L’Espresso
L'Espresso, 21/01/2010, ATTUALITA'
A lezione da beniamino
Se qualcuno si chiederà chi ha cambiato la storia della televisione in Italia, la risposta dovrà mostrare pochi dubbi: Umberto Eco, per il modo di trattare l'alto e il basso, e naturalmente Beniamino Placido. Perché Placido, scomparso nei giorni scorsi dopo una lunga malattia, ha seguito la tv giorno per giorno, con pazienza e amore, cioè con l'assiduità dell'osservatore che osserva il proprio mondo e lo racconta al proprio pubblico. Un intellettuale che prende sul serio la televisione. Che ha alle spalle Roland Barthes ma non si vergogna di trattare la Carrà. Animale raro e senza troppi precedenti, o forse nessuno: soprattutto se si pensa alla routine a cui si sottopose per anni su "la Repubblica" scrivendo e commentando praticamente ogni giorno, in una rubrica televisiva diventata un "cult", cioè trasferendo l'effimero alla dignità dell'oggetto di analisi critica. Una cerimonia quotidiana che trasforma il teleschermo in un'occasione saggistica, e nella possibilità di utilizzare il materiale "basso" in un'opportunità "alta": ma senza darlo troppo a vedere, e senza farla troppo lunga. E poi "farla", la televisione, inventandola come può fare un intellettuale senza inibizioni, e quindi indifferente, fin che è possibile, alle leggi dell'audience. Erano i tempi in cui si poteva osare. Ecco allora uno scrittore piccolo e sofisticato che entra in scena, in una "Serata Manzoni", con i famosi capponi di Renzo, e parla, racconta, commenta. Con il suo accento meridionale inconfondibile, diventava immediatamente "il" personaggio: l'autore assurgeva al rango di protagonista, ma nel suo modo personalissimo, pieno di pudore, cercando sempre di far capire al pubblico che c'è una storia, uno stile, una vicenda che si può raccontare a tutti, grazie alla semplicità, a una cultura che non pretende nulla se non l'attenzione che si chiede, con gentilezza, a uno spettatore. Storie d'altri tempi? Di un'altra era televisiva? Ci voleva naturalmente una sensibilità particolare per indurre un intellettuale come Placido, di suo un anglista finissimo, per dedicarsi alla materia informe e continuamente cangiante della televisione. Come per un teologo dedicarsi intellettualmente alla folla amorfa dei peccati. Con il piacere quindi di trovare ogni giorno qualcosa di nuovo e col senso di colpa così gradevole di avere sfiorato o commesso qualcosa di indicibile o di inconfessabile. Mentre altri commentatori come Sergio Saviane erano diventati noti per il sarcasmo, Placido si era trasformato in un appuntamento quotidiano con un momento di humour e di cultura. Fin quando ha potuto, ha scritto di televisione con l'affetto che si ha verso il proprio lavoro, senza nessun razzismo culturale, cioè senza mai mostrare una distanza verso l'oggetto da trattare. La "televisione col cagnolino", come recita il titolo di un suo libretto, offre subito l'immagine di qualcosa di famigliare. Si prende la televisione al guinzaglio e ci si fa accompagnare nei dintorni di casa. Camminando di qua e di là, apparentemente senza scopo, anzi, andando "a zonzo" come si faceva una volta, ci si imbatte in belle novità, in cose strane, in facce inattese. È il mondo nuovo della televisione, con i suoi colori e con i suoi volti imprendibili. Per tanti finissimi intellettuali di allora, un mondo da evitare. Il male assoluto. Per un uomo come Placido, un universo affascinante: da entrarci dentro e da esplorare ogni volta con gioia, scoprendo sempre qualcosa di nuovo. Per questo va ringraziato oggi: per ogni incontro quotidiano, per la piccola e breve gioia di ogni giorno. Non è più nemmeno il caso di ricordare un "ruolo" culturale: basta ricordare l'affetto con cui scriveva, e il piacere con cui l'abbiamo letto. n
L'Espresso, 28/01/2010, TELEVISIONE
Balla con Milly
Come per ogni edizione, "Ballando con le stelle" risulta un programma irresistibile, anzi inesorabile, o infallibile, per una serie di ragioni molto semplici. In primo luogo la presenza storica di Milly Carlucci, che è diventata un'autentica "signora Italia", capace di entrare nelle case degli italiani come un'amica di sempre, senza mai sbagliare una mossa. Milly ha il vantaggio che, pur essendo un esemplare di donna di bellezza superiore, non genera gelosie. È una di noi, e quindi possiamo considerarla come una misteriosa amica di famiglia. Poi, del programma, che dire? È il classico e tradizionale programma per famiglie, per pensionate, per chiunque non abbia voglia di uscire e abbia invece voglia di perdere un'ora o poco più osservando quanto è "intero" Raz Degan, che sembra avere ingoiato un manico di scopa, o quanto sia negata al ballo Margherita Granbassi, pur essendo un'atleta di spicco e quindi abituata al movimento. Se ci si fa prendere dal meccanismo, addio: ci si sofferma sulla qualità "en danceuse" dei protagonisti e non si abbandona più il programma. La formula è infallibile. Riuscirei io a ballare come Raz Degan? E se fossi una donna, potrei emulare Maria Concetta Mattei? Bastano pochi istanti e la trasmissione produce il suo effetto perverso: siamo lì a osservare se Degan è migliorato e se la Mattei ha imparato qualche passo più impegnativo. Se poi il programma non vi piace, c'è sempre l'ancora di salvezza Carlucci. Ci si affida a Milly, e la serata è salva.
