L’Espresso
L'Espresso, 05/10/2000
Io, l’ultimo socialista
A passeggio per piazza Sordello a Mantova, un vecchio marxista può permettersi civetterie inattese: «Questa è una città ricca, ma non ricchissima. Non c'è un negozio di Ferragamo, al massimo c'è Emporio Armani». Sorpresa: la merce non è solo feticcio, e un materialismo eterodosso può fare i conti con l'economia della griffe. Eppure Eric J. Hobsbawm, 83 anni, un successo mondiale a metà degli anni Novanta con "Il secolo breve" rifiuta senza esitazioni l'etichetta dell'eterodossia. E insiste e scandisce: «Per me il pensiero di Marx è stato una guida nella ricerca, perché stabilisce un punto di vista e un ordine di priorità nello studio dei fenomeni storici. Sarebbe miope cercare di inquadrare la vicenda della seconda metà del Novecento, che so, attraverso l'analisi delle strutture familiari». E allora, tutto il diluvio di approcci sociologici? La storia anonima, la storia sociale, la storia delle mentalità? «Benissimo, ma il marxismo possiede un vantaggio implicito: riconosce la multidimensionalità della vita umana. Mentre fissa una gerarchia, si rivela duttile, articolato, complesso». Sta' a vedere che potrebbe esserci un futuro, per il socialismo, a dispetto dell'egemonia del pensiero unico: anche nella conclusione del "Secolo breve", Hobsbawm scriveva che il compito centrale all'alba del nuovo millennio non è di esultare davanti al cadavere del comunismo sovietico, ma di aggredire i difetti intrinseci del capitalismo. Che cosa implica all'atto pratico, un lavorio critico dall'interno o una suggestione romantica di superamento del sistema di mercato? «Nessun romanticismo. Dobbiamo considerare che l'idea, sacrosanta, del cambiamento della società è stata alterata dal conflitto ideologico. Abbiamo attraversato un secolo di guerre di religione laiche, se è lecita questa espressione, che hanno deformato le interpretazioni. Bisogna tornare alla radice del problema, senza preconcetti». Però non vorrà negare che il confronto tra sistemi c'è stato, c'è stato il conflitto geopolitico, c'è stata la guerra fredda. «Sono stati plasmati due modelli contrapposti, l'economia socialista e l'economia di mercato, ma il capitalismo non era e non è un blocco unico. L'Austria liberaldemocratica era un paese più statalizzato dell'Ungheria comunista. La separazione era tutta politica. Adesso la cortina di ferro è caduta, ma proprio perciò la combinazione di Stato e mercato si può riconoscere più facilmente. Sottolineo la varietà dei capitalismi per uscire dal fondamentalismo teologico del mercato puro, dal dogma della mano invisibile: in realtà c'è sempre una combinazione di elementi. Sicuramente non avremo più economia senza mercato. Ma neanche mercato senza politica. La possibilità dell'azione politica si esplica proprio sul crinale fra l'economia di mercato e l'azione pubblica». Vuol dire che potrebbe tornare un revival socialista? Curioso, anche François Furet, dopo avere sottoposto ad autopsia l'idea comunista, concludeva "Il passato di un'illusione" scrivendo che la democrazia, con la sua sola esistenza, «fabbrica il bisogno di un mondo che venga dopo la borghesia e il capitale». Non sarà che il revisionismo più radicale conduce di nuovo dalle parti dell'utopia? «Furet era un grande ideologo, ma anche uno storico eccellente. Noi possiamo constatare facilmente che la maggioranza dell'umanità non decide, bensì subisce le decisioni. Senza un'utopia concreta, senza il "principio speranza" di Ernst Bloch, rimane solo un orizzonte di incertezza. Nell'Ottocento e nel Novecento, attraverso gli ideali politici si creava anche la fiducia nello strumento politico, in un'organizzazione capace di approssimare l'ideale». Ma sono gli unici a promuovere il cambiamento. Non sarà che il tramonto delle visioni rivoluzionarie ha svuotato anche i partiti di ispirazione cristiana e liberale? Di più, che anche le socialdemocrazie abbiano perso spessore, dal momento che la loro forza consisteva in una risposta riformatrice alla sfida comunista? «Proprio così. Dietro il vecchio ideale del liberalismo, nell'Inghilterra dell'Ottocento, c'era un ideale di fratellanza tra i popoli e di pace universale fra le nazioni. Oggi, la visione del liberismo fondamentalista non ha dietro di sé una vera utopia. La felicità come sottoprodotto della crescita economica non può mobilitare le coscienze». E allora "what is left", che cosa rimane, e che cosa rimane a sinistra: la Terza via di Tony Blair e del suo guru Anthony Giddens? «La Terza via è solo un concetto topografico. Un tenue alone di sinistra permane, poiché i blairiani hanno coscienza che non c'è solo il capitale e la crescita, e che i problemi sociali rimangono. Ma la Terza via non è una politica». Ciò nonostante un realista si chiede se sia meglio vincere le elezioni con Blair o perderle con manifesti di purezza ideologica. «Meglio attrezzarsi per vincerle con una politica coerente. Da subito il programma del New Labour si è concentrato su un solo punto: la rielezione». Un'ambizione naturale e legittima per qualsiasi partito: anzi, a suo modo una legge della politica. «Certo, tutti i poteri tendono a diventare permanenti, e la struttura democratica si preoccupa di rendere questa ambizione impraticabile. Ma i grandi governi riformatori, quelli che hanno inciso davvero sulla società, hanno avuto un progetto, lo hanno realizzato, e quando sono caduti il progetto non è morto. I laburisti di Clement Attlee, nei due anni dopo il 1945, hanno gettato le basi della vita nazionale per quarant'anni». Venne definito un programma "ciclopico" di nazionalizzazioni e di servizi sociali. Qualcosa che adesso verrebbe giudicato un incubo statalista. Ci sarebbe da chiedersi oltretutto se lo schema dell'impatto dei governi sulle strutture sociali vale anche per la contro-riforma di Margaret Thatcher. Come risposta, un sogghigno: «Il problema della Thatcher è che il suo progetto è riuscito in modo eccessivo». Eh sì, la Lady di ferro che diceva: «Quella cosa chiamata società non esiste». Una tesi socio-politica rivelatasi profezia, dato che la dimensione collettiva sembra evaporata dalla vita pubblica. Mentre le principali esperienze politiche del Novecento ponevano l'accento sulla politica di massa, oggi prevale un modello comportamentale tutto basato sull'individualismo. «Il tema cruciale dell'età contemporanea è che dietro la superficie dell'individualismo c'è la sostanza della società del consumo. Però così si rischia di sostituire al cittadino il cliente del supermercato. Questa è la distruzione della dimensione sociale dell'uomo. È vetero-socialismo sostenere che la disgregazione dei sistemi sociali crea incertezza e demoralizzazione? So bene che il miglioramento economico è stato straordinario: l'Italia è irriconoscibile per chi la ricorda com'era negli anni Cinquanta. Ma tutto ciò ha corroso i legami sociali. Abbiamo perso le vecchie carte per navigare, e non sappiamo dove andiamo». "Il secolo breve" si concludeva con un richiamo al ridisegno delle mappe, per non rischiare il buio. Nel suo ultimo libro Hobsbawm parla invece di gente «ai margini della storia»: si risentono gli inni del Primo maggio, ma anche il sound delle orchestre di Count Basie e di Duke Ellington, il sassofono di Sidney Bechet. Perché non c'è solo l'ideologia, nella storia non ci sono solo i testi sacri: c'è anche l'esperienza viva di ciò che è popolare. La scommessa è che il popolo esista ancora, anche se non lotta più: ci vuole la tenacia dello storico per immaginare un nuovo ciclo collettivo, sotto questi cieli. Insomma, l'ottimismo di un uomo che ha scavalcato il secolo breve, e non vuole restarne prigioniero: forse, dell'ultimo socialista.
L'Espresso, 12/10/2000
40enni alla carica!
