L’Espresso
L'Espresso, 04/03/2010
Lo straziante PIANTO DEi COGNATI
Ma chi l'ha detto che per spiegare il fenomeno della corruzione è sufficiente invocare la farraginosità delle procedure pubbliche? Questo varrà come spiegazione sociologica, ma non può essere invocato dai singoli. Quando un funzionario statale, un dirigente, un imprenditore privato "rubano" (mi spiace ma non c'è altra parola) approfittando di appalti e licenze, non è il caso che poi si appellino alle teorie storiche dell'ambasciatore Sergio Romano sulle corporazioni, o a quelle di Ernesto Galli della Loggia, secondo cui la corruzione affonda le radici nella storia italiana. A reato singolo, per favore, risposta singola. Altrimenti si fa come il grande capo e sakem della tribù Guido Bertolaso che ha scoperto anche lui l'infallibile formula indiana e italiana del "chiagni e fotti". Di fronte a ogni contestazione sul potere della cricca che governa la terra dei cachi risponde: «Ma io ero all'Aquila alle 4 e 20 del mattino», cioè a soffrire per il bene del Paese, o a Haiti a baccagliare contro la Clinton e Obama, come volete che potessi occuparmi di Angelo Balducci e di quegli altri birbantelli sfigatelli della cordata? Eh no, non è così. Uno fa il capo della Protezione civile, con il giubbetto e lo stemmino tricolore, oppure va errabondo con la cricca, a cercare lenimento e/o svaghi. E comunque poi non viene a fare la vittima sugli orari tremendi a cui è costretto dalle catastrofi idrogeologiche del Paese. Invece di spiegare l'Italia "cognata", Bertolaso dovrebbe mostrare la mappa del dissesto paesistico e annunciare un grande piano di recupero, un programma di governo per il prossimo triennio (o quinquennio, o quel che si vuole). Risposta: ma io, Guido Bertolaso, sono un tecnico, posso dare suggerimenti, ma sono solo prestato alla politica. Storie: Bertolaso è un politico puro, protetto da Silvio Berlusconi, oltretutto circondato da una formidabile corte clientelare, la cricca, che per metà è finita in galera, ma nel frattempo ha gestito milioni di euro, ne ha intascati, distribuiti, dissipati, tutti a spese della ridente collettività. Quindi altro che spiegazioni sociologiche o storiche. La "cognateria" è la somma di scelte individuali di persone che hanno trovato nelle pieghe dello Stato la possibilità di portare a casa il malloppo e di distribuirne alcune frazioni ad amici e parenti, senza dimenticare assunzioni per i figliuoli, benefit per gli amici, e favori per le Vacche sacre della Protezione civile, Suprema Vacca da mungere. Quindi Bertolaso non può fare il Bertoldo, che di fronte al re non trovava mai l'albero di suo gradimento per lasciarsi impiccare; quando uno è un politico, sottosegretario di governo, ha anche e soprattutto una responsabilità politica. Completa. Non può rifugiarsi dietro il velo del «mi sarò distratto un attimo» e «qualcuno ne ha approfittato». Quando c'è responsabilità politica c'è fino in fondo, non fino a quando fa comodo. Altrimenti siamo sempre non tanto nell'"Italia del fare", ma nel paese cognato, dove tutto avviene per concessioni private. Straziante. E straziante, nella logica cognata, anche la cognateria che lascia il grande capo Bertolaso a giustificarsi in pubblico, con la voce rotta dal singulto italiano di colui che ha peccato, ma per il nostro bene. Mentre i cognati tacciono. Ciò che sorprende è il coro silenzioso della cricca, che sembra fare da muto accompagnamento ai lamenti bertolasici. Il quale Bertolaso a ogni domanda di Bruno Vespa riattacca con il pianto greco, o per meglio dire pianto italiano, appellandosi silenziosamente alle profondità dei visceri nazionali. Cognati, amici incriccati, lascia capire Bertolaso, siamo tutti nella stessa barca. Siamo vittime del sistema. Ma il sistema lo abbiamo creato noi. E allora? Per uscire dal labirinto non ci resta che piangere, in modo che fuori ci sentano e ci vengano a prendere, possibilmente senza manette. Insomma, cognati di tutta la Penisola muovetevi. Non avete da perdere che le vostre catene. Questo è il messaggio del Grande Capo a tutta la tribù dei Capi Cognati. L'intendenza seguirà, come diceva il grande capo De Gaulle, secondo cui i partiti della Quarta repubblica erano «tabaccherie politiche». Ma qui il grande ufficio politico sostitutivo dei partiti c'è o c'era già, ed era camuffato da protezione civile. E allora, nel frattempo, per non perdere di vista gli affari, cognati cari, meglio abbandonare i telefoni cellulari e avanti con i segnali di fumo.
