L’Espresso
L'Espresso, 08/01/2009
Serve un tiro mancino
Probabilmente è vero che per la sinistra l'imperativo è "ripartire da Obama". Ma si tratta di capire quale Obama. Perché è vero che il presidente eletto è un simbolo, anche emozionante, dell'apertura multiculturale, e la dimostrazione della infinita capacità innovativa di un'intera società. Ma oggi la sinistra non può limitarsi ad agitare le passioni. Ossia la sfera dei diritti, l'inclusività, la tolleranza, la laicità, il rispetto per le culture altre. Siamo davanti al vecchio ma infallibile discorso di Albert Hirschman, il più strenuo ideologo novecentesco del possibilismo riformista: c'è un tempo per le passioni e un tempo per gli interessi. Talvolta le due dimensioni dell'agire politico si intersecano, talora l'una prende il sopravvento sull'altra. Adesso si tratta in primo luogo di mettere a fuoco gli interessi, ossia cercare le ragioni profonde della crisi economica che il mondo comincia con grandissima fatica a fronteggiare, per creare i fondamenti di una risposta politica. A quel punto verrà il tempo delle passioni. Intanto, occorre far sapere che la destra non ha argomenti. Naviga a vista, investita dalle ondate di burrasca che ha creato. È il "pensiero unico" che ha creato il mostro. È la versione euforicamente estremista del liberismo che ha combinato il pasticcio. Perché la recessione, o la depressione, contemporanea è stata innescata proprio dal pensiero filosofico, e dai conseguenti programmi economici, della destra. Tutto è cominciato con l'offensiva neoconservatrice ai tempi della campagna per Ronald Reagan, allorché i grandi centri culturali della destra americana elaborarono il programma di fondo del mondo nuovo: il cui pilastro era che le differenze sociali non costituivano un male in sé. Le grandi ricchezze, in questa visione panglossiana, "sgocciolano" verso il basso (l'effetto "trickle down"), creando investimenti e benessere diffuso. Quindi, tagliare le tasse, favorire l'offerta economica e i consumi, evitare la redistribuzione, opporsi a qualsiasi programma "socialista", confidare nella capacità equilibratrice del mercato: ecco il programma su cui si sono impegnati Reagan e Margaret Thatcher, e che ha dettato l'agenda politica dei governi anche europei per un trentennio. Già, ma bisognava sapere che il crescere della disuguaglianza avrebbe provocato l'incepparsi dell'economia. Senza poter distribuire reddito con l'intervento statale (o con l'inflazione, o con il debito pubblico), la domanda aggregata, in termini keynesiani, cede. L'economia si blocca. Quel gran genio di Keynes lo aveva detto ottant'anni fa. E allora che cosa si è fatto? Si sono fatti indebitare i ceti medie medio-bassi, sostenendo i consumi con i mutui "subprime", il credito facile, gli acquisti a rate, le carte di credito "revolving". Poiché con l'andare del tempo l'indebitamento complessivo diventava preoccupante, l'hanno cartolarizzato e proiettato nel circuito finanziario mondiale: quando qualcuno, sadicamente, ha bucato per prova i "salsicciotti", cioè i prodotti finanziari tossici, è cominciata a venire giù pioggia acida. Questa ricostruzione sarà semplificatoria, ma è utile per smontare l'idea che la crisi attuale sia soltanto un problema tecnico, derivante dall'assenza di regole e dalla spregiudicatezza dei centri finanziari. E soprattutto serve per dire che la sinistra europea deve avere chiaro qual è l'orizzonte economico in cui si trova e i compiti che ha davanti. Ovvero: fare una diagnosi realistica della fase depressiva e rilanciare una proposta che contenga, bene in vista, un profilo di società desiderabile alternativo a quello della destra. E allora: qual è questo profilo di società desiderabile? Quali sono i fondamenti di una realtà economico-sociale a cui la sinistra deve rifarsi? Sotto questa luce, la tradizione culturale può aiutare; rifarsi al passato ha un senso. Perché la vicenda europea, negli anni del suo massimo sviluppo, si è modellata sul cosiddetto "modello renano" (così definito da Michel Albert agli inizi degli anni Novanta), cioè l'economia sociale di mercato, nata in Germania ma diffusasi con varianti nazionali specifiche in tutta Europa. Codificata culturalmente dagli "ordoliberali" di Friburgo, applicata dai cristiano-democratici Adenauer e Erhard in Germania, ma accettata e reinterpretata dai sinistra dai socialdemocratici tedeschi nel programma di Bad Godesberg, l'economia sociale di mercato intreccia mercato e welfare in modo flessibile. Oggi c'è la necessità di adeguare i sistemi di protezione sociale alle nuove necessità determinate dall'evolversi del mercato: ma nello stesso tempo una sinistra che abbia qualcosa da dire, e voglia fare qualcosa, deve porsi il problema di rivolgersi alle società contemporanee con una sua formula politica. Altrimenti si arrocca a difesa di modelli già al tramonto, colpiti ineluttabilmente dalla globalizzazione, oppure insegue faticosamente i vecchi modelli della destra neoconservatrice, senza accorgersi che il paradigma è cambiato. Per ciò che riguarda l'Italia, il problema politico-culturale della sinistra è di arrivare a una sintesi, che i tempi ristretti della fondazione del Partito democratico non hanno reso ancora possibile. Il Pd ha tante idee e tanti filoni culturali ma non un mainstream, una prospettiva centrale. E nello stesso tempo torna a essere rilevante il rapporto con la sinistra alternativa. Il sacrificio del 13-14 aprile 2008 è risultato cruento. Ma non sarebbe intelligente ignorare la realtà delle sinistre escluse dal Parlamento. Possono essere lasciate alla loro esistenza marginale, a inseguire le utopie della "decrescita", o il ritorno all'artigianato, indicato come soluzione da Richard Sennett (l'autore di "L'uomo flessibile", un fortunato saggio sugli effetti della grande liberalizzazione, che ora descrive le potenzialità del saper fare in "L'uomo artigiano", un affascinante libro da poco tradotto da Feltrinelli); oppure possono essere di nuovo riportate, le sinistre alternative, a misurarsi con la sfida del governo dei processi socio- economici contemporanei. Questo è un tema essenziale, altro che l'arcaica frattura, continuamente riesumata, tra riformisti e massimalisti. Come disse una volta Fausto Bertinotti: «Una vecchia battuta dice che in Italia fra riformisti e rivoluzionari non c'è una grande differenza, perché gli uni non fanno le riforme e gli altri non fanno la rivoluzione». Ecco, si tratta di uscire da questo circolo vizioso, e cominciare a rivolgere all'opinione pubblica il messaggio che il paese va riformato, rimesso in efficienza, riportato alla decenza, e ancora una volta il centrosinistra può farlo, risultando credibile come nel 1996, allorché la proposta di modernizzazione attenta alle compatibilità sociali ebbe successo e fu perfettamente capita dall'elettorato. Altrimenti si vedrà all'opera la "modernizzazione conservatrice" del Pdl, un intreccio di illusionismi nostalgici (il grembiule, la maestra unica, magari il presepio, le mezze stagioni, "una volta qui era tutta campagna", Dio-Patria-Famiglia) e di tagli efferati alle strutture pubbliche. Oppure il tentativo di modernizzare il paese cominciando dalla coda, ora partendo dall'articolo 18, ora colpendo i presunti "fannulloni" nell'impiego pubblico, quando in realtà si tratta di rimettere in sesto le infrastrutture essenziali (ferrovie, poste, strade, ponti, scuole, ospedali) e di far funzionare i servizi immettendo nella pubblica amministrazione una ragionevole ed efficace catena di responsabilità. In sostanza, non è vero che destra e sinistra sono uguali e indistinguibili. La destra ha una essenziale capacità mimetica, per cui fino all'altro ieri era fatta soltanto di liberisti spinti, mentre oggi è affollata di protezionisti altrettanto convinti. Quindi occorre essere capaci di differenziarsi, senza perdere di vista la realtà in cui il nostro paese è inserito, ma recuperando e ripensando i criteri e i valori fra cui siamo cresciuti, economicamente e socialmente, con modalità adeguate alla trasformazione che ci coinvolge. Si tratta di usare i parametri del mercato e della concorrenza per favorire una società più giusta, meno castale rispetto a quella dell'Italia di oggi, favorendo la mobilità sociale. Certo non è un compito facile, ma per la sinistra italiana c'è molto tempo davanti, e quindi la possibilità di ripensare i propri programmi e di rendersi credibile prima come opposizione e poi come progetto alternativo di governo.