Intanto, una premessa: se il futuro è dei quarantenni, se come dice il quarantenne Francesco Rutelli sono loro la nuova risorsa italiana, il senatore Di Pietro è fuori gioco, visto che i suoi cinquant'anni sono caduti il 2 ottobre. Quindi, out. Meglio così, perché la generazione nata fra il Giubileo del 1950 e il "miracolo" di fine decennio è un club del desencanto, di tipi che non hanno fatto in tempo a immaginarsi al potere nel Sessantotto, qualcuno si sentiva già fuori tempo nel Settantasette, molti hanno marcato visita rispetto alle grandi avanzate del Pci: figurarsi se potevano sentire il fascino dell'Italia country dei valori. Il valore primario, semmai, è una vocazione individualista, con le lealtà di bandiera surrogate da un certo senso del clan; e con il timore notturno che gerarchie ed élite abbiano bloccato il potere: davanti a loro, infatti, c'è la gerontocrazia italica, con i sessanta-settanta-ottantenni inschiodabili; ci sono la tigna tattica di D'Alema, le filiere accademiche di Giuliano Amato, le sperimentate facoltà equilibratrici di Antonio Maccanico e Andrea Manzella, le professionalità dei Visco e degli Spaventa, la felpa dei grands commis. All'ultimo minuto Quindi, provarci: forse è un last minute per una generazione intera. Anche se come generazione è un gruppo eterogeneo. In politica le foto sembrano meglio identificabili, a partire dal ticket familiare Rutelli-Palombelli: lui surfista delle tendenze politiche prevalenti, fino alla candidatura alla premiership. Irresistibile: come lei, l'ex reginetta di Montecitorio, ora confidente pubblica, chanteuse gozzaniana nella sua rubrica e nel suo sito, con una impareggiabile miscela di piccole cose e grandi incontri, navigatrice della Roma che si piace (in attesa dello sbarco fra gli over 40 della trentottenne Melandri, oltre che di Alfio Marchini). Primo fra gli altri quarantenni è naturalmente Walter Veltroni. Frenano i riduzionisti: al massimo, un talento per la mediaticità. E invece anche una insospettata capacità di manovra, prima a fianco di Prodi, e poi da solo, assistendo imperturbabile al tracollo del cinquantenne D'Alema, quindi intrigando fino a riuscire nella più improbabile delle soluzioni, cioè l'autoesclusione di Amato. Già pronto a distillare un progetto dalle essenze blairiane: un touch di socialità, il senso giddensiano della modernity mediato da un climi letterari alla Baricco&Tamaro, un venticello moraleggiante alla Michele Serra, un soffio partecipe della sua Africa (e pensare che Occhetto incassava ironie per il suo Pds "amazzonico"). Nel centrosinistra, le altre figure si possono dividere su due modelli. Il primo, di gran lunga in testa malgrado concorrenti come Pietro Folena o Enzo Bianco, è Pierluigi Bersani: il postcomunista più amato dagli industriali, il "doroteo rosso" secondo i nemici ma anche gli amici, il filosofo finito a mettere mano nelle infrastrutture, il cattolico (di famiglia) cresciuto nel pragmatismo socialista, furbizia piacentina e lessico in stile new wave, "dobbiamo fare ancora un paio di privatizzazioni, altre tre o quattro liberalizzazioni, e rock'n'roll", che nelle Feste dell'Unità viene inteso all'istante come un eccetera. Mentre l'altro modello è Livia Turco, romanticamente cattocomunista, catastroficamente battuta alle regionali in Piemonte da un altro quarantenne, il forzista Enzo Ghigo (una sorta di Bersani del Polo, l'ala duttile rispetto alle rigidità alla veneta di Galan). Più che un individuo, la Turco è l'autobiografia di un pezzo dell'ex Pci, cioè la solidarietà finita a misurarsi dolorosamente con il governo, dal che il dramma di dover mostrare fermezza nelle espulsioni mentre il credo personale sarebbe l'accoglienza tout court. E il problema (insignificante nel partito ma insidioso al ministero e al "Costanzo Show") di un lato estetico penalizzante, poi risolto con coraggiosi ritocchi del coiffeur, e consigli discreti delle amiche sottosegretarie che ogni tanto provano a trascinarla dalla Mariella Burani. A destra, vige lo stile Fini, ovvero il doppiopetto postfascista evoluto in colletti e cravatte abbinati sul precario, attacchi alla "Triplice", dipietrismo rimangiato, senso comune nazionalpopulista: con gli Storace e i Gasparri a rappresentare le pulsioni cattoliche di destra, anti Gay Pride, nonché slittamenti nel folk che non dispiacciono a Lady Daniela. E che rendono complicata la vita a Pierferdinando Casini, teorico e pratico del centrismo sulla tonalità Biancofiore, cioè pericolosamente rétro, e pure al coetaneo Marco Follini, che comunque è l'autore del più definitivo epicedio sulla Dc come partito-mamma. Eclettici in economia Tutto piuttosto facile, finché si resta in politica. Bipolarismo netto, identità definite. Invece la mappa del potere generazionale diventa più frastagliata non appena si entra in economia. Certo, c'è il presidente della Confindustria, l'eversore dal basso di Carlo Callieri, cioè Antonio D'Amato, che non perde occasione per aprire il manuale liberista, sostenuto dai piccoli imprenditori, dal Nordest di Nicola Tognana, in esplicita contrapposizione ai vecchi poteri targati Torino. E sul versante opposto la carriera fino alla presidenza dell'Enel di Chicco Testa, simbolo di una sinistra euforizzata dalla conquista del quartier generale, poi terrorizzata dall'idea di dovere sloggiare, infine rivitalizzata dall'ingresso in campo del vecchio compagno di strada Rutelli. Ma queste contrapposizioni sbiadiscono non appena entrano in scena i poliedrici, gli eclettici, i "nouveaux". Da che parte sta Diego Della Valle, con le sue folgorazioni di marketing, già pronto a scarpinare in borsa con le Tod's? E quale sarà il pensiero politico di Renato Soru, l'inventore di Tiscali, cattolico praticante e ospite nel gennaio scorso al congresso Ds del Lingotto, la new economy come religione, così indifferente all'old power che interrogato su Hdp risponde: ci sono ottime spremute d'arancia? Varrà la pena di informarsi sulle affiliazioni politiche del genovese bocconiano Alessandro Profumo, il deus ex machina di Unicredito, definito prodiano ma rivelatosi soprattutto per le sue fulminee campagne acquisti? No, meglio concentrarsi sul loro essere figure di snodo, personalità di rete, imprenditori, tecnici, manager che possono permettersi di esercitare la loro technicality con una prudente indifferenza rispetto alle parti politiche. E anche i consiglieri del principe cambiano: mentre D'Alema contava sull'abnegazione intellettuale di Nicola Rossi, che si era calato "totus tuus" a Palazzo Chigi, oggi una figura di riferimento potrebbe essere quella del torinese Domenico Siniscalco, editorialista del "Sole 24 ore", consigliere d'amministrazione Telecom per conto del Tesoro, direttore della fondazione Eni "Enrico Mattei" (parola d'ordine modernista, "sviluppo sostenibile"): attivo già nella squadra di Amato nel 1992, all'epoca della finanziaria monstre, poi connesso gli ambienti governativi, al Tesoro, a Palazzo Chigi. Uno che sfugge alle sigle, ma che incarna alla perfezione il consulente della post-politica: relazioni personali, amicizie, collaborazioni, ma niente vincoli esclusivi di appartenenza. Il segreto, insomma, consiste nell'essere nodi di una rete possibile. Come Ilvo Diamanti, il politologo vicentino che perlustra il territorio fra la politica e il tessuto industriale del Nordest, e che dovrebbe essere il primo analista che il romano Rutelli dovrebbe incontrare per non arretrare davanti alle vertigini nordiste. Quell'altra rete che tiene insieme buona parte dei quarantenni del giornalismo di tendenza italiano, da Giuliano Ferrara a Gad Lerner, con la partecipazione esterna di Enrico Mentana, la tessitura diplomatica di Lucia Annunziata, le punzecchiature di Gianni Riotta (mentre più isolato e istituzionale, anche se alla fine più stylé, è il modo in cui interpreta la sua direzione al "Corriere della sera" Ferruccio de Bortoli). Quarantenni, comunque, eccoli qua. Magari incerti su quale sarebbe il modello estetico: lo stile hard boiled di Marco Tardelli o il genere baby face di Giorgio Gori? La voracità di Luca Barbareschi o il sarcasmo di Vittorio Sgarbi? Il baudismo di Carlo Conti o il dinamismo di Paolo Bonolis? Tuttavia disponibili, pronti a giocarsela, come l'accortissimo Gori che giunto al bivio professionale ha scommesso la carriera a Canale 5 con il "Grande Fratello". O come Roberto Giovalli che ha fatto la sua acrobazia, dalla direzione della polista Italia 1 alla criptoulivista Tmc. Tutti con la percezione che la partita è cruciale. Perché se vince il sessantaquattrenne Berlusconi, lo spazio è occupato per tutti, anche per i colonnelli del Polo. Mentre se vince la banda Rutelli, per i versatili di centrosinistra è sicuramente l'occasione della vita; ma anche per i quarantenni del centrodestra c'è una inconfessabile prospettiva in più.
