L’Espresso
L'Espresso, 26/03/2009
S’io fossi Littizzetto
Vista la puntata di "Che tempo che fa" dell'8 marzo, dedicata a Luciana Littizzetto. Per lo scrivente era quasi un obbligo, perché siamo stati noi de "L'espresso" a sdoganare sul fronte culturale la madamina, ai tempi del primo libro che avrebbe dato il via alla coltivazione di titoli su sedani, cavoli e piselli. Ebbene: noi abbiamo un'adorazione, e anche qualcosa di più audace, per lei; ma lei, madama Littizzetto, sta battendo in testa. È diventata ripetitiva. Tutta una puntata a ridire che gli uomini farebbero bene a lavarsi i piedi, che ce l'hanno corto o credono di averlo corto (il che è lo stesso), e via ribadendo. Fabio Fazio aveva la faccia professionale di chi è costretto a risentire per l'ennesima volta la solfa. Quindi, dovremmo consigliare alla formidabile Littizzetto un certo rinnovamento del repertorio. Perché prima era una ragazzaccia sboccata, fisica, "material girl" nel vero senso del termine, con una comicità davvero "slapstick" (in Italia non c'è quasi nessuno capace di farla: solo lei e Corrado Guzzanti). Adesso sembra la parodia di una suocerina. Triste, diventare suocere prima di essere state mogli. Tuttavia il programma è stato riscattato dall'irruzione finale di Daniele Liotti, Massimo Ghini e Riccardo Scamarcio, che hanno celebrato la Littizzetto reinterpretando il celeberrimo "S'i' fosse foco" di Cecco Angiolieri. Una performance tutta scritta, in crescendo, sempre al confine con la volgarità senza mai cadervi: «S'io fossi di Trapani... ti trapanerei! S'io fossi di Chiavari...», pausa, e ancora pausa, «ti... sorprenderei!». Un pezzo di televisione da antologia, una di quelle prove d'autore e d'attore che avvengono sì e no ogni dieci anni.
L'Espresso, 26/03/2009
LI CHIAMAVANO TRINITA’
Va tutto bene, anzi quasi bene, per il Popolo della libertà. Nel giro di una settimana si assisterà allo scioglimento di Alleanza nazionale, e subito dopo al congresso di fondazione del Pdl. Il "quasi bene", l'andamento quasi ottimo, del partito del predellino è dovuto più che altro al suo abbrivio inerziale: gli italiani si stanno abituando al berlusconismo, il potere del Cavaliere è assoluto, l'occupazione "manu militari" dell'informazione procede in apparenza senza scampo e con resistenze sempre più fioche. E allora che cosa manca? Che cos'è quel prurito così fastidioso sulla fronte del Conducator, dove sarebbero i problemi? Il leggero calo di popolarità di Silvio Berlusconi? Ma è chiaro che siamo di fronte a un fenomeno fisiologico. Oppure la sfrontatezza di Emma Marcegaglia che dal soglio della Confindustria chiede «soldi veri», lasciando intendere che quelli messi finora in circolo dalle cifre in girandola del governo sono stati soldi figurativi? Ma no, basta una dichiarazione del premier per tornare nel clima della luna di miele, con Berlusconi pesce nell'acqua del suo elettorato di commercianti, imprese, avvocati, professionisti, commercialisti, lavoratori autonomi. Eppure, quando nasce un partito nuovo, soprattutto se è in gioco l'accrocchio fra due partiti esistenti, le tensioni ci sono sempre. Scontri fra personalità, attriti fra ruoli e candidati (veri o virtuali) alla successione dell'imperatore. In questo momento l'apparente bonaccia è agitata in realtà dal conflitto strisciante fra i tre protagonisti del Pdl. Si tratta di Berlusconi, naturalmente, e subito dopo delle due personalità politicamente e culturalmente più forti del Pdl, ossia Gianfranco Fini e Giulio Tremonti. A osservarne le mosse, sembra di assistere ai fasti dei Tre Tenori. Ciascuno intona la propria canzone, tira fuori il fazzoletto, si sgola, accenna alle prime note del "Nessun dorma" per preparare infine l'acuto del "Vincerò". Ma in realtà nessuno di loro sembra in grado di arrivare al do di petto. Per la prima volta, infatti, i sondaggi sono cedenti per Berlusconi. Continuava a dire che erano «imbarazzanti», perché da quelle quote stratosferiche si poteva solo cadere, ed ecco qua il primo vero scivolone. Tutto questo nonostante l'attivismo, la stravittoria in Sardegna, le polemiche efficientiste con il Quirinale, il cavalco del caso Englaro, le smanie presidenzialiste, la continua e stridula richiesta di governare con i decreti, gli attacchi alla Costituzione "sovietica" per superare la continua impasse parlamentare. Tuttavia, in realtà, il tenore Berlusconi non ha ben chiaro quale sia l'obiettivo a cui indirizzarsi. La gestione della crisi non dipende dall'andamento dell'economia italiana, e le trovate come la riforma delle licenze edilizie appartengono più al Berlusconi imprenditore, al vecchio "muratorino", che non all'uomo di governo. Alla fine, buon sangue non mente, e il Cavaliere torna sempre al mattone. Ma la verità è che un superottimista, un miracolista, un uomo di acuti e sovracuti come il capo del governo non si trova a suo agio dentro la crisi economica, si sente sconfortato nella decrescita, soffre con la deflazione e le aziende in sofferenza. È una specie di Carreras, il piccoletto tutto nervi e dinamismo, che si trova impastoiato in un teatro senza mezzi, fra quinte da ridipingere, macchine di scena arrugginite, comparse svogliate, e sullo sfondo figuranti forse infidi. È anche per questo che il Tenore numero due, cioè la figura pavarottiana di Gianfranco Fini, individua di continuo possibilità di uscita in scena per raccogliere applausi scroscianti. Come Pavarotti l'Emiliano, anche il bolognese Fini non ha specializzazioni e culture precise, né spartiti dogmatici: va volentieri a orecchio, fa il laico quando il Pdl si aspetterebbe posizioni confessionali, esercita il parlamentarismo mentre Berlusconi strappa in chiave decisionista, si picca di presentarsi come il garante di quella che al premier appare una democrazia "discutidora" e pigra. È per questo che sulle bacheche Web i berluscones più accesi lo additano praticamente come un traditore. Insulti a sangue, ripicche sdegnose, «vattene con Casini, sei come lui». Ma il calcolo di un animale politico a sangue freddo come Fini è razionale: se c'è un erede possibile del berlusconismo è lui, uomo pratico sradicatosi con tempestività dal postfascismo, che non sembra avere più nulla che fare con la destra-destra, i suoi simulacri e i suoi simboli. Dalla sua, Fini ha un pragmatismo politicante che gli consentirebbe, in futuro, di gestire l'Armada berlusconica senza alcun pregiudizio ideologico. È un buon pokerista, capace di sorrisetti in grado di camuffare il bluff e di rilanciare senza batter ciglio. Anche se molti fra i colonnelli di An lo detestano, Fini si staglia di una spanna su tutti i suoi colleghi di partito: Gianni Alemanno sta subendo i contraccolpi dell'ingovernabilità di Roma, i berluscones di complemento La Russa e Gasparri recitano un ruolo che li accredita come cabarettisti dell'esecutivo più che come leader potenziali, i supergovernativi come Altero Matteoli si sono ritagliati una particina personale, ma senza alcuna ragionevole ambizione su un piano più generale. Ma proprio in quanto elemento borderline, Fini subirà moltissimo la concorrenza del terzo Tenore, Giulio Tremonti. Ecco, il ministro dell'Economia è la vera voce fuori registro nel coro della destra. Viene facile accostarlo a don Placido Domingo perché ha una varietà linguistica e musicale amplissima. Ha cominciato da tenore, con acuti formidabili in chiave liberista (taglio delle tasse, economia "supply side" all'americana, liberismo sbrigliato a sostegno dei miracolissimi berlusconiani e del "meno tasse per tutti"), e sta finendo nella veste del baritono, su toni scuri, su note gravi, su accenti pensosi, dentro un melodramma che minaccia di finire in tragedia. Il cultore e analista della "lex mercatoria", che sta prendendo il sopravvento sui liberisti classici e sui neoliberisti dogmatici, vede il ritorno del primato delle istituzioni, «e non perché lo Stato ha trionfato, ma perché il mercato ha fallito». Ora, Tremonti ha un vantaggio sugli altri due tenorissimi del Pdl. Ha la sfrontatezza della cultura, e la convinzione della forza del proprio approccio. Talvolta sfiora la metafisica, come nella conclusione del suo saggio "La paura e la speranza", dove la soluzione ai problemi pratici della crisi è prospettata con il ritorno ai Valori, con la maiuscola. Ma mentre Berlusconi è empirismo puro nella sintonia con gli animal spirits, squilli di tromba e «procomberò sol io», mentre Fini appare come pragmatismo trapiantato nella "politique politicienne", Domingo- Tremonti, mezzo baritono e mezzo tenore, è il