L'Espresso, 11/03/2010, TELEVISIONE
Capri come in uno spot
Per capire le ragioni profonde per cui il pubblico televisivo guarda una fiction come "Capri" (in onda la domenica sera su Raiuno), occorre naturalmente ricorrere al concetto di fidelizzazione. Uno si abitua, che so, alla presenza televisiva di Lucia Bosè, finitamente senza capelli tinti di blu, e dopo tre o quattro puntate non sa più farne a meno. Esci questa sera ammore? Sì, ma più tardi, perché in televisione c'è "Capri". Il bello è che dopo qualche puntata non si hanno più remore e si confessa volentieri che si segue la fiction dal primo all'ultimo minuto. E già, ammore, guardalo anche tu, con me. Voi chiederete: ma come si fa a seguire una trama semplicemente assurda come quella di "Capri"? Bella forza: "Capri" è un feuilleton, quindi non ha nessun bisogno di realismo. Realismo? Ma non scherziamo. L'importante è vedere se Lucia Bosè, che sembrava morta e invece era semplicemente andata a rigenerarsi in India, viene recuperata dal suo nuovo marito, il guru Shel Shapiro (se non ho capito male i rapporti parentali interni al telefilm), e poi osservare che cosa succede e che cosa succederà. Sorprese sono sempre possibili. E noi siamo qua, a seguire gli eventi. E poi sullo sfondo c'è Capri, l'isola meravigliosa. Uno spot senza pari per l'ufficio del turismo locale. Ma non fatevi ingannare dalle riprese e dalla regia. Guardate soltanto l'impianto narrativo, le storie, le sequenze. E alla fine, della puntata, e poi della serie, lasciatevi andare, con un sospiro di sollievo. "Capri" tornerà, per tutti i suoi aficionados, e per raccontare altre storie, altri tormenti. E tutti noi, felici, assisteremo al trionfo del nuovo romanzo d'appendice.
L'Espresso, 11/03/2010, ATTUALITA'
Editoriali contro
Alla fine anche il terzismo si prende la sua vendetta. Editoriale di Galli della Loggia, che dice come e perché il partito di plastica si stia squagliando, e il Pdl sia pieno di gente d'ogni risma e di nessuna qualità. Il riferimento è al listino tiratardi della Polverini e ai pasticci combinati con i 514 nomi più o meno tarocchi di Formigoni, ma il significato è tutto giornalistico. Il direttore Ferruccio de Bortoli ha cercato di tenere per mesi una posizione superprofessionale, basata sul seguente postulato: "Noi diamo le notizie". Se c'è la notizia, bene, se non c'è, silenzio. Ma non poteva funzionare. Oltre le notizie ci sono i commenti, le idee, le opinioni. E allora tutto si può chiedere al professor Ernesto tranne che di tenersi in pancia il mal di pancia. Se a suo giudizio il Pdl non è in grado di dare corpo a una destra moderna, Galli della Loggia può stare zitto per settimane, ma alla fine sbotta, e de Bortoli va in crisi. L'editoriale incriminato va e viene, compare e scompare, viene rinviato, apparirà. Giochi di prestigio. Ma alla lunga il terzismo non poteva reggere. Quella posizione così elegante e neutra per cui si dava un colpo al cerchio e due colpi alla botte poteva durare per qualche tempo, ma alla lunga, se c'è un po' di sangue nelle vene, e Galli della Loggia sanguigno è, doveva lasciare il campo al giudizio. Giudizio personale, naturalmente, che però impegna il "Corriere della Sera" in modo politicamente preoccupante. Già in passato, con l'endorsement di Paolo Mieli a Romano Prodi, ci fu un'emorragia di copie "moderate". Figurarsi oggi, allorché la partita politica sembra tutta giocarsi sul piano mediatico, con i talkshow chiusi per ferie e le minzolinate per cui tutto va bene madama la marchesa. Ragion per cui anche sul "Corriere" riaffiora l'importanza di chiamarsi Ernesto. Il principale editorialista del giornale (perché Giovanni Sartori si è defilato, e Sergio Romano fa il terzista in modo troppo programmatico) se ne esce con un commento dinamitardo? Troncare, sopire: il vecchio comandamento manzoniano è ancora di attualità. Ma alla fine, per forza dell'inconscio giornalistico, di un subcosciente incontrollabile, verrà sempre fuori. Se la plastica si squaglia, sono comunque dolori.
