L’Espresso
L'Espresso, 12/02/2009
Scusi, ma lei che ci va a fare a Bruxelles?
Alla fine, dopo tutti i sofismi sulla nuova legge elettorale (compresa la bella invenzione secondo cui lo sbarramento esisterebbe in "tutti" i paesi dell'Unione), le elezioni europee tornano a essere lo strumento per mandare a Strasburgo e a Bruxelles alcuni gruppi di deputati. I quali, prima ancora di candidarsi, dovrebbero fare un piccolo piacere ai cittadini. Cioè dire con chiarezza che cosa andranno a fare nel Parlamento europeo. A titolo di esempio, sarebbe utile che non andassero a rappresentare le sorti della libertà contro l'oscurantismo comunista, e nemmeno a illuminare con la loro presenza mediatica la grigia burocrazia dell'Unione. Perché ogni volta le elezioni europee risultano a metà fra un supersondaggio e una truffa. Il sondaggio, vabbè. Ma l'imbroglio dei leader politici nazionali candidati come specchietto per le allodole e la trasformazione di una consultazione europea in un giochetto da cortile, quello sarebbe ora di archiviarlo. Ancora adesso, nonostante anni di delegittimazione dell'Ue, culminati a suo tempo negli esorcismi contro l'euro (qualcuno sa dove saremmo adesso senza la moneta unica?), in Italia prevale un atteggiamento favorevole verso l'Europa. Una posizione che i candidati dovrebbero tenere in bella vista e cercare di riempire di contenuti. Non si tratta di temi astratti. C'è la questione del partenariato euro-mediterraneo, rilanciato da Sarkozy con l'Unione per il Mediterraneo, a cui si collega il tema della politica di immigrazione e di asilo. Già: si può rispondere ai clandestini con la faccia feroce, come auspica Roberto Maroni, oppure allestendo politiche comuni. Mentre si esibiranno in campagna elettorale, potrebbero dirci i candidati, studiato qualche dossier, come intendono procedere? E farebbero il favore di segnalare come si collocheranno rispetto alla modernizzazione del modello europeo di società e di economia, soprattutto durante la crisi che investe il mondo? Hanno qualcosa da dire sulle politiche energetiche e sul problema del cambiamento climatico? Sulle relazioni internazionali e il rapporto con le nuove potenze asiatiche? Il fatto è che la presenza nell'Europarlamento rischia di mettere allo scoperto il provincialismo della discussione politica italiana, il ruolo di mosca cocchiera di Berlusconi nei rapporti internazionali, l'improvvisazione scolastica sulle scelte energetiche, il dilettantismo parolibero di una classe dirigente che quando parla delle istituzioni europee si limita a fare delle ironie sui regolamenti a proposito della curvatura e il diametro delle zucchine (senza sapere che in realtà le norme sugli ortaggi, che fanno ridere ministri e professori euroscettici come Marcello Pera, sono state abolite). Il fatto è che i poteri dell'Assemblea europea sono in progressivo aumento. Investono le spese per la politica di coesione, con riflessi importanti sui fondi per le nostre regioni, i finanziamenti per la ricerca e l'ambiente, le regole per ciò che riguarda cittadinanza e immigrazione. Ce n'è abbastanza per concludere: astenersi perditempo, parolai, uomini e donne di spettacolo, gente da talk show, trombati vari, sindaci in scarica, ideologi, astrologi, cantanti. Il popolo europeo ve ne sarà grato.
L'Espresso, 19/02/2009
Fratello trendsetter
Ci sono alcuni motivi molto seri che possono indurre a guardare "Grande Fratello", il reality primigenio giunto alla 9ª edizione, ma fra questi ce n'è uno più curioso degli altri. Guardate il reality, osservate i relativi personaggi, quella con la sesta di reggiseno, quegli altri che fumano contro tutte le indicazioni della moda, quelli che fanno le effusioni hot (o che le raccontano), quella con la "panza de fuori" che si siede sulle ginocchia di quell'altro, e non vedrete, no, un ritratto della società italiana contemporanea. Vedrete piuttosto un ritratto della società domestica futura. Perché un reality come "Grande Fratello" screma la collettività e individua figure di soglia, di limite, di crinale. Sceglie protagonisti che oggi non sono nella media (sono oltre), ma che imporranno il gusto e lo stile di massa facendoli adottare su scala di massa. Insomma, sono trendsetter più o meno volontari. Lentamente i venti-trentenni dell'Italia precaria ne imiteranno il gusto, i modi e le chiacchiere. Il GF Style diventerà omologato. È per questo che, anche se è sempre la stessa futile solfa, "Grande Fratello" tiene alta l'audience e febbrile l'interesse. Perché se facesse vedere l'Italia attuale sarebbe uno spettacolo scontato. Invece fa vedere un'Italia che verrà, che magari ci fa ribrezzo, ma che sappiamo destinata a diventare reale. Però, che forza: accendere la tv e gettare uno sguardo nel futuro. Mica male come idea. Una finestra sull'avvenire. (Confessate che questa interpretazione non l'avevate ancora trovata. Eh, succede a scegliersi critici sofisticati. Buona visione, amici, e se l'Italia futura vi fa orrore, fate un po' di sano zapping. Magari c'è anche di peggio, in giro).
L'Espresso, 19/02/2009
Quei secondi Fini
Si può ricorrere al concetto della "grazia di Stato", che consente di assumere quasi per prodigio la dignità richiesta dalla funzione istituzionale esercitata. Detto in modo più semplice: la funzione crea l'organo. Questo darwinismo popolare viene buono per provare a decifrare l'azione di Gianfranco Fini, professione presidente della Camera. Dov'è finito il truce postmissino che sbrigativamente si dichiarava contrario al «maestro gay dichiarato»? A mettere in fila le dichiarazioni "sensibili" del capo di Alleanza nazionale si riempirebbe, in bella grafia, un foglio protocollo di carta bollata: al termine del quale, esaminati gli atti di filosemitismo, di «leggi razziali, male assoluto», di voto agli immigrati, di voto in dissenso sulla fecondazione assistita, e qui in ultimo di presa di distanza dal forcing berlusconiano contro il Quirinale, in occasione del caso Englaro, il giudizio sarebbe semplice: promosso, con lode e con sorpresa, a capo della destra "repubblicana". Mettiamoci anche il sarkozismo ludico, la compagna giovane, uno stile di vita che lo differenzia dalla vecchia destra piagnona o beghina, conformista o autoritaria. Ma, sul lato politico, a che cosa punta Gianfranco Fini? Vale a dire: oltre alla funzione, all'organo e a Darwin, c'è qualcos'altro? Possiede un "intelligent design", una strategia, oppure sfoggia come al solito la sua unica vera dote, una versatilità scettica in cui la politica è solo l'arte del possibile? Il primo punto è: sopravvivere. Resistere all'usura che la presidenza della Camera inevitabilmente produce, a causa delle ritualità parlamentari, delle cerimonie, delle inaugurazioni. Tenere in vita un'idea di An che possa differenziarsi, all'interno del Pdl, conservando una fisionomia gratificante per il vecchio partito. E naturalmente pensare alla propria carriera politica. Perché a 57 anni Fini appartiene a una generazione (quella dei D'Alema, dei Bersani, del più anziano Tremonti) che a ogni compleanno di Berlusconi vede restringersi l'orizzonte potenziale. Si tratta di ex giovani che hanno davanti a sé una corsa sola e dunque non possono sbagliarla. Il presidente della Camera porta nel suo zaino anche le insegne di delfino del Cavaliere, come leader del Pdl e premier eventuale: tuttavia, di fronte a un mondo dominato dall'economia anche a crisi finita, risulterà tecnicamente credibile, il "politicus purus" Fini, a succedere a Berlusconi alla guida del Pdl e di un governo futuro? Forse è meglio perlustrare anche altre ipotesi. Il "laico" Fini, il Fini "istituzionale", in asse con il Colle, potrebbe essere il protagonista delle grandi coalizioni, nel caso la recessione facesse emergere la necessità di governi di tenuta nazionale. E sullo sfondo potrebbe presentarsi come candidato per il Quirinale, nel caso che Berlusconi incontrasse al centro e a sinistra ostacoli troppo forti. In ogni caso, gli conviene astrarsi dalla politica quotidiana, lanciare messaggi generali. Solo così può essere l'uomo di tutte le alternative a Silvio.