portatore di una cultura: lui la chiama economia sociale di mercato, come la "soziale Marktwirtschaft" dei liberali di "Ordo", la rivista di Friburgo in cui studiosi come Eucken e Roepke progettarono la teoria del "modello renano" (il mercato, fin che ce la fa; lo Stato, quando il mercato non ce la può fare). Ma in realtà Tremonti è un pensatore ancora più insidioso: perché con la sua polemica contro la globalizzazione sta plasmando un modello culturale che recupera dal passato alcuni tratti del corporativismo, ripesca nella tradizione giuridica della prima metà del Novecento, e sul piano fattuale cerca di integrare blocchi di interesse economico in una struttura permanente di potere. Con la conseguenza che il pensiero "comunitarista" di Tremonti assomiglia alla formula perfetta per un paese immobile, invecchiato, stanco, deformato dai privilegi e distorto dalle rendite come l'Italia contemporanea. Si tratterà quindi di capire, guardando il Pdl, qual è il progetto politico-culturale che potrà affermarsi. Ormai, ciò che resta del "sogno " berlusconiano ha tutto l'aspetto del passato: ciò che conta è il mattone, le quattro mura, l'autodifesa familistica, il mercato inteso come esercizio di atti esclusivamente privati. Il progetto di Fini è una singolare miscela di tradizione politica, trasferita anche in una pratica quotidiana intessuta di tatticismi, e di innovazione sul piano sovrastrutturale, sui "valori" e sui diritti. Mentre il programma politico di Tremonti è il più ideologico, e forse il più attraente, per una società angustiata dal nuovo: una specie di paternalismo ammodernato, dove le innovazioni vanno soprattutto controllate, sotto la guida di burocrazie occhiute, e in cui perfino il credito finisce in una dimensione prefettizia. Per ora, il coro dei tre Tenori non ha prodotto stonature tremende. Al massimo i protagonisti si scambiano gomitatine e calcetti mentre l'uno o l'altro è impegnato nell'acuto. Se qualcuno si mostra troppo propenso a rubare la scena, Berlusconi si fionda verso il pubblico e zittisce tutti. L'unico Tenore riconosciuto, in fondo, è lui. Il solo, partito o non partito, fredda sommatoria di nomenclature o fusione calda, che quando dispiega la gola porta tutti all'unisono. Ancora adesso, e con l'intenzione di fare invecchiare tutti i delfini, fino a fare emergere magari il successore vero (già, non dimentichiamo che il Cavaliere ha preso a citare il nome musicalissimo del suo ministro guardasigilli Alfano: l'omonimo del compositore che completò la "Turandot", vedi i corsi e i ricorsi).
L'Espresso, 02/04/2009
Fiction di lotta e Di Vittorio
La critica è stata unanime. La fiction su Giuseppe Di Vittorio, realizzata per Raiuno da Alberto Negrin ("Pane e libertà"), era la solita pappa: pura oleografia, una successione di momentacci emozionanti, e di effetti commoventi, grandi colpi alla pancia dello spettatore, nessun approfondimento riflessivo sul marxismo il sindacalismo il riformismo il soviettismo e bla bla. Il pubblico tuttavia è stato unanime anche lui, concedendo al film circa sei milioni di spettatori, e consentendo al povero Di Vittorio di lottare alla grande contro la solita pappa di reality e programmastri vari. E allora? La critica ha sempre torto? Il pubblico ha sempre ragione? Si può anche affrontare il tema in via laterale. Dunque, Di Vittorio non lo conosce più praticamente nessuno: il pubblico televisivo ha scarsa consapevolezza della storia. Quindi l'interesse del pubblico non nasceva dalla nostalgia, dalla memoria o dal vissuto. Ma evidentemente vale per il sindacato, la disuguaglianza, la ricerca della giustizia sociale quel che vale per Francesco Guccini, che quando canta "La locomotiva" alzano il pugno chiuso e inneggiano alla fiaccola dell'anarchia anche quelli che dopo essere stati rivoluzionari da giovani adesso votano per il Pdl. Insomma, il film su Di Vittorio, interpretato da Pierfrancesco Favino, recupera sentimenti antichi, molto fuori moda nell'Italia del glamour straccione e del sesso pataccaro. Il regista Negrin ha intercettato il solito pubblico di Raiuno ed è riuscito a tenerlo lì, facendogli vedere il nostro come eravamo. Può essere uno schema televisivo, per fiction future. Ma a pensarci bene, può essere anche uno schema politico, volendo.