L'Espresso, 15/01/2009
Malinconia da detective
Non è affatto una novità, perché "Siska" va in onda da sei stagioni, ma adesso che la serie è ricominciata su Rete4 (due episodi la domenica sera, prima serata) occorre creare gruppi di ascolto e di fan per questa fiction che deve battersi a mani nude contro la serata calcistica. E allora bisogna dirlo subito: come Derrick, come Köster, e come l'indimenticabile Matula di "Un caso per due" (meglio in tedesco: "Ein Fall für Zwei"), anche il commissario Siska possiede il fascino ineguagliabile e abietto dei telefilm polizieschi tedeschi. Innanzitutto è ambientato a Monaco di Baviera, città meridionale e insensibilmente corrotta, ma per apprezzare la serie bisogna soffermarsi sui particolari: quelle case in cui l'arredamento nuovo sembra incorporare il vecchio, quelle piscine con le foglie nell'acqua, quel senso di degrado autenticamente tedesco, in cui tutto sembra sfumare pericolosamente verso l'autunno, la nostalgia, il disfacimento, la voglia di Mediterraneo, tra famiglie sfasciate, vecchi forse pedofili, conviventi non sbarbati, figli banalmente degenerati. E gli attori, meravigliosi. Perché la Germania, anzi, Crande Cermania, è un paese civile, che evidentemente sostiene il teatro con contratti televisivi agli attori di prosa, i quali inevitabilmente sono tutti sulla via della maturità, tanto da avere un'aria inconfondibile e vissuta, come vicini di casa in disarmo: gli uomini leggermente consumati, le donne con le borse sotto gli occhi, e nessun segno di lifting. Tanto che perfino il crimine, in quelle storie, sembra connaturato alla routine di quella fiacca quotidianità. E quando il commissario prende il colpevole, un po' dispiace.
L'Espresso, 15/01/2009
Vi canto la musica ribelle
Di quanti riti di passaggio ha bisogno un ragazzo per transitare finalmente all'età adulta? Non come persona, ma come artista, ovvio. Luca Carboni, che da ragazzo cantava e sussurrava cose angeliche, adesso ha più o meno 46 anni, casa nel centro di Bologna, a poche centinaia di metri da Piazza Maggiore, e sta provando a entrare nella maturità, condizione complicata per qualsiasi musicista dotato di naturale intelligenza: perché non si può andare avanti tutta la vita a bamboleggiare, sui fiori in bocca e i neoromanticismi, ma nello stesso tempo come si fa a non scontentare il pubblico delle farfalline e dei fiorellini, «ho bisogno d'affetto!», pubblico che ha sentito un brivido nella schiena con l'ultimo disco, "Le band si sciolgono", titolo pessimista, così malinconico («Il fatto è che io mi sono sempre sentito il musicista di un gruppo, e quando le band si dividono sento un dolore particolare»). E allora il ragazzo Luca, quarto di cinque figli, genitori un po' all'antica, sfollati in città durante la guerra, «più cristiani che demo», tifoso di basket cresciuto vicinissimo al Paladozza della Fortitudo, adesso che ha una compagna ormai storica, Marina, e un bimbo di nove anni, Samuele, per trovare la sua nuova strada si è inoltrato nell'intrico degli anni Settanta, realizzando un disco di cover di cantautori d'epoca, intitolato inevitabilmente "Musiche ribelli". Eccoli in parata: Francesco De Gregori, Edoardo Bennato, Pierangelo Bertoli, Lucio Dalla, Eugenio Finardi, Franco Battiato, fino a "Vincenzina e la fabbrica" di Enzo Jannacci e all'"Avvelenata", l'invettiva colta di Francesco Guccini. Un album anticipato via radio dalla canzone più impenetrabile ed emblematica, "Ho visto anche degli zingari felici" di Claudio Lolli, cantata in duo con il musicista scelto per produrre il disco, Riccardo Sinigallia (che ha alle spalle le collaborazioni con Tiro Mancino, Niccolò Fabi, Max Gazzè, oltre a una sua produzione tanto sofisticata da classificarsi deliberatamente elitaria). Alle spalle qualche milione di dischi venduti, una storica tournée con Jovanotti, la ricerca tenace di una semplicità espressiva che vada sempre più vicina alle cose, al quotidiano dei rapporti fra le persone. Le ragazze, le "persone silenziose" della vita di ogni giorno. Ma allora perché proprio gli anni Settanta, un'epoca incasinata quant'altre mai? «Allora suonavo il piano e li ascoltavo, i cantautori. Sono nato musicalmente negli anni Ottanta, quando c'era voglia di stringere l'obiettivo, rovesciando il discorso per portarlo dal generale al dettaglio, dalla politica all'intimità, dal sociale al privato». Eppure c'è voluto un certo coraggio culturale a portare di nuovo in giro la canzone di Claudio Lolli, forse il cantautore più irriducibile della nostra storia musicale, e senz'altro il meno commerciale: «Eppure a me quella canzone suona attuale, perché contiene una dimensione sociale, "riprendiamoci la vita e la speranza", ma su un altro versante c'è anche la felicità del nomadismo, una dimensione romantica di libertà. E di questi tempi, citare gli zingari...». Chiaro. «Ho voluto raccogliere quelli che allora erano segnali di disturbo». Carboni ci ha costruito sopra un video, in cui ci si imbatte proprio in Lolli, in Piazza Maggiore. E Carboni è orgoglioso di questo revival "sociale", che comprende oltre alla struggente "Vincenzina e la fabbrica" di Jannacci, e l'ironica "Venderò" di Bennato, «ancora modernissima, perché racconta il nostro stare sul mercato, e i dilemmi conseguenti». Anche la "Musica ribelle" di Finardi, «un musicista che allora sembrava meno intellettuale», rivela ora una grande forza: «in certi momenti diventa un messaggio, un aiuto». «E poi», dice Luca nell'ottimo italiano di uno che ha frequentato le scuole fino ad agraria, «questo disco è l'occasione per riascoltare canzoni che non si sentono più, ed è bello riportarle alla luce, come "L'avvelenata" e "Eppure soffia" di Bertoli, che già allora metteva