L'Espresso, 26/02/2009
Soap parade
A questo punto, anche senza scomodare "Across the Universe" e "Mamma mia", ci vorrà pure un bilancio di "Tutti pazzi per amore" (Raiuno, domenica, prima serata, regia di Riccardo Milani). Perché per far digerire un'altra soap ("commedia sentimental-famigliare" secondo la Rai) al pubblico televisivo ci vogliono idee, e in questo caso il soggetto di Ivan Cotroneo è venuto in soccorso: sulla story, perché si sa che le soap devono rappresentare credibilmente sciocche vicende di vita quotidiana, amori, felicità, infelicità, balletti casalinghi. Ma il soccorso autoriale è venuto soprattutto sulle modalità espressive della serie. Ecco, pur riconoscendo tutto il riconoscibile alla regia, al cast tecnico e agli attori (Stefania Rocca, Emilio Solfrizzi, Neri Marcorè e bravi gli altri, fra cui vorremmo segnalare ancora una volta, l'ennesima, la sublime Carla Signoris), è il caso di dire che "Tutti pazzi per amore" deve molto alla trovata di sottolineare i momenti clou con le canzoni (di Umberto Tozzi, Matia Bazar, Jovanotti, Giorgia ecc.). Ci voleva probabilmente l'intuizione di Cotroneo per rinnovare la commedia televisiva all'italiana. E nello stesso tempo occorre sottolineare che questo uso della musica è uno dei modi per reinventare le canzoni e i loro ascolto. Altro che Sanremo, duetti, ospiti, polemicucce fra numeri due, drammi in Riviera. Il principio vero è che una volta le canzoni facevano parte della vita quotidiana (canzoni sotto la doccia, davanti allo specchio). Ora fanno parte delle storie televisive (negli istanti della passione, dello stupore, del ricordo). E poi dite che la televisione non ha sostituito la realtà? Arrendetevi, amici.
L'Espresso, 26/02/2009
indovina chi video
Allora, se abbiamo l'impulso a stupirci o perfino a scandalizzarci al pensiero che a un'edizione normale di "Porta a Porta" assistano 873 bambini fra i 4 e i 7 anni, è meglio che non guardiamo gli altri dati. Ci farebbero male al cuore e allo spirito. Il dato statistico dell'Auditel secondo cui circa 28 mila pargoli hanno assistito alla "storica" puntata del programma di Bruno Vespa andata in onda il 9 febbraio, cioè la sera della morte di Eluana Englaro, potrebbe generare mesti pensieri nelle anime migliori. Ma allora che dire degli oltre 100 mila bimbetti che quella sera stessa hanno guardato la puntata del "Grande Fratello" apprezzando in diretta il grande pianto di quella tale Federica squalificata per eccessi comportamentali contro un partner della Casa? L'idea che la televisione generalista stia gettando i semi per assistere fra una decina d'anni a una scoraggiante fioritura di veline e tronisti tatuati può indubbiamente portare a un sentimento di rassegnata sfiducia nell'umanità, e soprattutto in quella porzione di umanità che abita un format chiamato Italia. Subito dopo, una volta che ci si sia ripresi dallo choc, si può passare ad analizzare i dati sugli ascolti che "L'espresso" ha potuto consultare (si tratta di elaborazioni dello Studio Frasi su dati Auditel e Agb-Nmr). Abbiamo preso in esame i due programmi già citati, "Porta a Porta" e "Grande Fratello", un telefilm di livello alto ("Dr. House"), un programma di intrattenimento di massa ("Ballando con le stelle", condotto da Milly Carlucci) e due esempi fortunati di fiction all'italiana ("L'ispettore Coliandro" e "Tutti pazzi per amore"). Il punto di partenza, come si intuisce, è la drammatica serata del 9 febbraio. All'ora del telegiornale arriva l'annuncio che Eluana è spirata. Un'eco di emozione si sparge nel paese. E in quella lunghissima serata, dopo che a Enrico Mentana è stato impedito di andare in onda con un'edizione speciale di "Matrix", si assiste al confronto epocale fra la trasmissione di Vespa, cioè un programma di bruciante attualità, e il "Grande Fratello" condotto da Alessia Marcuzzi, il reality dei reality. Come sia finita, è noto a tutti. Il pubblico ha premiato la realtà virtuale e ha penalizzato la realtà reale. Poco più di 4 milioni di spettatori per "Porta a Porta", più di 7 milioni e mezzo per "Grande Fratello". A questo punto, come ci si poteva aspettare, è venuto giù il diluvio. In primo luogo per un giudizio di merito, perché molti hanno giudicato poco brillante che Canale 5, la rete ammiraglia di Mediaset, rinunciasse a intervenire sulla vicenda Englaro con il suo talk show di punta, condotto dal suo giornalista più prestigioso. Ma in secondo luogo per stilare un tempestivo referto di agonia dell'opinione pubblica: se la sera di un evento che interpella le coscienze come la morte di Eluana la televisione commerciale preferisce l'intrattenimento voyeuristico, lo "human lab", nel senso di laboratorio, presentato dalla Marcuzzi, e il pubblico "ci sta", basta, kaputt, è morta l'Aida, il paese è berlusconizzato senza rimedio, ipnotizzato dal totem televisivo, in sostanza irrecuperabile alla vita civile. Ma prima di cedere all'ovvia tentazione moralista conviene provare a capire, sulla base degli ascolti di alcuni programmi rappresentativi, com'è fatto il pubblico televisivo. Cioè com'è composto per sesso, per età, quali sono le sue preferenze. I risultati analitici sono elencati nelle tabelle pubblicate in queste pagine. Ma il primo dato d'insieme dell'identikit televisivo degli italiani è quello della divisione per sesso. In sintesi: a quanto dice il rilevamento, effettivamente la tv è un affare per donne e fra donne. Il dato è vistoso per il programma della Carlucci, in cui il pubblico femminile risulta praticamente il doppio di quello maschile (4 milioni contro 2); ma la prevalenza delle donne è un elemento acquisito per tutti i programmi considerati, con il record di "Ballando con le stelle", che spunta uno stratosferico 66 per cento di quote rosa. Ci si può chiedere eventualmente che cosa diavolo facciano i maschi mentre le donne sono attaccate all'apparecchio televisivo, tuttavia nel complesso il risultato è credibile e piuttosto costante. In genere, le