L’Espresso
L'Espresso, 08/06/2000
Torino al singolare
Spifferi gelati, nel caldo maggio tori-nese, musi lunghi e sguardi obliqui nei corridoi dell'università, e poi iniziative catacombali per ritrovare il filo di una chance politica dopo il crollo di Livia Turco alle regionali. Ma soprattutto, dovunque si vada, chiunque si veda, c'è la sensazione che qualcosa si stia incrinando, nella vecchia capitale subalpina: una rete di convenzioni, una trama di solidarietà, il compromesso fra borghesia e classe operaia sigillato moralmente dalla cultura azionista. Il saggio di Angelo d'Orsi "La cultura a Torino tra le due guerre" è arrivato nella comunità accademica torinese come una sassata. D'Orsi era già considerato l'enfant terrible dell'università: ex direttore di "Nuvole", rivista della sinistra indignata, alle spalle una storia di amicizie e di rotture con i gobettiani di estrema sinistra, Marco Revelli e Giovanni De Luna. Vent'anni di ricerca, una mole documentaria impressionante, tre-anni-tre di attesa da Einaudi; e all'uscita, con l'anticipazione sulla "Stampa" una polemica bruciante, attizzata dal "Foglio" di Giuliano Ferrara contro il canone dell'antifascismo etico: cioè il "criterio metafisico" impersonato da quella che Ezio Mauro, quando dirigeva il giornale degli Agnelli, chiamava «la costituente torinese», numi tutelari Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone. Prima di criticarlo puntigliosamente sulla prima pagina della "Stampa", Bobbio in una telefonata a d'Orsi si è lamentato perché nel libro «mancano le idee». E dopo avere concesso «il mio giudizio nettamente positivo su questa sua opera di scrupolosa e rigorosa documentazione», Bobbio è passato alle vie brevi: «Angelo d'Orsi commette l'errore di confondere il comportamento pratico, spesso biasimevole, della maggioranza degli intellettuali, con le opere che nonostante il distintivo all'occhiello scrivevano negli stessi anni». Confusione imperdonabile, conclude il maestro. Ma non c'è un sentore di ipocrisia in questo galateo della distinzione tra vita e opere? Non c'è un riflesso agiografico? «Sta di fatto che in questa città verticalizzata, separata, divisa», commenta Bruno Manghi, ex cislino, in seguito uno dei cervelli free lance del gruppo prodiano ai tempi dell'Ulivo, «si sente in giro la voglia di fare i conti con un'élite di "democratici eccellenti", che alla fine sembrano incarnare lo spirito di una comunità castale». «È soprattutto la crisi di una generazione, con i prevedibili problemi di ricambio», dice Domenico Siniscalco, economista, membro del consiglio d'amministrazione Telecom, editorialista del "Sole 24 ore": «Ma è anche l'indizio di una Torino chiusa, dove nessuno è profeta in patria se non le autorità canonizzate, fatta di cittadelle separate, incomunicabili, che non sa offrire opportunità alle generazioni nuove, alle specializzazioni inedite». Intanto, sembra venire meno un connettivo: anche se, riflette il politologo Gian Enrico Rusconi, la ricchezza culturale torinese ha pochi riscontri nelle città universitarie italiane. Un tris di storici come Valerio Castronovo, Nicola Tranfaglia, Massimo Salvadori, filosofi con la durezza razionalista di Augusto Viano o con la felice eccentricità "post" di Gianni Vattimo, economisti neokeynesiani come Terenzio Cozzi, liberali come Mario Deaglio, una scuola sociologica che ha in galleria Luciano Gallino, Arnaldo Bagnasco, Loredana Sciolla, Franco Garelli; e poi istituti di ricerca come la Fondazione Agnelli, il Centro Einaudi, l'attività del Goethe Institut. «Ma allora», si chiede Rusconi, «se c'è tutta questa ricchezza, se sullo sfondo c'è la presenza e il lavoro delle grandi istituzioni silenziose, come il Cottolengo, che sono la testimonianza di una cultura solidarista storicamente pervasiva, se insomma c'è un potenziale terreno di coltura, perché la comunità culturale non esplode, perché non si accende di slanci, dove sono gli "start up"?». La risposta più fredda potrebbe essere che gli allievi non sono stati all'altezza dei maestri. «L'azionismo», sostiene d'Orsi, «è diventato il codice di riferimento esclusivo perché è l'unica identità che Torino sia riuscita a darsi». Ma era una identità parzialissima. Bobbio, ad esempio, la fabbrica non la vedeva nemmeno. Il mondo di Primo Levi, "La chiave a stella" e l'operaio Faussone gli erano del tutto estranei. Lo stesso accordo tra la Fiat e la General Motors, con lo psicodramma del "put" e del "call", è stato accolto con un senso diffuso di smarrimento. Cioè una perdita di senso che ha attraversato tutta la società, senza distinguo fra destra e sinistra. Silenzio, mutismo. Anche perché mentre Cesare Romiti esternava, Paolo Cantarella tace. Tacciono anche le istituzioni della cultura industriale, come il Politecnico, perché malgrado tutto sono un corpo separato: «La West Point del capitalismo industriale», secondo Giuseppe Berta, storico alla Bocconi, direttore dell'archivio storico della Fiat: «Una scuola dura, pesante, a suo modo efficace, ma divisa dalla città». Difatti il Politecnico è un'isola, gestita con sapienza dal rettore Rodolfo Zich, classe 1939, un tecnico di grandi doti politiche, sempre a caccia di risultati rilevanti: accordi di collaborazione con imprese multisettoriali, commesse di ricerca nelle aree "high-tech", grandi flussi di risorse finanziarie, l'insediamento di gruppi come la Motorola e la Colt. «Siamo una città puntiforme, a macchia di leopardo», sostiene Franco Garelli, sociologo specializzato e sui fenomeni religiosi e sulla questione giovanile: «Anche le iniziative di solidarietà di cui è costellata Torino sono tutte attribuibili a personalità singole». Il Gruppo Abele è don Luigi Ciotti, prete di strada e di establishment; Il Sermig, l'arsenale della pace, fondato nel 1964 per esercitare la fraternità e "tentare di vivere la radicalità del Vangelo", è Ernesto Olivero; fuori Torino la comunità di Bose, con i suoi monaci, è la personalità di Enzo Bianchi. «Esistono anche altre esperienze di interesse cruciale, centri di volontariato internazionale molto attivi come il Cisv, che realizzano progetti per il Terzo mondo e per l'educazione allo sviluppo», aggiunge Garelli. Ma anche la Chiesa va compresa fra le "istituzioni silenziose" a cui accenna Rusconi? Il nuovo vescovo, monsignor Severino Poletto, si è insediato il 5 settembre 1999: filiera sodaniana, 67 anni, esperienze ad Asti e a Casale, mostra uno stile manageriale, e punta molto sulla mobilitazione dell'associazionismo. Ha tenuto a presentarsi come figlio «di un'umile famiglia di agricoltori», altro che aristocrazie cittadine, e ha cominciato a dedicarsi agli oratorî e ai poveri. Da Prarostino, la borgata pinerolese che è il suo buen retiro, Manghi offre un giudizio sfumato sul successore del cardinale Saldarini: «Il vescovo si muove bene, con un pragmatismo intelligente, ma bisogna ricordare che Torino è una città di santi, non di associazioni». Mentre Berta eccepisce che le facce della città sono infinite: «Di quale Torino parliamo? Della capitale italiana dell'esoterismo, con le 115 sette censite da Massimo Introvigne? Del paese provinciale, che cullava il dialetto come cifra di distinzione, e in cui la modestia berseziana dell'"esageroma nen" veniva riscattata dal senso del dovere? Oppure della città postmaterialista ai Murazzi del Po, dove ci sono i locali e i centri sociali più trendy, in cui vanno gli scrittori come Giuseppe Culicchia, e che fanno da sede sperimentale per l'arte post-povera, fumettara, di quelli che un giorno o l'altro finiranno nella collana "Stile libero" di Einaudi?». Magari, aggiunge Siniscalco, si potrebbe guardare con più attenzione a quel po' di new economy che effettivamente circola, agli "incubator" delle nuove imprese iper-leggere, a esperienze come quella di Vitaminic, fondata con l'aiuto di Elserino Piol da Gianluca Dettori, Adriano Marconetto e Franco Gonella, presto diventata la maggiore piattaforma musicale online del mondo, prossima alla quotazione in borsa. Oppure, come segnala di nuovo Manghi, si è chiusa da un pezzo l'epoca in cui gli operai avevano "fatto" il Pci, trasformatosi da un pezzo nel partito degli intellettuali e dei quadri. Approfondisce Berta: «Certo, quando l'avvocato Agnelli sentiva parlare di cultura, il suo sguardo scattava immediatamente a sinistra, come per un riflesso condizionato. Come ha scritto nei primi anni Ottanta Giuseppe Bonazzi, un sociologo attentissimo alle vicende Fiat, nella lotta di classe c'era un "meta-regolatore", il Partito comunista. La Fiat aveva un interlocutore stabile che non era necessariamente il sindacato: quando Cesare Romiti, Carlo Callieri, Cesare Annibaldi, dovevano gestire le crisi sindacali, sapevano che dall'altra parte c'era, inconfondibile, il compagno Piero Fassino, "responsabile fabbriche del Pci". C'era il Leviatano comunista, che così come poteva scatenare il conflitto era anche in grado di sedarlo». Oggi È diverso. Quando allude alla situazione torinese, d'Orsi parla di estrema «pochezza» della classe politica. Manghi scuote la testa: «Abbiamo alle spalle cent'anni di denatalità, un problema tamponato con l'immigrazione nei primi anni '60, che però adesso è tornato a un punto critico. La società torinese è anziana e attraversata da molte paure. Ci sono più di 125 mila persone sopra i settant'anni, su 900 mila abitanti. Dunque non serve a nulla lo "sviluppismo", la promessa delle grandi opere. Qui si dà valore alle strade pulite, all'ordine pubblico». La diagnosi rispecchia ciò che scrisse Luciano Gallino nel 1990, con una vena fra il sociologico d'antan e il positivista macabro: «Da un decennio esatto detto sistema emette morti in quantità assai superiore all'immissione di nati vivi...». Il 26 giugno alcuni di questi intellettuali e politici torinesi si troveranno insieme nella saletta di un hotel del centro. Tema dei congiurati: come liberare Torino e il Piemonte da una competizione politica atrofizzata, fondata sullo scontro di ideologie impoverite. L'idea di fondo è che è inutile vincere le elezioni se poi non si riesce a governare. Quindi, in vista della fine del mandato di Valentino Castellani, nel 2001, gente come Manghi, Berta, Garelli, il Saverio Vertone rientrato nell'orbita Ds, il costituzionalista Franco Pizzetti, e altri fra cui il deputato diessino- liberal Sergio Chiamparino, provano a rimescolare le carte. Forse con l'ipotesi di una lista civica: una specie di "monopolarismo" che escluderebbe solo le estreme. Sarebbe il contrario esatto del principio azionista, nessun nemico a sinistra e nessun amico a destra. «È vero», replica Manghi, «ma la realtà dice che a Torino il centro-destra vince nei quartieri popolari, mentre il centro-sinistra è maggioranza solo nei quartieri della borghesia comme-il-faut». Resterebbe da identificare un candidato sindaco: Rinaldo Bertolino, l'attuale rettore di Palazzo Nuovo? Molto abile, bravo navigatore, non adatto a generare entusiasmi di massa. Rodolfo Zich, il rettore del Politecnico? Grandissimo imprenditore di cultura, conosciuto però più all'estero che a Torino, sarebbe il candidato ideale. Anche per evitare nomi da establishment come quello di Evelina Cristillin, la patrona delle Olimpiadi invernali 2006, moglie del capo dell'Ifil Gabriele Galateri di Genola, simpatie diessine. Invece, ammicca Giuseppe Berta, ci vorrebbe uno scatto di fantasia... Vattimo? Chissà, ma è troppo per conto suo, anche se ha avuto un ruolo importante in quell'operazione prettamente universitaria che fu l'invenzione politica di Castellani, nel 1993. Eccola qui, invece, la possibile candidatura choc: quella del presidente dell'Ascom, Giuseppe De Maria. Un immigrato calabrese: «Finalmente uno che non ha studiato al liceo D'Azeglio», uno che aveva il chiosco dei fiori al cimitero. Uno degli "homines novi": però decente, dicono tutti, affidabile, che non è andato alla guerra contro Castellani. Un colpo di vita e di vitalità. Anche se questa guazzalocata progettata a sinistra rappresenterebbe la radicale negazione dell'aristocrazia socio-culturale cittadina. L'azionismo e il pensiero unico borghese forse lo colpirebbe più De Maria, dal basso, che non altri saggi di Angelo d'Orsi, o altri documenti che saltassero fuori sulle compromissioni dei maestri. Un uomo in carne e ossa: e non le silhouette elegantemente morali che finora hanno scritto e interpretato il decalogo politico e civile della Torino progressista.