L'Espresso, 11/03/2010, PORTE GIREVOLI
Emma che impresa
Per capire che cos'è il berlusconiano Pdl bisogna guardare al formidabile pasticcio combinato a Roma con la mancata presentazione delle liste. Ma anche la campagna elettorale di Renata Polverini non sembra proprio decollata. La sindacalista dell'Ugl è una creatura di Gianfranco Fini, e sembra più che altro un cuneo infilato dentro il Popolo della libertà per recare fastidio intellettuale ai berluscones. Tutto questo comunque non basta a dare una vera spinta alla candidata di centrosinistra Emma Bonino, che presenta seri problemi e seri problemi potrà avere con il suo elettorato di riferimento. La Bonino è un politico abituato, salvo casi eccezionali, a cifre percentuali fra l'1 e il 2,5 per cento. È una radicale purissima, oro colato, e lo si è visto nel metodo con cui ha aperto la sua campagna pubblica, inaugurando uno sciopero della fame e della sete praticamente inspiegabile ma di pretto stampo radicale: senza aggiungere poi che sullo sfondo politico romano gli elettori del Pd vedevano profilarsi la figura ormai nosferatiana di Marco Pannella, padre padrone dei radicali e sostanziale spauracchio per l'elettorato moderato, che in parte ne apprezzerà teoricamente le battaglie legalitarie molto più di quanto sarà disposto a votare per una coalizione segnata da ombre radicali. Figurarsi poi, come si è accennato, all'impatto con la Roma più scettica, con il ventre tiepido dell'elettorato tiberino. La Bonino rischia di apparire come una fanatica, una signora un po' fissata con battaglie d'altri tempi, anche se qualcuno forse ricorderà benevolmente le sue buone prove in Europa come commissario. Ma è sufficiente l'allure europea di Emma per darle competitività a Roma? Il fatto è che per riuscire ad avere qualche chance contro la Polverini, che unisce fighettismo di borgata e coattismo di città, la Bonino dovrebbe abbandonare per qualche settimana le modalità tipicamente radicali del fare politica. Uscire cioè dalla sindrome minoritaria e diventare effettivamente il candidato di tutto il centrosinistra. Si tratta di un'impresa non facile, data anche la struttura della cultura politica dei radicali, che quasi sempre appare inscalfibile. Tuttavia occorre che la Bonino capisca che deve conquistare voti "generici", non soltanto di tendenza. E quindi presentarsi davvero come il candidato di tutti. Oltretutto Roma è una città difficile, anche senza dire una sola parola sul caso Marrazzo, e quindi la "reconquista" si presenta estremamente difficile: un governatore super laico, forse addirittura anticlericale, nella capitale del cattolicesimo, nella città del papa! C'è da immaginare tutta l'ostilità del "partito romano", cioè della vecchia Roma cinica e baciapile. Non è, questo, un elemento da trascurare. La politica romana è molle e rocciosa, come la vecchia Dc, apparentemente malleabile ma alla lunga resistentissima. Come si fa allora a scalfire il successo mondano della Polverini e del centrodestra (ammesso che un centrodestra ci sia a Roma)? L'impresa è tutt'altro che facile. In pochi mesi la Polverini ha guadagnato una sua credibilità, quasi tutta basata su fattori extrapolitici: la scollatura, un filo di distanza esibita dalla politica ufficiale, la capacità dialettica di rovesciare la frittata, la partecipazione ai talk show, dove serve soprattutto presenza scenica. Per la Bonino la strada è in salita perché come figura pubblica è più "vecchia", e rappresenta una politica già vista, molto stagionata. Tuttavia ha qualche possibilità di presentarsi con un'immagine di freschezza, perché non è logorata dalla permanenza nella politica. Eventualmente sono logori i suoi metodi, ma forse non la sua figura. Pier Luigi Bersani sa benissimo che la conquista del Lazio è una delle condizioni strategiche per definire il successo della sua segreteria al Pd. Quindi anche la scelta della Bonino è stata una decisione in parte politica e in parte mediatica. C'è da augurarsi insomma che la Bonino sappia mobilitare gli elettori laici senza scoraggiare gli elettori cattolici. Deve avvenire una specie di miracolo politico, a questo scopo. D'altra parte il centrosinistra, se vuole proporsi davvero come alternativa politica a Berlusconi, deve coagulare un elettorato molto diversificato. L'esperimento Bonino dovrebbe essere la prova di come si possono mettere insieme strati diversi di cittadinanza e di cultura. È un salto mortale triplo, avvitato e carpiato. Molto dipende da come si comporterà Emma. Ma, come si dice, chi non risica non rosica.
L'Espresso, 18/03/2010, TELEVISIONE
Ma sì, viva Sissi
Dobbiamo metterci d'accordo: la miniserie di Raiuno "Sissi" è una soap o un'opera cinematografica? Certo ci voleva coraggio a girare questo remake dopo che l'originale con Romy Schneider era passato in televisione alcune decine di volte. Ma in realtà, nell'intepretazione di Cristiana Capotondi (occhi un po' stretti, per la verità), la fiction è diventata una specie di trattato di geopolitica, un saggio interpretativo sulla "finis Austriae". Francesco Giuseppe (David Rott, perché la coproduzione è internazionale) si destreggia malamente fra Napoleone III e Bismarck; tutti lo tradiscono e la moglie Sissi è costretta a raccogliere i cocci e a metterci pezze, soprattutto con gli ungheresi. Sicché non si vede all'opera la donna molto romantica interpretata dalla Schneider, ma una specie di super-ambasciatrice che sistema i confini europei, fa la pacifista, e nei ritagli di tempo cura l'educazione dei figli cercando di sottrarli alla rigida educazione asburgica. È sempre un problema individuare un modo di raccontare la storia. Figurarsi con un personaggio così mitologico come Elisabetta di Baviera, "saturato" dalla Schneider nella sua trilogia. Ma nei film con la Schneider prevalevano gli aspetti più personalistici e romantici, gli aneddoti, i giochi di corte: qui invece prevalgono i temi storiograficamente impegnativi, anche se gli attori sono un po' pesci lessi, e Napoleone III e Radetzky sembrano venuti fuori da una cartolina d'epoca. Comunque, meglio di molta fiction in circolazione. E poi Sissi è Sissi, e Cecco Beppe fa sempre risuonare una nota riconoscibile, per noi italiani.