L'Espresso, 28/01/2010
Modello balcani
Che cosa vuole l'Udc dalle elezioni regionali? Ma è semplice: distruggere il sistema bipolare e tornare al tema della politica dei due forni. Se la domanda è semplice, la risposta è complessa: può riuscirci? Certo, può riuscirci, ma a un prezzo molto elevato, vale a dire la caduta del sistema elettorale italiano. Ne vale la pena? Sono in molti a sostenere che in Italia il bipolarismo «è fallito», con quel che ne segue, ma osservare lo spettacolo delle candidature alle elezioni regionali fa cadere le braccia. Pazienza per le regioni rosse, dove le candidature sono praticamente automatiche, se si esclude la Puglia, regione in cui si è assistito a un duello rusticano, e anche difficilmente comprensibile dall'elettorato locale, fra il presidente uscente Vendola e il sindaco di Bari Emiliano. Ma nel resto delle amministrazioni regionali si sta registrando una confusione assai poco fruttuosa, che sembra preludere a un'autentica implosione della politica. Non c'è neppure il solito alibi che anche queste elezioni si riveleranno un plebiscito pro o contro Berlusconi, e quindi occorrono candidature carismatiche. Per ora, infatti, il capo del governo si è tenuto fuori dalla mischia, limitandosi a incassare il consenso derivatogli dall'aggressione in piazza del Duomo e lasciando alle forze politiche e parlamentari la gestione della vicenda relativa al processo breve, all'immunità e al Lodo Alfano costituzionalizzato. Tutto questo tuttavia getta una luce sinistra sullo sviluppo della politica italiana, soprattutto se si pensa alla prossima istituzionalizzazione del federalismo. Una politica gestita senza un'organizzazione centrale efficiente può apparire "moderna" e "post-politica", ma può poi rivelarsi fuori dall'organizzazione ufficiale del sistema dei partiti e inefficiente dal punto di vista politico. In secondo luogo, occorre considerare l'ideologizzazione dei partiti e delle coalizioni: all'interno di realtà regionali e locali. È necessario infatti perdere le caratterizzazioni ideologiche, e mantenere perlopiù le caratteristiche culturali, ma radicare il più possibile le strutture di partito nelle realtà locali. Altrimenti si perde di vista la realtà autentica del partito: che oggi rischia di diventare una serie di partiti personali, gestiti in forma leaderistica, caratterizzati soltanto dal riflesso del capo carismatico. È anche possibile che non ci sia rimedio. Che il futuro appartenga a uno schema in cui la Polverini debba per forza affidarsi all'alleanza ideologica con l'Udc, e che in Campania il centrodestra debba cercare un candidato come Stefano Caldoro, inviato speciale del Cavaliere. Sarebbe la balcanizzazione della politica. Di cui ci sono significativi esempi in Europa (nella Repubblica Federale Tedesca in particolare, con la frattura del partito socialdemocratico). Ma non si può invocare il mal comune mezzo gaudio. Occorre tenere in vita la politica e anche i partiti. Altrimenti non c'è soluzione, se non il grande crollo. Che non farebbe comodo a nessuno.