L'Espresso, 22/06/2000
A tutto c’è un Limiti
Paolo Limiti? C'È chi dice trash, chi dice nostalgia, chi parla di "tv delle mummie". Aldo Grasso lo tumulÒ come il direttore di «un karaoke dell'oltretomba». Intanto, perÒ, mummie o no, il suo programma per la festa della repubblica, "Evviva il 2 di giugno", con Albertone che faceva il compagnuccio della parrocchietta, la Lollo che faceva la Lollo, il collegamento da mitomani con il Quirinale, e l'Inno di Mameli in esecuzione integrale, ha raccolto il solito diluvio di ascolti. Con i suoi eventi al di sotto del kitsch, la tv di Limiti rappresenta a modo suo un fenomeno nazionale. Non si vede infatti chi altri potrebbe allestire ogni giorno, nel sacrario di "Alle 2 su Raiuno", una simile liturgia del revival, con tutte quelle reliquie, quei feticci, quei reperti. Un trattato in diretta di antropologia dell'audience. Ma potrebbe anche essere, ipotesi più colpevolizzante, un ritratto iper-realista della società italiana contemporanea. A fare il sociologo in studio, con il suo "pensiero unico" messo a punto in decine di programmi, Limiti si diverte. A 60 anni, dopo gavetta, esperienza, successo, 300 testi di canzoni alle spalle, riesce ancora a scoppiare in risate che dovrebbero essere contagiose. A suo modo, è un professionista. L'eventuale "professionista de che?", sarebbe una domanda dettata da un sussiego malevolo. Critici più generosi hanno detto che fa una tv pessima, ma la fa bene. Anzi, "alla grande". Parla in inglese con gli ospiti, traducendo freneticamente i suoi superlativi, unico grado dell'aggettivo che riconosce (definizione preferita: "incredibile"). Ci può essere Joan Collins, la cara vecchia perfida Alexis di "Dynasty", oppure Darlene Conley, la favolosa cellulitica Sally Spectra, elefantessa mangiauomini in "Beautiful". Lui le tratta come sacerdotesse dell'eros, indifferente alle ingiurie del tempo, alla mole, al silicone. Con la stessa partecipazione sentimentale con cui si fa raccontare l'autobiografia di Sandra Milo o l'amore coniugale di Orietta Berti con il bravo Osvaldo, fra imitatrici e prestigiatori, giornalisti e presunti scrittori. Per una sorta di superiore cinismo, o per fiuto peculiare, Limiti dà l'impressione di condividere fino all'ultima goccia i gusti del suo pubblico. L'Italia siamo noi. Fratelli d'Italia. Parenti d'Italia. Viva l'Italia. I suoi idoli sono gli idoli delle attempate in studio, con i loro mariti soddisfattissimi di gravare sui conti dell'Inps. Ma lui è anche il pastore del suo gregge, la guida che lo orienta, lo indirizza, lo richiama, lo istruisce, lo catechizza. Accanimento senile, è stato detto; ma potrebbe essere pedagogia nazional-popolare distillata in tv, familismo amorale mediatizzato, identità nazionale coagulata dalla filosofia del rotocalco. Proust e Pampuria Infatti trasmette senso comune, Limiti. Una carriera condotta quasi interamente fra radio e tv gli ha conferito una magica sintonia bernabeiana con quell'immensa platea che pensa i pensieri di tutti. Quale sarà il più grande tenore vivente? Ma Big Luciano, naturalmente, il supremo maestro new age Pavarotti, con un pensiero reverente al Dalai Lama. E di conseguenza il più grande soprano in circolazione? Katia Ricciarelli, con un saluto al grande Pippo. In prima fila sulle poltroncine dello studio tv può esserci Nilla Pizzi, "la regina della canzone italiana", ancora capace di sgolarsi con le canzoni del dopoguerra. Ma sicuramente non manca la moglie americana, Justine Mattera, una mascherina di Marilyn Monroe, di solito un po' intristita dal vitalismo schiacciante del Paolissimo, da sempre affascinato dallo spettacolo erotico dell'ambiguità. Il quale fra un raptus poetico e l'altro, una citazione di Cocteau sulla morte, o di Proust sulla madeleine, non disdegna di conversare in prosa con Pampuria, la pelosa cagnetta- pokémon del programma. La specialità di Limiti sono gli aneddoti. Di qualsiasi cantante, attore, regista, uomo di spettacolo, scrittore, poeta, lui è in grado di estrarre dal repertorio un episodio, un fatterello, un frammento di vissuto. Gli episodi sono in genere insignificanti, ma anche questo serve a segnalare un tono di verità. L'Italia è indotta a pensare che se l'onnisciente Limiti, che ha conosciuto tutti e tutte, racconta delle inezie, vuol dire che non sta bluffando: cioè non usurpa ruoli epici, magari ha incontrato tante volte la povera Dalida e la straordinaria Mina, ma al massimo hanno preso un caffettino. Come numero più oliato, la rivelazione: «Voi non lo sapete, non ci crederete, adesso ve lo dico io, ma questa canzone Mina non la voleva fare». A sentire Limiti, non si poteva portare un capolavoro alla Tigre che quella borbottava mamì e mamù, e faceva le smorfie. Poi i volonterosi la convincevano a non fare l'impulsiva, e lei seppure recalcitrante entrava in studio, e tirava giù alla prima prova un'incisione alla diotifulmini, con i tecnici che alla fine singhiozzavano per l'emozione. Lacrime, lacrime vere, brividi autentici, «pelle d'oca, signori». Limiti ha fatto uno speciale di successo, su "Viva Mina!", in cui questa storia l'ha raccontata almeno 10 volte. Sempre con la voce che sottolineava la soddisfazione impagabile di poter rivelare come anche i mostri sacri in fondo sbagliano, eccome, sono anche loro esseri umani, e sbaglierebbero di più se non ci fossero dei fessi che si impegnano a rimediare ai loro istinti e ai loro capricci. Ha poi un suo gusto archeologico, che gli permette ogni tanto di estrarre qualche preziosità, per stupire i criticonzi: ma lo sapete che a metà degli anni Venti, quando la Fiat lanciò la 509, commissionò una marcetta pubblicitaria nientemeno che a Riccardo Zandonai? Lui sì che lo sa, e la fa eseguire dalla sua orchestra e dal cantante di giornata, con l'aria di dire: beccatevi anche un po' di cultura. E una nota a piè pagina sulla "Francesca da Rimini". Operazione Amarcord Ma dove il professionismo di Limiti non ha rivali è nel repêchage dei minori della canzone italiana degli ultimi 40 anni. Volete Donatello, l'efebo che cantava "Malattia d'amore", e chissà dov'era finito? Eccolo qua, con 20 chili in più e il pizzetto machista. E che ne dite di Tiziana Rivale, che vinse a sorpresa nel Festival del 1983 e poi si disperse in California e uscì dal giro? Pronti via, la Rivale si piazza al centro dello studio per cantare a distesa, camicette di latex, spacchi vertigo, aria da material girl che si è lasciata un po' andare, ma insomma può anche piacere di più perché come sex-symbol sembra piuttosto trattabile. E insomma ci sono tutti e tutte, miracolati e sacrificate: Rita Pavone con l'aria sempre incazzosa verso tutto il mondo della tv, Mario Zelinotti che cantò con Little Tony "Cuore matto" per ripiombare nell'anonimato, Anna Identici che dopo le sue storie tristissime è divenuta uguale a un'istitutrice svizzera di quelle inflessibili, Gilda Giuliani che s'impegna con caparbietà per dimostrare che se avesse avuto un briciolo di fortuna poteva diventare la Mireille Mathieu italiana. Avete nella memoria qualcuno degli anni spensierati? Da Limiti c'è. C'è "l'idolo incontrastato dei juke box" Betty Curtis, c'è il flebile Piero Filippini, c'è "il cantante Dino", ci sono i New Trolls o almeno ciò che ne resta, e i Giganti, e Piero Focaccia, e Dora Moroni. Per questo gli speciali di Limiti sono imperdibili. Oltre a quello storico su Mina ne ha fatti sulla lirica, su Sanremo; e poi su Dalida, Wanda Osiris, Julio Iglesias, la Lollobrigida, Milly, la Callas, Marilyn Monroe, la Ricciarelli, Lucio Battisti (provocando l'ira dei fan battistiani sui newsgroup internettiani per la cifra monnezzara dello show), e naturalmente su Claudio Villa. Perché su quest'ultimo può scatenarsi, visto che ha in squadra la figlia naturale (sentenze e ricorsi permettendo) del reuccio, Manuela Villa, un po' chiatta ma con certi lunghi guanti rossi che andrebbero bene per Jessica Rabbit; che si dedica a impressionanti duetti virtuali, con Claudio da un aldilà in bianco e nero e la ragazza a colori, roba da pelle d'oca o da scongiuri immediati. Ne viene fuori un Satyricon involontario, che ha molto, fin troppo, dell'Italia media di oggi. Una combinazione di tipi e di approcci dove tutto è livellato, privo di scale di valore. Se pensiero dev'essere, che sia debolissimo. In cui l'alto e il basso si equivalgono. Qualcuno si scandalizza, all'idea che la festa della Repubblica stia al livello del Disco per l'Estate. Ma forse l'unico vero peccato di Limiti, golosamente confessato, è di esporre integralmente la società italiana, con i suoi gusti e le sue preferenze esattamente come sono, come li sente lui e come sono diventati dopo anni di frullato tv. Spogliato delle ultime inibizioni, suffragato dall'audience, Limiti spiattella ogni giorno l'Italia che si intrattiene con se stessa, con i casi clinici di famiglia, con i suoi affetti deliranti, gli esperti da bar e le proprie cattive abitudini: un'Italia al cubo.