donne dell'audience sono una volta e mezzo gli uomini. Il rapporto 1,5 a 1 tende ad ampliarsi con i programmi più popolari e a connotazione sentimental-famigliare, tanto che una soap innovativa nel format ma tradizionale nei contenuti come "Tutti pazzi per amore" sfiora il rapporto due donne per un uomo. Tuttavia gli ascolti di questa fiction, scritta da Ivan Cotroneo, non vanno generalizzati. Come dicono gli analisti, gioca l'elemento "emotional", il fatto di apparire «un incrocio riuscito fra i "Cesaroni" e la narratività gay», quindi capace di colpire al cuore le platee femminili con la miscela di argomenti tradizionali e moduli espressivi trendy. Semmai conviene prendere in esame l'altro parametro generale, l'età dei telespettatori, e vedere che cosa rivela. Sotto questo aspetto, non può lasciare indifferenti che la cuspide di ascolti di "Porta a Porta", tanto nell'edizione normale quanto nell'edizione speciale per la morte di Eluana, si collochi nella fascia degli ultra 65enni (è vero che, fra le due edizioni, il programma di Vespa moltiplica per 9 i telespettatori della fascia 20-24, e per 7 quelli della fascia 25-34, ma su queste fasce generazionali mantiene numeri piuttosto bassi). È questo, allora, il pubblico specifico della Rai, e di Raiuno in particolare? A guardare in confronto la distribuzione per età del "Grande Fratello" la differenza è evidente. Il reality di Canale 5, con il suo glamour da centro estetico, vede una composizione molto più equilibrata nell'intero arco fra i 25 anni e gli oltre 65, anche se impressiona il dato di share nel pubblico fra i 20 e i 24 anni (oltre il 51 per cento, maggioranza assoluta). Per certi aspetti si potrebbe argomentare che almeno sotto il profilo anagrafico il vero programma generalista, capace di sbancare l'Italia attuale, è proprio "Grande Fratello"; che oltretutto vede la sua punta di ascolti nella categoria fra i 35 e i 44 anni (guarda caso, proprio dove è di gran lunga prevalente l'ascolto del "Dr. House", da parte di un pubblico moderno e in grado di apprezzare lo spettacolo televisivo di qualità). Se si esce infatti dalla televisione "di tendenza", si vede che il pubblico anziano la fa da padrone: di misura relativamente a una fast-fiction veloce e intrisa di attualità come "L'ispettore Coliandro", in modo massiccio per ciò che riguarda la soap "Tutti pazzi per amore", in cui quasi la metà degli spettatori sono ultra 55enni; e con una specie di vertiginoso tsunami della terza età per il classicissimo show del sabato sera "Ballando con le stelle", con 2 milioni e mezzo di spettatori over 65 su 6 milioni (e un poderoso e abbondante 42 per cento di share sugli ascolti totali). A guardare la composizione per classi socio-economiche balza invece agli occhi un fenomeno forse prevedibile e tuttavia vistoso: gli ascolti si collocano infatti, per tutti i programmi considerati, nelle due grandi classi "media economica e bassa sociale" e "media economica e alta sociale". Il che farebbe pensare che c'è in effetti una sovrapposizione notevole fra la media dei telespettatori e la società italiana. Anzi, sotto questa luce si potrebbe anche sostenere che la televisione è lo specchio sociologico della realtà italiana, se è vero, come sostenne Giuseppe De Rita, che il nostro paese è «una enorme bolla di ceto medio». E in questo senso il programma maggiormente rappresentativo potrebbe essere proprio "Ballando con le stelle", che grazie a una parata di bambini che piangono davanti all'apparizione registrata del loro idolo Gigi Buffon, di semi-vip come il principe Emanuele Filiberto e di danzatrici opportunamente acconciate fa il pieno come share anche fra le classi socioeconomiche ad alto reddito e ad alta condizione sociale. Bastano questi dati per confermare l'idea secondo cui la televisione generalista è ormai rivolta soprattutto alle cosiddette "nonne di Torre del Greco"? Secondo questa sbrigativa definizione, attribuita ai più scafati operatori televisivi, si intendono immense platee di pensionate, preferibilmente meridionali, a reddito non elevato, scarsamente scolarizzate, fortemente esposte al mezzo televisivo. In realtà la televisione generalista sembra dividersi in due parti: da un lato i programmi per il pubblico più convenzionale, a cui si rivolgono trasmissioni strutturate a uso e consumo di persone tendenzialmente anziane e di fascia socioeconomica media, all'insegna della prevedibilità più facile e immediata; e per un altro verso le trasmissioni che dinamizzano il pubblico, impongono fenomeni di gusto e generano sperimentazione televisiva. Da questo punto di vista, "Porta a Porta", anche quando è incentrata su esplosive vicende di cronaca, è televisione tradizionale, perfettamente riconoscibile da spettatori abituati al consumo di un prodotto standardizzato. Mentre "Grande Fratello" potrà anche fare orrore all'intellighenzia e ai ceti medi riflessivi, ma su 7 milioni di spettatori ne movimenta oltre 3 nelle classi socioeconomiche più elevate. Senza voler trarre conclusioni troppo generali, si ha allora l'impressione che almeno per alcuni aspetti la tv sia ancora un laboratorio possibile: a fianco ai programmi più consumati, c'è spazio anche per una televisione più sperimentale e innovativa (oltre 4 milioni per il "Dr. House" sono un indizio notevole in questo senso). E quanto all'informazione, anche se "Porta a Porta" troneggia nel palinsesto, forse è venuto il momento perché qualcuno cominci a rivoluzionare anche la formula del talk show, per aggredire fasce di pubblico meno scontate. n
L'Espresso, 26/02/2009
Così il pd va a pezzi