insieme politica e questione ambientale, con quella rabbia che è la cifra di quel decennio». Anche se poi ci sono le delikatessen del primo De Gregori ("Raggio di sole" e "La casa di Hilde", storia di contrabbandieri in una cornice romanzesca e crepuscolare, in un linguaggio molto letterario: «Mi ricorda John Fante»). E non manca la marmellata "post" della canzone ponte fra il cantautorato dei Settanta e la musica degli Ottanta, cioè "Up Patriots to Arms" di Battiato: «Alla riscossa stupidi che i fiumi sono in piena, potete stare a galla...». Giuseppe De Rita ha sempre sostenuto che gli anni dall'autunno caldo al sequestro di Aldo Moro sono stati gli anni della crisi nella politica ma del fervore nella società. Quindi ecco un tuffo nella creatività di trent'anni fa. Forse il segno che per provare a capirci qualcosa, anche nella musica, bisogna guardare all'indietro. Come l'Angelus Novus di Paul Klee e di Walter Benjamin: «Non esageriamo, io ho fatto agraria». n
L'Espresso, 15/01/2009
Tutti i guai alitalia-cai
Si dovrebbe sapere che una cattiva soluzione provoca continui problemi. E, in via subordinata, una cattiva soluzione è il sintomo di una mediocre qualità di governo. Sul caso Alitalia non vale neppure la pena di fare profezie. Si può prevedere che la compagnia di bandiera, sbandierata come grande successo berlusconiano, vessillo del governo di destra, gonfalone dei suoi trionfi, finirà smantellata, triturata, ceduta al prezzo di saldo, e il personale, per evitare disordini, deportato in una qualche Guantanamo. Ma le previsioni catastrofiste servono solo ad aumentare la nevrosi. Intanto c'è da capire che cosa sta succedendo. Nel momento in cui "la Repubblica" ha dato la notizia della probabile cessione del 25 per cento della società a Air France, è stato naturale per un riformista come Enrico Morando, senatore del Pd, lasciarsi cadere le braccia: «Siamo arrivati alla stessa conclusione (del governo Prodi, ndr), l'alleanza con Air France, ma facendo un lunghissimo giro, che ha solo peggiorato la situazione». Secondo Morando, il peggioramento comprende il mancato salvataggio della Malpensa, costi sociali più alti, e tre miliardi di euro accollati al bilancio pubblico. Tutto questo per un'operazione di immagine, e con l'intento di costituire un circuito di imprese "governativo". Una classica operazione alla Berlusconi, una specie di periplo lunghissimo affibbiato allo Stato, una crociera di lusso pagata con i soldi altrui. Furbizie dell'aeroportino. Solo che nel frattempo i nordisti governativi e non governativi, dal sindaco di Milano Moratti al presidente della provincia Penati e al governatore della Lombardia Formigoni, con il supporto di Umberto Bossi e della Lega, sono insorti, spingendo per riprendere le trattative con Lufthansa, che potrebbe forse garantire alla Malpensa un futuro migliore. Forse. Tutto ciò mentre decollavano dichiarazioni bellicose, tipo "il governo farà sentire il suo peso" e "Berlusconi farà sentire la sua voce". Il partito tedesco è soltanto uno dei protagonisti di un gioco dei quattro cantoni a cui hanno partecipato tutti (il governo, l'opposizione, i sindacati, i partiti, le imprese, le lobby, le amministrazioni locali, nonché vari brasseur per conto di governi stranieri): tutti, tranne uno. Il grande assente si chiama mercato. Per chi se lo fosse dimenticato, il mercato è quell'idolo a cui Berlusconi e i suoi soci volevano fare sacrifici umani, con il ciglio umido di commozione mentre citavano Reagan e la Thatcher. Adesso, tutti zitti, la voce si alza soltanto per proteggere un presunto interesse nazionale, e poi un interesse locale, giù giù fin dove è possibile. Come ha spiegato sulla "Stampa" Giuseppe Berta, anziché scindere le sorti di Malpensa da quelle dell'Alitalia e di allestire le condizioni per radicarvi un grande operatore straniero, vale a dire, anziché puntare razionalmente su prospettive di mercato, «si è scelta la via italiana di cementare una combinazione di interessi sostanzialmente collusiva». Il risultato? Un capolavoro a rovescio, a suo modo magistrale, con un accordo societario, quello con Air France, che viene messo in discussione dai feudatari a pochi giorni dalla conclusione, mentre su tutto si stende l'ala intrusiva della politica: alcune modeste analisi empiriche su base europea mostrano che anche grazie al disprezzo per la concorrenza, e grazie ai salvataggi e ai favori, le tariffe interne italiane sono alte più o meno il doppio di quelle degli altri paesi dell'Ue (si dice tariffa perché si tratta in effetti di un prezzo imposto). La vicenda Cai-Alitalia appare soltanto uno degli aspetti critici di un governo che è molto al di sotto degli standard necessari per progettare un'Italia in grado di resistere alla crisi e ripartire. Lo stile governativo mette insieme il caos tecnologico e paternalista della social card, con gli anziani che fanno la fila alle Poste per ritrovarsi la card scarica, la navigazione a vista sul fronte della recessione, il peggioramento dei conti pubblici, il livello penoso sul piano internazionale, dimostrato con i balbettii durante la crisi di Gaza. Il consenso rimane altissimo, naturalmente, «bulgaro» e «imbarazzante» secondo il capo del governo, e quindi, si deduce, meritevole di una unzione presidenzialista. Forse tutto questo vuol dire che il paese si sta abituando, o rassegnando, a Berlusconi e al Pdl. Si capisce che questa è una conclusione disarmante. Induce a lasciar cadere le braccia, come Morando, e ad alzare sconsolatamente gli occhi al cielo: magari capiterà, uno di questi giorni, di vedere, nel sole ("soleil" in francese) o comunque nel cielo ("Himmel", in tedesco), un aeroplanino con una struggente bandierina tricolore.