L'Espresso, 28/01/2010, PORTE GIREVOLI
Il peso del voto cattolico
Come si poteva facilmente immaginare, il malpancismo nel Partito democratico si è manifestato piuttosto alla svelta e investe soprattutto il rapporto con il mondo cattolico. Finora ha riguardato soprattutto segmenti di classe dirigente, fin dal momento in cui Francesco Rutelli (con Lorenzo Dellai e altri) si è staccato dal Pd, «partito mai nato» a suo giudizio, per fondare l'Alleanza per l'Italia, movimentino centrista che ha l'ambizione di spostare gli equilibri politici nazionali. Ma non ci sono soltanto gli spostamenti nella classe dirigente. Il problema del rapporto con il mondo cattolico investe in realtà tutto l'elettorato, come dimostra la candidatura di Emma Bonino alla Regione Lazio. E qui casca l'asino: cioè si comincia a ragionare effettivamente sul peso del voto cattolico e sul suo rapporto con i cittadini nel loro insieme. Secondo una visione vecchio stampo, la scelta di una figura laica come quella della Bonino porterebbe a un elemento di disaffezione, con la caduta di una parte del consenso cattolico verso il Pd. Ci sarebbe in sostanza ancora un legame di rito antico, che connette il mondo cattolico alla politica, e che si manifesterebbe con atteggiamenti più o meno classici nei confronti dei protagonisti politici e delle loro culture. In questo senso la scelta di una figura laica, se non proprio laicista, come quella della Bonino potrebbe generare un disagio netto fra gli elettori cattolici. Può essere. Ma negli ultimi anni l'atteggiamento dei cattolici verso la politica sembra essere cambiato, e notevolmente. Mentre le classi dirigenti continuano a ragionare secondo i vecchi schemi, l'opinione pubblica genericamente cattolica sembra essersi notevolmente secolarizzata. Tende in sostanza a valutare la politica e i protagonisti politici come un mondo a sé stante, che risponde a proprie logiche, senza essere condizionato da principi supremi di carattere etico. Questo principio di secolarizzazione investe tutto l'arco del cattolicesimo italiano. Può essere deprecato, ma è un fenomeno visibile e registrabile anche in termini sociologici. Ci sono in sostanza ormai due cattolicesimi: uno è quello delle classi dirigenti, che porta con sé il mondo dei valori tradizionali applicabili in politica, e l'altro è il cattolicesimo secolarizzato, convenzionale, che difficilmente trova riferimenti espliciti nella politica. Per quest'ultimo elettorato, è difficile individuare un chiaro legame fra una cultura di carattere religioso e il comportamento politico-elettorale. Si identifica più facilmente un atteggiamento che è quello dell'elettore generico, che giudica e vota in base alle sue preferenze, scegliendo molto in seguito alle proprie aspettative e ai propri desideri. Proprio per questo, il confronto fra la Bonino e la Polverini in realtà è molto laico; anzi, molto moderno perché mediatico, in quanto coinvolge due donne. Quindi l'aspetto "cattolico" risulta piuttosto secondario rispetto al conflitto politico, che al di là del fair play femminile degli inizi, alla fine risulterà piuttosto aspro. Bene o male che vada, alla fine anche nel Lazio, come in tutta Italia, si voterà infatti scegliendo fra destra e sinistra, fra chi ama Berlusconi e chi lo detesta. In un contesto simile, il laicismo della Bonino è un fattore secondario (sempre ammesso che Emma non la butti sull'abortismo spinto o cose del genere). Il Lazio, come altre regioni strategiche, costituisce una prova politica che può influenzare l'intera tornata elettorale delle regionali. La scelta della Bonino, sempre ammesso che il Pd nel frattempo non cambi idea, è prima di tutto una decisione politica, con il tentativo di trovare una personalità forte, da contrapporre a una candidata attraente su vari fronti come la Polverini. Quindi il cattolicesimo c'entra poco. Riguarda semmai quegli spezzoni di politica, come l'Udc e i frammenti centristi, che pensano di trarre vantaggio dal legame ideologico e morale con il mondo cattolico. Ma bisogna vedere se questo è un calcolo credibile e realistico. Perché la politica è sempre più laica, secolarizzata, priva di valori ultimi. Vincere in queste condizioni implica una competizione ultra-laica.