Altro che un cantiere. Il Partito democratico è in piena turbolenza. Alle componenti conosciute dell'«amalgama mal riuscito» (secondo la realistica definizione di Massimo D'Alema) si sommano di continuo elementi di ulteriore conflitto e disturbo. La vittoria inattesa di Matteo Renzi alle primarie per il Comune di Firenze (un boy scout, cattolico e margheritino, che batte un altro rampollo della filiera democristiana, Lapo Pistelli, con l'ala laico-socialista che sta a guardare), il risultato di Renato Soru in Sardegna, la confusa situazione di Bologna, dove il prodiano Delbono deve fronteggiare due candidati alternativi, nonché l'uovo di cuculo rappresentato dalla sinistra a naso arricciato di Gianfranco Pasquino. Mettiamoci anche la polemica anti-Pd del principe elettore Lorenzo Dellai in Trentino, e ci sono tutti gli ingredienti per fare impazzire la maionese. Eppure la linea vera di divisione corre ancora fra laici e cattolici. O meglio, fra ex della Margherita ed ex Ds. A questo proposito, la vicenda di Eluana Englaro è stata più che significativa: a fronte della colossale strumentalizzazione berlusconiana, salvo rare eccezioni (come la laicità combattiva di Rosy Bindi) il Pd non è riuscito a fare sentire una parola, in quanto partito. Sono stati usati eufemismi, si sono visti eleganti volteggi, sono state pronunciate molte parole politiciste, ma sul caso in sé il Pd non è stato capace di allestire una discussione pubblica seria. In sé, non è un problema se in una formazione politica esistono punti di vista diversi. Non viviamo più nell'epoca dei dogmi ideologici. Proprio per questo sarebbe stato giusto che le differenze di concezione emergessero, con chiarezza e civiltà. E invece si è avuto soltanto il silenzio. C'era anche l'occasione per chiarire davanti all'opinione pubblica che cos'è un partito moderno, che comprende visioni differenziate sui temi etici. Il mutismo ha rappresentato una specie di abdicazione politica e culturale. E il risultato è che le tensioni, rimaste compresse sottotraccia, vengono fuori con una valenza nuova. Circola senza troppi tabù la parola scissione. Un serpeggiare di sospetti avvelena l'ambiente: e tutto questo mentre il Pd si troverà ad affrontare fra poco la dura campagna elettorale per le elezioni europee. Su questo sfondo, la candidatura di una figura come Pier Luigi Bersani alla guida del Pd, in alternativa a Walter Veltroni, ha un significato che forse non era stato messo in conto. Perché l'entrata in campo di Bersani è figlia di Massimo D'Alema e sorella di un rapporto a filo doppio con la Cgil di Guglielmo Epifani. Parlando del passato, Bersani ha definito «una cavolata» il suo ritiro all'epoca delle primarie veltroniane. È bene che se ne sia convinto. Ma, nello stesso tempo, "il più prodiano dei Ds" dovrebbe avere ben chiaro che la sua scommessa politica non è una iniziativa indolore. Nei modi in cui la sua azione si sta sviluppando, ci sono serie probabilità che venga interpretata come un tentativo di caratterizzare nuovamente il Pd come erede del Pci; e questo può alimentare contrasti nei gruppi dirigenti e perfino ulteriori tentazioni scismatiche. Queste cose succedono allorché le aggregazioni politiche non controllano la loro struttura operativa e "istituzionale". A questo punto, sono numerosi gli esponenti cattolici del Pd che guardano con diffidenza all'operazione Bersani-D'Alema e auspicano l'ingresso di un terzo incomodo che rappresenti gli ex della Margherita. È possibile, e anzi molto probabile, che questi siano i contraccolpi di lungo periodo della sconfitta dell'aprile 2008 alle politiche. Nei mesi successivi alla batosta si è fatto il possibile per evitare il confronto, per sfuggire a un faccia a faccia risoluto. Il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi. Striscianti minacce di scissione, attriti fra esponenti di vertice, musi lunghi in periferia. In politica si capisce sempre "dopo" ciò che si doveva capire "prima". E soprattutto, nel caso del Pd, non si è compreso che nella febbrile modernità postpolitica del nostro tempo non c'è più spazio per le ritualità di partito, per le ampie riflessioni, i sottintesi e il dare tempo al tempo. In realtà il Pd è a metà strada fra il tradizionale partito di massa, radicato nel territorio e strutturato nell'organizzazione, e una galassia d'opinione. L'azione di Bersani e D'Alema tende a riportare in auge il passato. Veltroni aveva scommesso sul futuribile. Il risultato, fra laici, cattolici, presente e passato, è una continua tensione, che potrebbe mandare a pezzi l'ultima invenzione per non avere una sinistra eternamente minoritaria.
L'Espresso, 05/03/2009
Serial in divisa di
Ci sarebbe da chiedersi di nuovo perché in una società vagamente anarchica come la nostra abbiano sempre un inevitabile successo in tv le forze dell'ordine. E subito dopo si potrebbe organizzare un referendum fra gli ultimi due serial in materia poliziesca e poliziottesca: 1. "L'ispettore Coliandro" (Raidue); 2. "Il commissario Manara" (Raiuno). Dunque, per capirci qualcosa: Coliandro, investigatore di Bologna, è una creatura dello scrittore Carlo Lucarelli interpretato da Giampaolo Morelli, regia dei Manetti Bros. La definizione di "braccio maldestro della legge" attira immediatamente simpatia, e il fatto che Coliandro evochi alla lontana Thomas Milian, e sia particolarmente pasticcione e imbranato, conferisce sfumature non proprio ovvie a questa fiction. Quanto al commissario Luca Manara, ha sbancato gli ascolti. Innanzitutto ha un bel nome, sonoro, irresistibile. Basta dire "Luca Manara" e si riempie mezza puntata. Poi tratta di un mezzo poliziesco e mezzo sentimentale, ambientato nel centro Italia. Manara (Guido Caprino), moto e giubbotto, ha una vicenda pregressa con l'ispettrice Lara Rubino (Roberta Giarrusso), e questo genera curiosità: le storie fra poliziotti, carabinieri o fiamme gialle hanno sempre un alto tasso di interesse popolare. Noi naturalmente, per questioni campanilistiche, abbiamo una lieve inclinazione per Coliandro. Ma naturalmente siamo pronti a toglierci il cappello, e anche i gradi e le mostrine, oltre che il giubbotto, se invece il referendum premierà Manara. Marescialli, ispettori, commissari: ma allora, vista l'abbondanza, a che cosa servirebbero le ronde con gli appuntati e i brigadieri pensionati?