L'Espresso, 19/10/2000
Lui sì che è un italiano vero
In teoria ci sarebbe un abisso a separare il ragazzo di Cinecittà Eros Ramazzotti, classe 1963, figlio di un manovale, dal suo alter ego che è una star mondiale, sul palco veste Armani, spopola fra gli stucchi dorati del Radio City Music Hall di New York, entusiasma gli stadi di tutta l'America ispanica e percorre trionfalmente l'Europa a fianco di icone come Rod Steward, Elton John e Jimmy Page. Già, ma in pratica l'abisso è stato colmato. E allora l'ipotesi di fondo è che la globalizzazione non sia un processo a senso unico. Se il ragazzo "nato ai bordi di periferia" riesce a farsi realizzare un videoclip da Spike Lee e poi da Tornatore, a duettare con la sublime tardona Tina Turner e in ultimo con l'argentea diva Cher, significa che dalla borgata profonda si può giungere alla dimensione planetaria. Come poi ci si riesca è un altro conto. Perché Eros non è un interprete epocale, non è un sex symbol, non è un performer rivoluzionario. Tuttavia, sarà la musica accattivante, il piglio melodico moderno, qualche drittata molto emotiva con Andrea Bocelli, gli arrangiamenti internazionali, il marketing, la deriva latina, ed ecco che ti ritrovi il ragazzo pasoliniano dentro il circuito dello star system, con milioni di copie vendute e delirii di folla. Forse uno dei segreti è nella sua naturalezza, la stessa che si tratti di piazzarsi in garage una Ferrari, di mettere su uno studio di registrazione futuribile, di inscenare il matrimonio show con la bionda Michelle Hunziker, oppure di vivere assiduamente la carriera e il mestiere come se il pop fosse una vocazione all'incrocio fra l'industria globale, i concerti in Mondovisione e un artigianato certosino. A differenza di altri campioni nazionali, da Zucchero a Vasco Rossi, Eros non insegue il blues e nemmeno il rock: insegue un'idea della musica come intrattenimento, senza intellettualismi o suggestioni politiche, ravvivata da passioni molto sentimentali. Ciò che conta sono le emozioni, in una "fusion" di tradizione e di ultimo trend. Ne vengono fuori canzoni nostrane con un suono da multinazionale: proposte con tanta partecipazione da imporre l'Eros come un autentico italiano d'Italia, provincia del mondo.
L'Espresso, 02/11/2000
Io secchione? Piuttosto un bobbista
Il ministro giovane dice: «La mia è una storia normale», e non abbassa gli occhi di fronte a un'ombra di incredulità. Insiste minimizzando: «Solita trafila, la parrocchia, l'Azione cattolica, la politica negli organi collegiali della scuola». Benissimo, ma allora come si spiega la carriera di uno che a 34 anni regge il timone di due ministeri, l'Industria e il Commercio estero, e ora si trova ad affrontare anche le bufere dell'Umts? Enrico Letta, classe 1966, ha una buona e classica famiglia alle spalle: papà Giorgio, accademico dei Lincei, ordinario di matematica, venuto via da Avezzano per studiare e poi insegnare a Pisa. La mamma, una sassarese emigrata sotto la Torre per studiare, e un fratello minore che promuove l'università. Mentre a Roma tesse le sue reti il Letta storicamente più famoso, cioè lo zio Gianni, il gran diplomatico del Cavaliere («Polo o no, con lui ho sempre avuto un rapporto importante»). Nel suo mini romano, dove abita dopo la fine di un matrimonio tormentato dalla politica, libri dappertutto. Non solo saggistica: «Letture un po' casuali: mi piace Andrea De Carlo, leggo volentieri Montalbán, sul comodino ci sono le "Memorie di Adriano" della Yourcenar. Ultimamente ho scoperto Eric Ambler, "La maschera di Dimitrios"». Sotto la tv si intravede la videocassetta di "Mediterraneo" di Salvatores: «Ormai usurata: l'avrò vista 20 volte, è una storia che mi prende sempre». Di storie ci interessa la sua. Anche perché non ci sono in giro troppi ragazzini con una simile carriera alle spalle. «Non mi dia del secchione. Non sono mai stato uno studente fuoriclasse. Cinquantaquattro alla maturità, un 110 e lode in Scienze politiche nella Scuola Sant'Anna, strappato a fatica, perché partivo da 102. Risultati medio-alti ma non eccelsi. Fra l'altro, non sono ancora riuscito a concludere il dottorato di ricerca, su Maastricht: tutto fermo da quando mi hanno dato le Politiche comunitarie». Studi a parte, l'Enrico Letta politico nasce giovanissimo: la vocazione era precoce. «Ho cominciato nei primi anni Ottanta, al liceo. Credo che lì si trovi l'embrione della mia posizione attuale. Perché allora la divisione era semplice: da una parte c'era la sinistra, dall'altra i cattolici. Noi però eravamo in collegamento con l'Azione cattolica ambrosiana: in opposizione alla sinistra, ma anche con una netta separazione da Comunione e liberazione». Fin qui è una storia qualunque. Dove scatta il cambio di velocità? «All'università, e subito dopo. Fra la seconda metà degli anni Ottanta e i primi Novanta, mi ritrovo nelle organizzazioni europee della Dc, ed è una buona scuola. Nascevano i partiti europei, c'era la grande ispirazione cattolica e socialista di Delors, un clima in cui si avvertiva l'Europa nascente. Un po' per caso, per assenza di concorrenti, divento anche presidente dei giovani Popolari europei». Che effetto faceva, a poco più di 20 anni, il mondo visto da Bruxelles? «Un'esperienza colossale. Incontravo figure di riferimento come Kohl, Maertens, Lubbert. E ho potuto osservare più distintamente la crisi della Dc. All'inizio sembrava che Martinazzoli potesse farcela: Kohl aveva investito su di lui, era convinto che la tenuta della Dc fosse essenziale nel momento in cui decollava Maastricht. E io rischio addirittura di diventare il segretario generale del Ppe, quello che adesso è coperto da Alejandro Agag. Era in scadenza il mandato di Thomas Jansen, e Kohl si rivolse a Mino: "Indica uno dei tuoi. Ma che non sia uno dei vecchi". Martinazzoli fa il mio nome, la candidatura viene anche formalizzata, ma nel frattempo tracolla la Dc, e addio». Avviene negli organismi europei l'incontro politico della sua vita, quello con Nino Andreatta? «Sì, Andreatta lo incrocio a Bruxelles. Con il suo tipico modo di fare, con la sua nonchalance mi invita a lavorare all'Arel: "Letta, perché non fa una ricerca...". Tutto vaghissimo, ma Andreatta è uno choc intellettuale. Innanzitutto per la sua diversità rispetto agli altri dc. Per la sua dimensione etica, ma soprattutto per un disinteresse profondo per la politica e un'attenzione invece assidua alle "politiche". Un gusto anglosassone, ma tutt'altro che accademico. Andreatta poi è decisivo perché mi apre le porte dell'economia. L'Arel è una rete di incontri: con Angelo Tantazzi, Fabio Gobbo, lo stesso Romano Prodi. E sul piano personale soprattutto con il figlio di Andreatta, Filippo, anche lui attivo dalle parti del Ppe, con cui si sviluppa una grande amicizia e una discussione continua». Andreatta nel 1993 va al Bilancio e la chiama come assistente. Ma siamo ancora lontani dalle stanze del potere vero. «Quando Andreatta passa agli Esteri lo seguo, ed è un anno straordinario. Capirà, c'era di mezzo l'applicazione di Maastricht. Poi arriva Berlusconi e io ricomincio a pensare a me stesso. Nel 1996 mi trovavo con le valigie in mano, pronto a passare un anno alla London School of Economics, ma mi chiamano al Tesoro, nel comitato per la transizione all'euro». E poi dice che non è un secchione. Mentre i suoi coetanei fanno i giovani a vita, lei fa il lavoro oscuro dentro il Palazzo. «In realtà non mi sono mai negato qualche divertimento generazionale. I concerti rock, se capitava. Ho rincorso qua e là Elio e le Storie tese. Anche se il mio preferito è Francesco De Gregori, così rigoroso e sentimentale allo stesso tempo. Ogni tanto metto su i Dire Straits, per risentire la chitarra di Mark Knopfler, i Supertramp di "Breakfast in America"...». Quanto a sport? Trova il tempo per praticarne qualcuno? «Gioco a tennis, ho una grandissima passione per il basket, faccio windsurf...». Non insista: secchione sotto tutti i profili. «Mica tanto. Mi piace cucinare, cucina mediterranea, ma non le imporrei mai una cena preparata da me. Perché anche in cucina e nello sport ciò che conta sono i risultati. Dopo l'istituzione della sede milanese dell'Industria abbiamo festeggiato sfidando a calcetto il Comune di Milano, squadra mista di assessori e consiglieri. Partita al Palalido, dignitosa sconfitta per 5 a 3». Una vita da mediano? «Con tutto il rispetto per Oriali e Ligabue, io sono milanista: una fede nella memoria di Rivera, nel culto di Van Basten, nell'ammirazione per Paolo Maldini. Il calcio non è la politica, e Forza Milan non è un partito di destra». In politica, invece, passaggi rapidi: vicesegretario del Ppi di Marini, in chiave ulivista. «E proprio qui comincia l'ultima avventura sportiva, il bob». Non mi dica, anche il bob. «È una metafora. Avrei potuto citare "Blade runner", il mio film preferito. In sostanza parte una corsa che non sono più in grado di frenare. Allorché Prodi cade, e io penso anche adesso che sia in negativo l'avvenimento cruciale della legislatura, D'Alema recupera all'ultimo giro tre ministri di area ulivista: Micheli, De Castro e il sottoscritto. Ma si tratta delle Politiche comunitarie, qualche cosa che rientra nelle mie competenze. Invece nel dicembre '99, con il D'Alema bis, quando D'Antoni rifiuta il ministero di Bersani, l'Industria la offrono a me. Provo a prendere tempo, ma a un certo punto l'unica resistenza sarebbe stata quella di non giurare. Il bob ormai è troppo lanciato». Che cosa fa un giovane bobbista schierato in una corsa più veloce di lui? «Si sente tremare le vene e i polsi. L'unica è arrotolarsi le maniche. I miei amici, Tantazzi, Onofri, Gobbo, mi danno una mano. Scambio idee con il garante dell'energia, Pippo Ranci, parlo appena posso con Mario Monti, che conoscevo bene perché circolava spesso all'Arel. Al Tesoro c'è Amato, un altro allievo della Scuola Sant'Anna di Pisa. Di grande aiuto è l'esperienza fatta all'Arel due anni prima, con ricerche sulle privatizzazioni del settore elettrico, del gas, dei servizi pubblici locali. Mi chiudo in casa, e a cavallo fra Natale e l'Epifania come un disperato». Fra cinque mesi il bob si ferma. Che cosa c'è dopo la fermata? «Non ho mai chiesto niente, le cose mi sono sempre cadute addosso. Una vita di corsa implica anche rinunce, solitudini, affetti trascurati. E poi, a questo punto c'è un problema che trascende ampiamente la mia persona, ed è la sorte del centrosinistra. Vede, io ho un vecchio rapporto con i Democratici americani. Ero alla convention del Madison Square Garden nel 1992, insieme con Veltroni e Parisi. Le mie ultime vacanze estive le ho fatte a Los Angeles, sempre alla convention dei Democratici. Dagli americani ho imparato che oggi non serve a nulla guardarsi indietro, per dimostrare quanto si è stati bravi. Bisogna puntare sul futuro, sui programmi, sugli obiettivi. Forse Rutelli lo ha capito, ma chissà se l'ha capito il centrosinistra. Se non lo capisce, perde. Pessima cosa per l'Italia attuale». E per lei? «Mal che vada, io ho sempre una tesi di dottorato da finire».