L'Espresso, 18/03/2010, PRIMO PIANO
SENZA PIU’ REGOLE
C'è un particolare tipo di milanese, che nei caffè e nei trani a gogò, quando c'erano ancora, chiamano "il veneziano". È l'equivalente lombardo del "fasso tutto mi": un uomo che si sente capace di tutto, di qualsiasi impresa, di qualunque avventura. Nel nostro caso, come si capisce, si chiama Silvio Berlusconi, è nato nel quartiere milanese dell'Isola, e nella vita ha fatto effettivamente di tutto. Ha suonato e cantato sulle navi da crociera con il suo sodale Fedele Confalonieri, ha intonato al pianoforte "La vie en rose" davanti a un allibito Mitterrand, ha costruito dal niente due città satelliti a Milano, si è arricchito e ha creato la televisione commerciale in Italia, formando un impero editoriale che poi gli è venuto utile strumentalmente quando ha deciso di entrare in politica. Nel frattempo, ha deciso che nessuna regola poteva fermare la sua corsa, e per questo ha slabbrato il tessuto istituzionale, distruggendo sostanzialmente l'impianto di pesi e contrappesi su cui si reggeva l'architettura del sistema italiano. Lo ha fatto sempre sorridendo, sempre convinto delle proprie capacità e sorretto dal cinismo dell'imprenditore, che sa fin dove può spingersi e quando ritirarsi, senza alcuna remora etica. Gli affari sono affari, e la politica è un affare. L'ultima prova si è avuta sul pasticcio delle liste a Roma e a Milano. Berlusconi sonnecchiava non si sa dove, indifferente alla crisi, alla politica economica, alle urgenze del governo: quando si è accorto che il caso stava per scoppiare, con evidenti problemi per la tenuta della maggioranza e del Pdl. Allora si è precipitato nella capitale, imponendo di fatto a Giorgio Napolitano l'emanazione di un decreto legge "interpretativo" (ma in realtà innovativo), che interveniva sulla legge elettorale cambiandola in modo da riammettere Renata Polverini a Roma e Roberto Formigoni a Milano. Lo stile di Berlusconi è stato pari alla sua personalità. Materializzatosi con un gioco di prestigio a palazzo Grazioli, ha costretto il presidente della Repubblica, con un confronto molto acceso, ad accettare il decreto legge del governo, appellandosi al fatto che la suprema legge della democrazia è quella che consente ai cittadini di votare per il partito e il candidato prescelto. Già il presidente del Senato Schifani, con un'ardita interpretazione che rovesciava tutta l'impostazione giuridica di un maestro del Novecento come Kelsen, aveva suggerito che in certi casi la sostanza conta più della forma. L'argomento era risibile, e intendeva sostenere che se le firme non c'erano o erano farlocche si poteva farne a meno, secondo un'interpretazione modernista o futurista della legge. Purtroppo l'argomento era irresistibile, e Berlusconi se n'è appropriato, facendolo diventare la parola d'ordine di tutto il Pdl. In questo modo è riuscito di nuovo ad apparire quello che gli piace essere: il Caimano, o il Sultano. È il "solutore di problemi" di Quentin Tarantino, l'uomo che sposta con pochi sguardi tutta l'immondizia di Napoli, il datore di lavoro di Guido Bertolaso. Dietro di lui, vacche sacre che speculano sugli appalti pubblici, fornitori di raccomandazioni, cognati, cricche, tesoretti, diamanti. Ma per Berlusconi non ci sono regole che possano fermarne l'azione: una volta individuato l'obiettivo, "Silvio" non ha remore: i giudici, i pm, i sindacalisti, i politici dell'opposizione, tutti i dipendenti pubblici diventano «comunisti», gente che non ha mai lavorato un giorno nella vita, da spostare ai margini dell'elettorato e da battere sonoramente nel nome della libertà. Con tutto questo, nel nome del pensiero liberale e dell'anticomunismo, Berlusconi ha potuto fare tutto: attrarre strumentalmente l'opposizione in trappola e poi denigrarla dicendo che era pur sempre comunista, capace unicamente di dire dei no, mentre «noi siamo il partito del fare». Alla fine si tratterà di stilare un bilancio, e valutare l'attivo e il passivo della gestione Berlusconi. All'attivo metteremo, paradossalmente, il fatto che abbia governato poco, lasciando l'iniziativa economica nelle mani di Giulio Tremonti e i problemi del welfare in quelle di Maurizio Sacconi, che non hanno fatto danni eccessivi. Al passivo invece metteremo tutte le invenzioni sulla giustizia, a cominciare dalla pagliacciata sul processo breve, sul legittimo impedimento, su tutti i lodi a venire e sulle leggi ad personam per evitare i processi che lo riguardano. Intanto, Berlusconi si gode la formula "pijo tutto", e i sondaggi favorevoli, sia pure appannati negli ultimi giorni, nonostante la depressione economica. Già la crisi: ancora non s'è capito come un capo del governo che gestisce a fatica e senza fantasia l'impoverimento del Paese possa godere di un consenso comunque alto, sbandierato ogni