L'Espresso, 05/03/2009
rischiatutto pd
Era il 21 dicembre del 1994, a Bologna. Nel primo pomeriggio, fra il suono di zampogne e l'odore di croccante del mercatino di Santa Lucia, i congiurati pre-ulivisti arrivarono alla spicciolata in Strada Maggiore al civico 44, cioè nella sede di Nomisma, il centro di studi fondato da Prodi. Si fece avanti un popolare veneto, Gianclaudio Bressa, che era stato sindaco di Belluno, e aveva risanato le finanze comunali applicando qualche efficace schema aziendale, meritandosi la curiosità di Nino Andreatta. Fra gli invitati al tavolo di Nomisma si stagliava la figura di Vannino Chiti, un precursore del rapporto fra ex comunisti e popolari. Arturo Parisi controllava i presenti con il suo sguardo indagatore. Non avrebbe mai immaginato che un giorno si sarebbe immolato per impedire l'elezione plebiscitaria proprio di Franceschini alla segreteria del Pd. Gomiti sulla scrivania, mani sotto il mento, Prodi taceva. Finché prese la parola Bressa: «Romano, tocca a te. Occorre costruire l'alleanza di centrosinistra, e solo tu puoi farlo. Devi metterti a capo di un partito, un movimento, qualsiasi cosa che sblocchi la situazione». Il giovane Franceschini - già, c'era anche lui - annuiva pensosamente. Preistoria. Ma forse fa capire meglio le idee di Franceschini, e il suo modo di guardare la politica. Può darsi insomma che il ferrarese Dario il Traghettatore non sia affatto banale politicamente. È uno che a cinquant'anni spaccati, e con l'aria dell'eterno neolaureato, si è assunto il compito di cantare e portare la croce per sei, sette, otto mesi. Mentre intorno a lui tutti, da Bersani a D'Alema, lo guardano come per dire: vai avanti tu perché a noi scappa da ridere. Cioè per vedere se alla fine il Pd sopravvive. Della sua biografia si sa praticamente tutto: il papà partigiano bianco, la mamma figlia del vecchio podestà fascista, il giuramento solenne sulla Costituzione. Una faccia da "About a Boy", sulle orme del romanziere Nick Hornby, e sulle note della straziante canzone "Killing Me Softly" del relativo film; una professione da brillante avvocato cassazionista, che a un certo punto, nel 1994, non accettò il centrismo di Mino Martinazzoli e filò con la setta dei cristiano-sociali. Un ragazzo politico nato che scrive romanzi ispirati dal realismo magico, come "Nelle vene l'acqua d'argento", subissato di premi in Italia e in Francia, o come "La follia improvvisa di Ignazio Rando", storia di un archivista (e qui siamo ai corsi e ricorsi, perché anche Giovanni Astengo, l'alter ego di Walter Veltroni in "La scoperta dell'alba", era un archivista). Comunque è inutile contare sulle definizioni altrui. Meglio non chiedere al linguacciuto Renzo Lusetti, rutelliano dalla palpebra smorta: «Franceschini? È il primo democristiano eletto segretario di un partito comunista». Secondo Francesco Cossiga, sarà il cattolico che darà una sterzata verso il Pse. Per quelli che amano i giochi di parole, è «Dromedario», sottolineato Dario, l'animale che dovrà tentare la traversata del deserto. Per Emanuele Macaluso, uno dei critici più aspri del Pd, si merita un'apertura di credito: «Dopo Prodi, sembra che nel Pd una politica di sinistra moderata e moderatamente laica possa essere fatta solo da una personalità che proviene dalla Dc e dal mondo cattolico». Per i prodiani, i parisiani, gli ulivisti, Franceschini è un'incognita. Qualcuno invita a guardare al passato. E a non considerare automatiche le mosse del "Dromedario", bestia politica capace di abbinare pazienza, resistenza e velocità. E quindi, e forse, non ci si ritrova proprio a terra. L'ex capogruppo dc nel consiglio comunale di Ferrara ha alle spalle alcune convinzioni e una cultura. Tutt'altro che banale, e più "di sinistra" di quanto non si immagini. E quindi le sue scelte sono ancora tutte da compiere. "Ce la farà?", ha titolato sull'"Unità" Concita De Gregorio, stampando sulla prima pagina di un giornale di certezze un dubbio metafisico. In effetti la road map del neosegretario è piena di buche e irta di ostacoli. A chi gli chiede: vabbè la politica, ma a che punto è il nuovo romanzo?, lui risponde, con il suo incorreggibile accento ferrarese: «Era quasi pronto. Vorrà dire che ora lo terminerò a ottobre, quando avrò un sacco di tempo per me». Si tratta di un understatement, ma ha il pregio di mettere a fuoco i tempi di un mandato in cui il protagonista si gioca tutto, compreso il partito. Intanto però vanno chiarite quali sono le scelte principali da impostare. Perché è pur vero quel che dice il "Dromedario": «Oggi come oggi il territorio è decisivo». Dunque niente partito leggero e leggerezze varie. Significa che c'è da rimettere in tiro un partito battuto e mortificato, inseguito dall'ala della sconfitta, stiracchiato dalle tensioni del partito del Nord che non ne può più dell'oligarchia romana, lacerato dalle discussioni sull'etica e il testamento biologico. Eppure nello stesso tempo è necessario delineare alcune scelte strategiche, da mettere in campo alle europee e nelle importanti elezioni locali di giugno. Su questo terreno la sofferenza è garantita. Ancora Macaluso: «A questo punto c'è da chiarire se il Pd mantiene quella che è stata definita "vocazione maggioritaria" o se occorre costruire un sistema di alleanze, e con chi». Purtroppo non è così semplice. Il Pd è reduce dall'«errore gravissimo» (definizione di Parisi) commesso con la nuova legge per le europee, sbarramento al 4 per cento. Una decisione maturata poco prima delle dimissioni di Veltroni, e che oggi, in una situazione più fluida, di fronte a opzioni aperte sul fronte delle coalizioni possibili, può destare rimpianti. «Ma su questo fronte», dice Enrico Letta, «Franceschini si è già espresso nel suo discorso di investitura: l'arco del possibile va dall'Udc a quella parte di sinistra radicale che accetta di mettersi alla prova del governo». E quindi qual è il punto di leva su cui agire? «Franceschini ha il compito di rovesciare il rapporto fra Roma e i territori. Deve de-romanizzare il Pd». Il tentativo di rivitalizzare la segreteria con le nomine di leader regionali come Chiamparino ed Errani va in questa direzione. Ma si profila un problema in più. Qualcuno sostiene infatti che si sta profilando una crisi acuta della classe politica diessina, anche nelle regioni rosse, testimoniato dall'emergere irresistibile, a Firenze, del boyscout Matteo Renzi, un tipetto talmente evangelico che non ha remore a definire Franceschini «il vicedisastro»; a Bologna è candidato sindaco il centrista e prodiano Flavio Delbono, a Ferrara un altro ex Margherita, Tiziano Tagliani, genero dell'andreottiano di lungo corso Nino Cristofori, ha vinto la corsa per la successione al ds Gaetano Sateriale. A Forlì è diventato sindaco un ex repubblicano, lo storico Roberto Balzani, alla Provincia di Bologna c'è la cattolica Beatrice Draghetti. A sentire il politologo Paolo Pombeni, editorialista del "Messaggero" e delegato all'assemblea del Pd, c'è il rischio di «un Pd in salsa Dc», con possibili esiti di disaffezione della base, con spaccature e diaspora: «Benché la componente centrista nel Pd sia minoritaria, tutto ciò che viene dalle area