L'Espresso, 22/06/2000
Il potere del GOSSIP
La regola di base dice che la propensione al gossip È democratica, interclassista, equamente distribuita nella società. Una ricerca sociologica nei primi anni Novanta dimostrÒ infatti che lo spazio dedicato al pettegolezzo da un "junk paper" come il "Sun" e da un quotidiano di élite come il "Times" era identico. Sono curiosità che si possono trovare nella piccola bibbia in materia, pubblicata di recente dallo psicologo Sergio Benvenuto, "Dicerie e pettegolezzi" (il Mulino). Ma si può giurare davvero sulla democraticità del chiacchiericcio? In Italia il gossip, etimologia "god-sib", cioè cose da madrine, da comari, in francese commérage, idem come sopra, in spagnolo comadreo, e siamo sempre lì, sta diventando qualcosa in più che una concessione alla confidenza, un veniale peccatuccio sociale, un'infrazione compiaciuta del galateo: diventa uno stile di vita, uno strumento di potere, un canale d'informazione, una tecnica della politica. Rumours e boatos vengono raccolti, intensificati e diffusi da una megamacchina instancabile. Per certi versi il potere e la politica del gossip hanno origini rapidamente decifrabili. Tramontata l'epoca delle ideologie, era fisiologico che l'attenzione si rivolgesse ai singoli individui: la personalizzazione della politica non agisce solo coagulando il carisma weberiano di Silvio Berlusconi, ma anche esponendo tatticamente in pubblico gli amori di "Pier" Casini. Ottenuta la certificazione che il re, il moderno principe, cioè il partito, era nudo, la politica doveva spogliarsi anch'essa: anziché le ritualità congressuali, i giochi di alleanza, i veti e gli scambi, sono entrati in scena i comportamenti individuali: vale a dire la materia prima delle dicerie, delle voci, del gossip. Cadute le convenzioni precedenti, ecco allora un nuovo paradigma sociale. Se prima il codice collettivo privilegiava la riservatezza, adesso il segno di distinzione consiste nel padroneggiare le informazioni riservate. Ma il codice Cuccia, fondato sul mutismo, o il canone Andreotti, basato su un archivio minaccioso quanto impenetrabile, non è più valido. Chi detiene le news più esclusive ha un solo modo per dimostrare il suo potere: rivelarle. È per questo che i contenuti del gossip si logorano a velocità supersonica. Ciò che è nuovo ed eccitante oggi, fra poco sarà risaputo. La differenza di classe fra gli happy few e gli outsider, fra Cesare Romiti e il semplice lettore del "Corriere della sera", è segnalata da un ritardo medio di quarantott'ore nella conoscenza delle chiacchiere principali. La "gossip society" ha i suoi cronisti e i suoi archivisti, i suoi siti reali e virtuali. Se guarda al passato, ha i suoi testi d'obbligo nei libri di Ettore Bernabei e Paolo Cirino Pomicino. Se invece guarda al presente, ha un repertorio inesauribile, fra "ciacola" bassa e gossip strafico, nel ritratto italiano composto da Gian Antonio Stella nelle folte pagine di "Chic". Ma ha anche un'autentica istituzione mediatica, che è "Il foglio" di Giuliano Ferrara. Tutta la filosofia di questo quotidiano infatti è ispirata dall'idea dell'equivalenza dello scoop con il pettegolezzo. La stessa polemica sull'azionismo torinese è stata trattata da un lato come un'operazione politica intesa a sconsacrare l'antifascismo come ultima legittimazione della sinistra, ma dall'altro come la rivelazione del pettegolezzo definitivo sulla biografia di Norberto Bobbio. Si direbbe che del revisionismo di Renzo De Felice "Il foglio" abbia raccolto soprattutto il gusto per i particolari inediti, per i documenti coperti, oltre che quella divertita propensione alla maldicenza che il biografo di Mussolini ha trasmesso a diversi suoi allievi, non escluso un grande regista del gossip come Paolo Mieli. Per questo, se si dovesse identificare qual è la cifra distintiva del "Foglio", bisognerebbe segnalare la permeabilità dei ruoli fra chi scrive e chi legge, tipico schema delle comunità pettegole, dove si sparla e si è sparlati. Ma si potrebbe anche dire che la peculiarità del quotidiano dell'Apostata risiede esplicitamente nella rubrica "Alta società", attribuita a Carlo Rossella ma siglata solo con il simbolino di mazza e cilindro, in modo da concentrare tutta l'autorevolezza gossipara del giornale su quelle fulminee righe che parlano di contesse e marchese che ricevono, di terrazze e salotti esoterici, di convegni della classe imprenditoriale, di barche che si chiamano Ikarus e di locali dove la presunta classe dirigente si ingaglioffisce. Un ammicco. Un piacere elusivo. Un rinvio alla prossima puntata. La diceria, ricorda sempre lo psicologo Benvenuto, era la messaggera di Zeus, essa stessa divina. Oggi la divinità sociale si gioca in un continuum fra il trash e l'informazione riservatissima, in un circuito che comprende i divini mondani come Luca di Montezemolo e Diego Della Valle, così come gli spigolatori di pettegolezzi da Roberto D'Agostino a Cesare Lanza. Per i primi c'è il sofisticato piacere di controllare i "si dice" non appena prendono a circolare; per gli altri il gusto di rivelarli pubblicamente, con una soddisfazione delatoria tutta post-ideologica, nel senso che prescinde da lealtà e solidarietà etico-politiche e che si riconoscono solo vincoli di cordata. Per questo è probabile che www.Dagospia.com, diventi non solo l'organo ufficiale del "net- tegolezzo", con D'Agostino come ideologo, testimonial e scoopista, ma un punto di riferimento per l'informazione tout court. Lo scoop su Sonia Raule direttore dei programmi di Tmc mostra già la tendenza: poiché Dagospia non ha il compito di verificare la fondatezza delle notizie, ma di rendere pubbliche le dicerie (che a priori non sono né vere né false: come dice Sergio Benvenuto «La diceria è una claque cognitiva»), può diventare il luogo di raccolta di tutte le spiate e le soffiate nazionali. Con il risultato probabile che insieme a dieci spettegolate di letto e di clan ci finisca anche l'anticipazione di qualche retroscena economico, un "gioco dell'Opa", oppure un insiding politico spifferato da amici o da nemici, per una modesta vendetta, per mettere un bastone fra le ruote o anche solo per il gusto di intervenire nel circuito mediatico. Spesso c'è una differenza molto sottile fra l'uso politico del pettegolezzo e il ricatto. Talmente sottile da risultare indefinibile. Andreotti cercò di tagliare la strada a Cossiga con il caso Gladio, cioè con un gossip di marca dc. Bettino Craxi giocò il suo "poker" contro Antonio Di Pietro ricorrendo a un dossier di pettegolezzi-carogna. I successi di Mani pulite furono accompagnati dai gossip concessi dagli ambienti giudiziari alla stampa. Ma ancor più che l'utilizzo combinatorio delle notizie e delle voci in chiave di potere, occorre considerare, come ha scritto lo specialista di "urban legends" Jean-Noël Kapferer, che «la diceria non convince né persuade: seduce». Così il gossip, quando è condiviso, scambiato alla pari, goduto in gruppo, plasma i circuiti comunicativi di una speciale "società di corte", non troppo diversa da quella di Versailles, descritta nei suoi riti quotidiani da Norbert Elias. Mentre quando è lasciato cadere graziosamente dal sovrano di turno, stabilisce immediatamente una dipendenza gerarchica, in quanto il possesso e poi la concessione dell'ultima diceria costituiscono uno status symbol. È l'ulteriore prova che oggi potere e conoscenza coincidono: anche se forse nessuno aveva pensato che questa coincidenza avrebbe fatto del gossip la risorsa strategica dell'Italia post-politica.
L'Espresso, 13/07/2000
La politica del centro-campo
Calcio, extrema ratio del dibattito politico-culturale. Inutilmente Silvio Berlusconi ha rimediato che contro Zoff trattavasi di argomentazione tecnica. Perfino i suoi alleati Fini e Casini hanno sentito il bisogno di differenziarsi da lui nel nome dell'identità italiana, con un occhio a Ernesto Galli della Loggia e Gian Enrico Rusconi. Inutile rimarcare che Walter Veltroni, giurando sull'album delle figurine Panini, si è scagliato contro il delitto di lesa patria. Quindi conviene prendere tutto sul serio. Per i cacciatori di indizi, si segnala che la guerra pallonara era stata preceduta da una prolungata polemica talmudistica (come avrebbe scritto a suo tempo Palmiro Togliatti) fra l'"Iceberg" quotidiano della "Stampa" e il "Riempitivo" di Pietrangelo Buttafuoco sul "Foglio": reo il quotidiano torinese di avere alzato l'invocazione "Forza, Italia" utilizzando una pudica virgola "interdentale" per pruderie antiberlusconiana. I segnali a base di virgole erano proseguiti per giorni, ed erano evidentemente di pessimo auspicio, visto che Zoff per una virgola, o una svirgolata, ha perso. Dopo di che, inutile chiedersi se la polemica sul calcio di destra e di sinistra (di destro e di sinistro?) ha un senso, fuor dalle virgole e dalle vongole. Certo che ha un senso. Da un lato, si è visto subito il calcolo del centro-sinistra, pronto a scagliarsi contro il fellone, nel nome del politically correct e dei buoni sentimenti. Dall'altro, c'è stata una nuova invenzione pop del Cavaliere. Il suo ruolo non consiste nel dare voce agli spiriti animali dell'Italia profonda? E allora si tratta di capire che cosa pensa questa Italia della quasi vittoria, cioè piena sconfitta, di Zoff. Uno psicologo realista informerà che più dell'amor fati, e della presunta riconoscenza per la finale europea, resterà per decenni nell'animo degli italiani un rancore di massa per chi li ha illusi e poi delusi. E allora qual è il calcolo politico migliore: sponsorizzare la splendida sconfitta e il grazie lo stesso? Oppure affondare metaforicamente il pugnale nella schiena del mancato vincitore? Sul rancore non si costruisce un governo, ma si può far passare gli altri per incompetenti. Il Berlusconi postprandiale può agire da "tennico", come lo chiamerebbe lo Stefano Benni di "Bar Sport", ammantato dal nome calcistico del suo partito; gli altri, il centro-sinistra, sostengono la tesi libresca del bello e perdente. All'inizio l'opinione pubblica pare preferire la retorica dell'arco costituzionale, sancita dai cavalierati di Ciampi, alle incazzature biscardiane di Berlusconi, argomentate dal filosofo Lucio Colletti. Ma sotto sotto, se fare politica significa interpretare gli umori del pueblo, mentre il centro-sinistra parla a nome del fair play, il Cavaliere sdogana la disillusione incarognita. Soliti dualismi del bipolarismo imperfetto. Per una virgola, Prodi perse il posto, con il famoso 313 a 312. Ormai si è affermato il criterio per cui l'importante è vincere, non interessa come. Allora, fuor dai moralismi, chi è il vincente, Berlusconi o Zoff? Il vogliamoci bene o il facciamogli del male? Senza aggiungere che il leader della destra ha lanciato anche un messaggio sottile. Non date retta a La Loggia e a Pisanu, che lo sostengono "perinde ac cadaver": rientrando in campo, il Padrone fa capire che si può essere in dissenso. Non sul modello tedesco, tramontato il Trap e inascoltato Sartori, non sul sistema francese, non sulla ricetta spagnola: ma sul gioco all'italiana, in Casa c'è libertà.