L'Espresso, 22/01/2009
Buonanotte Bettino di Edmondo Berselli
Ha destato ampie polemiche la messa in onda, da parte di Canale 5, del film documentario "La mia vita è stata una corsa", dedicato alla figura di Bettino Craxi e prodotto dalla fondazione Craxi. Basta una ricerca istantanea su Google per vedere quali sono state le reazioni al programma da parte di numerosi bloggisti. Indignazione, parolacce. Ora, è vero che i blog non possiedono la verità, ma è anche vero che era inutile aspettarsi da un programma del genere qualcosa di simile all'imparzialità e a una ricostruzione storica completa. I detrattori di Craxi sostengono che è stato il responsabile del degrado e della corruttela nella fase finale della prima Repubblica; i sostenitori lo considerano un grande leader modernizzatore, sconfitto da un'ondata populista e dalla collusione fra politica e procure. La tv non sembra di questi tempi in grado di produrre grandi ricostruzioni delle vicende nazionali. Per dire, una vita come quella di Craxi, dall'ascesa alla caduta, cioè dalla conquista della segreteria del Psi all'hotel Midas nel 1976 all'espatrio a Hammamet per sfuggire alla giustizia, potrebbe meritare uno di quei programmi storici in cui era specializzato Sergio Zavoli (vedi alla voce "La notte della Repubblica"). Ma è ancora possibile investire su programmi del genere? E il pubblico, sarebbe disponibile a investire una intera serata per assistere a un programma "politico"? Alla fine, il programma su Craxi si è rivelato una specie di spot politico, a favore di una tesi. Mentre provare a spettacolarizzare la vicenda storica italiana, anche quella recente, potrebbe contribuire a sciogliere qualche nodo nella coscienza, o nell'incoscienza, collettiva.
L'Espresso, 22/01/2009
Supermarket Destra
Se si interpretassero i conflitti interni alla destra secondo i criteri della politica tradizionale, le conclusioni sarebbero obbligate: questi stanno insieme con lo sputacchino, e non appena una guerricciola più vera delle altre farà da innesco, il Pdl e l'alleanza con la Lega esploderanno come fuochi d'artificio nel cielo estivo di Villa Certosa. Il catalogo è presto fatto: la tassa sugli immigrati, avversata da Berlusconi proprio lui in persona, il caso Malpensa e Linate, Lufthansa e Air France, la riforma della giustizia secondo Fini e secondo Alfano, il presidenzialismo pretestuoso di Berlusconi e il federalismo più o meno finto preteso da Bossi e concesso per finta da Tremonti. Non serve nemmeno aggiungere le osservazioni dei cattolici di "Avvenire" sul fallimento della social card e del bonus alle famiglie che fa male alle famiglie. E lasciamo pure sullo sfondo la mediocrità delle misure anticrisi e il grottesco della politica economica (vedi la detassazione degli straordinari in tempi di cassa integrazione). Lo si era scritto in mille modi che la destra era un caravanserraglio. Che i secessionisti non potevano convivere con i centralisti, e quelli che volevano i soldi al Nord non potevano fare la coppia di fatto con quelli che volevano pascoli per le clientele del Sud. Ma tutto ciò, che in sistemi normali porterebbe al disfacimento dell'alleanza di destra, nel mondo metapolitico del berlusconismo si manifesta come una dialettica debole, al massimo come una girandola di ballon d'essai che servono ad abituare il pubblico al fatto che non c'è limite all'improvvisazione, e che ogni pensiero, per quanto debole, può essere pensato e diffuso (e poi bloccato, ma intanto è circolato). Quindi il bilancio si prospetta facile. Si sta creando uno stile di tipo neo-doroteo, che consiste nel piccolo cabotaggio, adattando progressivamente soluzioni scadenti a problemi non capiti, sperando che la decrepitezza delle strutture del nostro paese rappresenti un argine contro la modernità della crisi mondiale. Ma se questa sostanziale arcaicità della destra, autentico medioevo più la televisione, fosse in realtà la sua forza? Il paese rivela ogni giorno la sua faccia antica, invecchiata, rassegnata. La società italiana si è abituata ai disfunzionamenti che la collocano fuori dalla contemporaneità europea: non protesta nemmeno più. Cerca di arrangiarsi, come sempre, facendo acrobazie. Ma non ha voglia, a quanto pare, di investire nel cambiamento. Assiste al lento degrado delle condizioni civili e operative senza inalberarsi, con il fatalismo di chi pensa che probabilmente il futuro sarà peggiore, ma ci penserà qualcun altro. A questo egoismo fatalista delle corporazioni e delle tribù, la destra berlusconiana va benissimo. È una destra supermarket, la versione da terzo millennio della Dc più secolarizzata, senza i preti ma con folle di soubrette al seguito. Come diceva Carlo Donat Cattin, la forza democristiana consisteva nel differenziare la ditta: destra, sinistra, Giulio, Ciriaco, Mino, Virginio, Arnaldo, Paolo Emilio, Oscar Luigi. Era definito dai politologi un sistema "poliarchico", cioè un potere multiplo, un'aggregazione di blocchi di consenso, a cui si accodavano principi elettori, valvassori, valvassini, signorotti locali, furieri, servi della gleba, briganti e giullari vaganti. Sembrava inattaccabile, un muro di stucco molle in grado di assorbire ogni attacco e ogni crisi. E oggi? C'è un "popolo" di moderati presunti che si accontenta, e perciò gode; o si arrabbia, si spaventa e vuole essere rassicurato da questa o quella fazione governativa: ed è per questo che anche oggi, osservando il variegato carrozzone della destra, è difficile non provare un brivido al pensiero che potremmo essere destinati a morire berlusconiani.
L'Espresso, 28/01/2009
Eccesso di House
Come ha già detto, scritto e stampato, l'autore di questa rubrica è uno "House addict", un fanatico del medico storpio e bizzarro che tratta male tutti e qualche volta prende i pazienti a bastonate. Considera certe puntate come momenti altissimi della narrazione contemporanea, superiori a molti film di grande levatura e a diversi romanzi di alta quotazione. Ciò detto, la quarta serie di "Dr. House - Medical division" lascia molto perplessi. Occorrerà una riflessione approfondita. Ma dopo avere visto gli ultimi due episodi nella stessa serata su Canale 5 (l'11 gennaio, "La testa di House" e "Il cuore di Wilson"), mentre Fox rimanda in onda la terza serie, i dubbi sono forti. Anche House ha subito uno dei processi di entropia che avvengono nei serial: a mano a mano che gli episodi si accumulano, gli sceneggiatori vengono presi dalla tentazione di forzare le tinte, di aggiungere particolari impressionanti, saturando il racconto con vicende pazzesche. Nelle due puntate viste, accadeva di tutto. Sembrava un film "pulp" di Tarantino: House si faceva fare un buco nel cranio per stimolare il cervello e ricordare chissà che, poi gli veniva un arresto cardiaco, mentre la fidanzata del cancerologo Wilson veniva raffreddata e poi risvegliata soltanto per darle modo di salutare il fidanzato prima di morire, fra pianti e lacrime. Troppo. La forza dei serial è la normalità, la routine, in questo caso illuminata dalla genialità anticonformista di House. Se il "Dr. House" diventa una storia di casi incredibili, il fascino svanisce. Non è possibile che in un ospedale ci siano ogni cinque minuti eventi ai confini della realtà. Pollice verso (ma comunque l'amore rimane).