ex dc, di fronte ai problemi della macchina ex comunista, risulta alla fine più presentabile agli elettori». Per un ex popolare e teorico della Dc come Marco Follini, Franceschini ha più chance di quante a priori molti non fossero disposti a riconoscergli: «Ma il primo problema è cercare di dimostrare che il suo Pd non sarà un veltronismo senza Veltroni. Ho l'impressione che lui non creda molto nell'ipotesi Udc e farà il possibile per accentuare una venatura di sinistra, scegliendo fior da fiore i possibili alleati nell'ex Arcobaleno». Una strategia piuttosto dalemiana. «Sì, ma prima di pensare alle alleanze Franceschini dovrà affrontare le elezioni, e di qui a giugno dovrà inventarsi una narrazione politica. Finora non ha sbagliato: l'antiberlusconismo, la Costituzione, le ronde, "anche un moderato alza la voce di fronte agli strappi di Berlusconi", servono a rigenerare tensione competitiva. E anche a ridurre la concorrenza di Di Pietro. Ma nelle prossime settimane occorrerà mettere le mani nel partito, cioè nell'organizzazione». E questo è nelle corde di un politico «con la faccetta da bravo ragazzo» (Franco Marini)? Sorride, Follini: «Se uno gli cita l'assessore alla sanità della Regione Campania, Angelo Montemarano, Franceschini sa chi è, e che è l'uomo di maggiore potere a Napoli dopo Bassolino». Mentre Veltroni... «A citargli Montemarano, Veltroni spalancava gli occhi stupefatto». n
L'Espresso, 12/03/2009
Scomodo reporter
A qualcuno non piace il giornalismo di Riccardo Iacona. Troppo unilaterale, addirittura "fazioso" (come di solito si dice a destra, dove la faziosità è un programma politico e sociale). Ma Iacona è un reporter che ha il pregio di puntare la telecamera sulle realtà che non si vogliono vedere. Da questa prospettiva, le otto puntate di "Presadiretta" per Raitre (in cui i suoi reportage si alternano a quelli di giovani giornalisti e documentaristi) sono esemplari. Migranti, scuola, lavoro, zingari. Proprio di Rom e Sinti parlava la puntata del 22 febbraio, dedicata alla "caccia" ai nomadi (che quasi sempre nomadi non sono), in seguito replicata su Raisat Extra. Ciò che sorprendeva, dell'inchiesta di Iacona, era il confronto tra la situazione romana e le soluzioni di Barcellona. Qui un campo di prefabbricati in estrema periferia, senza nemmeno l'acqua potabile, là un quartiere dignitoso in città. Troppo facile l'accostamento? Può essere. Comunque "Presadiretta" ha mostrato il caso dei Rom trasferiti dalla comunità in cui vivevano a Roma da decenni a un lager; mentre il servizio dalla Spagna mostrava una condizione civile (gli zingari sono 150 mila in Italia e 750 mila sotto Zapatero: ma se non si risolvono i problemi, qualsiasi numero è un problema). Troppo facile, allora, fare questi paragoni? Ciò che veniva fuori dalla puntata di "Presadiretta" era un insegnamento semplicissimo. Le realtà, anche le più controverse, vanno governate. Se si mettono i Rom in un campo all'estrema periferia della Capitale, se si lascia marcire la questione, ci si possono aspettare problemi continui. Per risolverli, si potrebbe abrogare Iacona. Ma non è una soluzione.
L'Espresso, 19/03/2009
Formula Matrix
C'è chi ha fatto il musetto perché la nuova edizione di "Matrix", condotta da Alessio Vinci, è cominciata con l'intrattenimento, ovvero con la presenza di Maria De Filippi, la prima divinità di "Amici". Ma come, era il sottinteso, mentre la cronaca pubblica è affollata di dibattiti formidabili, qui ci si dà al cazzeggio? Ecco, bisogna intendersi. Noi siamo inclini da sempre a pensare che la tv sia tutta intrattenimento puro, e che anche i talk show più pregiati siano una combinazione di informazione ed evasione (ciò che va sotto l'ormai classica definizione di "infotainment"). D'altronde, tutti sanno che Bruno Vespa ha spesso alternato alle serate di politica e delitti certe puntate di "Porta a Porta" dedicate a temi leggerissimi, dalla gastronomia ai cantanti. E lo stesso Enrico Mentana cercava di sfuggire alla ripetitività della politica organizzando serate sugli ultimi comici o su Lucio Battisti. Ma il discorso si può approfondire. A "Ballarò" le facce sono spesso le stesse, con l'effetto teatrino che incombe (e Giovanni Floris che cammina su e giù per lo studio, nei momenti topici, con effetti atletici). E ad "Annozero" il format è precisissimo: si comincia con il severo e sublime cabaret politico di Marco Travaglio, e si finisce con le vignette di Vauro. In mezzo, qualche volta, il genio della Guzzanti (a proposito, formidabile quando fa D'Alema, meno quando fa Berlusconi). Conclusione: lasciamo che Vinci faccia il suo mestiere. E che Mentana, dovunque sia, inventi un'altra formula per il talk show: già, adesso che il legame con Mediaset si è sciolto, "Chicco" ha l'obbligo culturale di stupire l'audience. Noi restiamo in fiduciosa attesa.
L'Espresso, 19/03/2009
In sei mesi cambio tutto
Mai sottovalutare uno che viene dalla Dc. Difatti anche Berlusconi lo guarda con attenzione sospettosa. «Buca il video, con quella faccia da bravo ragazzo». Comunque, per essere un giovane vecchio dc, Dario Franceschini si muove come un vietcong. Attacchi rapidi, sortite veloci, ritirate tattiche, il contropiede dell'assegno di disoccupazione ai precari licenziati, e poi la polemica sull'Election Day, «risparmiamo 400 miliardi e mettiamoli nella sicurezza». E adesso per qualcuno questa è la vera strategia del nuovo segretario del Pd. La sua innovazione rispetto al veltronismo. Tecnica della guerriglia. Il dito nella piaga. Sarcasmo di fronte alle verità dogmatiche dei berluscones. A dirglielo, Franceschini ride: «La mia deriva a sinistra è inarrestabile». Rida pure, segretario. Se ne sentiva il bisogno. Ma intanto i sondaggi sono sanguinosi. Lei scherza con il fuoco, o il gelo, del 22 per cento. «Guardi, non commetterò di nuovo l'errore di non credere ai sondaggi. Ma prima dei sondaggi c'era il clima che respiravamo in giro, nelle sedi del Pd, nei luoghi di incontro». Una delusione avvertibile. «Un misto di delusione e di sfiducia, ma anche di rabbia, perché molti hanno la sensazione che stiamo perdendo un'occasione. Per me questa rabbia è positiva: è un sentimento verso qualcosa a cui si sente di appartenere, per simpatia, per affetto. Ma è per questo che credo che si possa ripartire: perché non credo affatto che i nostri elettori possano passare a destra. Alle europee non credo affatto in un cambio di campo dei nostri elettori più moderati». Che il Pd perda mentre il Pdl guadagna è indubitabile. «Ma noi perdiamo eventualmente verso l'area della protesta. Ci sono flussi di consenso che si staccano dal Pd e si rivolgono all'astensione, o verso Di Pietro, che rappresenta una reazione emotiva alle nostre difficoltà. E della nostra democrazia, aggiungo». Ci vorrebbe una buona diagnosi del perché. «Le ragioni sono molteplici. In questi mesi abbiamo visto all'opera un Pd che ha ereditato i problemi dell'Unione, le sue divisioni, non le ragioni di coesione. Vede, i media si sono specializzati negli anni del centrosinistra largo, la coalizione di Prodi, mostrandone tutta la rissosità interna. E il Pd è andato sui giornali più per la litigiosità intestina, e