L'Espresso, 16/11/2000
Silvio e Walter in salsa yankee
Se vince Gore..., sospirava Walter Veltroni a chi gli chiedeva impressioni sulle possibilità di rimonta di Francesco Rutelli, candidato appena inventato. Inutile chiedergli che cosa c'entrasse con le faccende italiane la vittoria del gelido Al. Nella visione del segretario Ds, un successo democratico sarebbe stato la prova della continuità del ciclo clintoniano. Una ventata globale che avrebbe rafforzato implicitamente tutte le esperienze della sinistra "new": la "neue Mitte" di Gerhard Schröder, il blairismo postlaburista, e anche le declinanti fortune del nostro Ulivo. Può indurre al sospetto l'idea che le fortune dell'Ulivo dipendano dall'unzione del clintonismo: e il sospetto più disarmante è che il centro-sinistra non riesca a trovare altra identità se non situandosi in una corrente politica mondiale, sotto la bandiera di un progressismo generico ma universale. Vale a dire: in Italia l'alleanza ulivista non ha ancora espresso un suo programma, e nel frattempo si dilania fra Francesco Rutelli e Sergio Cofferati, mette insieme spezzoni artificiali di sistema politico, sembra seriamente intenzionata a giocarsi l'eredità del 1996: ma si sente comunque in franchising dentro una corrente ideale planetaria. L'uso italiano delle elezioni americane è ovviamente una forzatura. Tuttavia è risultata ancora una volta sorprendente l'automaticità delle prese di posizione, ricalcate meccanicamente sull'asse destra / sinistra. Mai che un polista si sia sbilanciato in un giudizio a favore di Bill Clinton e quindi della continuità modernista dei democratici. L'equazione fra Al Gore e Francesco Rutelli è ancora largamente imperfetta, ma a destra l'identificazione di George Bush jr. con Silvio Berlusconi è attraente fino a diventare irresistibile per la Casa della libertà. Il populismo benevolo, il "compassionate conservatism", la propensione antitasse, le venature anticentraliste sovrappongono infatti il Texas a Roma. Soprattutto l'ultimo Berlusconi, singolare miscela di liberismo e di economia sociale di mercato, di conservazione e di cambiamento, sembrerebbe un bushista perfetto. Nella speranza di trasformare il risultato americano, cioè il frenetico fotofinish, in un Forza Bush all'italiana, possibilmente in un plebiscito.
L'Espresso, 23/11/2000
ROSSO Guccini
Interno bolognese, quartiere Cirenaica, via Paolo Fabbri naturalmente al 43. Una voce stentorea: «Nel fosco fin del secolo morente / nell'orizzonte cupo e desolato / già si alza l'alba mi nacciosamente / del dì fatato...». Francesco Guccini sorride soddisfatto della propria memoria mentre declama gli endecasillabi di un canto anarchico che potrebbe essere l'antesignano della "Locomotiva". I giorni e gli anni se ne sono andati, lasciando alle spalle i tempi eroici di "Folk Beat n. 1", i libri, i romanzi, i fumetti, "Radiofreccia", gli amici che non ci sono più come Bonvi, il disegnatore di "Sturmtruppen", Victor Sogliani, il bassista lungagnone dell'Equipe 84, e Augusto Daolio, il cantante dei Nomadi, l'Eric Burdon della Bassa; o che invece si ritrovano ancora sotto casa per i riti serali da Vito. Oggi "Culodritto", ovvero sua figlia Teresa, ha 21 anni ed è iscritta al Dams. La vecchia partner chitarristica, Deborah Cooperman, vive nel Veneto con il marito, hanno un negozio di articoli musicali, lei dirige un coro locale e ogni tanto rispolvera in pubblico il suo fingerpicking da prestigiatrice. La compagna giovane, Raffaella, che come lui ha studiato con l'italianista Ezio Raimondi, sta facendo un dottorato di ricerca su Gadda. Proprio Raimondi, dopo avere assistito a un concerto del suo vecchio allievo a Bologna, gli ha detto: «Guccini, mi piacciono le sue canzoni perché sono etica che si fa politica». Insomma, riconoscimenti, onori culturali, una cooptazione nell'intellighenzia, ora consacrata dalla collocazione nel catalogo Einaudi. Guccini, a sessant'anni può confessarlo: lei ci ha sempre marciato, con la fiaccola dell'anarchia e la giustizia proletaria, con quelle parole che incendiavano i palasport. «Li incendiano anche adesso, se è per questo. Selve di pugni alzati. Ma l'anima socialista e libertaria era autentica. Anche se il socialismo non veniva dalla famiglia: madre carpigiana e democristiana; padre liberale e montanaro quando i liberali erano i padroni, e lui un semplice impiegato alle Poste. Nel '48 il voto di famiglia fu ovviamente alla Dc. L'unico rivoltoso vero, l'anticlericale classico, diffidato dalla polizia fascista, per attività sindacale durante la costruzione della diga di Pàvana, era il mio prozio, che ho fatto diventare il protagonista di una mia canzone, "Amerigo"». Vuol dire che lei non ha mai inseguito la rivoluzione? «Non sono mai stato un estremista, non è nella mia cultura. E neanche comunista, perché il Pci allora era il partito dell'Urss, figurarsi. Ho votato socialista a lungo, ma la matrice culturale più sentita è l'azionismo, i Rosselli, il socialismo liberale. Anche il Sessantotto l'ho percepito nell'aria, ma avevo già 28 anni, e nessuna voglia di estremismi». E adesso? «Semplice, adesso voto Ds. Con il fastidio di vedere quelli che ai tempi della contestazione mi criticavano perché non ero abbastanza rivoluzionario che ora prendono lo stipendio di Berlusconi e fanno le campagne per Forza Italia». Mentre lei insiste romanticamente con il Che. «Ma Guevara è un mito ormai fuori dalle appartenenze politiche. Le è mai capitato di sentire la pelle d'oca per un canto proletario? Si può essere conservatori e commuoversi sentendo una canzone operaia, e allo stesso modo emozionarsi per la storia del Che. Capita anche a gente che nei concerti alza il pugno chiuso e magari si scopre dopo che ha votato per Forza Italia». Irresistibile Guevara. Solo che lei racconta quella storia ai ragazzini che si affollano ai suoi concerti, e per i quali il Che è un'immagine su una maglietta. Molto postmoderno. «Le canzoni dicono delle cose, si fanno ricordare. Pensi che "Il vecchio e il bambino", una canzone dedicata all'olocausto nucleare, ora la insegnano a scuola, è finita nelle antologie. Roba da vergognarsi come ladri. Anche perché io non mi sono mai considerato un autore politico: le mie canzoni nascono dalla quotidianità». E dai miti: a partire dall'America. «In America ci sono stato la prima volta nel 1970, l'ultima l'anno scorso, e giuro che non ci torno più: proibizionismo sulle sigarette, sulla birra se guidi... L'America è stata un mito fortissimo anche se di terza mano: Steinbeck, Dos Passos, Caldwell, attraverso Vittorini e Pavese. Gli unici libri di autori italiani li leggevo alla biblioteca dei postelegrafonici di Pàvana. Ma l'innamoramento vero era venuto nell'autunno del '44, quando erano arrivati gli americani in carne e ossa». Quando comincia invece l'innamoramento musicale? «Comincia con il jazz tradizionale, il dixieland, da adolescente. Poi viene il cool jazz, molto esclusivo. Ma a un certo punto arrivano quelli della musica nuova: i Platters con "Only you", ma soprattutto il rock, Bill Haley, Gene Vincent, Elvis Presley». E lei, come tutti, si mette a suonare. «A suonare e a comporre musica, prego. Opera prima, una fotocopia di "Only you". Poi capitava un amico che ti diceva: ho conosciuto uno che con la chitarra sa fare l'assolo di "Be bop alula". Da restare annichiliti, perché quell'assolo era un giudizio di Dio: ed eccoci in gruppo a battere le balere. Ci si fa un repertorio. Il mio è sterminato, da "Signorinella pallida" a "Rock around the clock"». Poi appare Dylan, e vi strega tutti. «In effetti il primo Dylan ha esercitato la seconda grande influenza sulla mia vita musicale. La prima era stata quella dei francesi: Brassens, Brel, "Ne me quitte pas" che fu un'esperienza sconvolgente. Allora si ascoltava molta musica, e si provava i tutti i modi a rifarla». Perché, adesso di musica non ne ascolta più? «Ma neanche per sogno». Se cito i Rem, gli U2, i Radiohead lei rimane indifferente? «Come un catatonico. Ascolto qualche amico, Vecchioni, De Gregori, e Vinicio Capossela, che a suo tempo ho aiutato a entrare nel giro. Ma soprattutto mi piace la roba argentina. Il tango, che è diventato una passione grazie al Flaco, alias Juan Carlos Biondini, il mio chitarrista. Se vuole, le espongo la mia teoria sulle analogie fra il lunfardo, la lingua del tango, e il dialetto modenese». Ma intanto mi faccia capire come passa le giornate, quando non è in giro per i suoi tre o quattro concerti al mese. «Leggo. Passo alla libreria Feltrinelli di piazza Ravegnana e saccheggio, o mi faccio