L'Espresso, 04/02/2010, TELEVISIONE
miracolo don matteo
Mercoledì 20 gennaio l'ennesima edizione di "Don Matteo" (la sesta) ha sbancato nuovamente la serata televisiva facendo il 22 per cento di share. A questo punto anche gente senza religione come noi non può fare a meno di chiedersi: come è possibile? La prima spiegazione è che i preti, in televisione, sono irresistibili. Ne sanno qualcosa nelle reti Mediaset, dove appena possono mandano in onda un "Don Camillo" e risolvono così la serata, non si sa se per ragioni di palinsesto o per motivi politici. Resta da chiedersi come mai una società televisiva secolarizzata (e in parte anticlericale) come quella italiana riesca ad appassionarsi alle formule pretesche. Forse in questo caso il pubblico riesce a prendere gusto allo stile fermo, anzi immobile, di Terence Hill, il cui fascino finto- giovane è una delle ragioni del successo di "Don Matteo", e al metodo stralunato di Nino Frassica. La "story" non significa molto, dentro questa fiction, se non ad attrarre la curiosità episodica degli spettatori. I quali ci cascano ogni volta, e fanno vincere a "Don Matteo" la serata televisiva. Ci sono tutte le condizioni perché il quasi poliziottesco "Don Matteo" diventi eterno. Terence Hill verrà mummificato, Nino Frassica diventerà un co-protagonista per l'eternità e quindi non ci sono grandi difficoltà per rendere immortale la fiction. Che naturalmente è una fiction per famiglie. Ma come per "Un medico in famiglia", o i "Cesaroni", occorre considerare che le famiglie sono fenomeni complessi. Uno arriva e si ferma per mangiare un triangolo di pizza. Poi arriva un altro e vuole un residuo di lasagne. La famiglia "magna"; e nel frattempo Don Matteo guarda e vince.
L'Espresso, 04/02/2010
L’ARTE DELL’IMPOSSIBILE
C'è lo scenario post. Post atomico, post politico, post Pd. Che contiene una bomba e una domanda. Lo scoppio della bomba dipende dalla risposta alla domanda. E la domanda è: che cosa succederà nella leadership del Pd dopo le elezioni regionali? Prima risposta, molto provvisoria e quindi ancora lontana dall'innesco. Dipende. Vero è che il Pd sta tentando in tutti i modi il suicidio: con il disastro di Bologna e le dimissioni di Flavio Delbono, con il mezzo suicidio della Puglia e il trionfo di Nichi Vendola, con gli altri pasticci che sicuramente verranno organizzati di regione in regione. Ma c'è ancora un po' di tempo, e una campagna elettorale intera da fare, e quindi una speranza resiste. Speranziella. In realtà, per ora il Pd non tiene da nessuna parte. Gli ex comunisti si ritengono i depositari unici della sapienza politica, con quali risultati si vede, basta guardare a Bari e alla regia di D'Alema («Non ho mai perso un'elezione»). I cattolici si considerano i titolari di un diritto di veto, nella convinzione che senza il loro apporto il Pd non esisterebbe: convinzione forse fondata ma politicamente spendibile una sola volta, come ha fatto Francesco Rutelli: andandosene, e scomparendo (già, a quando la riapparizione?). Mettiamoci anche il caso pepatissimo di Bologna, con le sue carte di credito, i bancomat, le fidanzate più o meno incinte (in questa fase politica è tutto "più o meno") e il menù è quasi, cioè più o meno, completo, in attesa di altre pietanze più o meno pepate, a cominciare dal problema Bonino, rispetto al quale fior di baciapile sono pronti a dire, dopo l'eventuale sconfitta, «io l'avevo detto»: mentre la Polverini, eh, un angelo, tutta coattismo e tette, modernissima quindi, "trasversale", "vincente" anche se i dati dell'Ugl, dicono, sono taroccati. E quindi come se ne esce? Che carte ha in mano Pier Luigi Bersani? Pochissime, per la verità. Deve soprattutto stringere, pardon, il di dietro, cioè la tenuta dei glutei, e aspettare. Non è una grande strategia, si dirà? Ovvio che non è una strategia. Ma il primo obiettivo è far sì che si eviti lo scenario post atomico. Il giorno dopo le elezioni regionali fior di analisti andranno a controllare il numero di regioni vinte, quelle perdute e subito dopo le percentuali regione per regione. Dopo di che stabiliranno la tenuta di Bersani. Per ora, quanto al Pd, siamo in piena legge di Murphy: «Se qualcosa può andare storto, andrà storto». E quindi come si fa a invertire la tendenza? A due mesi dal giorno delle elezioni? A meno di non ricorrere ai voodoo o a Lourdes, le soluzioni politiche sono poche. C'è un'unica possibilità, anche se è poco popolare. Consiste nel dimostrare coerenza e linearità, serietà e fermezza. Nelle regioni cosiddette rosse, che cominciano a essere sempre meno rosse (ed è indimenticabile a questo proposito un articolo sul "Sole 24 Ore" del politologo Carlo Trigilia che già anni fa segnalava la perdita di qualità delle amministrazioni postcomuniste), non