per gli attacchi ingiusti alla leadership, che per la sua capacità progettuale o la qualità della sua opposizione». Non dia la colpa ai giornali. «Me ne guardo bene. Ma l'informazione ha fatto da cassa di risonanza ai contrasti interni. Siamo stati noi a non dare tempo a Veltroni. Nel Regno Unito, Tony Blair ha fatto l'opposizione per tre anni, prima di giocarsela con Major; Zapatero è stato in attesa anche lui per tre anni, la Merkel cinque. A tutti i leader europei è stato dato il tempo per prepararsi alla competizione». Il fatto è che il Pd è nato e vissuto in modo trafelato. E affannosa è parsa a molti anche la scelta di "correre da soli", cioè il programma di alleanze fondato sulla vocazione maggioritaria. «Ma quella scelta non è mai stata messa in discussione. Nessuno può avere nostalgie per la coalizione a 11. Ad alleanze come quella non torneremo più». E come pensate allora di raggiungere la maggioranza dei consensi? «Il tempo delle alleanze verrà, e si tratterà di comporre una coalizione, nel campo alternativo alla destra: su questo non devono esserci dubbi». E quindi il rapporto con l'Udc, a cui guardano con interesse Enrico Letta e Francesco Rutelli? «Noi non dobbiamo allargare l'alleanza solo per ragioni tattiche. E neanche farci risucchiare in operazioni trasformistiche. Quando verrà il momento costituiremo una coalizione elettorale fondata su criteri chiari, e sull'intenzione esplicita di governare il paese: purché, ripeto, sia alternativa alla destra». Lei parla di alternativa alla destra ma sulla presidenza della Rai avete perseguito un accordo. «Questo è l'effetto di una legge assurda, che prevede la maggioranza dei due terzi nella Commissione di vigilanza per scegliere il presidente, nel contesto di un Cda già politicizzato. Io sono stato costretto a una trattativa sgradevole proprio da questa legge. In ogni caso, ci impegneremo a fondo per cambiarla». Torniamo al Pd. Lei parlava di delusione e rabbia del vostro elettorato. «La prima delusione deriva da una speranza delusa: si sperava che la costruzione reale del Pd fosse più veloce. Certo, non si poteva fare in due settimane, dato che mescolare storie, tradizioni, abitudini, culture politiche era difficile». Per la verità a un certo punto sembrava che le differenze fossero svanite. Sono venute fuori di nuovo dopo la sconfitta elettorale. «È bene fare i conti sino in fondo con un bilancio provvisorio che contiene elementi positivi e negativi. Positivo è il fatto che il mescolamento dei Ds e degli aderenti alla Margherita è avvenuto, in pochi mesi. Di negativo c'è che si è vista poca apertura verso l'esterno: se alle primarie di Veltroni hanno partecipato più di tre milioni di simpatizzanti, e c'erano un milione di iscritti ai partiti promotori, nella formazione dei gruppi dirigenti non si è dato poi ascolto e spazio a quei due milioni che hanno scelto di avvicinarsi alla politica con la nascita del Pd». Ora si rischia di nuovo la paralisi del sistema. «Non credo affatto all'immutabilità dei blocchi elettorali. L'Italia è maturata politicamente: milioni di persone decidono come votare in base a scelte pragmatiche, alle risposte dei partiti, al profilo dei candidati». Sicuro che l'elettorato sia così disincantato? In realtà c'è il timore che si stia riformando il bipartitismo imperfetto degli anni Sessanta, con un blocco inamovibile al potere e un'opposizione non competitiva. «No, resto convinto che il paese è contendibile. Per renderlo tale nel concreto, Berlusconi va incalzato sulla capacità di governare. Loro non stanno governando: continuano a mobilitare il consenso, con gli annunci, e sono in campagna elettorale permanente. Alla fine l'opinione pubblica si stancherà di sentirsi promettere sette-volte-sette sempre le stesse cose, gli stessi finanziamenti, le stesse risorse...». Quindi lei nega che Berlusconi possa capitalizzare una specie di riflesso d'ordine, un consenso inerziale simile a quello dc del passato. «Guardiamolo da un punto di vista meno contingente e meno provinciale. Ci troviamo a un vero punto di svolta. Dopo gli otto anni di Bush stiamo assistendo all'esaurimento del modello secondo cui c'è sempre una risposta automatica ai problemi sociali e questa risposta si trova nel mercato: il mercato sopra tutto e il benessere crescerà per tutti». Tutto questo crolla con la crisi, ma occorre vedere se questo fallimento del modello apre prospettive politiche alternative. «La destra ha cavalcato il modello neoliberista, e ora passa a cavalcare le paure». Anche i riformisti sono stati succubi del modello. «Il riformismo ha avuto il torto di proporre solo correttivi timidi. Io adesso dico che questa crisi offre possibilità ingenti, in primo luogo per riscrivere la gerarchia dei valori». E che cosa dice questa gerarchia? «Che occorre affrontare i problemi contingenti sempre riferendoli a un disegno generale: e questo modello non è timido, deve rovesciare l'idea che la società è costretta ad accettare le diseguaglianze esasperate. Obama non ha proposto correttivi modesti, ma una formula radicalmente nuova». I problemi nuovi sono scomodi. «Vogliamo prendere il più scomodo di tutti? L'immigrazione, naturalmente. Che porta differenze, la presenza di culture altre. Che tuttavia fanno nascere società più giovani e colorate di quelle rinchiuse nella paura. Me lo faccia dire: io provo orrore per gli uomini politici che guardano soltanto agli interessi contingenti. Questa non è politica. Io credo che occorra uno choc culturale rispetto all'idea che i riformisti devono dire cose di destra con un po' di equità sociale aggiunta». Franceschini, questa tirata contro il conservatorismo compassionevole è la prova della sua deriva a sinistra. «Significa pensare la comunità in modo diverso rispetto ai dogmi in vigore fino all'altro ieri. E non soltanto in economia. Per esempio: ho giurato sulla Costituzione, in un luogo simbolico a Ferrara, dove c'era stato un eccidio di antifascisti nella "lunga notte del 1943", e ho avuto la sensazione stordente che nemmeno quello sia ormai un patrimonio di valori condiviso, come è stato per tutta la prima Repubblica. Nessuno allora avrebbe accusato un uomo politico di deriva a sinistra per aver parlato di Resistenza e antifascismo». Non chiuda gli occhi. Il patrimonio di valori è quello della televisione. «E allora il problema non consiste nel battersi per ottenere un minuto in più al tg, ma cambiare il modello di comunicazione, uscire dalla dittatura del consumo e del glamour straccione...». Vasto programma, segretario. «Perché se si accetta quel modello, scattano gli egoismi: intendo gli egoismi territoriali, sociali, corporativi. La regola è "mors tua vita mea", un darwinismo che socialmente fa paura. Per questo occorre una gerarchia di valori alternativa». Per ora il Pd è più modestamente al "primum vivere". «Ma vivere senza filosofare è impossibile, mi creda. Se ci si ferma al "primum vivere" si cede subito al ricatto delle "asticelle", alle percentuali minime che dobbiamo spuntare alle europee e alle amministrative». Esercizio che non le piace, com'è ovvio. «Per niente. Abbiamo due obiettivi veri. Il primo è la conferma della validità del progetto