L'Espresso, 28/01/2009
Fronte del nord
Abbiamo davanti due tornate elettorali impegnative, in cui dobbiamo essere credibili, facendo sentire la forza di un programma alternativo alla destra e, al Nord, soprattutto alla Lega. Questo è il punto. Il resto sono sceneggiate... Pier Luigi Bersani, ministro ombra del Pd per l'economia, e probabile risorsa ombra nel caso di terremoti al vertice, è reduce da un incontro a Modena, dove ha verificato le inquietudini di un tessuto economico che sembrava immune alle crisi. «Il primo comandamento è: prendere sul serio la realtà». Già, il clima è plumbeo anche nella ricca Emilia dei distretti. Cassa integrazione. Sguardi preoccupati sul 2009. Bersani, riesce a dire qualcosa il Pd a queste realtà, in tempi così difficili? «Al Nord dobbiamo comportarci sapendo che il nostro contendente è il leghismo. Un movimento dentro la società che noi non possiamo permetterci di snobbare, anche se al leghismo siamo alternativi. Dobbiamo dire: la Lega parla spesso di cose giuste, ma ancora più spesso in un modo sbagliato». Sbaglio o sento odore di Partito del Nord? «No. Noi dobbiamo essere capaci di parlare di Nord, di autonomie, di territorio, senza complessi. "Nord" è una parola che contiene molti significati. È geografia ma è anche la metafora dell'Italia dei ceti più dinamici, moderni e produttivi». A sinistra questi ceti vengono evocati spesso, ma poi votano dall'altra parte. «Sì, ma adesso la propaganda è finita e anche la destra deve misurarsi con le cose. Nel caso specifico, a me sembra chiaro che il leghismo non ce la fa ad accendere il motore del Nord. La Lega è una specie di sindacato del Nord; se guardiamo ai risultati, dopo molti annunci questa politica porta a casa poco o niente». Sullo sfondo c'è la bandiera del federalismo. «Ma intanto, nella realtà vera, e per i ceti che dichiara di rappresentare, le piccole imprese e il lavoro, la Lega produce risultati zero. Niente nelle infrastrutture, niente sull'occupazione. E sui grandi aspetti anche simbolici, come Malpensa e l'Expo, ci sono stati addirittura effetti boomerang. Oltretutto, c'è una questione di coerenza: vogliamo dirlo che Malpensa campava anche sulle rotte in deficit di Alitalia? Altro che mercato, quella è assistenza. Se ne può fare a meno». Eppure la Lega è altissima nei consensi. «Ma a un certo punto Bossi, Maroni e tutti gli altri dovranno anche spiegare l'irrazionalità delle scelte, specialmente verso le amministrazioni locali: per dire, hanno cancellato l'unica forma di tassazione "federalista", l'Ici, con la conseguenza che i comuni si trovano in una situazione finanziaria di sofferenza grave». Se è per questo, la crisi incombe su tutto il paese, non soltanto sul Nord. «Fra i compiti di un'opposizione adeguata al suo ruolo, c'è anche quello di mettere allo scoperto l'insufficienza del governo». Vuole dire che finora il Pd non ha fatto opposizione? «Voglio dire che ogni giorno che passa si assiste all'aggravarsi dei problemi e all'inadeguatezza della destra. Innanzitutto ci vuole una diagnosi specifica sui punti di tensione. La crisi investe le piccole imprese, nel loro rapporto con il credito. Implica una ridefinizione strutturale degli ammortizzatori sociali. Chiede misure a sostegno di due ambiti sociali, come sostegno al reddito delle famiglie, e a favore dei giovani precari. Pretende azioni dal lato delle politiche industriali». Quindi il governo non ha neppure capito l'entità della crisi. «Perlomeno sembra che non abbia capito che coloro che lavorano e che producono sono totalmente esposti all'ondata della recessione. Sono settimane che vedo interviste oniriche di Giulio Tremonti, in cui parla di imperatori romani o di entità metafisiche, e intanto, sul credito alle imprese non si fa nulla, il peso fiscale si accresce, sugli ammortizzatori sociali si è sostanzialmente al palo, e così via». Il governo ha annunciato investimenti pubblici per ottanta miliardi. «Tremonti spara cifre e miliardi che poi all'atto pratico non si vedono. Noi abbiamo una proposta chiara: spostare risorse sui cantieri locali, da spendere subito, senza attendere i tempi biblici delle grandi infrastrutture. Spostiamo opere alle autonomie rendendole operative entro 24 mesi». Ma la crisi non si supera con un paio di rotatorie. «Intendiamoci: dobbiamo sapere con chiarezza quanto è profonda e duratura la crisi. Se dura un anno, c'è solo da resistere. Bisogna mettere alcuni miliardi sugli ammortizzatori sociali, aiutare le imprese che innovano a investire, anche con defiscalizzazioni mirate, e dire alle banche che l'imperativo è pensare a salvare tutti, non solo le banche. Intanto però sarebbe il caso di fare qualcosa, cominciando dal territorio». Secondo lei su questi temi la Lega è il grande assente. «La Lega parla di liberalizzazioni e poi non vota i nostri emendamenti. Anche sul provvedimento anti-Roma, ossia sullo sforamento del patto di stabilità comunale, ha votato il nostro ordine del giorno, ma non il relativo emendamento. Sono furbizie che alla fine mostrano la corda. Per adesso la Lega scarica la frustrazione prendendosela, invece che con Berlusconi, con i poveracci, vedi la tassa sul permesso di soggiorno, mentre clandestini e sbarchi aumentano. Quando si accorgerà che il pifferaio-miliardario li sta portando in giro, con il suo piffero, sarà troppo tardi». Il fatto è che il Pd non sembra un'alternativa realistica alla destra, al Nord. «Noi dobbiamo pensare a un radicamento territoriale esplicito, alla crescita delle autonomie, alla selezione di una classe dirigente capace di affrontare le prove dell'economia e dire parole pronunciabili sia al Nord sia al Sud. Non illudiamoci di affrontare questi temi col tatticismo, perché un partito leninista come la Lega sul terreno dei tatticismi ci porterebbe a spasso». Niente balletti con Bossi. «Dobbiamo affrontare la Lega con rispetto e in campo aperto. Per rafforzare un'altra idea di Nord. Un Nord capace innanzitutto di interpretare questa fase della crisi, con un'attenzione fortissima alla produzione e alla manifattura, le caratteristiche del nostro apparato economico». Sono nate preoccupazioni gravi sulla tenuta dei distretti. «La crisi è grave perché non ci sono settori o sistemi o paesi anticiclici. Tutta l'economia sembra un treno che va rallentando in aperta campagna. Quando finalmente ripartirà, vincerà chi avrà mantenuto il vantaggio relativo». Cioè chi si sarà reso più efficiente. «Per questo ci vuole un progetto complessivo. Lo Stato e le banche devono spingere su imprese efficienti e innovative, concentrando le risorse. Poi ci vuole un patto fiscale, che al momento il governo sta praticando in modo perverso: anziché abbassare le aliquote ha allentato i controlli, mentre al lavoro dipendente non ha restituito nemmeno il fiscal drag». Non dica che le tasse sono bellissime. Ci siamo già giocati un governo. «Noi proponiamo uno scambio, fedeltà fiscale contro abbassamento delle aliquote. In cinque anni, raggiungere il tasso di fedeltà fiscale medio europeo, cominciando di anno in anno a ridurre le aliquote». C'è anche tutto il settore pubblico da rimettere in efficienza. «Sì, ma non con il brunettismo. Non bastano le misure mediatiche. Ci vuole una sorta di piano industriale per la pubblica amministrazione, una riconversione in base ai compiti nuovi che deve affrontare». Scusi, Bersani, perché queste cose non le avete dette in campagna elettorale? «Forse abbiamo lasciato circolare l'idea che il riformismo lo abbiamo solo davanti, nel futuro. E invece le nostre culture, quella socialista, quella cattolica popolare, la cultura dell'autonomia, del territorio, hanno una storia alle spalle. C'è un secolo e mezzo di abitudine a trattare i problemi locali, e a trasferire le soluzioni dell'autorganizzazione sociale alle politiche