dovrebbero esserci grossi problemi di riconferma, data la modalità tradizionale del voto della maggioranza degli elettori. Nulla è scontato di questi tempi in politica, ma cinquant'anni di convenzioni e di abitudini vorranno pur dire qualcosa. Nelle regioni perdute in partenza, come Lombardia e Veneto, occorrerà solo fare testimonianza. Nelle regioni a voto più o meno competitivo (ripeto: più o meno) occorrerà convincere strati diversi di elettorato che l'eventuale alleanza con l'Udc ha un senso non soltanto elettorale ma risponde a una strategia politica chiara. Non sarà facile, dato il funambolismo di Pier Ferdinando Casini. Ma occorrerà provare agli elettori che allargare la coalizione di centrosinistra risponde a una necessità oggettiva dentro il sistema bipolare: accidenti, proprio quel sistema bipolare che Casini vuole sfondare con la politica dei due o tre forni. Non è una contraddizione in sé. Che la contraddizione ci sia è indubitabile. Tuttavia la politica è l'arte del possibile. E se qualcuno deve chiedere qualcosa di più o meno possibile a qualcuno, questo qualcuno è Bersani. A chi altrimenti. A suo tempo, su queste colonne, avevamo scritto che il Pd era un partito ipotetico. Di fronte all'ipotesi della sua scomparsa, occorre cercare risposte anche nell'arte dell'impossibile.
L'Espresso, 11/02/2010, TELEVISIONE
troppo trash poco choc
Si prova a guardare il programma di Luca Barbareschi per La 7, "Barbareschi Sciock" per ragioni tutto sommato misteriose. Per il gusto dell'orrido suscitato da alcuni suoi programmi precedenti, ma forse soprattutto per la curiosità destata dall'interrogativo "come sarà diventato adesso". E difatti Barbareschi non delude: ex bell'attore, intellettuale fra gli uomini di spettacolo, sinceramente di destra, eccolo di nuovo qua, in pieno trash. Benvenuto, Barbareschi! Certo, a guardarlo bene il Luca attuale è piuttosto intruzzito. Sarà ingrassato la sua bella decina di chili, e si vede perché sono sparite le rughe, stirate dall'aumento di peso. È una felicità lipidica, che però rende un po' fermo lo sguardo. Sicché Barbareschi resta meno sveglio di quello che sarebbe necessario a un programma come il suo. Programma, per intenderci, che si colloca nella zona bassa della qualità televisiva. Ma non importerebbe poi molto. Il programma di Barbareschi tocca da vicino il trash, anzi, ci sguazza. Ma fare il trash, amici miei, è difficile, certamente più difficile che tentare di fare televisione "alta". Per la televisione di qualità basta un tantino di cultura, qualche libro, ospiti illustri, scrittori, direttori d'orchestra, registi di moda. Mentre per il trash ci vogliono idee. E le idee non si trovano appollaiate sugli alberi. Per questo il programma promette molto più di quanto non mantenga. Una certa fantasia nella scelta degli ospiti non salva la trasmissione da un che di forzato, poco spontaneo. Alla fine, "Barbareschi Sciock" finisce nell'elenco dei programmi sprecati. E come per tutte le trasmissioni "sperimentali" è un peccato.
L'Espresso, 18/02/2010, TELEVISIONE
Modello Minoli
Ogni tanto compaiono sulla Rai, per "La Storia siamo noi", documenti imperdibili: è il caso di "Emilia Rossa", un documentario curato da Lorenzo Stanzani, completato da un'ampia intervista di Giovanni Minoli al segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Il documentario era interessante e gradevole, e toccava tutti i punti del "compromesso socialdemocratico", quel rapporto fra «ceti medi e Emilia rossa» descritto da Palmiro Togliatti ancora negli anni Quaranta, che avrebbe formato il modello emiliano, quel sistema di piccole e medie imprese, riunite nei distretti industriali emiliani e romagnoli. Ma da vedere assolutamente era l'intervista di Minoli a Bersani, perché in questo caso erano i segnali nascosti a parlare, il body language, la gestualità. Chi ha conosciuto Bersani sa che è un tipo estroverso, pronto alla battuta, disponibile alla chiacchierata e, se è il caso, alla convivialità. Tutto questo è scomparso nell'intervista, bellissima, di Minoli. È rimasto un protagonista rivolto verso se stesso, una specie di re shakespeariano, inatteso e per molti aspetti anche più interessante del personaggio pubblico che conosciamo. O che crediamo di conoscere. Perché il Bersani "minolizzato", che a ogni domanda distoglieva gli occhi e si rifugiava dentro se stesso, cercando le parole oppure perfino tacendo, appariva più vero dell'uomo politico. Succede raramente di interpretare la psicologia autentica di un protagonista della scena pubblica. Con Minoli e Bersani è sembrato di andare vicini alla verità: una verità implicita, quasi sottaciuta, fatta dagli indimenticabili occhi di Bersani che abbandonano il faccia a faccia e si rifugiano nella propria interiorità.