L'Espresso, 20/07/2000
Che disgrazia essere sacra
Sarà il venticello di profezie, ma per qualcuno su Roma grava una maledizione. Si riassume in una formula, il "carattere sacro" della città eterna, sancito dall'articolo 1 del Concordato del 1929. Un'espressione equivoca, vuota giuridicamente e destinata a produrre grattacapi infiniti, anche dopo che il carattere "sacro" sarebbe stato declassato a "significato particolare" con la revisione concordataria del 1984. È questo il leitmotiv del saggio che Francesco Margiotta Broglio ha pubblicato nel sedicesimo annale della "Storia d'Italia" di Einaudi, "Roma, città del papa" (oltre 1.200 pagine curate da Luigi Fiorani e Adriano Prosperi). Il contributo di Margiotta Broglio, posto a conclusione del volume, si intitola "Dalla Conciliazione al Giubileo 2000". L'autore non è solo un analista, ma un protagonista delle vicende concordatarie: per diciotto anni, dal governo Spadolini in poi, è stato consulente di Palazzo Chigi per i rapporti con il Vaticano (con una sola interruzione, i sette mesi di Berlusconi, a cui rivolse un disincantato "non possumus"). Romano di razza, insegna diritto ecclesiastico a Firenze, è una singolare figura di laico che ha un paio di santi in genealogia, oltre a una processione di porpore. Dietro la sobrietà del titolo c'è una storia intera: quella dell'intricato rapporto fra la "civitas" cattolica e la capitale profana, fra la religione e la laicità, fra la Chiesa e lo Stato. Infatti il malaugurio comincia presto: alla vigilia della Conciliazione, il gesuita padre Tacchi Venturi si rivolse a Mussolini a nome del segretario di stato cardinal Gasparri, per segnalare che l'impudico "tabarin" si era preso una rivincita insidiosa, dato che in certi cinema di Roma, negli intervalli dei film, si esibivano sul palco donne discinte, "incentivo piuttosto che schermo alle impure brame della concupiscenza". È una curiosità d'epoca che torna ironicamente d'attualità dopo le iniziative vaticane contro il World Gay Pride e l'"epopea frocia" di Imma Battaglia e Vladimir Luxuria. Ma che il "carattere sacro" di Roma fosse una rogna da subito lo ebbe ben chiaro Mussolini: che difatti cercò ben presto di contrastare la primazia papale e di svaporare l'aroma di incenso sparso dal Concordato sulla città santa. Siglati i Patti lateranensi, e celebrati i matrimoni "concordatari" di Umberto di Savoia con Maria José e di Ciano con la primogenita del duce Edda, Mussolini si preoccupò soprattutto di ripristinare le fascistiche priorità: "Roma è sacra perché fu la capitale dell'impero". Anzi, il capo del regime cercò di consacrare altri luoghi come santuari del culto fascista: il Vittoriano diventa l'"Altare della patria", con il Milite Ignoto a rivaleggiare con la sacralità dei papi, mentre piazza Venezia, "cuore del fascio e della patria", entra in diretta e "oceanica" competizione con piazza san Pietro. Questa sorda lotta per il primato sarebbe durata a lungo, punteggiata ora dagli sdegni di Pio XI nel maggio 1938, in occasione della visita di Hitler, per avere visto "inalberare a Roma, il giorno della Santa Croce, l'insegna di un'altra croce che non è la Croce di Cristo", ora invece dal sostegno di padre Gemelli nel decennale della Conciliazione, che aveva celebrato il "ritorno alla tradizione e alla missione cattolica da parte dello Stato italiano". A fascismo caduto, il "carattere sacro" di Roma doveva proporre altre insidie. È vero che dopo la fuga a Pescara il papa resta l'unica autorità metropolitana, il "defensor civitatis"; ma nella città aperta gli alleati portano l'insidia dei loro protestantesimi, e la liberazione fa riemergere impulsi anticlericali, se è vero che il referendum del 2 giugno 1946 fu interpretato anche in chiave anticonfessionale. Nenni annotò nei "Diari": "Abbiamo fatto la Repubblica non solo contro il Quirinale, ma anche contro il Vaticano". In realtà, commenta Margiotta Broglio, "il Vaticano si mantenne fondamentalmente neutrale". Piuttosto, la preoccupazione della Santa Sede era la nuova Costituzione. Ma la Costituente trasferì nell'articolo 7 i Patti lateranensi, costituzionalizzando la grana del "carattere sacro". La sconfitta del Fronte popolare il 18 aprile 1948 fu un'altra grande rassicurazione. La cosiddetta scomunica ai comunisti completò il quadro: Roma era stata riconsacrata. Due milioni e mezzo di pellegrini accorsero per il giubileo del 1950, culminato con la proclamazione del dogma dell'assunzione della Madonna. Eppure questa Roma clericale non nascondeva un fondo di disincanto. Commenta Margiotta Broglio: «Chissà se la città è mai stata veramente cristiana. C'era una fede di facciata; e una religione che aveva funzionato come strumento di controllo sociale». Un paganesimo romanesco, un'indifferenza truccata dalle genuflessioni? Fatto sta che all'inizio degli anni Sessanta, quando "sulla città sacra sta per planare l'enorme cappello da prete di Anita Ekberg nella "Dolce vita" di Fellini", la Roma dei caffè e di via Veneto ha già assistito al primo striptease, quello della turca Aiché Nanà al "Rugantino", che infrange il divieto degli spettacoli lascivi, istituito in ossequio al "carattere sacro" (naturalmente, il locale venne chiuso). All'indomani dell'elezione di papa Roncalli, Giovanni Spadolini aveva auspicato un "Tevere più largo", fra la Roma papale e la Roma repubblicana. Ma più ancora della distinzione fra lo Stato italiano e la "teocrazia ierocratica" di cui aveva parlato il giurista Pietro Agostino D'Avack, era piuttosto la modernizzazione violenta della città che provvedeva a spegnere il brusio della sacralità. In una ricerca sulla religiosità dei romani, il gesuita Émile Pin aveva rilevato che le processioni erano state ormai espulse dal traffico automobilistico, mentre i trentasei mesi del Concilio erano scivolati via nell'indifferenza: del Vaticano II "i romani non hanno capito nulla; del resto non vi hanno partecipato che albergando e nutrendo i padri e il loro seguito". Malgrado questo "lento divorzio", l'anatema del "carattere sacro" aveva colpito ancora nel 1965, quando il prefetto vietò la rappresentazione del dramma di Rolf Hochhuth "Il Vicario", un'opera che riapriva il dilemma dei silenzi di Pio XII di fronte all'Olocausto. E di nuovo si fece sentire nel 1970, allorché la Santa Sede trasmise al governo italiano una nota secondo cui l'approvazione della legge Fortuna sul divorzio avrebbe vulnerato gravemente «una solenne convenzione internazionale». Erano già cominciati i lavori della commissione per la revisione del Concordato presieduta da Guido Gonella. Da sacro che era, il carattere di Roma veniva degradato a "particolare". Tuttavia la sconsacrazione di Roma sarebbe stata messa allo scoperto più vistosamente dal voto dei romani al referendum sul divorzio del 1974. Ricorda Margiotta Broglio: «In Italia, l'elettorato disse "no" all'abrogazione con il 59 per cento dei voti; a Roma, nella diocesi del papa, venne raggiunto un dirompente 68 per cento». Proprio alla vigilia del Giubileo del 1975, indetto da papa Montini dopo molte perplessità vaticane. Il tormento del "carattere sacro" avrebbe toccato un diapason drammatico nel 1981, con l'inaudita violenza dell'attentato di Ali Agca a Karol Wojtyla, alla persona del pontefice "sacra e inviolabile" secondo il Trattato del Laterano. Sarebbero poi occorse sette "bozze", dal 1976 al 1983, per arrivare alla revisione concordataria, conclusa nel 1984 sotto il governo Craxi. Prima il carattere sacro divenne "particolare", poi sbiadì nel "particolare significato" di Roma. «Ma è un significato», commenta Margiotta Broglio, «che non riguarda tutti, bensì solo la cattolicità: il legislatore lo dice con chiarezza». E tuttavia, il "carattere sacro" era destinato a colpire ancora. È vero che quando il cardinale Poletti promuove nel 1987 un'indagine sulla diocesi capitolina, Roma, come le altre metropoli italiane, è una città a-religiosa. Ma c'è Wojtyla, con il suo carisma. Si può parlare della rievangelizzazione di Roma come frontiera del papato di Giovanni Paolo II? Dice Margiotta Broglio, dopo avere messo in luce il ruolo di Wojtyla nel riportare Roma al ruolo di "caput mundi": "Se non è riuscito a ri-sacralizzare Roma, è certamente stato capace di ri-battezzare il Primo Maggio, con una messa rock per centomila persone, con seicento concelebranti e settanta cardinali nella piana di Tor Vergata". Al punto che dentro il sindacato si sono sentiti scippati. Storie di un "giubileo senza città", aperto dal papa «con qualche concessione (di troppo) felliniana nei paramenti in stile Missoni». In cui però, all'inizio del 2000, il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, chiede di impedire durante l'anno santo il World Gay Pride, nel nome della "città sacra, o città particolare, come si dice oggi", quasi che la formula integralista del '29 e quella relativizzatrice attuale fossero equiparabili. Il Tevere torna a farsi più stretto. Iscritto dal papa in un disegno mariano e provvidenziale, Ali Agca è stato graziato da Carlo Azeglio Ciampi, e ha ringraziato il potere vaticano: il segretario di Stato Sodano, il sostituto Giovan Battista Re e il cardinale Ratzinger. Piero Badaloni si è giocato la rielezione alla presidenza della Regione Lazio per i dissapori seguiti alla decisione del Consiglio regionale di accettare le unioni di fatto. La scadenza del Giubileo dei detenuti è diventato il fulcro della polemica politica fra Polo e centro-sinistra sull'amnistia. Ma al di là del conflitto innescato dalla festa dell'orgoglio omosex, rimane l'immagine di una città che anche durante il Giubileo non è riuscita a trovare una lineare convivenza istituzionale fra lo stato laico e il Vaticano. In cui è stato notato che, tra forzature, pressioni decisionistiche, contrasti fra i poteri statali, "gli interessi della città del papa sono ancora una volta superiori alle leggi dello Stato". Sotto la regia, come annota Alberto Ronchey riportando una frase di Alberto Asor Rosa, del sindaco Rutelli, "protagonista epocale, zelante non meno che sorridente come si conviene al suo destino storico di "sindaco del Giubileo". Nella testa, rintocchi di campane celesti". E sullo sfondo resta anche, ancora più drammatica, la separatezza fra la città degli establishment religiosi e laici, da una parte, e dall'altra, lontana, dimenticata, la città delle borgate pasoliniane. Il "luterano" Pasolini, conclude il laico Margiotta Broglio, che addita lo scandalo di una fede borghese vissuta «nel segno di ogni privilegio, di ogni resa, di ogni servitù», e che fa pronunciare al disperato poeta l'estrema condanna, per cui «la Chiesa è lo spietato cuore dello Stato». Un verdetto che dentro il sortilegio del "carattere sacro" identificava con la sua eticità ereticale l'instrumentum regni, il volto irriformabile del potere. Un giudizio apocalittico, ormai inattuale. Eppure, osservando da un lato il tripudio liberatorio della festa gay, e dall'altro l'"amarezza" di Karol Wojtyla per "l'affronto" subito dal Giubileo, colpisce perlomeno l'incomunicabilità fra due mondi, e quindi fra le due città: come se l'incombere permanente della sacralità impedisse a Roma di divenire davvero moderna, cioè tollerante più che indifferente, laica invece che solo scettica.
