicuri prima di avere dimostrato con i numeri la propria consistenza elettorale. Sull'onda di questo calcolo, Berlusconi ha abbandonato perfino i referendum su temi come la separazione delle carriere agitata dal suo partito contro i "giustizialisti". È sicuro di poter vincere le prossime elezioni con qualunque sistema vengano disputate. E perciò non vuole costrizioni. Il sistema ri-proporzionalizzato, oltretutto, aprirebbe opportunità deliziose: potrebbe favorire la caduta del confine fra il centro-destra e il centro-sinistra, consentire la formazione di un blocco neocentrista, che a sua volta potrebbe avvertire l'attrazione di un Polo trionfante. Non bisogna mettere limiti alla provvidenza. Ciò che dovrebbe stupire è l'incoerenza che regna nella Casa delle libertà. Il dissenso tra Fini e Berlusconi potrebbe essere archiviato come una diatriba accademica, ma ci ha pensato la tessera numero due di Forza Italia, Antonio Martino, insieme con pochi altri testimoni liberali, a rivendicare l'antica vocazione maggioritaria, e quindi a segnalare con visibile sconforto la mutazione genetica del partito. Pura testimonianza, probabilmente. Nella prossima campagna elettorale, lunga o corta che sia, che il governo Amato entri in crisi o no dopo il 21 maggio, il Polo e la Lega si ricompatteranno verso l'unico obiettivo che interessa a Berlusconi e ai suoi partner. Cioè la conquista del potere. Senza infingimenti di decoro istituzionale o di eleganza riformista. Ciò che è difficile da comprendere, piuttosto, è come mai una coalizione così contraddittoria come la Casa delle libertà possa ottenere i consensi che ha ottenuto il 16 aprile alle regionali. La risposta più semplice è che sia proprio l'ampiezza dell'offerta politica a soddisfare il pubblico: dove si trova una simile varietà di liberali e di antiliberali, di cattolici e di anticlericali, di europeisti e di nazionalisti, di moderati e di estremisti? Già, ma ciò che è funzionale alla raccolta del consenso potrebbe rivelarsi inadeguato sul piano del governo, come accadde nel 1994. A meno che il plebiscito berlusconiano nasca dalla convinzione cinica che, riconquistate le stanze del potere, il Polo si distinguerà proprio per l'assenza di governo: cioè perché lascerà via libera agli "animal spirits" delle partite Iva, dei padroncini, dei flessibili della new economy. Di tutti coloro che hanno una voglia matta di libertà intesa come il più sbrigliato "laissez-faire": di fronte al quale il voto al referendum, con il suo appello alle regole da condividere, potrebbe assumere il profilo non tanto di una speranza, quanto di un estremo antidoto.
L'Espresso, 01/06/2000
Sulla zattera dei sinistrati
Con una miscela di fascinazione e di sgomento, dopo la catastrofe referendaria i Ds assistono al trionfo di Silvio Berlusconi. Il sentimento dominante lo esprime bene il filosofo Biagio De Giovanni: «Il centro-destra, a modo suo, trasmette qualcosa di consistente alle passioni, al senso comune, agli interessi dell'Italia: altro che partito di plastica». E Michele Salvati, intellettuale dell'ala riformista, commentando il populismo folgorante del Cavaliere: «Non si può confessarlo in pubblico, ma i più spregiudicati fra i diessini, quelli abituati a valutare la politica con il realismo dei vecchi maestri, sono affascinati dall'abilità politica del Cavaliere. Perché non sbaglia una mossa, perché punta sul suo obiettivo e lo persegue senza scarti, ignorando anche gli inciampi con gli alleati». Difatti è cronaca: elezioni europee, elezioni regionali, referendum. E in mezzo l'accordo con Umberto Bossi, vale a dire la virtuale desertificazione del Nord. Prima ha abbattuto D'Alema; poi ha schiantato Veltroni. La scoperta di questo Berlusconi "totus politicus" è una delle sorprese sconvolgenti per l'establishment della sinistra. Mentre la leadership Ds si attardava a ripensare le regole, il Nemico conduceva la sua campagna distruttrice, indifferente alle contraddizioni interne al Polo, concentrato solo sul risultato. Per gli eredi della realpolitik togliattiana è uno smacco. Soprattutto per gli oppositori storici dell'uninominale, come Giuseppe Chiarante, fautore in tempi non sospetti del modello tedesco, che adesso si sono visti scavalcati da Berlusconi. I vecchi del Pci come Pietro Ingrao hanno messo sale nella piaga: «Questi referendum non mi piacevano, non ero d'accordo con le proposte che contenevano e non sono andato a votare». Dal suo fortino rifondazionista, salvatosi brillantemente dall'abrogazione, Fausto Bertinotti assesta i suoi colpi con una vena di sadismo: «Alle prossime elezioni i Ds rischiano l'implosione». La sinistra del partito ha rialzato la testa, per segnalare che il partito, come sintetizza Ersilia Salvato, «non ha più il polso della situazione». Il primo a parlare senza eufemismi era stato, dopo il tracollo delle regionali, Piero Fassino, sottolineando che il