saccheggiare, che è lo stesso. Gli ultimi libri comprati? Pansa, "Romanzo di un ingenuo", in cui trovo qualche storia che mi è vicina; poi Marta Boneschi, "Senso", l'ultimo Montalbán, il romanzo milanese di Gino e Michele». Vita da casalingo. «L'ideale per scrivere. No, non canzoni, per quelle c'è tempo, e adesso comunque non esiste neppure il progetto di un nuovo disco. Invece, per tenere viva la vecchia passione mi sono messo a tradurre in dialetto pavanese una commedia di Plauto, la "Casina", una storia di due schiavi che corteggiano la stessa ragazza. L'idea sarebbe di metterla in scena, perché è tutta un gioco degli equivoci, e viene bene, con quella lingua fossile che è il dialetto. Solo che non riesco a finire, perché siamo in chiusura con Loriano Macchiavelli, è il terzo romanzo scritto insieme, dopo "Macaronì" e "Un disco dei Platters"». Soliti amici, solito giro... «Aggiunga pure che non ho il cellulare e neanche la patente, se vuole farmi passare per reazionario. Ma non creda che la mia vita sia una lunga e lenta disillusione. Io mi sento combattivo, non sono per niente incline alla rinuncia. Cari amici, non vi attrae la politica di adesso? Vi fa schifo il centrosinistra? Mi dispiace, ma io gioco con le carte che sono sul tavolo. Se c'è Rutelli si vota Rutelli. Gli estremismi, i romanticismi politici, i rivoluzionarismi, quelli vanno bene qualche volta in una canzone». E il lunfardo? «Se sai il modenese con il lunfardo te la cavi. C'è una fratellanza linguistica. Il problema vero è che la musica argentina è tutta in levare, e ti fa venire il cervello sincopato, per noi che non siamo abituati, e suoniamo il tango in battere come il liscio. No, mi creda: in politica come in musica bisogna capire che i tempi possono cambiare».
L'Espresso, 30/11/2000
Io ballo coi libri
Come ci si trova, a 43 anni, a dirigere la casa editrice di Benedetto Croce? Bisogna chiederlo all'erede di Vito, cioè a Giuseppe Laterza, universalmente detto Pepe. Responsabile della "varia" (come si dice in gergo per distinguere la saggistica dallo scolastico), di una delle più canoniche case editrici italiane. Una tradizione pesante alle spalle. E un mestiere ereditario per uno che in una vita parallela dice che avrebbe fatto volentieri il dj (in casa ha un mixer semiprofessionale); e che di tanto in tanto si fa prendere dalla frenesia del ballo: come all'ultima Fiera di Francoforte, quando è capitato a una festa di Seuil, e si è scatenato. Laterza, una volta gli editori non si comportavano così. Erano principi o monaci. «Non sono un editore da oleografia, con la missione sempre in testa. Appena posso esco con le bambine, per correre insieme al cane. Un po' di tennis, qualche romanzo. E non era scritto nel destino che sarei diventato un editore. Anni fa c'erano altri richiami: la politica, la ricerca economica». Lei in politica? Ma non era predestinato all'azienda di famiglia? «Andavo al liceo Tasso, scuola politicamente calda di Roma, non solo pariolina. Erano egemoni Lotta continua e il Movimento studentesco: io mi sono iscritto alla Fgci, con Veltroni segretario della Federazione giovanile romana». Molto convenzionale, molto istituzionale, molto da classe dirigente in pectore. «Se è per questo, fin da allora ero "quel socialdemocratico di Laterza". La politica mi interessava perché per carattere il mio modo di ragionare si sviluppa nel confronto. Non mi va di meditare in solitudine». E il Pci in quel momento era la parte giusta. «In verità, alle soglie dell'università ho mollato. Volevo occuparmi di storia economica, mi sono iscritto a economia, e ho incontrato Federico Caffè, con cui più tardi mi sono laureato». Ma la politica ha rifatto capolino alla svelta. «Nel '77, con la contestazione di Luciano Lama da parte degli autonomi. Ci si chiede come reagire all'autonomia. Allora entro nella sezione universitaria del Pci, dove c'è un bel gruppo di "figli di": Jolanda Bufalini, Franca Chiaromonte, Guido Ingrao, Laura Pecchioli, Pietro Reichlin, Antonia Trentin». Quanto all'essere "figlio di", neanche lei scherzava. «Gliel'ho detto, in quel momento le carriere non erano programmate. Che io sappia, a parte Franca Chiaromonte, nessuno è rimasto in politica». Mentre lei nell'editoria c'è entrato, e dalla porta principale. Se ne occupava già allora? «Andavo ogni anno a Francoforte con mio padre. Studiavo parecchio, e mi sarebbe piaciuto restare nella ricerca, ma ero impaziente nei passaggi analitici e tendevo a saltare velocemente alle conclusioni. Nel frattempo mio padre ha convinto me e mio cugino Alessandro, che adesso è amministratore delegato dell'editrice e si occupa dello scolastico, che si può produrre cultura fuori dall'università». Vito è stato un padre ingombrante? «Rappresenta la parte razionalista della famiglia. C'è anche un ramo meno prevedibile, quello di mia madre, che viene dai Chiarini, una famiglia fiorentina che ha spaziato dal circo al cinema. Con tutto il suo rigore, mio padre non ha mai imposto nulla. Tant'è che mio fratello Federico è diventato musicista, abita sul lago di Bracciano, vive di musica jazz. È lui che ha ereditato il Dna della famiglia materna. Mio padre invece è sempre stato razionale, un salveminiano, un liberale di sinistra, affezionato alla sua figura di editore delle pubblicazioni degli Amici del "Mondo"». Non avrà imposto nulla, ma diciamo che è riu-scito facilmente a portarla nella casa editrice. Preparando la successione in famiglia. «Sono entrato nel 1980, e sono stato spedito in redazione. Training dal basso. Poi tre anni all'ufficio stampa. Come redattore non ero il massimo; i libri mi piaceva soprattutto progettarli». L'hanno mai guardata come il figlio del padrone? «Appena entrato, legato com'ero alla mia cultura di sinistra, partecipavo perfino alle assemblee sindacali. Ho smesso perché era buffo, ma mi sono liberato presto del problema del nome. Semmai, ho sviluppato l'aspetto collegiale della casa editrice, in un rapporto stretto con i redattori». Quali sono stati i suoi primi interlocutori, nell'ambiente culturale? «Sono numerosi, ma quelli con cui si è sviluppato immediatamente un rapporto sono stati Andrea Giardina, l'antichista che ora è sulla cattedra di Santo Mazzarino, e Andrea Boitani, economista della Cattolica a Milano». C'erano degli incontri formali con i consulenti? «No, non abbiamo mai avuto comitati di lavoro. C'erano persone particolarmente vicine, che offrivano un contributo assiduo. Lucio Colletti e Tullio Gregory per la filosofia, oltre naturalmente a Eugenio Garin, che era stato il maestro di mio padre. Per la storia contemporanea Rosario Villari, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto. Tullio De Mauro per la linguistica. E poi altre figure, che non erano consulenti veri e propri ma il cui parere era prezioso: Paolo Sylos Labini, Nello Ajello, Leonardo Benevolo. Sulla storia medievale Jacques Le Goff e Georges Duby ci hanno seguito da vicino». Lei è la negazione vivente della ribellione contro i padri. Non c'è mai stata nemmeno un'ombra di competizione con Vito? «Discussioni sui programmi, sui titoli, sulle scelte, sempre; ma scontri veri e propri mai. Quando non era convinto di un progetto, alla fine concludeva: "Se ci credi, vai avanti". Cioè prenditi le tue responsabilità». E lei se le è prese. Assistente della direzione, direttore generale con Vito amministratore delegato... «Finché mio padre e suo fratello Paolo hanno lasciato tutte le cariche e siamo subentrati nel consiglio d'amministrazione io e Alessandro. Un cambiamento significativo perché mi ha portato a occuparmi del mercato e dei costi, a misurare le idee con i conti». È cambiato anche il privato? «Avevo avuto le normali passioni della mia generazione. Leggevo i manoscritti, ma mi concedevo gli Stones, Eric Clapton, i Credence, i Jethro Tull. Di recente sono stato con le bambine ai concerti di Jovanotti, delle Spice Girls, di Zucchero». Casa e famiglia. O meglio, casa editrice e famiglia. «Troppo inquadrato, dice? Il contrappeso è mia moglie, con il suo carattere imprevedibile. Per una napoletana come lei, l'unica concessione alla tradizione è la pizza della domenica sera: la prepara, e tutti insieme la mangiamo guardando una cassetta in tv. Il film più visto degli ultimi anni è "La vita è bella" di Roberto Benigni. E anche "Quattro matrimoni e un funerale", perché ho una passione per la campagna inglese». Eccolo, il borghese perfetto. Ma che tipo di editoria aveva in mente, quando è arrivato al vertice? Laterza è stata identificata a lungo come l'espressione di una sinistra "ufficiale". «E