giorno davanti all'opinione pubblica. Qualcuno, per favore, può suggerire a Pier Luigi Bersani che occorre infilare il dito, o il cacciavite, in questa sindrome, e spezzare la "contraddizion che nol consente": declino economico, declino civile, da una parte, e dall'altra acquiescenza verso il governo, con poche manifestazioni di protesta contro i casi più gravi sotto il profilo della disoccupazione. Intanto Berlusconi prosegue nella sua partita ideologica. Ha plasmato la società italiana facendole capire che leggi e regole non sono niente (proprio come il marchese del Grillo, «io so' io e voi nun siete un cazzo»). E ha mostrato con l'esempio che cosa sia una "politica di sviluppo": evasione fiscale, elusione delle norme, tangenti, appalti teleguidati. Il risultato è che mezza Italia si è convinta di essere dentro una seconda Tangentopoli, e l'altra metà sta pensando a come approfittarne. Il clima, grazie al "fasso tuto mi", è più o meno boliviano. "Silvio" ricorre di nuovo alla piazza e minaccia risultati elettorali spaventosi per l'opposizione. Basteranno alcune settimane per capire se "il veneziano", l'uomo del fare, avrà sfondato del tutto, alle elezioni regionali. E in quel momento capiremo anche qualcosa in più sulla società nazionale, sulla rottura delle convenzioni divenuta regola generale, grazie al formidabile "fasso tuto mi" di Silvio.
L'Espresso, 25/03/2010, TELEVISIONE
Sorpresa Saluzzi di Edmondo Berselli
Confiteor: guardo il programma quotidiano di Paola Saluzzi su SkyYg24, alle 14.35, con una certa apprensione. Perché ho sempre l'impressione che la Saluzzi si blocchi, che non le venga la parola, che un'amnesia la fulmini. Forse dipende dalla sua carriera precedente, tutta dedicata allo sport e all'effimero. Oppure anche dal suo aspetto, spesso poco adatto ai talk show: ci sono in studio o in collegamento austeri specialisti, grandi professori, e la Saluzzi appare subito con la sua chioma "flamboyant", che non depone a favore di un competenza o del buon gusto. Insomma. Ci vorrebbe un "look stylist" che la ridisegnasse tutta, e la trasformasse in una Gruber, per dire. Altrimenti sembra sempre una casalinga inquieta, con i capelli che sanno di brodo, che si sta esercitando nel ruolo della conduttrice. Però però. Miracolosamente le parole vengono fuori tutte, o quasi, spedite e precise. Si ha la sensazione che la Saluzzi si prepari, giorno per giorno, sul tema che deve affrontare, e questo grazie al cielo è professionismo. Sicché il programma scorre via con dignità e decoro. E vedete quanto contino i pregiudizi. Uno pensa a Paola Saluzzi senza accreditarle la minima capacità di condurre un talk show di approfondimento, e viene sonoramente smentito. Sono i miracoli di Sky, piattaforma che è riuscita a trasformare in intrattenimento perfino il calciomercato. Adesso ha trasformato in un conduttore autorevole la Saluzzi, e non era facile. Resta il fatto che la Saluzzi continua a essere un po' ansiogena. Ma che volete: nessuno è perfetto, si diceva nel gran finale di "A qualcuno piace caldo", e tanto vale concedere qualcosa anche alla Saluzzi.
L'Espresso, 31/03/2010, TELEVISIONE
Effetto D’Alessio di Edmondo Berselli
Nessuno nutriva soverchie illusioni sui risultati del programma di Gigi D'Alessio per Raiuno. Per capirci: D'Alessio è considerato un prodotto di serie B, che non ha una caratura nazionale. E allora come è stato possibile che la trasmissione abbia raggiunto ascolti molto alti, premiando il progetto di Michele Bovi, che sembrava privo di speranze? Vediamo un po'. Gigi D'Alessio è bruttino, pelatino, canta che sembra un'imitazione di Claudio Baglioni, ma ha qualcosa di inesorabile. La sua musica è fatta apposta per essere ascoltata come sfondo, in quanto non ha pretese artistiche. Sono canzoni semplici, o semplicissime, che si ascoltano senza troppo impegno. Canzoni che assomigliano ad altre canzoni, non danno fastidio, e se uno le intercetta non prova insofferenza. Poi ci sono i fan, i veri aficionados di Gigi, i quali sono irragionevolmente convinti che D'Alessio sia un grande artista. Lui sta davanti al pianoforte e si sgola, cantando la sua musica di maniera. Ma non c'è solo questo: nella sua trasmissione c'erano numerosi ospiti, tutti di classe, c'era ritmo, velocità. Il che vuol dire forse qualcosa di importante: che si può fare un programma molto tradizionale, trovando una formula che riprende il passato ma lo modernizza. Tanto gli spettatori ci sono, basta scovarli e inchiodarli davanti al piccolo schermo. Per certi aspetti è sufficiente andare a caccia delle cosiddette "pensionate di Torre del Greco", che hanno voglia o bisogno di show molto convenzionali. A suo modo è un ritorno al passato. Ma se è fatto con decenza, con professionalità, con apertura, ben venga anche Gigi D'Alessio, con le sue canzonette.