L'Espresso, 03/08/2000
Vamos a bailar compañeros
Inutile produrre teorie troppo sofisticate sui tormentoni canori estivi, su quelle canzoni che suonano come una condanna sonora. Al massimo si possono registrare mode, filoni, addensamenti del gusto, fissazioni del pensiero. Per dire: frollate debitamente le Spice Girls, cioè le squinzie british della globalizzazione, dimenticati gli Aqua e il pop infantilistico, adesso "va" tremendamente la Spagna, e tutto ciò che suona ispanico. Istruzioni per l'uso: la movida è alle spalle e non c'entra niente il successo planetario delle politiche liberal-popolari di José María Aznar. L'idea primigenia, da cui è stata partorita anche la portoricana del Bronx Jennifer Lopez, è nelle interpretazioni erotico-pop di Madonna, così materialmente attenta al mercato dei latinos, con le sue canzoni e i clip dove mischiava sincretisticamente isle bonite, sesso, crocefissi e sudori. Ma la lingua spagnola, almeno per gli italiani, deve avere un'attrazione particolare, una sonorità familiare, qualcosa di intrinsecamente irresistibile. El pueblo unido. Adelante. Un, dos, tres, allez, olé. Ci dev'essere anche l'imprinting remoto di "Cuando calienta el sol", che tutti gli italiani hanno cantato in coro e malmenato nei karaoke, attoniti di fronte a quelle strane parole che dicevano «es tu cara, es tu pelo» (o forse erano proprio quelle parole fraintese che facevano «mi cuerpo vibrar»). Così che nei primi anni Ottanta anche la versione postnucleare di "Cuando calienta el sol", ossia "Vamos a la playa", perpetrata dai falsi gemelli italo-punk Michael e Johnson Righeira, procurò una stagione di tormenti ineffabili, tenuto conto che questo inno da delirio dell'ultima canna parlava di similtragedie sfiorate dal "viento radioactivo" e lambite dall'"agua fluorescente", un'Hiroshima in versione dance (e in seguito: "No tengo dinero", quando la Spagna non era ancora così ruggente). Dieci anni più tardi un'altra coppia, gli 883 di Mauro Repetto e Max Pezzali, avrebbero movimentato l'immaginario e le famiglie con il cartoon di sub-eroi "Hanno ucciso l'uomo ragno", che vedi caso è stato inciso anche in spagnolo ("Han matado a l'hombre araña", in una «típica noche de perros del Bronx», e chissà dov'era Jennifer Lopez). Oppure sono affinità elettive e basta: loro hanno il giudice Garzón che la mette giù dura con Berluscón, noi avevamo avuto il cabarettista Pietro Campagna e il suo rap "Di Pietro let's go". Cosicché l'ultimo sbancatore di classifiche è il fragoroso Tonino Carotone, alias Antonio de la Cuesta, ex cantante di Kojón Prieto y los Huajalotes, che la stampa spagnola definisce talvolta con tipica moderazione hidalgica "el inmenso". Come sanno tutti, il suo hit si intitola "Me cago en el amor", che per la penisola ha una sonorità suggestiva, anche se dovrebbe significare all'incirca "chissenefrega dell'amore". Con l'aggiunta di un pizzico di intellettualismo, perché il trentenne Carotone, obiettore di coscienza, ex punk, tira robustamente al kitsch, ed è un compañero del ribelle Manu Chao, francese ma etnico-globale, con cui è anche stato in tv da Celentano. L'improntitudine del Carotone è smisurata e progettuale, visto che si ispira fin dallo pseudonimo a Renato Carosone, di cui ha citato "Tu vuò fa' l'americano", ma soprattutto che ama svisceratamente gli idoli italiani degli anni Sessanta, cioè Mina, il Molleggiato e Rita Pavone, e ha un'adorazione per l'ombelico della Carrà. Peccato per l'assenza del flautato Nico Fidenco, «ti voglio cullare, cullare...». Saremmo nell'età che gira intorno a "Sapore di sale" (con Paoli massacrato in un rifacimento antimilitarista proprio dal Carotone, «no soy terrorista, no soy pacifista») e a "Una rotonda sul mare" di Fred Bongusto, passa attraverso "Luglio" di Riccardo Del Turco e nel Sessantotto trova una specie di manifesto intimamente reazionario in "Ho scritto t'amo sulla sabbia" dei neoromantici Franco IV e Franco I («Una bambola come te, io l'ho sognata sempre»). Comunque, bei tempi spensierati almeno finché sulle labbra tue dolcissime c'era un profumo di salsedine, secondo l'ideologo delle estati spiaggiaiole Edoardo Vianello. Ma il grammelot italo-spagnolo di Carotone è solo l'episodio di un serial. In una colonna sonora affollata da la copa de la vida, la vida loca, da Ricky Martin e dal figlio d'arte Enrique Iglesias, non si può dimenticare il passaggio del tedesco di padre ugandese e madre siciliana Lou Bega, con quel "Mambo n. 5" che riesumava il favoloso Perez Prado degli anni Cinquanta. Mancava poco e si risentivano nell'aria le sinuosità di Don Marino Barreto jr., «Aaaaarrivederci», parodizzato allora apocalitticamente da Umberto Eco («Aaaaalienazione...»). E lasciamo pure perdere il succes-so stratosferico della Lambada e della Macarena, che fu ballata persino da Rosy Bindi e Gerry White. Dimentichiamo anche la colonna sonora del "Ciclone" di Pieraccioni, con le Estrada e le Forteza scatenate sulle chitarre di un gruppo veneto. Resta il fatto che di fronte alle esuberanze ispaniche, ultimamente gli italiani se la sono cavata così così. Il ragazzo Alex Britti ha riempito l'estate scorsa con "Mi piaci" (nella versione spagnola, naturalmente "Me gusta"). E vabbè. Con il "Supercafone" er Piotta ha fornito il programma della sua "robba coatta", ma ha immediatamente esaurito il repertorio. Sembrava che dovesse sfondare Michael Chacon con la tremenda Banana, unico frutto dell'amor, ma si è ammosciato forse per overdose pubblica. Gli ispanici restavano in agguato. Le premesse erano state poste dal trionfale "La Flaca" dei catalani Jarabe De Palo, riapparso nel 1999 dopo tre anni dall'uscita per sbancare con il suo travolgente romanticismo habanero. Inutile opporgli Niccolò Fabi e "Vento d'estate", tormentino ritmato tendenzialmente sfigato. Infatti i Jarabe De Palo, guidati dal giovane Pau Donés, hanno avuto un altro colpo di genio e hanno imposto la vera canzone programmatica dell'estate 2000, cioè "Depende": «Que el blanco sea blanco, y que el negro sea negro, que uno y uno sean dos... depende». Colori e aritmetica relativizzati con una strizzata d'occhio. Sarà velleitario tentare di attribuire ai tormentoni estivi la capacità di incollare come una carta moschicida frammenti dello Zeitgeist. Eppure, questo pensiero debole e ammiccante sembra appropriato in modo micidiale alla fragilità delle convinzioni attuali. Sei diventata nera o sei rimasta bianca? Siamo di destra o di sinistra? «Depende». In modo che, volendo, si può mettere insieme una visione, o una fusion, che comprende il subcomandante Marcos, Maradona, Sepúlveda e il novantatreenne Compai Segundo, e che occhieggia al trash italiano degli anni Cinquanta e Sessanta, fino al Tuca Tuca compreso. Tanto, gli innovatori votano a destra, nel Messico e forse anche nell'Italia dei tormentoni. E contro la globalizzazione, contro il Grande Hermano neoliberale, si può organizzare una vocale e dispettosa "lucha" contro l'egemonia anglosassone, nel pop e nel mercato. Con canagliate, ghignate, trovate gaglioffe. Al confronto, gli Inti Illimani erano campioni di rigorismo politico. Adesso, c'è il giulivo "Vamos a bailar" di Paola e Chiara. Insomma, se il vostro slogan è ancora no pasarán: come sempre, ha dda passà l'estate.
L'Espresso, 10/08/2000
Utopista e gentiluomo
Sarebbe uno degli eretici, degli estremisti, dei reazionari, degli inattuali dell'urbanistica italiana. Tutto in una sola persona. Un insidioso rompiscatole che quando parla delle città non trova di meglio che citare Ivan Illich e il problema dell'acqua, e poi il cardo e il decumano, e infine l'allineamento delle stelle che presiedono da lassù all'assetto urbano: eh sì, Pier Luigi Cervellati non è il tipo facile. Ha appena pubblicato un libro sottile e provocatorio, "L'arte di curare la città" (Il Mulino), che completa un trittico avviato con "La città post-industriale" e proseguito con "La città bella": tutti saggi ispirati a una visione in dichiarata controtendenza. Perché gli piace immensamente manifestare tutta la sua antipatia per le auto, i parcheggi, l'alta velocità, le innovazioni che peggiorano il male. Così, quelli che non lo amano lo considerano un antimoderno. In compenso qualcuno lo stima anche fuori dalla sinistra. Lui, l'autore di quel monumento "socialista" che fu il recupero del centro storico di Bologna la Rossa, è stato chiamato a realizzare il piano regolatore di Latina dal sindaco più di destra che ci sia in Italia, Ajmone Finestra. Che gli ha detto: «Professore, so che lei la pensa diversamente da me, ma so anche che non le piacciono gli affari torbidi. E allora sappia che io ho un solo nemico: la speculazione». Ma come può un "utopista" lavorare in un settore così delicato e sensibile a interessi tanto robusti? Nel suo studio bolognese in Strada Maggiore, in parte fondale di teatro e in parte paesaggio dechirichiano, di fronte a uno dei suoi diletti manichini a grandezza d'uomo, Cervellati apre il suo catalogo di malizie: «Non è detto che un'amministrazione di sinistra sia sinonimo di buona amministrazione». Sembra un messaggio rivolto a Giorgio Guazzaloca, l'eversore. «Malgrado la mia fama di idéologue, ho alle spalle il piano regolatore di Palermo e di Catania, città non esattamente facili. Bologna? Forse si è ritrovato il filo tra le parole e le cose, fra la teoria e la pratica. È una politica moderata? Mi sembra piuttosto la premessa di una politica più attenta alle esigenze civiche». Ma è difficile lavorare oggi con le amministrazioni pubbliche? «Non si riesce più a stendere i piani regolatori, perché i sindaci vogliono esercitare direttamente le loro scelte: è scomparso il dibattito, e l'elezione popolare accentua i rischi antidemocratici, il decisionismo personalistico, l'opacità dei rapporti oligarchici». Ma soprattutto, sostiene Cervellati, il problema di fondo è un passaggio di fase brutale. Scrive: «I luoghi sono diventati "non luoghi". Le città sono diventate "agglomerati"». Tradotto da un sociologismo apparentemente apocalittico, si tratta della fine dell'identità urbana: parcheggi, aeroporti, ipermercati, svincoli, autogrill, megadiscoteche riempiono ogni spazio vuoto, creando una periferia senza confini. E fuori dalle città trionfa "Villettopoli", la distesa infinita delle case unifamiliari, la città "a bassa densità", la conurbazione, il paesaggio invaso da una superfetazione babelica. Già, ma di chi è la colpa? «Troppo facile intentare processi ai cattivi maestri. Alle spalle c'è una storia culturale: abbiamo cominciato tardi a leggere Mumford, senza considerare che scriveva negli anni Trenta. Con vent'anni di ritardo, nei Cinquanta, si è pensato che il futuro fosse il suburbio. Bruno Zevi, con la sua capacità organizzativa e mediatica, ha fatto dell'architettura organica di Mumford il paradigma ufficiale. Con il risultato che abbiamo prodotto città pessime, malgrado il lavoro e gli sforzi intellettuali di uomini come Leonardo Benevolo, che resta un grande urbanista, o come Italo Insolera, che ha sempre cercato di integrare l'urbanistica in una cultura, con un forte senso critico verso la modernizzazione». Ma a suo avviso il vero cattivo maestro è stato soprattutto lo "sviluppismo": «Perché il paese è passato direttamente dal premoderno al postmoderno: non ha conosciuto la modernità, ma solo la modernizzazione. E lo sviluppo, espressione di grande indeterminatezza, è stato il cavallo di battaglia di ogni forma di speculazione edilizia. Le università sono ancora succube di questa visione, con le loro facoltà poco qualificate, e i loro troppi architetti, male preparati». Riecco lo studioso rétro, l'imputato di passatismo: «Quelli che mi accusano di arcaismo vogliono strade, spazi di espansione urbana, e per argomentare le loro accuse sostengono che con il recupero produrrei sostanzialmente falsi storici. Mentre bisogna capire che non ci può essere soltanto la spinta a innovare: per progettare una città occorre conoscerne la storia e saper conservare; e il restauro significa prima di tutto restituire la qualità a un luogo». L'idea di fondo è che non si può utilizzare una formula per una città di tre milioni di abitanti così come per una di 300 mila o di 30 mila. Per Cervellati ci vuole un'urbanistica non elitaria, popolare, capace di soluzioni specifiche. Altrimenti il modello è inevitabilmente quello delle grandi opere, il ponte sullo Stretto, gli appalti smisurati. «Fa piacere invece sapere che l'ultimo piano di New York ha bloccato il grattacielismo, e si è concentrato sulla riqualificazione urbana. C'è la globalizzazione? Benissimo. Ma allora occorre capire che nel mercato totale la competizione si può fare solo con la qualità, non con quelle cose che Pasolini chiamava omologazione e Arbasino omogeneizzazione». E allora, per uscire dalle colate di cemento, dal traffico, dalle soluzioni sempre uguali destinate a lasciare problemi sempre insoluti, che cosa si può fare? L'utopia non basta. «All'utopia non voglio rinunciare, perché è un metro di giudizio della realtà. Io sono affezionato all'idea della "città di città". Mi si è confermata visitando New York, Città del Messico, le megalopoli. Occorre decentrare, valorizzare i borghi, mantenere quelle entità urbane che si sono formate storicamente, sapendo che sono cresciute insieme al lavoro degli uomini, ai loro comportamenti, alle loro abitudini. Insisto sulla concezione della città "bella". Dove la bellezza è un'insieme di caratteri che non può essere eliminato o stravolto, pena una perdita collettiva». Mentre parla, Cervellati sfoglia il suo ultimo progetto bolognese: il recupero del gasometro, una struttura industriale degli anni Trenta vicina alla ferrovia. Erano cinque, i gasometri. In uno di essi, Cervellati ha disegnato una sala polifunzionale, una city hall da 1.200 posti. Nel più grande, che cade a pezzi da anni e che sembrava destinato a diventare un garage, ha progettato un museo della città. Alle pareti, su diversi livelli, tre "panorami" con la Bologna medievale, rinascimentale, moderna. E in cima, a 360 gradi, il panorama visibile e reale della città attuale. In un'esercitazione di archeologia industriale, una città ideale. Una città di città. Il passato confrontato con il presente. Forse, la traccia di un'utopia celata ma non cancellata dalla storia.