si sbagliavano. Abbiamo pubblicato Hobsbawm e De Felice, un socialista non pentito e il primo dei revisionisti. Non ci sono mai stati recinti. Forse mio padre non avrebbe pubblicato, che so, il libro di Marcello Veneziani "Comunitari e liberal", perché Veneziani è un intellettuale esplicitamente di destra: da parte mia qualche pregiudizio è caduto, altrimenti non avremmo deciso di pubblicare il pamphlet di Gianfranco Pasquino "Critica della sinistra italiana". E neanche l'intervista a Di Pietro di Giovanni Valentini, dato che nei salotti il nome dell'ex piemme è impronunciabile». Tutti gli editori si nascondono dietro qualche libro non ortodosso. «Ma alla fine la figura dell'editore conta, nella varietà dei programmi, nel tentativo di dare un'impronta di cultura moderna. Abbiamo appena pubblicato un saggio di Sylos Labini sullo sviluppo, molto in linea con la tradizione laterziana. Ma a gennaio uscirà un libro di Paolo Mastrolilli, il corrispondente di "Avvenire" da New York, che è la storia di due hacker. E poi un saggio di Silvano Serventi e Françoise Sabban sulla pasta. Anni fa non l'avremmo neppure pensato». Che cosa sono, episodi di ricreazione dalla politica? «Sono episodi del tentativo di combinare una dimensione italiana con quella internazionale». Con la pasta? «Con un saggio sulla cosa più italiana che esista, scritto da un italiano che sta a Parigi e da una sinologa dell'École des Hautes Études. Dai tempi della "Storia delle donne", curata per noi da Duby e Michelle Perrot, la fisionomia europea della casa editrice è molto cresciuta. Il pubblico è cambiato, le culture si sono diversificate. Conta la curiosità, la percezione di interessi che si rinnovano». E quindi addio ai messaggi politicamente corretti. «Oggi le militanze editoriali non avrebbero senso».
L'Espresso, 30/11/2000
La scuola che Cambia
Scusi, c'è il professore? No che non c'è. E non cercatelo in sala docenti. Dieci anni fa la prima indagine Iard sugli insegnanti italiani aveva mostrato il sorpasso numerico delle donne anche nelle superiori. Raggiunto il 2000, la femminilizzazione si è accentuata «in tutti gli ordini e i gradi del nostro sistema scolastico». I maschi sono esemplari sempre più rari, forse in via di estinzione. È il primo dato che balza agli occhi dalla seconda indagine sulla scuola italiana svolta dall'istituto milanese. Condotta per conto del ministero della Pubblica istruzione, la ricerca ha coinvolto un campione nazionale di 7 mila 400 insegnanti statali e non statali, dalla materna ai licei. È stata coordinata da un pool di esperti composto da Carlo Buzzi, Alessandro Cavalli e Giancarlo Gasperoni, ai quali si sono aggiunti otto sociologi specializzati in materia scolastica. Ne sono derivate 450 pagine di sintesi ("Gli insegnanti nella scuola che cambia" si intitola il volume curato da Alessandro Cavalli), che il Mulino manda in libreria in questi giorni, e che propongono una mappa dell'universo scolastico italiano, essenziale nel momento in cui la scuola vive con molte inquietudini l'ampio processo di riforma che la sta investendo. L'indagine dice che per il genere maschile l'ultimo rifugio sono le scuole superiori, dove gli uomini resistono ancora sull'argine del 45 per cento. Ma per il resto le donne esondano. Trascurando la scuola materna, dove sono la totalità del corpo insegnante, nelle elementari superano il 93 per cento, e nelle medie inferiori oltrepassano il 70. La prima conclusione è brutale e poco femminista: queste percentuali suggeriscono che la "desiderabilità sociale" della professione di insegnante si è ulteriormente ridotta. Si aggiunga che queste schiere di donne non abbondano di giovani. Oltre la metà degli insegnanti è nata prima del 1953, sicché fra i paesi sviluppati l'Italia è agli ultimissimi posti per numero di docenti sotto i 30 anni. Commenta Antonio Schizzerotto, che ha curato la parte della ricerca sulla condizione sociale: «Non si può dire con certezza che la composizione per età costituisce un ulteriore indice di declino sociale dell'insegnamento. Tuttavia è intuitivo che un gruppo professionale di età matura non fornisce un'immagine particolarmente dinamica e attraente». A questi aspetti si aggiunge l'abbassamento del livello sociale delle famiglie d'origine. Dice il coordinatore dell'indagine, Alessandro Cavalli: «Non solo i figli, ma ormai anche le figlie delle classi dirigenti percepiscono la prospettiva di diventare insegnanti come una forma di declassamento, e quindi tendono a scartare questa opportunità». Per la verità sono gli stessi docenti a sentirsi un ceto in declino, che fa parte di un carrozzone burocratico, il quale tende a trasformarli in una classe polverosamente impiegatizia, sempre meno riconosciuta socialmente. In ogni caso, si riduce la distanza sociale fra docenti e studenti provenienti dalle classi medio- basse, e si registra un aumento della stessa distanza fra docenti e studenti della classe medio- alta. La professoressa rischia di venire squadrata dall'alto in basso dai rampolli di una borghesia per la quale gli insegnanti scivolano ai margini dell'area sociale del prestigio. Le aule sono sempre più grigie e il successo non rientra più nei meccanismi scolastici. Con qualche conseguenza quasi di tipo castale: ad esempio, sul "mercato matrimoniale" l'insegnante risulta poco attraente come partner da coloro che si situano o puntano ai vertici della scala sociale: se insegni non ti sposo. I dati dello Iard sottolineano che ciò vale soprattutto per i maschi. Ma anche le donne appaiono in seria difficoltà: se il 42 per cento delle insegnanti è sposata o convive con uomini appartenenti alle classi dirigenti, la maggioranza ha trovato un partner nella classe media impiegatizia o nella piccola borghesia urbana; e la scomposizione per età mostra un vistoso andamento al ribasso: quasi la metà delle professoresse sopra i 50 ha sposato un imprenditore, un dirigente, un libero professionista; sotto i 35 anni, la quota delle privilegiate scende a meno di un terzo. Professoresse da buttare, quindi? Si sentono frustrate, il mestiere è senza mobilità, la spinta al cambiamento è debole, e il fatalismo sulla propria posizione pubblica porta a una visione pessimista della società: a loro giudizio si affermano valori che dicono di di-sprezzare (la ricchezza, l'apparenza, l'immagine esteriore, il successo), mentre crollano quelli a cui sono legate, cioè l'onestà, la serietà, l'impegno, l'attaccamento al lavoro. Fin qui, il quadro sarebbe avvilente. Ma secondo Cavalli è con questa «maggioranza silenziosa» che bisogna fare i conti, sia nella gestione quotidiana sia nell'applicazione delle riforme, se l'obiettivo è una scuola in grado di favorire lo sforzo di modernizzazione del paese. Quindi occorre che l'identikit sia preciso. Ecco qua. La professoressa tipo è un essere ai confini della schizofrenia. Delusa dall'insegnamento ma senza avere mai nemmeno pensato di cercare un altro lavoro. Propensa ai consumi culturali, che appaiono in crescita, ma con la plateale eccezione del calo della lettura dei quotidiani (quasi che l'attualità politica segnalasse implicitamente la marginalità della scuola). Ipercritica sulle propria formazione professionale ma diffidente verso l'aggiornamento e la sperimentazione. Consapevole che la riqualificazione passa inevitabilmente attraverso l'introduzione di strumenti di valutazione, ma indisponibile a che questa valutazione sia compiuta dall'esterno. La medesima schizofrenia si nota nell'atteggiamento verso la stagione di riforme che si è aperta nella seconda metà degli anni Novanta. In particolare, sulla rivoluzione copernicana rappresentata dall'autonomia degli istituti non c'è un consenso generalizzato sulle modalità della sua realizzazione. Eppure l'autonomia suscita un'aspettativa notevole, perché lascia intravedere la possibilità di uscire dalle strettoie dei programmi ministeriali per modulare l'insegnamento su esigenze specifiche del contesto sociale e degli allievi. Alla fine, la scuola la salveranno o l'affosseranno le professoresse. Le "vestali della classe media", come le avevano definite 30 anni fa in uno storica ricerca Marzio Barbagli e Marcello Dei, intendendole come tutrici del cosmo di valori della classe egemone. Ma allora, sotto il cielo del Sessantotto, la società era da descolarizzare, secondo il provocatorio manifesto di Ivan Illich: oggi, svanite le rivoluzioni e in bilico le riforme, si tratta di sottrarre le vestali ai templi diruti della loro routine, e di investire sulle loro ambizioni non ancora del tutto frustrate.