L'Espresso, 31/03/2010, PRIMO PIANO
Uno stop a BERLUSCONI
Roma, piazza san Giovanni. Un Silvio Berlusconi davvero scatenato si rivolge alla sua folla dicendo: «In tre anni debelleremo il cancro». Ostrega. Non si sa se è una sparata in puro berlusconian style oppure una delle trovate inarrestabili del capo del governo, uno dei suoi exploit da ganassa. Di sicuro è la dimostrazione che il settantatreenne Berlusconi è convinto di essere immortale, forse grazie anche ai miracoli di don Verzè. Ma in piazza san Giovanni, in una domenica di marzo, si sta verificando anche qualche cos'altro: l'unione mistica fra il capo e il popolo, fra il monarca assoluto e la sua gente. Le elezioni regionali vengono molto dopo. Come il Sovrano ha dichiarato, non si tratta di elezioni parziali, locali o regionali, ma l'ennesima prova di forza tra Silvio Berlusconi e tutti gli altri. Fra chi accetta il "governo del fare", dei Bertolaso, del pronto intervento, dell'emergenza, e chi invece dice sempre di no. Il film è già visto e stravisto. Tuttavia questa volta la posta in gioco è più alta del solito. C'è in gioco quasi tutto il Nord, e una egemonia che può manifestarsi su almeno quattro regioni fra le più importanti del paese. E in fondo Berlusconi ha ragione: la sua azione politica può diventare egemonica sulle aree più significative dell'Italia contemporanea, lasciando alle regioni rosse il ruolo di "Lega centro", con una funzione politica poco più che residuale, nell'attesa che il modello emiliano spenda le ultime risorse. Debellare malattie incurabili può appartenere all'Ego sovrano di Berlusconi, ma anche alla sua forza inesorabile. Nelle ultime settimane è riuscito ad attaccare i magistrati, convincendo forse del tutto gli italiani che il sistema della giustizia è decisamente malato, e occorre intervenire in profondità per "debellare" il morbo che ha attaccato le radici stesse del sistema giudiziario. Probabilmente non ha convinto tutti, perché c'è ancora chi sostiene l'autonomia della magistratura, ma a poco a poco è riuscito a convincere una parte dell'opinione pubblica che i magistrati stiano conducendo una guerra mortale contro di lui, trasformando la politica in una battaglia giudiziaria senza quartiere. Intanto, si sta sviluppando una partita senza quartiere in alcune regioni assai importanti, a cominciare dal Piemonte, dove la candidatura di Mercedes Bresso è a rischio, sotto la forte spinta del leghista Cota. Il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani sembra guardare con ottimismo al risultato piemontese, con lo sguardo accompagnato da quello prestigioso del sindaco di Torino Sergio Chiamparino, ma non deve trascurare gli aspetti "ideologici" della candidatura della Bresso: anche all'interno della Cei si è discusso a fondo degli aspetti "abortisti" e laicisti della figura della candidata del Pd, giungendo a un giudizio sostanzialmente negativo che potrebbe avere effetti nefasti sul risultato finale. I membri più avvertiti della Conferenza episcopale infatti hanno messo in luce che una sconfitta del centrosinistra in Piemonte avrebbe come effetto la consegna di quasi tutto il Nord alla Lega di Bossi, con esiti praticamente secessionisti. In queste condizioni, e in seguito alla grave crisi economica in cui il Settentrione si trova (una ricerca della Banca d'Italia ha mostrato che la produzione industriale è in arretrato di cento trimestri), sarebbero prevedibili risultati sociali fortemente conflittuali. Per ora sul piano della produzione sembra tenere soltanto il Veneto, mentre il tessuto industriale di piccola e media impresa emiliano sta flettendo anch'esso, con esiti molto negativi dal punto di vista dell'occupazione. Insomma si stanno incrociando fenomeni di carattere assai diverso: da un lato il problema economico, dall'altro la questione ideologica. Nel Lazio, per esempio, la candidatura di Emma Bonino sta diventando conflittuale, specialmente verso la Roma tradizionale, quella clericale in particolare. Negli ultimi tempi esplosiva: per ora sembra che la candidatura della Bonino risulti ancora competitiva, anche se in condizioni limite; ma alla lunga si teme che il Pd possa essere penalizzato da una candidatura esterna, inventata lì per lì e staccata dal popolo. Non parliamo poi delle competizioni nelle regioni meridionali, in cui la partita sembra spaventosamente in perdita. Con ogni probabilità la campagna di Emma Bonino risulterà la più emblematica politicamente, in parte perché coinvolge la capitale, e in parte perché investe la strategia complessiva dei democratici: il tentativo di cooptare una figura esterna come quella di "Emma" costituisce un esempio tutt'altro che facile dal punto di vista politico. Nello stesso tempo la Bonino rappresenta un personaggio stimato quanto nello stesso tempo controverso, specialmente rispetto alla Roma più tradizionale. Negli ultimi tempi si è lentamente formata l'idea che il Pd sia in recupero: ancor prima che sui numeri elettorali, sulle regioni conquistabili. Può darsi: ma un risultato "tecnico" non convincerebbe l'opinione pubblica e soprattutto non sarebbe in grado di rilanciare il centrosinistra. Il quale ha bisogno di trovare un risultato importante anche sul piano numerico, per dimostrare di esistere. Per il