L'Espresso, 17/08/2000
Fatti mandare da Migliacci
Guarda le squinternate che strillano per i premiati Lùnapop con la distrazione smagata di quello che ne ha viste troppe per stupirsi. Osserva con curiosità professionale il premiato rocker di Correggio Luciano Ligabue, maestro cantore di Lele Oriali, e benevolmente scuote la testa: «Continua a voler vivere da mediano: ma è una star, e lo sa». È fine luglio e l'hanno chiamato ad Aulla, al premio Lunezia per i testi delle canzoni, a ricevere il riconoscimento alla carriera. Perché in Italia c'è sua maestà Mogol, e su un trono a fianco c'è Franco Migliacci, classe 1930, una vita per la musica leggera. Per le ultime schiere del pop il suo nome è un'eco della memoria, ma Migliacci svolazza effettivamente dalle parti delle leggende. Fin dal momento dell'ispirazione estrosa di "Volare". Impossibile non chiedergli qual è il segreto di un successo mondiale. «Sulle canzoni ho una teoria in tre punti. Primo: possono nascere dalla cronaca, dalla realtà, come "Pasqualino marajà", ma anche "Che sarà", cioè "Paese mio che stai sulla collina", che era l'immagine della nostra casa di Cortona, vista con gli occhi di chi se ne va; oppure "C'era un ragazzo" in cui insieme a Mauro Lusini ho scritto il mio risentimento per una guerra che rifiutavo». Ci vuole versatilità per spaziare dal Pasqualino innamorato della bella indiana Kalì alla guerra del Vietnam che stoppa i Beatles e i Rolling Stones. «Sa che mi sono emozionato quando D'Alema l'ha cantata in tv con Gianni Morandi?». Ma non dimentichiamo la teoria paroliera: «Punto secondo: certe canzoni sono il pensiero di ciò che vorremmo che fosse. Tutti i brani d'amore sono così, da "In ginocchio da te" di Morandi a "Ancora" di Edoardo De Crescenzo. Amore eterno, un desiderio frustrato ma che illude sempre». Infine: «Punto tre: ciò che potrebbe essere. Una realtà alternativa: se la ricorda "Tintarella di luna"?». E come no, una siderale invenzione d'autore: "Tin tin tin, raggi di luna", come se il chiarore notturno si sciogliesse in una pioggia di monetine. «Ecco, proprio così. Scritta in tre quarti d'ora, per Mina, perché Modugno non l'aveva voluta». Allora ricapitoliamo. Francesco "Franco" Migliacci, padre cortonese maresciallo maggiore nella Guardia di finanza, nato per caso a Mantova ma fiorentino a tutti gli effetti. Iscritto a ragioneria: «Perché nel dopoguerra servivano geometri e ragionieri. C'era da ricostruire il paese, e quindi ci volevano quelli che mettevano su le case e quelli che facevano i conti. Ma io avevo in testa lo spettacolo. Invece di studiare andavo a fare il teatro vernacolare. D'altronde, visto che anche Modugno era un ragioniere fallito, ci dev'essere di mezzo il destino». Sbucano sempre fuori i baffi di Modugno. Inevitabile. «Insomma, scappo da Firenze nel 1952, e mi presento a un concorso a Tirrenia, dove Gioacchino Forzano aveva riaperto gli stabilimenti chiusi per la guerra. Donne stupende, uomini magnifici, tutti che imitavano gli americani. Io, un niente. Roba da far cadere le braccia. E invece vinco. Particina in un film con Nino Taranto». Un sogno che comincia? «No, la produzione che fallisce». Sì, ma Modugno? «Mi danno una partecipazione in un film di Francesco De Robertis, "Carica eroica". A me tocca la parte di un attendente, toscano ovvìa. Il pugliese Modugno interpreta l'attendente siciliano, minchia. Il marketing di allora richiedeva le parti regionali». Nascita di un sodalizio. Un giorno Modugno lo invita a Fregene con due ragazze, ma poi lo scarica perché di ragazze ne è rimasta una sola (che sarebbe poi la futura moglie Franca Gandolfi). Migliacci per la delusione si scola una bottiglia di Chianti, e al risveglio rimane stregato da una riproduzione di Chagall sul muro, "Le Coq Rouge". Butta giù un incipit: «Di blu mi son vestito per intonarmi al cielo». L'idea sembra interessante, ma la metrica non sta nella musica. «Ci ho messo sei mesi per capire come si costruisce una canzone. Ma alla fine è venuta fuori "Nel blu dipinto di blu". Ammessa al Sanremo del 1958 con 99 voti su 100 della giuria selezionatrice. Un delirio, nell'Italia eccitata dal boom, con la gente in teatro che impazzisce, ride, piange. Ventidue milioni di copie vendute nel mondo dal solo Modugno. Ma la prima vera sostenitrice di "Volare" era stata Virna Lisi, in compagnia con noi. E la consacrazione venne da Massimo Mila, che disse: "Modugno non è una voce che canta: è un uomo che canta"». Eppure Mimmo voleva fare l'attore. «Andiamo anche in America: vicino a Los Angeles incontriamo Elvis Presley che ha inciso una nostra canzone, "Io". Quando gli stringo la mano, mi tremano le gambe. Un altro mondo: sul marciapiede si incontra Cary Grant, fuori dagli studios si vede Alfred Hitchcock che si porta dietro un cartoccio di sedani. Alla Paramount la faccia di Modugno piace, e gli dicono: "Resta qui, ti facciamo diventare un grande caratterista". E lui quasi si offende, perché si considerava il perfetto latin lover». Rottura con Modugno. «Per lui avevo scritto "Libero", "Selene", "Addio addio", con cui Mimmo rivinse a Sanremo in coppia con Claudio Villa nel 1962. Era istintivo, generoso, infiammabile. Aveva una sua cultura. Ci si trovava a piazza del Popolo e si discuteva per ore. Io, Pavese, Moravia, e Sartre, perché l'esistenzialismo, allora, era irresistibile. Lui Pavese, Sartre, il suo Sciascia. Personalità enorme, ingombrante. "Tintarella di luna" era rimasta nel cassetto due anni: quando la sentì dai Campioni, il gruppo che accompagnava Tony Dallara e che poi avrebbe avuto come chitarrista Lucio Battisti, cominciò a sfottermi: "Fai bene, dalle pure agli altri, le canzoni". Alla lunga, ho cercato una strada mia». Successi rotolanti con Gianni Meccia, "Il barattolo", e con una Milva piuttosto fatale, "Quattro vestiti". Finché un giorno non lo chiama Nanni Ricordi dalla Rca e gli dice: «Vieni qui, c'è qualcosa che devi ascoltare». Erano i provini di un ragazzino che imitava Adriano Celentano, ma con che passione. «Così decidiamo di vederlo. Siamo nel bar della Rca, e in controluce si vede arrivare il giovanissimo Gianni Morandi, una specie di bambino che dondola sulle ginocchia, le braccia lunghissime, le mani enormi. Decidiamo di provare a lanciarlo, solo che nessuno voleva scrivere per uno sconosciuto. Allora ho trovato una canzone di un emigrante, un tale che si faceva chiamare Tony Dori, e taglia e cuci abbiamo messo insieme con Mario Cantini, un funzionario della casa discografica, "Andavo a cento all'ora"». Sorpresa, 60 mila copie. «Avevo capito che in America avevano cominciato a puntare sul mercato degli adolescenti. Erano venuti fuori i cantanti per i giovani, Paul Anka, Neil Sedaka. E allora con Morandi, per battere il ferro, mettiamo subito in cantiere "Fatti mandare dalla mamma", che più generazionale non si poteva». E poi un diluvio: la "trilogia", orchestrata da Ennio Morricone, composta da "In ginocchio da te", "Non son degno di te", "Se non avessi più te". E anche qualche scarto verso l'impegno, con il Vietnam e "Un mondo d'amore": «Quando l'ha cantata Joan Baez all'isola di Wight, dopo "C'era un ragazzo", anche qui, quasi svengo per l'emozione». E vogliamo parlare di Rita Pavone, di "Come te non c'è nessuno" e "Che m'importa del mondo"? Di Fred Bongusto e di "Una rotonda sul mare"? Ma con Morandi c'era una sintonia particolare, testimoniata anche dal musical che Migliacci avrebbe scritto per lui, "Jacopone da Todi". Il fatto vero però è che in quel periodo Migliacci è il cacciatore di successi, il talent scout, quella figura professionale nuova che è il "produttore". Nada, i Ricchi e Poveri (proprio con l'inno nazionalpopolare "Che sarà" diffuso in tutto il mondo latino da José Feliciano), e soprattutto Patty Pravo: «"La bambola" fu proposta in successione ai Rokes, a Little Tony, alla Cinquetti. La madre di Gigliola inorridì: "Mia figlia non è una bambola!"». Scalata continua alla hit parade. «La crisi venne annunciata dal beat, poi approfondita dai cantautori. Rottura epocale: Morandi in fondo al tunnel, la Pavone oscurata. Eppure ci sarebbe stato spazio per tutti. Ho dato a Gianni la canzone del ritorno, "Uno su mille", che è diventata la sua sigla. Ho scritto una commedia musicale su Pinocchio per Enzo Cerusico. Ho fatto fare il primo disco a Renato Zero. Quando mi è venuta voglia, ho messo giù le parole di "Mazinga" e "Heidi". Se resiste la passionaccia, si può fare tutto. Di recente ho scritto con Morricone il "Cantico del Giubileo", eseguito da orchestra e coro dell'Accademia di Santa Cecilia, in cui con una certa incoscienza ho riassunto duemila anni di cristianesimo: "Venne Gesù e amore fu storia infinita". Anche i cardinali sono rimasti soddisfatti di questa sintesi». Cattolico, credente, osservante? «A modo mio». Politicamente? «Ho sempre simpatizzato a sinistra. Per noi Balilla il crollo del regime fu una delusione terribile, la fine degli ideali: ne occorrevano degli altri e mi sono affezionato a chi poteva offrirli. Ho conosciuto Gianni Rodari, a cui piaceva come disegnavo, che mi ha fatto fare un "piedino" sul "Pioniere", il Corrierino dei piccoli comunisti. Non cambio idea, anche se nel frattempo è cambiata la sinistra». Ci sarà stato pure qualche buco, nella sua storia professionale. «Io mi vanto di saper riconoscere un successo all'impronta. Ma all'inizio non avevo capito le potenzialità di Fred Bongusto: ho recuperato più tardi con "Una rotonda sul mare". Il fratello di Celentano, Alessandro, mi aveva segnalato Al Bano, e non ci ho creduto. Colpa mia. Eros Ramazzotti ha raccontato di essere stato scartato da me, ma io non ricordo di averlo mai visto, e lui non ha specificato i particolari di questo incontro». E il panorama attuale? «Mi piace sempre Vasco Rossi, fin da quando fece "Vita spericolata" a Sanremo nel 1983 e mi accorsi che respirava l'aria nuova. I fuoriclasse si vedono subito. Anche se ho puntato su qualcuno come Scialpi, che era bravo ma fragile. Seguo quelli che hanno ironia, Daniele Silvestri, Samuele Bersani. Se riascolto Paolo Conte mi commuovo». Nell'era dei Lùnapop si fa fatica a trovare un nuovo Modugno, un nuovo Morandi. Non è che anche il vecchio drago rischia di restare fuori dal giro? «Senta, alle spalle ho una carriera lunghissima. Ho scritto anche una canzone per Alberto Sordi: "Te cianno mai mannato a quer paese...". Se non hanno più bisogno di me, mi ci mandino. Al paese si sta bene. Sa, paese mio che stai sulla collina... Eccetera».