del Pd. Il secondo consiste nel dimostrare una vitalità alternativa al berlusconismo. Il premier in Sardegna si è impegnato a dismisura, ci ha messo la faccia, i comizi, le tv: si è chiesto perché? ». Me lo sono chiesto, ma la risposta la dia lei. «Perché la Sardegna era la prova generale per quello che potrebbe venire dopo. Berlusconi non voleva vincere, ma stravincere. E se stravince alle europee, grazie all'astensionismo e alla delusione nel nostro campo, quello che potrà fare dal giorno dopo è inimmaginabile». Adesso è lei che cavalca la paura. «Cavalco il realismo. Ci sono segnali sufficienti per capire che Berlusconi metterà in campo un disegno di riprogettazione istituzionale, di svuotamento della Costituzione e del Parlamento in chiave decisionista». E lei nei suoi sei mesi che cosa crede di poter fare? «Abbiamo due obiettivi principali. Dobbiamo dimostrare che Berlusconi e il suo disegno possono essere battuti. E poi costruire davvero il Pd, nelle sue strutture, nella sua classe dirigente». E agli esuli in patria, ai delusi di Ilvo Diamanti, che cosa dice? «Se sono esuli in patria, vuol dire che la loro patria è il Pd. Per questo non sono sfiduciato. Veltroni me lo aveva detto: vedrai che se me ne vado cambia il clima». Lei ha cominciato con qualche successo. Era da tempo che il Pd non coglieva risultati contro il governo. «C'era una strategia precisa, nascondere la crisi parlando d'altro, fino a creare l'oscuramento, come è avvenuto con l'oscena strumentalizzazione del caso Englaro. Occorreva impedire che la crisi diventasse un fenomeno collettivo e consapevole». E che cosa significa costruire davvero il Pd? «Vuol dire costruire un partito aperto, con migliaia di dirigenti impegnati, capace di fare un'opposizione propositiva ma dura e intransigente, mettendo in primo piano i ceti deboli e i valori fondanti. Dimostrare che tutte le personalità del Pd possono darsi il compito di lavorare insieme per ottenere questi risultati». Non si è ancora capito qual è veramente l'obiettivo sociale del Pd. Nel 1996 Prodi era chiaro: modernizzazione più solidarietà. E oggi? «Oggi siamo in un altro quadro. Siamo alla rottura di una fase. Dobbiamo proporre un mondo in cui la società civile è più forte del mercato, e la regola non è soltanto quella del profitto, con i risultati che si sono visti». Guardi che sei mesi non le bastano, segretario. «Bastano e avanzano, se abbiamo le idee chiare». n
L'Espresso, 19/03/2009
L’illusione al potere
Sarà la consapevolezza per cui è lunghissimo il tempo necessario prima di avere a disposizione una rivincita elettorale. Sarà pure la sensazione che l'opposizione è in difficoltà permanente, perché nulla nuoce alle forze politiche, in questa tarda modernità dove si conta molto o non si conta nulla, più dello stare fuori dal circuito del potere. Ma il sospetto che circola è che la società italiana si stia abituando a Silvio Berlusconi, e al suo stile di governo, ciò che va sotto il nome di berlusconismo. Adesso lo si è capito: Berlusconi e i suoi uomini non rappresentano nessuna ideologia o linea culturale. Il liberismo sbandierato a lungo è diventato un antiliberismo cauteloso, gestito soprattutto dall'abilità di Giulio Tremonti, un maestro nell'instillare negli altri, alleati e avversari, acuti complessi di inferiorità. In questi ultimi tempi, la statura politica di Tremonti è molto aumentata, la sua capacità di descrivere l'andamento della crisi lo ha reso più credibile, e anche alcuni suoi provvedimenti, come i Tremonti bond, nonostante alcuni limiti tecnici difficilmente comprensibili, legati a un tasso d'interesse troppo elevato per le banche, sono apparsi una risposta significativa alla crisi del credito. Non conta che le doti predittive del ministro dell'Economia siano state contraddette dalle sue misure empiriche (tipo la tassazione sui sovraprofitti delle banche, la Robin Tax, che ora ha assunto un risvolto grottesco). In questo momento la forza del berlusconismo è rappresentata dalla sua sostanziale assenza di linea politica. Soltanto con sforzi analitici immani sarebbe possibile ricostruire la girandola di provvedimenti veri e presunti che dovrebbero avere movimentato risorse per reagire alla crisi economica. Tanto per dire, la crisi è stata a lungo negata. Poi minimizzata. Attribuita ai processi «autoavverantisi» della comunicazione globale. Adesso, mentre tutto il mondo cerca soluzioni per fare riprendere la circolazione del sangue nel corpo irrigidito del capitalismo tardomoderno, qui da noi Berlusconi ha lanciato un progetto di sostanziale liberalizzazione dell'edilizia, basato sul principio di buon senso antico secondo cui «quando va bene l'edilizia va bene anche tutto il resto». Se si tratti di un provvedimento salutare lo diranno gli economisti, e se si tratti di un rischio di totale cementificazione del Paese lo chiariranno gli ambientalisti e i tecnici. Nel frattempo però non può sfuggire l'idea che siamo in presenza di una vera e propria invenzione estemporanea: di quelle idee che si formulano di solito nei bar, dove c'è sempre qualcuno che possiede la formula per risolvere problemi estremamente complessi con soluzioni infinitamente semplici. Semplici sono le soluzioni di Berlusconi, le formule della Gelmini, le ricette di Brunetta. È probabile che non ne funzionerà neanche una, così come non ha funzionato l'invenzione paternalistica della social card, fallita in una serie di traversie tecniche e demografiche. Ma nello stesso tempo si ha l'impressione che proprio la sostanziale mediocrità operativa del governo e dei ministri risulti ben accetta a una parte consistente dell'opinione pubblica. Il governo usa infatti la tecnica manzoniana del "troncare e sopire", addormenta i conflitti, li orienta verso obiettivi facilmente identificabili come la Cgil, rassicura a parole e con il controllo sempre più stretto della televisione. Trasmette un messaggio che dice: «Va tutto quasi bene». Il governo lavora, progetta riforme straordinarie, «e grazie alla deflazione gli italiani hanno nel portafogli qualche euro in più». Poi la crisi diventerà più acuta, le riforme straordinarie risulteranno un papocchio, e la crisi si farà sentire di brutto. Ma a meno di catastrofi sociali non augurabili, il consenso non ne risentirà, perché a Berlusconi è riuscita l'operazione di accorpare intorno al Pdl la vecchia Italia corporativa, che non desidera cambiamenti e anzi li teme. Per scalzare il consenso del blocco berlusconiano ci vuole una fantasia e una forza politica che il Pd non ha. Detto con parole più ottimistiche: non ha ancora. Ma per risultare minimamente competitivo, il Pd deve formulare un progetto semplice e moderno, capace di mobilitare il consenso dei propri elettori (anche dei delusi, i senza patria, gli esuli, come li ha chiamati Ilvo Diamanti su "Repubblica") e di parlare a tutto il Paese. Se il centrosinistra non riesce a offrire un'idea alternativa di società, e un'idea convincente, Berlusconi vincerà sempre a mani basse. Perché a sinistra si è sempre scommesso sull'esistenza possibile di un'Italia migliore. Mentre ogni giorno che passa Berlusconi dice agli italiani: «Lo vedete, sono uno di voi».