centrosinistra italiano l'appuntamento di fine marzo è uno dei più cruciali fra le ultime tornate elettorali. Il Pd ci arriva in condizioni particolari, senza essere riuscito a creare il giusto amalgama fra la componente ex socialista e la parte cattolica e liberal-riformista del partito. Nello stesso tempo, c'è netta la sensazione che questo appuntamento non ha utili vie d'uscita. Non soltanto per Bersani, ma per tutto il gruppo dirigente del partito. E, in fondo, per tutta la prospettiva della sinistra europea. Si aprono vie nuove per le sinistre, dopo la vittoria antisarkozista alle regionali in Francia; forse ci sono ancora opportunità per una politica progressista nei principali paesi europei. Perdere un'occasione come questa sarebbe perdere malamente una partita decisiva per il progressismo europeo. n
L'Espresso, 31/03/2010, PORTE GIREVOLI
Dove porta la svolta di Fini
I partiti cambiano in genere in due modi: dall'alto e dal basso. Dall'alto stiamo assistendo alla secessione silenziosa del "partito" di Gianfranco Fini rispetto al Pdl: segmenti di classe dirigente cercano di trovare occasioni di potere, in una fase che appariva bloccata, e invece si è mossa sulla iniziativa del presidente della Camera, che non ha perso una sola opportunità per differenziarsi dal berlusconismo. Evidentemente Fini aveva legittimi interessi personali, un'età che gli consente di proporsi come un leader, e un'idea di destra che poteva sembrare più moderna e istituzionale di quella rappresentata dal populismo berlusconiano. L'esperimento di Fini è culturalmente interessante quanto di respiro poco ampio. Il respiro corto non riguarda l'assetto culturale, voluto dal presidente della Camera, quanto la forza reale messa in campo. Un ennesimo partitino avrebbe poca fortuna. I migliori progetti possono avere destini poco brillanti se non c'è dietro l'intendenza, e Fini non sembra avere dietro di sé grandi masse al seguito; la sua operazione finora ha tutta l'idea di una esperienza culturale, legata alla sua fondazione. È servita soprattutto a differenziare la fazione finiana in modo da intralciare il potere di Berlusconi, ma non è chiaro come possa evolversi in futuro. D'altronde Fini è un politico puro, di quelli che Berlusconi detesta e ha sempre detestato. Lo si è visto in ogni occasione pubblica, a cominciare dalle posizioni assunte da Fini sull'immigrazione, o sul rapporto fra le istituzioni, a cominciare dalla difficile relazione con il Quirinale. Quindi la manovra di Fini, sempre ammesso che sia ancora in piedi e operante, è esplicitamente politica: tende a spostare equilibri, a creare nuovi aggregati e soprattutto a formare la leadership politica del presidente della Camera. Si tratta di una tipica operazione di trasformismo politico, che dovrebbe mettere in crisi il Pdl e soprattutto il "patronage" dispotico di Berlusconi, che in questo momento sembra essersi concesso l'autorizzazione a spadroneggiare (come si è visto con la manifestazione a Roma conclusasi in piazza San Giovanni). Molto più complicata è la situazione "dal basso", dal momento che è la Lega, un movimento che acquista forza ogni giorno, a condurre le danze. Stando a ciò che spiegano i politologi e i sondaggisti, potrebbe darsi che in tutto il Nord, Emilia-Romagna per ora esclusa, la Lega di Bossi potesse sopravanzare il Pdl. Tutto ciò movimenterebbe gli equilibri politici nel centrodestra, tenuto conto che la Lega non è soltanto un movimento di destra, o non lo è su alcune tematiche di governo e in relazione alle società del Nord. Forse può risultare sorprendente che la parte più sviluppata del Paese abbia deciso di affidarsi al movimento più folclorico della nostra politica, ma va considerato che la Lega ormai è un partito di governo ed esercita con orgoglio la propria funzione. Berlusconi in questo momento dovrebbe forse essere preoccupato più dal travolgente successo leghista che non dalle manovre di Fini. Ciò che si agita nel cuore del Nord, e sembra in grado di tracimare oltre il Po, in tutta l'Emilia e la Romagna, si presenta come un movimento confuso ma efficiente sul territorio. La sua leadership è saldissima, i suoi ministri a Roma si sono fatti vedere con chiarezza, a cominciare da Roberto Maroni. Rozza ma efficace, la Lega sembrava un movimento residuale, destinato a essere fagocitato dalle frange berlusconiane; è accaduto esattamente il contrario, e ciò mette in luce la fragilità implicita nel blocco di centrodestra. Spetterebbe alla sinistra riformista mettere in luce, si sarebbe detto una volta, le contraddizioni del centrodestra; ma per ora non si riesce a vedere una strategia chiara. Pier Luigi Bersani e i dirigenti del Partito democratico sono tutti impegnati nella campagna elettorale delle regionali. È vero che quel risultato influenzerà molto, in termini strategici, i destini del Pd, e anzi è probabile che un esito meno sfavorevole del previsto darà un po' di spinta ai democratici; ma in questo momento si tratta in primo luogo di interpretare i nuovi schemi politici che si stanno creando: l'impoverimento con acquiescenza, cioè senza opposizione, e i fenomeni di perdita del lavoro legati alla globalizzazione. In entrambi i casi la lotta politica con la Lega sarà a coltello. E quindi converrà prepararsi.