centro-sinistra aveva smarrito il contatto con l'elettorato del Nord. Ma oggi lo stato della coalizione sembra il male minore: il problema è nel partito. Secondo Piero Ignazi, il politologo che nel 1992, con il saggio "Dal Pci al Pds", aveva monitorato il faticoso passaggio al postcomunismo, i Ds scontano un ricambio generazionale profondo, che li ha privati della compattezza interna e dei canali tradizionali con la società. Regge, anche se faticosamente, il "partito emiliano", che sui referendum ha fatto assemblee, volantinaggi, riunioni con le associazioni di categoria, senza andare tuttavia oltre un quorum stentato, poco sopra il 50 per cento, a Reggio Emilia e a Modena. Al punto che un diessino solido e tetragono al cupio dissolvi, il vecchio soldato Mauro Zani, tornato da Roma per rimettere in sesto la Bologna progressista terremotata da Guazzaloca, ha aggiunto con la sua ruvida ironia: «I nostri sono disciplinati: votano come dice il partito, quando il partito non sbaglia». I governativi, i "ministeriali" del partito tentano di respingere il riflesso pavloviano della sinistra che si ripiega su se stessa. Cioè la tentazione di correre verso la sconfitta elettorale ora e subito, con il ritorno all'opposizione "sociale" e alle mobilitazioni di massa. «è l'idea di fondo della sinistra del partito», commenta ancora Salvati, «che sotto sotto pensa ancora che il capitalismo è una brutta bestia, e quindi sente il richiamo delle lotte di minoranza. Magari sperando in qualche catastrofe del Dow Jones, che esponga la faccia cattiva del mercato, oppure nell'apparizione di qualche movimento tipo Seattle, che movimenti la situazione italiana». Ma anche se le critiche all'"ipergovernativismo" diessino sono diffuse, cova anche un certo malcontento per come la formazione del governo Amato ha liquidato Luigi Berlinguer e Rosy Bindi, vale a dire gli autori delle due riforme più radicali, su due arene strategiche come scuola e sanità. Altre interpretazioni fanno discendere la crisi diessina dal congresso del Lingotto: che era riuscito a imperniare il partito intorno al capo della "new ideology" (Veltroni), al capo del governo (D'Alema), e al capo del socialismo (Cofferati), ma aveva lasciato senza soluzione il problema di un'alleanza politica competitiva. Con la perfida complicazione che adesso i principali esponenti della coalizione sono quasi tutti beneficiari della ventata anti-maggioritaria, da Mastella a Castagnetti. E che diventa sempre più incombente l'ombra di Sergio D'Antoni, possibile sdoganatore di un centro a mani libere. In sostanza, mentre i cultori del maggioritario, come Arturo Parisi e i Democratici, vedono svanire i loro disegni, e sono costretti a tentare di riunire qualche frammento dello spezzatino politico centrista, il dilemma principale riguarda l'equilibrio politico del partito. Sergio Cofferati si gode il doppio successo nel referendum sul reintegro («una barbarie», aveva fulminato: ed ecco qua, quorum mancato e plebiscito contro la Confindustria): ma al momento la sponda dentro i Ds per lanciare un programma politico "old labour" sembra ancora troppo modesta. Veltroni ha visto spezzarsi il filo che univa maggioritario e rilancio della coalizione, giungendo a offrire le sue dimissioni dalla segreteria. Commenta Ignazi: «Una sconfitta è una sconfitta, ma ai leader si chiede anche la capacità di resistere. Altrimenti che si fa, a ogni battuta d'arresto si abdica?». E la riapertura veltroniana su legge elettorale e par condicio? «Un automatismo che rischia di sembrare la mossa dello sconfitto in cerca di un appoggio sul terreno avversario». E allora, per cercare di intuire qualcosa sulle prospettive del partito, non resta che scrutare le intenzioni di D'Alema. Che in nome dell'"aut quorum, aut nihil" si era impegnato strenuamente sui referendum. Ma che se ne sta in disparte, a coltivare scenari intellettuali per un futuro dai tempi non ancora accertabili. «I tempi lunghi sono necessari per un partito che deve ritrovare se stesso», sostiene Ignazi. «A suo tempo, il successo di Tony Blair e del New Labour è sembrato un Blitzkrieg, ma in realtà l'elaborazione culturale e programmatica per il rilancio del partito era stata avviata già nel 1985, da Neil Kinnock. D'Alema, oltretutto, ha bisogno di tempo perché deve metabolizzare l'impressione di essere stato inferiore alle aspettative come premier, e la fragilità dimostrata dopo le elezioni regionali». Ma nel frattempo? Per Salvati il partito è diviso e incerto: «Ci sono due schieramenti che si guardano in cagnesco, la sinistra e i modernizzanti. E in mezzo il gruppo di D'Alema, poco amato perché il suo riformismo pragmatico veniva sentito come un esercizio cinico. Così, se non prevale un orientamento, tutti penseranno a prepararsi alla lunga traversata». Perché il più modernizzante di tutti è il Cavaliere. Arrivederci al dopo-Berlusconi, insomma.