L'Espresso, 18/02/2010, PORTE GIREVOLI
nel mondo delle favole
Una delle tecniche da talk show inventate dagli spin doctor del centrodestra è semplice e irresistibile: dire sonore bugie. E poi ripeterle. Le bugie sono inconfutabili, anche perché ammutoliscono gli interlocutori; richiederebbero verifiche d'archivio, e in studio non c'è ovviamente né modo né tempo. Poche settimane fa, all'"Infedele" di Gad Lerner, una giovane esponente del Pdl, Francesca Pascale, consigliere provinciale a Napoli dopo una carriera in televisioni locali, ha aperto il suo discorso accusando esplicitamente Rosa Russo Jervolino di avere compiuto brogli alle elezioni comunali di Napoli. Qualche voce si è levata a contestare questa affermazione, priva di ogni prova, Lerner ha puntualizzato, ma dopo qualche minuto la discussione ha naturalmente cambiato segno, e dei brogli della Jervolino non si è più parlato. Per la cronaca, la Jervolino ha querelato, ma prima di una sentenza definitiva passeranno alcuni anni e intanto la signorina Pascale avrà ottenuto il suo scopo. Perché in casi come questo ciò che interessa ai protagonisti non è rivelare qualcosa, uno scandalo, una verità nascosta, ma semplicemente far vibrare un elemento emotivo. Poco importa della verità: importa che l'intera audience venga coinvolta in una vera o falsa entità semantica, che metta nella memoria quella dichiarazione, in modo che al momento buono risuoni ancora nell'intelletto. L'equazione Jervolino uguale brogli. Vera, falsa, mah. Per dire, circola un video della consigliera Pascale in cui quattro ragazze in costume cantano «Se abbassi la mutanda si alza l'auditelle», ma a noi non interessa, ciò che conta sono gli argomenti politici della pidiellina Pascale, se ne ha, a patto che non ripeta a pappagallo la propaganda del centrodestra. A proposito, basta ascoltare due o tre esponenti del Pdl per accorgersi che le bugie sono pianificate e costruite con perfetta sapienza. Per fare qualche esempio: «Gli italiani hanno fatto capire che vogliono una giustizia che funzioni». Figurarsi, gli italiani. Diffidare di qualsiasi politico che attribuisce «agli italiani» una volontà generale indiscutibile, e un "mandato" degli elettori alla politica. Ancora: «Il peggio è alle spalle. Stiamo uscendo dalla crisi, e in modo migliore rispetto agli altri paesi europei». Questo è uno dei mantra della destra, ma basta controllare con un po' di assiduità i dati de "la voce.info" per vedere che si tratta di barzellette. Ma, intanto, si è riusciti per esempio a far diventare la giustizia una questione nazionale. In realtà il sistema giudiziario ha soltanto due problemi: uno, la posizione di Silvio Berlusconi; due, l'inefficienza di sistema. Il primo problema è praticamente irrisolvibile perché implica il coinvolgimento della politica, e quindi il dibattito sul legittimo impedimento e il processo breve, con l'opposizione che viene considerata "giustizialista" se si oppone a stravolgimenti costituzionali. Il secondo, l'inefficienza del sistema giudiziario, coinvolge la funzione dei magistrati, il loro ruolo, le ore lavorate, l'efficacia delle indagini, e non ultimo la gerarchizzazione del lavoro: quindi non si risolve con leggine o provvedimenti parziali. Ma nei talk show conviene raccontare bugie. All'unisono, gli esponenti del Pdl, ripeteranno le loro fole, concordate come sulle veline del Minculpop. Ma la verità ha l'antipatica tendenza a farsi viva a dispetto delle falsità ufficiali. È sufficiente guardare la realtà dell'andamento industriale per capire che l'ottimismo concordato da ministri e viceministri è una visione di facciata. Le ore di cassa integrazione sono lì a dimostrarlo; le indagini della Banca d'Italia dicono che la produzione industriale è in arretrato oggi di cento trimestri; i dati sulla disoccupazione preoccupano, e inquieta la possibilità che la crisi produca altri senza lavoro. Che importa. Ciò che conta è trasmettere visioni ottimistiche. Bugie. Ripeterle con sicurezza, sulla giustizia, sulla Costituzione, sull'economia. Signori, questo è il panglossiano migliore dei mondi possibili. Va tutto per il meglio, anzi, andrebbe tutto per il meglio se non ci fosse un'opposizione irresponsabile, ancora condizionata dai comunisti e dai giustizialisti, e incapace di collaborare. Quindi niente musi lunghi. Il primo comandamento dice: io credo nelle favole. I restanti comandamenti sono accessori. Credo in ciò che dice il ministro Alfano, il ministro Castelli, in ciò che dicono tutti i bugiardi professionisti che partecipano a "Ballarò" o a "Annozero". Amen.