pubbliche. Le aree artigiane e gli asili nido li abbiamo inventati noi. E sempre pensando in modo universalistico: tutti al mondo ne hanno diritto, ma se non te lo fai da te, nessuno ti regala niente». Bersani, non nascondiamoci dietro un dito. Questa è una candidatura alla guida del Pd. «Abbia pazienza. Noi dobbiamo avere un obiettivo, la riorganizzazione del partito sul territorio. Se riprendiamo con le discussioni sulla leadership cominciamo dal tetto. Il leaderismo è una forzatura. Mentre sembra semplificare i problemi, li complica. Le persone escono dal confronto sul progetto, non il contrario». Non le piace neanche il Partito del Nord. «Ma quale partito? Prima di parlare di geografia dobbiamo dire meglio che intendiamo con la parola partito. Ad esempio, voglio un partito che prenda le mosse dalle esperienze locali e poi vada a rappresentarle a Roma, e non un partito dove ognuno parli stando a casa sua». In sostanza lei dice: sulla crisi ci vuole un messaggio da parte del governo che non è venuto. «C'è un mutismo assordante. Tremonti e Berlusconi rappresentano chi pensa di poter acquattarsi dietro la crisi. Altro che acquattarsi: bisogna dire che è in gioco la consistenza industriale del Paese». Quindi? «Subito un tavolo di crisi. Con regioni, enti locali, imprese, banche, sindacato». E voi che fate? «Noi cominciamo a dire le cose come stanno. Nella realtà, cercando di rappresentare non chi si acquatta, ma chi sta sul fronte».
L'Espresso, 05/02/2009
Che bella la perfida America
La seconda serie di "Mad Men", mandata in onda da Cult su Sky, non ha tradito le attese. Va bene, le storie si sono un po' complicate, e forse si è un po' annebbiata la parte che piaceva di più a chi ama le storie professionali, cioè le discussioni in ufficio sulle campagne pubblicitarie. Ma averne. Bisogna dire che "Mad Men" è una serie piuttosto elitaria, ma è anche una delle migliori produzioni mai viste in tv. Ancora una volta si può ammirare la perfezione dell'ambientazione anni Sessanta, nell'America che ha scelto Kennedy contro Nixon. L'abbigliamento delle donne, i mobili da ufficio, le macchine per scrivere. Dopo di che, si potrebbe anche aprire un dibattito su un tema specifico, seppure dopo avere ammirato quel mondo dove tutti bevono litri di bourbon e di cocktail, e fumano pacchetti e pacchetti di sigarette: un'atmosfera alcolica e fumosa che sembra dare un alone lievemente sfocato anche alla fotografia. Impagabile. Il dibattito tuttavia è questo: ma è proprio vero che l'America kennediana era proprio così? Ossia cinica e perfida, ormai senza contenuti morali e senza regole di comportamento che sfuggissero all'interesse egoistico? Oppure è soltanto uno sguardo su una New York già ultramoderna, secolarizzata e perduta? Intanto, però, evviva. "Mad Men" è un altro di quei capolavori che l'industria culturale riesce a realizzare laggiù Oltreoceano. Attori perfetti, bellezze in linea con l'epoca, reggiseni molto architettonici, amicizie senza senso e amori senza futuro: e sporattutto comportamenti identificati con esattezza tra il conformismo e la trasgressione. Tanto da far capire che con gli anni Sessanta comincia una modernità che è ancora nostra.
L'Espresso, 05/02/2009
quella riforma è un suicidio
Si riaffaccia sulla scena politica il progetto di riforma della legge elettorale per il Parlamento europeo. Poi si inabissa, riappare, riscompare e si ripresenta. Se domani sparisce, dopodomani riapparirà. Strano: non c'è nessuna ragione strutturale, o "sistemica", per riformare la legge. Non ci sono criteri di governabilità da rispettare. Al massimo si può pensare che fra sistemi elettorali in uno stesso paese dovrebbe esserci una somiglianza di fondo: ma è una ragione debole, soprattutto se invocata a quattro mesi di distanza dalla consultazione elettorale. Quindi, più che di scena politica in cui si ripresenta il fantasma della riforma, si dovrebbe parlare di mercato fra i partiti. Cambiare la legge, con uno sbarramento al 4 per cento, come si sostiene nel Pd, o al 5, come dice Silvio Berlusconi, risponde soltanto a ragioni di convenienza e di opportunità politica. Conviene certamente al Pd, che vede davanti a sé l'incubo di un'erosione dei consensi tale da mandare al naufragio lo stesso progetto "democrat". E conviene anche al Pdl e a Berlusconi, anche se, come vedremo, per motivi del tutto diversi rispetto a quelli del Pd. Naturalmente non conviene affatto alle forze uscite sconfitte alle elezioni politiche del 2008, cioè i partiti dell'ex Sinistra Arcobaleno. La sinistra antagonista sta vivendo un momento di eccezionale gravità e di profonda ristrutturazione, a partire dalla scissione di Rifondazione comunista attuata da Nichi Vendola. In queste condizioni lo sbarramento rappresenterebbe semplicemente la volontà politica di annichilire le forze esterne al Pd, e probabilmente la mortificazione di tutto quell'elettorato che mantiene un'idea critica rispetto alle società avanzate e all'economia di mercato. Altro che voto utile, come nell'aprile scorso. Si tratterebbe di rivolgersi con dolcezza alla sinistra ultrà e dire: noi vi facciamo fuori dalla politica, ma considerate che lo facciamo per il vostro bene, e per il bene del centrosinistra, delle prospettive riformiste. Quindi vi strangoliamo, ma senza cattiveria, con dolcezza, un'eutanasia benevola e compassionevole a cui non dovete dire di no. Ora, a parte che se lo sbarramento fosse davvero al 5 per cento come indica Berlusconi potrebbe andare a rischio anche l'Udc di Casini (e qui appare palese la volontà berlusconiana di far male), e porterebbe inquietudine anche dentro l'Italia dei valori, sarebbe giusto sapere, in primo luogo, in quale sistema moderno si cambiano le regole del confronto quattro mesi prima del voto. Secondo punto: quali sono le ragioni autentiche che inducono Berlusconi a favorire l'accordo con il Pd? Non la crescita a destra di partiti o partitini alternativi al Pdl, che possono rappresentare una puntura di spillo ma non certamente un'alternativa. A quanto si capisce, piuttosto, il premier è reso inquieto dalla possibile implosione del partito di Veltroni. Ormai è diventato un politico a tutto tondo, conosce i meccanismi che presiedono alla vita dei partiti e all'esistenza delle coalizioni. Se effettivamente il Pd franasse, all'interno del Pdl si manifesterebbero spinte e controspinte ancora più forti di quelle attuali, che metterebbero del tutto a rischio la qualità, già scadente, dell'azione di governo. Quindi c'è un interesse convergente, fra Pdl e Pd, a riformare frettolosamente la formula elettorale. Ma almeno da parte dei Democratici, prima di prendere qualsiasi orientamento, si dovrebbe guardare a una strategia politica. E allora occorrerebbe prendere atto che il disegno fondato sulla "vocazione maggioritaria" del Pd si è arenato. In sintesi: un'alternativa a Berlusconi è possibile soltanto allargando l'alleanza. Chiamatela Ulivo, chiamatela Unione, chiamiamola in un altro modo, la competitività della sinistra non può prescindere dall'aggregazione di culture e strutture politiche esterne al Pd, al centro e a sinistra. Sotto questa luce, lo sbarramento elettorale significherebbe l'azzeramento di qualsiasi potenzialità strategica; avrebbe ripercussioni inevitabili sulle amministrazioni locali, presterebbe il fianco all'idea di un contratto maledetto sottoscritto con Berlusconi. Viene voglia di dire al Pd: coraggio, fatela. Fate questa riforma squinternata e politicamente suicida. Poi andate a leggere una delle «leggi fondamentali della stupidità umana» descritte dallo storico Carlo M. Cipolla in un indimenticato libretto: lo stupido è colui che fa del male agli altri senza ricavarne un vantaggio, anzi, facendo del male anche a se stesso. Perfetto: avanti con lo sbarramento, Democratici.