L'Espresso, 24/08/2000
I bugiardi? Governo, giornali e …
Chissà, adesso che con il burattino nasuto ci si mette anche Roberto Benigni, ci sarà da porsi domande di una certa profondità sull'attrazione esercitata da Pinocchio per gli italiani. Tanto per chiarire, restando nei dintorni di Benigni, meglio il vecchio "sventrapapere" o il naso telemetrico del burattino di legno? Il simbolo fallico lasciamolo evidentemente al Bignami del freudismo. Invece, l'attrazione per la bugia, per la menzogna, per la dissimulazione, quella sì, sembra del tutto irresistibile per la platea nazionale. Un po' singolare, questa attrazione, perché in sé il libro di Collodi è un racconto micidiale, fatto apposta per atterrire grandi e piccini. Altro che pinocchierie sociologizzanti per Gadmaniaci, secondo le inclinazioni del neodirettore del Tg1 Lerner. Quando appare la Bambina o Fatina o Sorellina o Mammina dai capelli turchini, e dice: «In questa casa non c'è nessuno. Sono tutti morti... Sono morta anch'io», un brivido di puro orrore promana dalla pagina. Qualcuno per reazione si chiede se la buona Fatina non sia sotto sotto una scema teenager post-punk: e in quel caso dovrebbe mostrare il piercing sulla lingua, e cantare "Vamos a bailar" di Paola e Chiara. A pagine chiuse, di tutti i personaggi si salva solo Pinocchio, proprio perché è genuinamente irresponsabile, sa resistere a tutto fuorché a tentazioni, tira sempre a fregare Geppetto, svende l'abbecedario, e soprattutto sventola le sue bugie: colossali, sonore, ingenue, subito scoperte e punite. Pinocchioni, pinocchietti, bugiardi, bugiardoni e sbugiardati d'Italia non possono quindi negarsi all'identificazione solidale con il loro fratello archetipico. Attraverso Pinocchio si svela un'antropologia. Quella del paese in cui l'informazione viene considerata una fabbrica di panzane, e quanto al Governo vige lo schema secondo cui fatto l'inganno, trovata la legge, come dice il ministro Cardinale. Quella dei concorsi taroccati. Quella di Alex Del Piero, cocco di mamma Juve e studente del Cepu a Urbino. Quella semidimenticata di Tangentopoli e di Mani pulite, ai tempi in cui i sospettati facevano la fila davanti agli uffici del pool per liberarsi la coscienza con la stessa piangente voluttà esibita dal burattino quando viene scoperto (dalla Fatina turchina o da Ilda la Rossa) in menzogna flagrante. Ma anche l'antropologia di Antonio Di Pietro, eccessivamente attratto dai Balocchi (e comunque finito candidato al Mugello, forse non lontano dalle botteghe dei Mastro Ciliegia e dei Mastro Geppetto). Mentono tutti tenacemente, i professionisti della dissimulazione che affollano l'Italia politica. Mettiamo pure agli atti Giulio Andreotti, che delle avventure collodiane è una specie di sintesi suprema, perché è insieme il burattino e il burattinaio, il Gatto e la Volpe, la Lumaca («le lumache non hanno mai fretta», nel senso del tutto s'aggiusta), e anche un esperto coltivatore del Campo dei miracoli, nel quale a seminare cinque monete ne crescerebbero duemila (preveggente allegoria dell'uso del debito pubblico durante gli anni Ottanta; oppure anticipazione dei capital gain nella new economy). Ma non fa specie, oggi, trovare Paolo Cirino Pomicino, alias Geronimo, nei panni del Grillo-parlante? A nessuno verrà l'uzzolo di dar mano al martello di legno e di stecchirlo sulla parete? Per la verità, era già tutto scritto. In un paese che fa di tutto per assomigliare alla pinocchiesca città "Acchiappa-citrulli", non fa specie che alla fine, dopo la scoperta del più colossale intreccio di corruzione politico-economica che sia emerso nei paesi avanzati, siano finiti alla sbarra proprio gli inquirenti: d'altronde, a Pinocchio era già successo di vedersi derubato delle sue monete d'oro, di denunciare il furto e di ritrovarsi condannato alla prigione da un giudice che la sapeva lunga (e che perciò si staglia nella letteratura nazionale di fianco a quell'altro simbolo nazionale che è l'Azzeccagarbugli). Poi, le equivalenze sarebbero abbastanza automatiche. Quel Mangiafoco chi sarebbe se non Luciano Pavarotti, con quella «barbaccia nera» e il «vocione d'orco gravemente infreddato in testa?». Pavarotti ha anche il vantaggio supplementare che unisce la stazza di Mangiafoco e l'inclinazione all'insincerità di Pinocchio: riscattata dal pentimento e dal versamento degli zecchini d'oro nelle mani di Mastro Ottaviano. Tuttavia la barbaccia ce l'avrebbe anche Andrea Bocelli, invischiato nel fisco pure lui, e quindi il melodramma si complica. Il dilemma su chi sia oggi la Balena è risolto dal fatto che secondo il testo collodiano trattavasi di Pescecane, pesce contro mammifero, senza nessun riferimento alla Dc. Ma a sua volta l'Osteria del Gambero Rosso sarà un tempio dello slow food o una fregatura neo-nouvelle-new-cuisine dove con una qualche supponenza daranno al cliente (come danno in effetti a Pinocchio) «uno spicchio di noce e un cantuccino di pane»? Quindi è meglio limitarsi a identificare i bugiardi senza farsi ingannare dalle parole, ma osservando i tratti fisiognomici, mettendo a fuoco ogni possibile sintomo della crescita nasale. Silvio Berlusconi è il candidato principale allo sbugiardamento, ma a leggere bene, il Cavaliere per quanto pinocchiesco nel profilo, non è Pinocchio: «È il conduttore del carro?», si chiede infatti Collodi accingendosi a descrivere colui che trasferisce i ragazzi nel Paese dei Balocchi: «Figuratevi un omino più largo che lungo, tenero e untuoso come una palla di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole...». È lui o non è lui? Ma certo che è lui: la larghezza è l'effetto Caraceni, il sorriso prestampato è risolutivo, all'Omino manca solo il suo libro "L'Italia che ho in mente". E di fronte a lui, a questa identificazione perfetta, svaniscono lentamente nell'ombra gli altri Pinocchi della politica nazionale: Francesco Cossiga, sì, ha guizzi pinocchieschi, propensioni allo scherzo da prete, ma in fondo prevale l'inclinazione a diventare il bravo ragazzo-chierichetto tutto dottrina sociale della chiesa. Walter Veltroni, assomiglia al Pinocchio studioso, il burattino che ogni tanto fa il secchione e a scuola ce la mette tutta. Gianfranco Fini è uno che ha tentato il salto acrobatico da Lucignolo direttamente al ragazzo per bene, così come ha fatto D'Alema, da vecchio bolscevico, figlio di un dio minore, direttamente a capo del Gran Teatro dei Burattini. Ci sarà chi vedrà ascendenze gattovolpesche nella coppia La Loggia-Pisanu. Talvolta, di notte, si sente dentro la tv il cri-cri-cri di Giulio Tremonti. Eppure il personaggio più collodiano sarebbe sicuramente Umberto Bossi, perché anche lui è una sintesi di Lucignolo, di Pinocchio, dei ragazzi inciuchiti dai Balocchi, e che potrebbe tentare l'impresa di trasformarsi, con un rito celtico a rovescio, da ottimo ragazzo beat in pessimo burattino di legno. Ma il dibattito, per ora, investe più che altri il ticket del centro-sinistra, cioè la Volpe e il Gatto, Giuliano Amato e Francesco Rutelli, il dottor Sottile e il Mammone giubilare. Decideranno i sondaggi, dice l'asinello Arturo Parisi, pericolosamente prossimo a diventare pelle di tamburo. Come il Tonno collodiano, alla sua coalizione depressa Amato dovrebbe rispondere: «Quando si nasce tonni, c'è più dignità a morire sott'acqua che sott'olio». Ma l'indicatore più preciso, credete a Collodi, sarà la chioma di Barbara Palombelli: se apparirà una sfumatura turchina, cominciate a pensare che l'azzurro d'Italia potrebbe non essere solo quello del partito-azienda di Berlusconi, o dell'azienda-partito di Colaninno, ma quello del partito-famiglia del Duo di Roma.
L'Espresso, 07/09/2000
La resa dei conti
Approdato domenica scorsa alla Festa dell'Unità di Gallipoli dopo avere risalito di bolina le 27 miglia di mare da Leuca al suo collegio elettorale, Massimo D'Alema ispirava pensieri maliziosi sulla sua nuova carriera di pirata della politica: vita di corsa, alla ricerca di nuove prede, di altri tesori, di ulteriori capitani coraggiosi. Invece il comandante dell'Ikarus ha morso il freno, e dopo avere diagnosticato che il problema non è la forza di Berlusconi ma la debolezza del centro-sinistra si è concesso solo un sovrano: «Non voglio iscrivermi all'accademia dei rancorosi». Niente destino occhettiano, per Baffino. Ma se è vero che i grandi sommovimenti politici, come i terremoti, sono annunciati da modeste anomalie sismografiche, l'indizio di quale sarà il prossimo evento tellurico lo ha dato il suo ex portavoce, Fabrizio Rondolino: il quale in un'intervista a Claudio Sabelli Fioretti su "Sette" si è prodotto in un autodafé distruttivo. La sua insolenza incendiaria ha incenerito un intero catalogo di care memorie: Veltroni, «un uomo di potere e basta», la sinistra italiana, «un ente inutile», Folena, Mussi, e gli attuali collaboratori di D'Alema, un corteo di mediocrità. Quanto a Giuliano Amato, un giudizio inappellabile: «Un vero voltagabbana». Il centro-sinistra si prepari. La sua sorte si chiama resa dei conti. Potrà avvenire a sconfitta elettorale maturata, allorché il sorriso letale di Berlusconi darà la stura a un vortice di recriminazioni e di ambizioni deluse. Ma la resa dei conti potrebbe anche verificarsi prima, con una guerra non dichiarata di tutti contro tutti. E con il rischio che il centro-sinistra attuale, che aveva ricevuto il battesimo della furbizia con l'operazione D'Alema-Cossiga, finisca i suoi giorni ricevendo l'estrema unzione dell'indecenza. Il primo livello della faida riguarda naturalmente il duello per la candidatura fra Giuliano Amato e Francesco Rutelli. Il bizantinismo del "patto" di non belligeranza fra i due non riesce a nascondere che la tregua, posticcia e a termine, è stata siglata in assenza del convitato Di Pietro. Perché il sindaco di Roma ha una possibilità teorica di ricucire con l'ex magistrato; il capo del governo, nemmeno quella. Inoltre Rutelli può mettere sul mercato il successo incassato con la settimana dei papa-boys, e sventolare sondaggi che lo darebbero come l'unico in grado di lottare alla pari con Berlusconi. Dal canto suo, Amato ha due carte da spendere, una pregiata e l'altra leggerissima. La carta buona è la legge finanziaria, con la quale può cercare di spendere in chiave elettorale il dividendo del risanamento dei conti pubblici. La briscolina virtuale è la spinta a una legge elettorale proporzionale, che gli consentirebbe di riaprire una "entente" con Fausto Bertinotti (oltre che di movimentare una parte dei 150 seggi del Nord che con il Mattarellum sarebbero ingoiati dalla Casa delle libertà, con relativa ecatombe di candidati martiri). «Competition is competition», aveva detto Romano Prodi lanciando l'Asinello contro D'Alema. Ma la "competition" fra Amato e Rutelli può avere effetti da incubo all'interno della coalizione. Perché nel loro confronto si rispecchia l'ormai tradizionale irriducibilità fra la concezione ulivista e quella realista di un'alleanza contrattuale fra Ds e centristi. Fra il partito di Veltroni e gli orfani di D'Alema. Fra l'imprimatur sindacale di Cofferati e le frange liberalizzatrici. La scelta rappresenta insomma un passaggio cruciale, tale da lasciare inferocite le fazioni. Tutte già pronte a fare la fronda. E nella prospettiva di una batosta, a scatenare la vendetta. Va da sé che la postazione più fragile dello schieramento è occupata da Pierluigi Castagnetti. Per il segretario dei Popolari si preparano giorni inquieti: se acquista realtà la profezia di Berlusconi secondo cui il Ppi è sulle soglie della sparizione, Castagnetti è atteso al varco non solo dagli ultrà centristi come Ortensio Zecchino, ma anche dalle truppe marsicane di Franco Marini, e dall'ombra di Sergio D'Antoni, mentre il padre nobile Ciriaco De Mita ha già steso il suo epitaffio: «Castagnetti non mi ha deluso per il semplice fatto che non lo votai». Ma nemmeno fra i Ds c'è bonaccia: mentre D'Alema corsareggia con l'aria di chi naviga in mari superiori, e continua a pensare, per il post-catastrofe, al suo "partito personale", si approssima il giorno dei lunghi coltelli in cui Walter Veltroni si troverà schierati contro i supporter ministeriali di Amato (i super-governativi Bersani e Fassino), oppure viceversa i cultori frustrati della "gauche plurielle" come il jospiniano Cesare Salvi e tutta la sinistra interna Ds, incluso Antonio Bassolino inutilmente candidato proprio da Salvi. L'accademia dei rancorosi citata da D'Alema si preoccuperà poi, al momento buono, di presentare il conto ad Arturo Parisi, reo di avere pubblicizzato la scarsa popolarità di Amato rispetto a Rutelli (in caso contrario, il conto a Enrico Boselli, rimasto l'unico a considerare l'attuale premier come uno specchietto socialista, lo presenteranno revanscisticamente i socialisti apparentati con il centro-destra, Martelli, De Michelis e Bobo Craxi). Implacabile, la logica della ritorsione. Ma anche prevedibile in uno schieramento che non ha regole istituzionali per la selezione delle leadership, e che quindi rimane incastrato dentro automatismi oligarchici. Ah, com'è lontana l'America delle contrapposizioni politiche e personali brucianti, risolte dalla catarsi delle primarie. Già, proprio le primarie, con la mobilitazione di leader e di elettorati, di protagonisti e di comprimari. Strano che questa extrema ratio sia evaporata. Perché non c'è tempo, certo, non c'è modo, non c'è metodo, non è aria, e ciò che è reale è razionale. E quindi, per il popolo del centro-sinistra, se il centro-sinistra ha ancora un popolo, non resta che prepararsi ad assistere allo spettacolo delle vendette.