L'Espresso, 08/04/2010, TELEVISIONE
Simpatico Coriandolo di Edmondo Berselli
L'ispettore Coliandro viene interpellato ogni volta, al primo approccio, "Coriandolo", provocando la sua immediata irritazione. È un funzionario di polizia fuori dagli schemi, diretto da Manetti & Bros, che fa un uso sconsiderato del turpiloquio. Come molti protagonisti di polizia contemporanei, questo poliziotto, una creazione dello scrittore Carlo Lucarelli che è andato in onda il 19 e il 26 marzo, è un perfetto figlio dei suoi tempi: parla male, lavora peggio, e miracolosamente riesce a saltarci fuori ogni volta, che si tratti di storie tradizionali o sataniche. Ciò nonostante Coliandro non è antipatico. È un poliziotto moderno, di quelli che assomigliano più ai delinquenti a cui dovrebbero dare la caccia che non ai loro colleghi. Gli stessi luoghi che frequentano sono problematici, con poche luci, spesso con suoni da discoteca, frequentati da ragazze facilmente disponibili. Coriandolo, alias Coliandro, alias l'attore Giampaolo Morelli, se la cava mica male, anche se talvolta dà l'idea di riuscirci a malapena, in mezzo alla strana fauna che frequenta e che talvolta lo minaccia. Posto in seconda o terza fascia, Coliandro va tenuto a distanza dai bambini, se non si vuole che imparino un linguaggio da scaricatori di porto (o semplicemente da salotto normale, dove si parla con il linguaggio della borghesia qualunque). Tuttavia ha un tocco "noir" che può attrarre molto, perché porta le storie al livello della quotidianità e le fa apparire "vere". Sicché "Coriandolo" è un buon esempio di poliziesco moderno, televisivamente ben fatto, leggermente ansiogeno: ma questo per un "noir" dovrebbe essere normale.
L'Espresso, 08/01/2009
SEGRETI DI ADOLESCENTI
Chi va a caccia di serial di qualità non dovrebbe perdere la nuova tranche di episodi di "Mad Men", che con i primi 12 episodi ha segnato una tappa importante nella televisione di intrattenimento, con la sua ricostruzione degli anni Sessanta e del mondo della pubblicità. Ne riparleremo. Nel frattempo, ci si può consolare con "La vita segreta di una teenager americana", scritta e prodotta da Brenda Hampton, 11 episodi in onda sul canale satellitare Fox dalla fine di ottobre. La serie racconta le vicende di una ragazza di 15 anni, Amy, che si ritrova incinta e non vuole rivelare chi sia il padre (mentre i telespettatori vengono adeguatamente informati). I più esperti di telefilm ricorderanno forse la matrice di questi telefilm generazionali: si tratta di "Beverly Hills 90210", dove le storie di ogni episodio mettevano al centro un problema sociale o culturale (la droga, l'onestà, il rapporto padri e figli). Anche in questo "La vita segreta di una teenager americana" la trama fa sempre emergere piccoli spaccati comportamentali dell'America contemporanea. E forse un segnale del successo e della capacità di coinvolgimento della serie è dato da un certo numero di blog che sono stati costituiti per discutere gli episodi. La povera Amy si metterà insieme con l'autore del misfatto, o la loro storia resterà soltanto quella di una notte "speciale" al campo estivo, come ha confessato proprio lui, Ricky? Le teenager di casa nostra non hanno dubbi: «Spero di no, perché mi sembra un gran bastardo», scrivono nei loro post. E questo ci dice che un bel po' di America, e non soltanto l'America della fiction, è arrivata fin qui, come sempre.