L'Espresso, 12/02/2009
Binario poetico
Ho voluto rivedere "Canto del popolo ebraico massacrato", interpretato da Moni Ovadia con la Stageorchestra e andato in onda su Raidue ("Palco e Retropalco", a cura di Giovanna Milella) per celebrare il Giorno della Memoria. Lo spettacolo di Ovadia, prodotto da Promomusic e Raitrade, è stato realizzato al binario 21 della Stazione centrale di Milano, alla presenza di Liliana Segre, che fu deportata tredicenne ad Auschwitz. È superfluo dire la suggestione suscitata da questo programma. Il poema di Itzhak Katzenelson (ucciso ad Auschwitz nel 1944), "canto di un morituro" scritto nel lager di Vittel in Francia, fu ritrovato dopo la liberazione in un barattolo interrato. La regia di Felice Cappa accosta le immagini della performance di Ovadia con materiale d'archivio e con riprese effettuate nel cimitero ebraico di Praga, alla stazione di Lodz, davanti ai resti del muro che chiudeva il ghetto di Varsavia. Alla fine dello spettacolo, sostenuto dalla voce di un'interprete bravissima, Lee Colbert, Liliana Segre ha raccontato la sua vicenda di deportata, cominciata proprio dal binario 21 della stazione di Milano (che diventerà la sede della Fondazione Memoriale della Shoah). Al di là della bravura degli esecutori, sottolineata dalla direzione musicale di Emilio Vallorani, il programma di Raidue costituisce un documento televisivo di forza impressionante, che ci si augura di poter trovare presto in commercio. Per la sua assenza di retorica, per la capacità di trasformare la tragedia in poesia, la prestazione di Ovadia, con la sua testimonianza dai luoghi della Shoah, costituisce una delle produzioni culturali più belle viste negli ultimi tempi.
L'Espresso, 12/02/2009
Mammia mia gli Italians!
Trionfano gli Italians. Sono gli italiani nella globalizzazione. Pregi e difetti su scala internazionale. Se si parla di pregi, a Maranello, nello staff del reparto corse della Ferrari, ecco la "buona italianità". Uno sguardo fra ingegneri, tecnici, meccanici, e il significato è chiaro: la buona italianità è una combinazione essenziale di competenza tecnica e di creatività operativa. Dedizione al lavoro e fantasia nelle soluzioni. Ore e ore sul pezzo e infine la trovata che scioglie il dilemma della stabilità o della motricità, dell'accelerazione, del controllo elettronico. Ma se esiste una italianità "buona" deve esistere, logicamente, anche un'italianità cattiva. Peggiorata da un'evidente autoindulgenza, dalla simpatia per i propri vizi storici e storicamente accertati, per le costanti e le varianti del carattere nazionale. Quell'atteggiamento tra il fatalismo e la recriminazione che ha per padre nobile Alberto Sordi, e una quantità di congiunti assai meno pregiati, che hanno furoreggiato a suo tempo (soprattutto ai tempi di Alvaro Vitali e Bombolo) e spopolano ancora nel nome o nel malinteso del trash. Tanto più deprecabile, l'autoassoluzione degli italiani nel nome dell'italianità incorreggibile, in quanto almeno i tempi del "Vigile" e dei "Magliari", il superitaliano medio "Albertosordi", tutto attaccato, concedeva al pubblico e ai critici la giustificazione di costituire un esempio negativo, la personificazione grottesca dei cattivi costumi nazionali, con catarsi, lieto fine o esemplare punizione finale ed eventualmente giusto pentimento (o ipocrita, o infingardo: tanto non importa, anzi: chissenefrega, li mortacci). Mentre adesso il culto dell'italianità "a prescindere" ha trovato nuovi interpreti, con un successo di massa da lasciare storditi. Non è bastata - non poteva bastare? - la scrittura di Francesco Piccolo, nel saggio "L'Italia spensierata", per decodificare l'ideologia e la prassi di quello che allora era il duo trionfatore del film natalizio, Boldi-De Sica: ma la decifrazione d'autore consentiva di scorgere, nella pellicola delle festività, con i suoi "Natali a...", la trama di complicità fra gli attori, specialmente Christian, e il pubblico. Ammiccamenti, strizzate d'occhio, gomitatine. Anvedi. Nonché conseguente giustificazione e assoluzione dell'Italia più mediocre e ipermodernizzata, un caso inspiegabile di cosmopolitismo provinciale (o viceversa di provincialismo cosmopolita), ripreso nelle sue sguaiataggini e i suoi sonori "vaffa", che chiudono di solito una sequenza monca, quando non è venuta l'ispirazione per una battuta originale. Vabbè. Uno può evitare "Natale a Rio", e accettare sulla parola di Christian De Sica che questa volta Neri Parenti abbia fatto «un capolavoro di umorismo, di ritmo, di tempi comici». Salvo poi assistere alla duplicazione del cinema natalizio con il film della Candelora, in questo caso "Italians", regia di Giovanni Veronesi, in cartellone Verdone-Castellitto. Proprio così, un progetto pilota, "Italians" (ci sarà qualche problema di copyright con Beppe Severgnini, autore di un altro "Italians", sottotitolo "Il giro del mondo in 80 pizze"?). "Italians" sono gli italiani al tempo dei subprime. Precari sullo sfondo della catastrofe mondiale, dove può rifulgere di nuovo l'arte di arrangiarsi. E sarà giustificato il sospetto che di questi film non rimanga molto altro al di là delle due battute convenientemente montate nel trailer? Vediamo: di "Natale a Rio" resterà la spiritosaggine sulla "buzzicozza" e la "crasi", con i dovuti fraintendimenti e i soliti equivoci. «Quella è 'na buzzicozza, buzzicona e cozza», spiega De Sica, sdraiato nella vasca. «Hai fatto una crasi», puntualizza il solerte e severo Massimo Ghini. Christian sembra perplesso: «Forse m'è scappata, ma non credo. E poi di solito fanno le bolle». Mentre di "Italians", immediatamente premiato da milioni di euro al botteghino passerà agli archivi la risposta di Castellitto, trafficante di auto di lusso, al bell'italiano Riccardo Scamarcio: «Le Ferrari non le