L'Espresso, 14/09/2000
PRODINO
Il partito del realismo osserva con sufficienza l'"autocandidato" Francesco Rutelli. La parola d'ordine è prendere tempo: lasciare che Giuliano Amato incassi gli effetti della finanziaria, che venga fuori il suo profilo di uomo di governo. A quel punto, dicono i realisti, Rutelli si sgonfia. Svanisce il mistero gaudioso della coppia Beautiful. Dopo avere invaso i media, il ticket dei Cicciobelli smette di bamboleggiare. Il sindaco di Roma e il suo consigliere non proprio occulto, Lady Barbara, si riveleranno una coppia di palloncini colorati per la sagra dei dilettanti: la politica è un'altra cosa. Ma il lancio di Rutelli non è solo "l'americanismo senza America" su cui ha ironizzato il gauchiste Cesare Salvi. Alle sue spalle c'è il network ulivista, e una cometa che si chiama Romano Prodi. Il verbo prodiano si confronta con Bruxelles, si misura con le analisi di Arturo Parisi, prende corpo nel circuito dei vecchi collaboratori del Professore, gioca di sponda con Walter Veltroni, lambisce tutti coloro che dall'"ottobre nero" del 1998 si sentono vedovi dell'Ulivo, viene elaborato dal pool di sindaci del Nord-est coordinato dal primo cittadino di Venezia, Paolo Costa. Per capire qualcosa in più della Rutelleide occorre auscultare il network. Ecco che cosa si capta. Ed ecco perché il sindaco di Roma sarebbe la buona novella. Innanzitutto, lo schema Rutelli ha una storia. Gli apostoli dell'Ulivo si incontrano a fine giugno a Camaldoli, al seminario della rivista dehoniana "Il Regno". Ci sono Prodi, Abete, Castagnetti, Enrico Letta. C'è Giovanni Bazoli, ultima e inconclusa invenzione politica dell'uomo che con un gioco di prestigio lanciò Prodi, cioè Nino Andreatta. E c'è Rutelli. Nasce lì l'idea meravigliosa? Niente verbali, nessuna conferma sulla trama. Però si ragiona, si discute, si fanno ipotesi. Sta di fatto che, due mesi dopo, l'ingresso in campo di Rutelli viene accolto con sorrisi di soddisfazione stampati sul viso. Anche se Giuliano Amato giura immediatamente di essere amico di Prodi da trent'anni, il network comincia a fare i conti sulla possibilità che Francesco diventi davvero il Prodino. Le domande che si incrociano fra Prodi e i prodiani sono cruciali: Rutelli è in grado di rimobilitare gli ottantamila attivisti dispersi dei Comitati per l'Ulivo? È capace di guadagnarsi quella credibilità, nell'economia e nell'università, che era l'atout del Professore? E a parte il successo di Tor Vergata, riuscirà a riprendersi il consenso cattolico di base che aveva fatto da "valore aggiunto" all'Ulivo? Le risposte del network prodiano aprono spiragli, a partire dai numeri. La premessa è che Berlusconi vede lievitare i sondaggi perché non ha un competitore. Il 36 per cento vantato da Forza Italia è il prodotto di un vuoto. Quindi non è troppo tardi per costruire un candidato. Nelle analisi di Parisi c'erano due possibilità di ripartenza: o un accordo politico contrattato fra gli otto partiti del centro-sinistra, oppure una ricomposizione dell'alleanza attraverso la scelta della leadership, per varare quel "nuovo inizio" di cui parla Rutelli (e che tanto dispiace ad Amato). Quanto al circuito cattolico, il sindaco di Roma deve lavorare molto, perché ha buoni rapporti con il volontariato, ma poco altro. In compenso, per ciò che riguarda la gerarchia le preoccupazioni sono minori, perché Ruini e Sodano staranno attenti a non sbilanciarsi (semmai, lo faranno solo con un'operazione "last minute"). Nello scenario dei prodiani, la candidatura di Rutelli avrà serie conseguenze sui partiti del centro-sinistra. I Ds friggono, perché la loro leadership è divisa fra uno "sconfitto forte", D'Alema, e un "vincitore debole", Veltroni (anche il ds Michele Salvati lo scrive in un articolo in bozze per la rivista "Reset": «Nei Ds ci sono due strategie senza leader, la sinistra e i "liberal"; e ci sono due leader senza strategie, D'Alema e Veltroni»). Ma Veltroni verrebbe rafforzato dalla scelta di Rutelli; e Baffino non può rischiare: se appoggia un Amato perdente, esce dal gioco. Inoltre, se Rutelli sfonda si registrerà un riassestamento generale del puzzle ds: anche Veltroni lascia capire che l'attrazione di un leader vincente, dopo la paranoia dello sconfittismo, investirà perfino amatiani indiscussi come Bersani, Fassino, Melandri. I popolari non hanno troppe scelte: Castagnetti ha tentato una sua onesta resistenzina, chiedendo a Parisi di qualificare Rutelli come leader del centro e ricevendone il solito rifiuto, mentre anche gli esponenti più legati all'identità di partito, Mattarella, Franceschini, Soro, sembrano essersi convinti: «Rutelli è l'unico che dà l'idea che si riparte». Franco Marini, che conserva una presa sui settori importanti del Ppi, quelli che portano voti, pare possibilista. Quanto ai disegni di Sergio D'Antoni, la diagnosi dei prodiani è infausta: «Ha perso il giro». Serpeggia ottimismo, nei vecchi ulivisti, malgrado "l'accelerazione pericolosa" della loro candidatura-creatura. Amato si può mettere di traverso? Non è detto. Nelle conversazioni con Bruxelles si scommette sulla praticabilità di uno scambio onorevole: candidatura a Cicciobello contro mano libera a Giuliano per realizzare un finale di governo pirotecnico e passare di nuovo alla storia, come nel '92. Basterà? Amato è un realista anche lui e sa controllare la propria irritazione. Ha già ammesso: «Non si può andare in battaglia subendo il generale». Ergo, giocherà le sue carte ma senza barricate. Il network gli apre implicitamente la via dei grandi incarichi internazionali. Senza trascurare che la sua figura di tecnico-politico risulterebbe preziosa in caso di risultato elettorale in pareggio. Insomma, alla "convention degli eletti" reclamizzata da Veltroni si deve arrivare a giochi fatti. E solo a quel punto, a incoronazione avvenuta, Prodi potrà uscire dal suo riserbo europeo, contemplare Cicciobello e annunciare al mondo: «Questo è il mio figlio prediletto, e in lui mi sono riconosciuto».
L'Espresso, 28/09/2000
Vincere all’italiana
Un po' si capisce, l'improvviso entusiasmo nazionale per le vittorie italiane in Australia: ormai le pagine sportive sui quotidiani sono una boccata d'aria fresca. Notizie contro dichiarazioni, prestazioni effettive invece di programmi-promessa e sondaggi. A Sydney sembra realizzarsi il vecchio mito di Olimpia, con le gare che prendono il posto della guerra incivile sulle mogli e sui figli, o del dibattito sull'infinita traversata di Sergio D'Antoni. Tracce di familismo amorale permangono, se è vero che fra le medaglie di Massimiliano Rosolino qualcuno infila anche l'orgoglio napoletano del papà Salvatore proprietario di ristoranti, un raider che di australiane ne ha sposate due, e a cui si può attribuire una specie di ratto degli antipodi. O si può ammirare il calabro-novarese Domenico Fioravanti, prima medaglia d'oro italiana nel nuoto olimpico. Roba da inorgoglire Carlo Azeglio Ciampi, e anche il gaudioso ministro Giovanna Melandri: anche se sotto sotto l'ammirazione per l'uomo rana deriva soprattutto dal fatto che il pescatore di trote Fioravanti è uno di noi, che dice «il nuoto è una noia mortale» e che avrebbe cominciato ad allenarsi seriamente solo pochi mesi fa. Insomma, il dogma sarebbe: vincere è bello, ma vincere all'italiana è più bello. Il mio doping sono gli spaghetti, ha detto Fioravanti, e tutti hanno voluto capire che ciò che conta è una canagliata del talento, non l'applicazione ossessiva, non il martirio quotidiano: ci sono voluti 104 anni per salire alla fine sul gradino più alto del podio. E come c'è riuscito, con un metodo feroce? No, con la capacità tattica, con il dono aureo dello stile, con la suprema economicità della naturalezza (d'altronde, il tecnico del nuoto Alberto Castagnetti, silhouette panciuta e maniglioni ai fianchi, come farebbe a predicare sacrifici?). Ah, l'italianità: non si vince quasi mai in modo normale. Ci vuole il dramma, il fachirismo, la fatica disumana, la secchioneria riverita ipocritamente, l'estenuante giro in pullman di Prodi, la conoscenza dei dossier tipica di Amato. Oppure, la nonchalance del genio, la trovata del fancazzista che azzecca l'ultima interrogazione, il colpo al Superenalotto, la fulminea sintesi mediatica di Rutelli. Così, ci si ritrova ipnotizzati dalla televisione, a chiedersi se l'Italia è diventata un paese moderno anche grazie agli spadisti azzurri che rovesciano il risultato all'ultimo assalto (e i francesi che si incazzano) e che cosa significa invece la medaglia d'oro nel judo del napoletano Giuseppe Maddaloni, e quella di bronzo del "fucile di Dio", il ciellino o giù di lì Giovanni Pellielo, che dice «la coscienza del peccato dipende dal livello di santità che ha ciascuno», frase per cui occorrerebbe una glossa di Don Giussani o un referendum di Formigoni. Il piacere di trasformare in epopea l'infinita varietà umana nazionale è irresistibile. Italiano è l'eroismo, italianissima è l'improvvisazione. A guardare senza moralismi, si vede che alla fine non c'è uno schema "nazionale". Vincono i normali, gli estremi, i moderati, gli ossessi, i bravi ragazzi, le canaglie, i calmi, gli esagitati, quelli del Vangelo e quelli della playstation.