L'Espresso, 25/02/2010, TELEVISIONE
Meno male che Pupo c’è
Qual è la ragione per cui un adulto sano di mente dovrebbe passare un venerdì sera davanti a "I raccomandati", con Pupo, Valeria Marini, Emanuele Filiberto di Savoia e Georgia Luzi? Pupo e le sue acconciature artificiali, lasciamo perdere. La Marini, eh, la Marini, se solo la smettesse di parlare, con quel suo accento dialettale, potremmo almeno goderci le sue notevoli minigonne. Emanuele Filiberto, via col tango, Georgia Luzi, via col tanga (battuta stupida, ma l'adulto non ha una conoscenza sufficiente della Luzi, che pure gode di un certo successo sul Web). L'adulto suddetto dovrebbe almeno concedere qualche mezz'ora al sonno, e così si fa: "I raccomandati" scivolano nella scarsa coscienza governata da Morfeo, dimenticando così i Pupo e Valeria effettuali. Si ascoltano invece soltanto i concorrenti, e qui, sorpresa: il programma cambia qualità proprio mentre i raccomandati canterini si esibiscono. Perché, incredibile a dirsi, i cantantucoli cantano bene. Sicché si può continuare nel dormiveglia, senza sollevare neanche una palpebra, altrimenti scatta l'effetto Pupo, e uno dice: datemi un documentario sul riscaldamento globale, datemi un programma sulle piramidi, datemi qualsiasi altra cosa. Ma poi anche a Pupo ci si abitua, la musica scorre via, e uno dice: ma dovevo proprio rivalutare "I raccomandati"? Eh, la vita è fatta così. Non si sa mai a quale fesseria cederemo. Anche se poi il cedimento a Pupo spiega come funziona la televisione generalista, con i suoi moduli, con i suoi format, con la capacità inerziale di creare fedeltà nel pubblico. E così abbiamo almeno una giustificazione, e raccomandazione, sociologica.
L'Espresso, 25/02/2010
COGNATI & COMPRATI
"Otto e mezzo", prima serata de La 7, domanda di Lilli Gruber a Piercamillo Davigo, giudice alla Corte suprema di Cassazione, ex punta di lancia di Mani pulite: «Dottor Davigo, c'è un metodo per interrompere il rapporto malato fra politica e affari?». Risposta: «Basta smettere di rubare». Lo sguardo raggelante di Davigo era una risposta implicita a un'altra retrostante domanda: l'Italia è un paese strutturalmente corrotto? Vale a dire, gli episodi legati alla vicenda Bertolaso, e altri come la tangente simil-Chiesa del consigliere milanese Milko Pennisi, o certe disponibilità informali alla Delbono, nonché l'universo variamente corrotto della sanità, sono tutti episodi a sé stanti, macchie di leopardo in un paese sano, oppure rappresentano un "sistema", corrotto e infinitamente corruttibile? Si può rispondere come Davigo: «Siamo l'unico paese al mondo in cui anziché arrestare i ladri si attaccano i giudici». La semplicità esemplare del giudice milanese sembra disegnare un paese in cui la corruzione è un tessuto fondamentale, un'abitudine, un dato di fatto, una malattia cronica. Al Sud il pizzo, al Nord gli assessori. Il che porterebbe a pensare che la condizione italica non ha rimedio: il vecchio "familismo amorale" di Edward C. Banfield funziona sempre a meraviglia, se soltanto si guarda al proliferare di cognati che fanno contorno alla vicenda di Bertolaso e Balducci. Quindi non c'è altra soluzione se non la rassegnazione? Intanto sarebbero da smontare alcuni dogmatismi alimentati negli ultimi anni: il primo dei quali consiste nel credo populista per cui il voto, la doccia di schede, la "turbodemocrazia" sono il rimedio sovrano a qualsiasi peccato. Un altro dogma è che il «fare» autorizzi a qualsiasi sbrego dalle regole, e che in sostanza il fine giustifichi i mezzi. Si tratta di mezze verità che sfumano nel machiavellismo deteriore, e conducono