ha mai rubate nessuno, le Ferrari sono di tutti, sono patrimonio dell'umanità!», citando anche l'Unesco. Per provare a districare l'italianità buona da quella meno distinta può venire buono il libretto curato da un esperto di industrial design, Giulio Bacchetti ("Italianità", con le illustrazioni di Alessandro Lecis e Alessandra Panzeri, edizioni Corraini di Mantova), che cataloga le "cose" italiane, come i "due spaghi" naturalmente da fare "aglio, olio e peperoncino", la colla Coccoina, la Moka Bialetti, le scarpe Superga, la bici Graziella, la Cedrata Tassoni e la Sambuca Molinari, ma anche simbologie inspiegabili come la "T" di Tabacchi e tracce inafferrabili come la striscia rossa dei calzoni dei carabinieri. Per la verità, anche i gorghi della memoria si prestano all'accusa del bamboleggiamento: cioè il gusto e il vezzo italianissimo del revival, del repêchage, del "karaoke dall'oltretomba", della sindrome "Anima mia", di cui sono stati ineguagliati interpreti Claudio Baglioni e Fabio Fazio. Quest'ultimo, ribattezzato con una quasi crasi "Fabiofazio", fatto a pezzi da Andrea Scanzi sull'ultimo numero di "MicroMega": «La sua calibratissima esegesi del paraculismo d'essai piace a grandi e piccini, guru e vestali. Di più: chi si azzarda a muovergli un minimo appunto, subisce la mitraglia della sinistra perennemente à la page: "Così fate il gioco della destra" (...) Fabiofazio non è un giornalista: è un sacramento. L'undicesimo comandamento del veltronismo»; ma ben prima liquidato dal suo acerrimo nemico intellettuale e concorrente televisivo Antonio Ricci: «Noi siamo diventati di sinistra perché avevamo professori di destra. Fazio è diventato di sinistra perché aveva professori di sinistra». E qui allora il gioco si fa duro perché si va al cuore della questione italiana contemporanea. E cioè, nell'epoca del politicamente scorretto, il trionfo del conformismo. Quell'atteggiamento che concede a Giulio Andreotti la palma dello humour, per quanto da parrocchia, a Berlusconi il primato di una esplosiva simpatia, a Veltroni la capacità di padroneggiare i sogni e l'immaginario. E sullo sfondo le impareggiabili maschere domestiche che rappresentano la superstizione, la bigotteria, il "parlar col prete" (anziché con Dio), la ricerca dell'alibi, principale malattia che qualche anno fa Julio Velasco, trainer indimenticato della Nazionale di pallavolo, imputava agli italiani non ancora divenuti "Italians". Infine quella ineffabile attitudine al lamento, che vira poi nella stoccata maligna, nel colpetto a tradimento, il "chiagni e fotti", in cui sono specialisti politici e preti specializzati negli scherzi, come pure centravanti e trequartisti, difensori e arbitri (ed è una disciplina in cui sembra eccellere, a dispetto delle smentite, Luca Toni, viste le fotografie da Monaco con l'ex fidanzata di Boris Becker, Sandy Meyer Wölden: in genere gli attaccanti piangono sui gol mancati; nella vita privata, naturalmente, smentiscono e non mancano di fottere). Ma l'insopprimibile tendenza al conformismo, anzi, peggio, all'adorazione dei fenomeni di costume e d'artisticità che "piacciono perché piacciono", e quindi non possono non piacere, dev'essere davvero una caratteristica dolente del paese, in questi tempi di modernità idolatrica, tanto da avere suscitato la puntigliosa attenzione critica di Luca Mastrantonio e Francesco Bonami: che da Einaudi, luogo canonico del pensiero, hanno pubblicato un saggio molto prossimo all'iconoclastia, e anche oltre ("Irrazionalpopolare", dedicato a un «viaggio fra gli incomprensibili miracoli d'Italia»). Ora i miracoli censiti, in questa Lourdes o Fatima o Medjugorie "de noantri", possono andare da Andrea Bocelli che trionfa grazie all'alone del melodramma senza essere un tenore vero, secondo i migliori critici, al Federico Moccia di "Tre metri sopra il cielo", «pusher di puerilità»; da Beppe Grillo che banalizza la politica e la vita pubblica riducendola all'espressività del "vaffa" (e allora, se siamo in questo territorio semantico, perché non immaginare un "Natale con Grillo"?) fino a Maurizio Cattelan, idolo di una religione fantastica che lo ha reso «fenomeno di massa e da rotocalco». Così, per liquidare la cattiva italianità conviene andare a parlare con i maestri cattivi (da non confondere con i cattivi maestri). Purtroppo, anche i cattivi se ne vanno. Contro ogni tentazione o scivolata retorica era un maestro cattivissimo Dino Risi, autore dell'indimenticabile battuta contro l'ingombro di Nanni Moretti nelle inquadrature («Spostati, fammi vedere il film»). Oppure certe cattiverie magistralmente autoriali di Riccardo Muti, sottolineate dalla perfida nonchalance di chi tratta ogni giorno con Mozart e non può perdere tempo con il dibattito aperto da Uto Ughi su Giovanni Allevi. Finora si veniva accusati di molti peccati, a insistere sull'incredibilità di certi fenomeni del gusto e sull'impresentabilità di certi protagonisti della scena: sospetti di intellettualismo, azionismo, distanza dal popolo, cerebralità, snobberie. Eppure, basta qualche passaggio su Facebook e sui blog per accorgersi che la cattiva italianità si nutre di linfe profonde, con radici che risalgono alla scuola elementare, alla perdita di una sintassi, una grammatica, un'ortografia. Sicché invocare il successo di massa come giustificazione al cattivo gusto, e argomentare i grandi numeri come ragion culturale sufficiente è una spiegazione contraddittoria. Non si può dire "lassatece puzzà", come segno di una condizione peculiare di brutti, sporchi e cattivi che godono della loro specificità, e poi finire omologati nel calderone mondiale di Stephenie Meyer di "Twilight", con i suoi vampiri da supermercato. A occhio e croce, nel crepuscolo della Penisola, l'italianità è ancora tutta da fabbricare.