L'Espresso, 07/12/2000
A tutto Totò
Chi è, alla fine, Totò? «Un sogno dentro un sogno», conclude Marco Giusti nella prefazione a "Totò si nasce (e io modestamente lo nacqui)" in cui ha raccolto per Mondadori il Totò memorabile. Cioè tutto. Le battute dei film, dalle più celebri alle meno ricordate; ma anche le dichiarazioni, le interviste, le partecipazioni televisive, gli sketch, le riflessioni, le poesie, le canzoni, i ricordi. Con un ampio materiale inedito o dimenticato che rivive nel video allegato al libro. Accostati, anzi blobbati senza distinguere tra la verità e il cinema, fra il teatro e la vita, i due Totò, il guitto e il principe, il poeta sentimentale e il nobiluomo presunto, continuano a sognare una propria identità esclusiva. Con la conseguenza che i limiti di realtà e finzione vanno debitamente a catafascio. Lo spettacolo è totale. Che sia Fellini a parlare di Totò, o Totò a discutere di Fellini, cambia pochissimo. Che il principe Antonio de Curtis commenti le fatiche di Pasolini per tenerlo nel solco delle battute scritte sta a dimostrare che in scena o sul set Totò è Totò, incorreggibile anche di fronte al testo intoccabile di "Uccellacci e uccellini". Dopo di che, si tratta di evitare un'agiografia ulteriore. Di fenomenologie di Totò ce n'è in abbondanza. Tanto per dire, dopo il testo canonico di Goffredo Fofi, che ne aveva identificato la carica rivoluzionaria, un paio d'anni fa ci si è messo anche un intellettuale sofisticato, Roberto Escobar, con un saggio che interpretava Totò come archetipo della condizione esistenziale italiana. Filosofia di Totò, strati antropologici rimescolati per spiegare l'immortalità di una maschera: credevate che fosse un'antologia? Citazioni a iosa? Battute peregrine? Un Karl Kraus del cazzeggio? Macché antologia: è un'ontologia, un discorso sull'Essere. Per questo si scopre gente insospettabile che sa a memoria l'intera filmografia: un anglista di prestigio internazionale come Piero Boitani, autore di libri bellissimi sul mito di Ulisse, è capace di intrattenere una tavolata per ore citando Totò e imitandolo alla perfezione. E in Totò ci dev'essere una qualche modernità connaturata, quindi non solo provinciale, se di recente un ciclo di film a New York ha suscitato entusiasmi anche negli americani. Moderno, forse, per una schizofrenia continuamente ricomposta. Il comico più importante dell'anteguerra, talmente potente da potersi permettere di "parlar male di Mussolini", che nel dopoguerra si costruisce il mito del grande borghese. L'eversore del linguaggio e del senso, irresponsabilmente ilare, che si autodefinisce «un funerale di prima classe», tristissimo, desolato, un mortorio. Con quella doppiezza irrinunciabile che nel 1950 lo induce, lui monarchico, conservatore, "di destra", a scrivere una lettera aperta a Oscar Luigi Scalfaro, pubblicata dall'"Avanti!": «Ho appena appreso dai giornali che Ella ha respinto la sfida a duello inviataLe dal padre della Signora Toussan, in seguito agli incidenti a Lei noti. La motivazione del rifiuto di battersi da Lei addotta, cioè quella dei princìpi cristiani, ammetterà che è speciosa e non fondata...». Nel caso, si sa che Scalfaro aveva maltrattato in un ristorante una signora troppo scollata per i suoi gusti: ma quel che conta è che sotto la superficie conformista del principe de Curtis viene sempre fuori qualche tratto di insofferenza, un "ma mi faccia il piacere", un gesto che tradisce un che di libertario, un impulso anarchico. Doppio, talmente doppio da poter dire «Io non amo Totò», e giù insulti verso quel suo compare così irritante: «La maschera di Totò, ebbene, io la disprezzo». Eppure consapevole di essere, grazie alla maschera, un personaggio pubblico, continuamente ripreso dai cinegiornali, idolatrato dal popolo, oggetto di devozione nel mondo dello spettacolo. Lo stesso Pasolini, dopo che il grande Totò aveva sbagliato la battuta per 22 ciak consecutivi, e chiedeva ansiosamente «sono andato bene?», dimentica ideologie e teoremi, e amorevolmente gliela accorcia. (Mentre Totò risponde con un dito nell'occhio: «Questo Pasolini, pasolineggia un po' troppo. Siamo arrivati a metà del film e non ho ancora capito che razza, che schifezza di film stiamo facendo»). Gli esperti di audience dicono che tra i film coevi i suoi sono gli unici ancora in grado di reggere la prima serata. Sarà perché gli anni Settanta sono stati una fucina di totomani, che hanno trasmesso l'adorazione anche ai ragazzini, dando il via a una catena di san Totò. Oppure perché se facendo zapping si cade dentro un film scatta irresistibile il desiderio di risentire la dettatura a Peppino della lettera alla malafemmina: «Signorina, veniamo noi con questa mia addirvi...», o il gay-nonsense di "Totò e Cleopatra": «Scusami, invece di darti sei schiavi traci, ti ho dato sei schiavi froci». E quindi qualcuno potrà ancora commuoversi alle parole sentimentali dell'orazione funebre di Nino Taranto a Napoli: «Addio Totò, addio amico mio. Napoli, questa tua Napoli affranta dal dolore...». Solo che, come ricorda Giusti commentando il finale del libro, il discorso era rivolto a una tomba vuota. Il funerale vero, al principe, l'avevano fatto a Roma. Il funerale «parte napoletano e parte no, pèo» era stato allestito, come era inevitabile, per il suo doppio.