a un esibito fastidio per leggi, norme, regole, moralità. Quasi vent'anni fa, Mario Chiesa si giustificava così, indicando l'ottima gestione del Pio Albergo Trivulzio: «Prendevo due soldi, ma che gran manager ero». Oggi sono svanite le ragioni manageriali, tanto che l'emergenza giustificherà lo sfondamento del tetto di una piscina olimpica, ma non svaniscono i legami opachi fra gli appaltatori; e sullo sfondo si staglia l'uomo che tutto il mondo ci invidia, Guido Bertolaso. Difeso naturalmente dal premier Berlusconi più o meno nel seguente modo: c'è un uomo che "fa", e quindi lo attaccano. L'insofferenza per le regole va di pari passo con il comandamento supremo che dice: nessuno mi può giudicare perché sono stato eletto dal popolo. Dunque la domanda viene davvero spontanea: come si esce da questo "sistema"? Dall'intreccio "voto più corruzione"? Fino a vent'anni fa esistevano istituzioni pubbliche (i partiti storici, la Chiesa, il sindacato, le associazioni) che potevano disciplinare e moderare gli appetiti individuali. Oggi invece non c'è quasi più nulla. Non ci sono autorità a cui rispondere. I partiti sono entità generiche, incapaci di suggerire principi etici, che spesso danno l'impressione di essere stati acquisiti dalla politica per questioni d'affari. È una tesi già delineata dai politologi, quella degli affari che inglobano la politica: nel declino dell'ideologia e delle ritualità di partito, vincono le individualità carismatiche, gli uomini del "fare", le vacche sacre, gli assessori infastiditi dai vincoli di legge e disposti a incassare mazzette anche "brevi manu". È la bella Italia dei Balducci, dei De Santis, degli Anemone, dei Della Giovampaola. Tutti arrestati, e tutti innocenti almeno fino al terzo grado di giudizio. E poi dicono che il problema sono i giustizialisti, nel Belpaese.
L'Espresso, 04/03/2010, TELEVISIONE
Così non è Serio
Doveva essere il Festival delle zie, e con la "zia" Antonella Clerici e i suoi anziani vestiti ci siamo andati vicini. Complimenti: raccolto tutto il pubblico anziano, femminile e meridionale. Ma quando si è profilata il quasi successo antireferendario del principe Emanuele Filiberto in compagnia del paggio Pupo, qualcuno ha sentito una scintilla scoccare nel cervello. Perché la canzone del principe ereditario Emanuele Filiberto e del collare dell'Annunziata Pupo (il collare dell'Annunziata è di diritto cugino del re), la canzone, si diceva è stata scritta dal maestro Renato Serio. Bella forza, dirànno i soliti. Il maestro Serio può scrivere ciò che vuole. Non è mica colpa sua se poi gli appiccicano le parole del principe Emanuele Filiberto, per la formidabile canzone "Italia ti amo", premiata dal televoto fin quasi alla vittoria. Eh no, cari amici, il nesso c'è. Perché il maestro Serio è l'autore, nel 1994, dell'inno di Forza Italia: «E Forza Italia, è tempo di credere, dai Forza Italia, che siamo tantissimi». Coincidenza eccezionale? Bastasse questa: nel 1997 il puntuale Serio ha scritto anche la musica per l'inno dei giovani di Forza Italia, "Azzurra libertà": «Dammi la mano dai... e canta insieme a me, il cielo è dentro noi azzurro più che mai...». Quasi quasi, con i nostalgici, anziché la generica "Italia amore mio" conveniva proporre la musica della Marcia reale ("Evviva il re, evviva il re, evviva il re! Chinate o reggimenti le bandiere al nostro re, la gloria e la fortuna dell'Italia con lui è"), ma non si può avere tutto dalla vita; e non c'è da stupirsi se poi, in mancanza di meglio, gli orchestrali ti strappano in faccia lo spartito. Peccato comunque che il compositore d'Italia non abbia vinto il festival.