L'Espresso, 21/12/2000
Natale in casa Rutelli
Il punto limite è Natale, con l'albero, la grotta e i pastori, ma l'alternativa è quella del diavolo: o il bambino Rutelli riesce finalmente a nascere, oppure gli elettori si lasceranno prendere dalla sindrome «nun me piace 'o presepio». Quindi: inventarsi qualcosa, un'idea, un progetto, un programma, una comunicazione. Altrimenti il candidato s'affloscia e la partita si fa impossibile. Che la corsa sia ad handicap non è un mistero. La parte più ulivista dell'Ulivo, il clan di Camaldoli che lo ha lanciato contro Amato, ammette che per ora Francesco Rutelli è al trotto. Non è più immobile, ma ancora non galoppa. Dopo l'imprimatur, Romano Prodi da Bruxelles esprime qualche inquietudine: per tenere aperta la prospettiva politica prodiana, occorre che Rutelli faccia un risultato decente. Ma il presidente della Commissione europea, reduce dal recupero d'immagine di Nizza, non può spendersi visibilmente (gli ha dato un sostegno simbolico, con la moglie Flavia "inviata" nel Comitato dei 20, una delle strutture politiche di elaborazione del programma). Adesso tocca a Francesco. Senza soldi, diffidente verso le ipotesi di lanciare un "fund raising" all'americana, tenuto a stecchetto dai partiti alleati, Rutelli deve tentare di imitare l'esperienza prodiana senza avere dalla sua la dote di Prodi, cioè le entrature nel mondo accademico e nell'establishment economico. Tutti i maggiori istituti di ricerca concordano sul fatto che il candidato del centro-sinistra è "in sospensione". Perlomeno non ha ancora perso. Ma dopo il boom mediatico iniziale, Rutelli è divenuto un'incognita. Mentre Berlusconi ha lasciato una traccia nell'opinione collettiva, con la guerra urbana dei manifesti, il leader del centro-sinistra non ha ancora avviato una strategia coerente di comunicazione. Al momento, la sua è una presenza-assenza. Secondo uno specialista come Nando Pagnoncelli, direttore dell'Abacus, le chance rutelliane sono ancora integre: ormai gli elettori decidono nelle ultime due settimane prima del voto (come avvenne con il sorpasso di Prodi nel 1996); il Nord verrà effettivamente desertificato dal combinato Polo-Lega (all'Ulivo resterebbe la miseria di una decina di seggi), ma le elezioni si vincono al Sud. E il Sud è tendenzialmente governativo, con la finanziaria di Amato che si farà sentire. Di qui il dogma ecumenico-geografico di non farsi scappare nessun voto meridionale, né quelli di Antonio Di Pietro né quelli di Sergio D'Antoni. Piuttosto, Rutelli sconta ancora il peso di una coalizione frammentaria. Adesso il leader dei Democratici, Arturo Parisi, lascia filtrare l'idea ottimistica che oggi «la Margherita assomiglia più all'Asinello di quanto l'Asinello non assomigli alla Margherita». Una capziosità politichese? Di sicuro Parisi ha preso atto che la situazione fra i Ds non è ribaltabile con invenzioni politiche spettacolari. Il realismo consiglia di puntare su quell'oggetto botanico ancora misterioso che è la Margherita, con Rutelli capolista, in modo da sviluppare il più possibile la parte non diessina della coalizione. Al di là delle dichiarazioni di facciata, infatti, per Rutelli i Ds sono un problema serio. Nel partito è in corso una distribuzione delle parti per resistere come entità politica in caso di sconfitta. Con l'ipotesi di Walter Veltroni al Campidoglio e la certezza di Massimo D'Alema a comandare nel partito. In area prodiana sogghignano: «La preoccupazione principale di Veltroni è di socializzare le perdite». Certo è però, come fa notare l'eversore di Dario Fo, Michele Salvati, che la filiera D'Alema-Amato rappresenta in prospettiva un blocco d'ordine neo-socialdemocratico, altro che ulivismi. Non c'è dubbio che, se la sinistra perde male, c'è un dividendo negativo da ripartire. E quindi Rutelli non può contare sulla generosità diessina. Il sacro egoismo di partito avrà automaticamente la meglio sulle prospettive di coalizione. I prodiani lo pungolano ad abbandonare la mansuetudine: «Deve smetterla di fare la faccia buona: i problemi non si risolvono esibendo la bontà, ma affrontandoli a muso duro». Entro Natale, dunque, Rutelli deve a ogni costo impattare l'opinione pubblica, fare emergere il suo progetto politico, proporsi come leader che fa scomparire i conflitti fra i dieci piccoli indiani dell'alleanza. Ha fatto lavorare alacremente i suoi sherpa sul programma, anzi, sul manifesto politico, la "Lettera di Francesco Rutelli agli elettori" che segnerà la sua ripartenza. Il presidente di Legambiente Ermete Realacci come tessitore, l'ex occhettiano Iginio Auriemma come autentico factotum della stesura (fra l'altro è l'autore del pamphlet sul Pci-Pds-Ds "La casa brucia", titolo sempre d'attualità). Poi i contributi degli economisti Nicola Rossi, Paolo Leon e soprattutto Paolo Onofri (recuperando parte del lavoro svolto a suo tempo dalla commissione per la riforma del welfare, in particolare i "piani di vita personali", con sanità e previdenza flessibilizzati). Infine gli interventi tecnici del quartetto ministeriale Bersani-Letta-Fassino-Visco. Prima delle tecnicalità, comunque, la questione più drammaticamente urgente consiste tuttavia nell'individuare un set di idee-forza: di slogan, di punti chiave che si fissino nella percezione comune. In modo da saldare con un cortocircuito comunicativo la propria leader-ship con l'elettorato. Allora, punto primo: il lavoro, la «piena e buona occupazione». Dimezzare la disoccupazione in cinque anni, tenendo il rapporto con il sindacato ma lavorando anche con politiche sul lato delle imprese, puntando a sviluppare le forme nuove di occupazione. Flessibilità, articolazione territoriale, con l'idea di fondo che l'occupazione è un tema di unità nazionale, essenziale per reintegrare il Mezzogiorno. Punto secondo: la sicurezza. Sicurezza contro la criminalità, per spegnere l'allarme sociale provocato dall'illegalità, cercando di colmare il divario rispetto al "law and order" su cui punta vocalmente una destra «forcaiola nelle piazze e ipergarantista in politica». Punto terzo: «una vita di qualità». Cioè una proposta di riqualificazione collettiva, che comincia dal rie-quilibrio ambientale, ma che investe anche i temi della sanità, delle pensioni, della burocrazia, della condizione urbana. In sintesi, Rutelli si trova nelle condizioni di dover stabilire il punto di equilibrio fra continuità e discontinuità. Tra il valorizzare l'attività di governo degli ultimi cinque anni e puntare sul "fresh start". In ogni caso, facendo in modo che il candidato e le sue parole chiave diventino tutt'uno, e che facciano dimenticare agli elettori gli spettacolini del caravanserraglio che ha alle spalle. Prima che l'Epifania tutte le feste si porti via.
L'Espresso, 14.01.2010, TELEVISIONE
calci e Caressa
Fabio Caressa è esplosivo. A seguirlo su Sky Sport è un'autentica esperienza televisiva. Si potrebbe dire che Caressa è una miscela esplosiva tra un rosso e un nero, un leninista e un futurista. Fantasia sfrenata e gusto tecnico senza inibizioni. Una partita di calcio firmata da lui non è una semplice partita: è una vicenda bombastica, in cui ogni episodio diventa epocale: una palla inattiva, una ripartenza, un tiro in porta, un gol o un gollettino. Forza, forza! C'è chi si scoccia a sentire l'enfasi dei commentatori di Sky, e ce n'è qualche ragione. Il campionato italiano infatti è piuttosto scadente, e la domenica viene depauperata dagli anticipi del sabato e dal posticipo della domenica. E allora? Allora ci si deve accontentare di Caressa. Che adesso è diventato un esperto anche di palloni. Si è specializzato infatti sulla conformazione del pallone attuale, e quando può si diffonde in spiegazioni sugli attriti e gli effetti, facendo la storia della sfera di cuoio dall'Ottocento in poi, che adesso non dev'essere più di cuoio, «e non ha più gli esagoni». E allora nel weekend conviene mettersi sul divano e assaporare il match clou con Caressa e Beppe Bergomi (quest'ultimo parla un po' troppo, ma vabbè). Scoppi di entusiasmo, annotazioni tecniche fantasiose, «incredibile!». Alla fine uno resta più attento al lessico e al commento di Caressa che non alla partita. Ma chi si ne frega: volendo ci si può sempre addormentare. E quando una squadra segna, e c'è il boato della folla, svegliarsi all'improvviso, oddio che è successo, poi capire tutto, e concludere, con sollievo: viva Caressa.
L'Espresso, 21/01/2010, TELEVISIONE
Il Dalla che verrà
Premessa: questa è una recensione preventiva, scritta per impazienza. D'altra parte, sono settimane che su Sky va in onda la pubblicità preventiva dello show di Lucio Dalla "L'angolo nel cielo", e quindi ci sentiamo autorizzati a parlarne, preventivamente, anche noi. Alle spalle c'è il caso di Fiorello, con il suo spettacolo teatrale trasferito in tv, con tutti i limiti del caso, perché portare il teatro in televisione funziona poco. E quindi ci si aspetta con una certa ansia che cosa porterà Lucio Dalla, quali invenzioni, quali trovate. Perché un conto è allestire uno spettacolo per il pubblico generalista, che si siede sul divano e guarda fiducioso tutto lo show; e un conto invece è dover conquistare l'attenzione di un pubblico distratto ed esigente come quello abituato alla televisione satellitare. Quindi il programma di Lucio Dalla ha un valore sperimentale, anche perché il cantante bolognese in teoria non ha le doti sceniche di Fiorello. Occorrerà vedere se il suo gusto per il trash riuscirà a fare spettacolo e se l'inventiva saprà riempire tutti i momenti dello show. Come esperimento, dal punto di vista televisivo, sembra importante, e per lo spettatore, curioso. Quanto a Lucio Dalla, la sua sfacciataggine è proverbiale, e in televisione si sa che l'improntitudine paga. Dunque il suo spettacolo comincia in vantaggio, anche se è un vantaggio relativo, tutto da misurare a mano a mano che lo show avrà luogo. Nel frattempo, auguri a Lucio, al "4.3.43" e alle sue capacità istrioniche: se c'è qualcuno che può sfidare il satellite è qualcuno lunare come lui.