L'Espresso, 09/04/2009
Milena nel paese delle meraviglie di Edmondo Berselli
Ancora qualche parola sulla puntata di "Report" dedicata al caso di Europa 7, la rete invisibile dell'editore Francesco Di Stefano, sacrificata ai superiori interessi del duopolio. L'inchiesta di Bernardo Iovene era una tipica inchiesta di "Report", con le ricostruzioni minuziose e le interviste che mettono il dito nell'occhio all'intervistato. Meravigliosi i numeri con Fedele Confalonieri, e inquietanti quelli con il sottosegretario Paolo Romani, tipico berluscones che parla in modo ministerial-aziendale: «Non mi interessa», ha detto e ripetuto, una soluzione che fa sparire una rete (trattasi naturalmente di Retequattro). Al sottosegretario non interessa, evidentemente, tutto quello che può danneggiare il padrone di Mediaset.Tuttavia il discorso su "Report" e le televisioni si allarga inevitabilmente a una considerazione di fondo: ma quanti "Report" ci vorranno perché brutture monopolistiche del genere vengano risolte? La domanda è retorica, naturalmente, dal momento che con la destra al governo il duopolio è garantito. Ma visto un "Report" viene sempre l'idea scoraggiante di vivere in un paese sbagliato, dove le leggi non servono a niente e dove alla fine i cattivi hanno sempre ragione. E allora, lo ripetiamo, se "Report" mostra situazioni intollerabili, e non si vedono soluzioni praticabili, non resta che una via d'uscita, dolorosa ma efficace: abrogare "Report" ed esiliare Milena Gabanelli. E che ci vuole. Ci si toglie il pensiero una volta per tutte, e tanti saluti. Altrimenti magari una minoranza di italiani resta convinta che viviamo nell'illegalità, e questo non va bene, per le magnifiche sorti, e progressive.
L'Espresso, 09/04/2009
l’incognita referendum
Secondo Silvio Berlusconi, ormai il Pdl è un congegno perfetto. Anzi, più che perfetto, una macchina infallibile per creare consenso. Giunto all'ultimo giorno del congresso di fondazione, ha dichiarato che i sondaggi danno il nuovo partito ormai al 44, forse al 45 per cento. E che l'obiettivo della nuova formazione politica, «il partito degli italiani», consiste nel guardare con audacia, anzi con la «lucida follia erasmiana» che il Cavaliere si è intestato, alla soglia del 51 per cento, la maggioranza assoluta. Forse queste dichiarazioni rappresentano una specie di guerra preventiva. Contro chi? Ma contro la Lega, naturalmente, nonostante tutte le rassicurazioni sull'amicizia con Umberto Bossi. Nel momento in cui con le parole del suo capo il Pdl si qualifica come «partito degli italiani», tutto ciò che resta fuori dal suo perimetro, quindi non soltanto il Pdl e la sinistra, sono ridotti a una preoccupante opacità. Sono tutti problemi risolvibili con la solita politica delle pacche sulle spalle, delle dichiarazioni di amicizia sempiterna e delle pizze notturne insieme? Può essere, ma poi c'è una questione piuttosto seria, ufficiale, concreta, che si prospetta come un ostacolo difficilmente aggirabile: si tratta naturalmente del referendum Segni-Guzzetta (che comporta l'assegnazione del premio di maggioranza alla lista, non alla coalizione, che prende più voti). Perché mettiamo il caso che il referendum facesse il quorum, e venisse approvato; in questo caso il Pdl potrebbe diventare autosufficiente e rendere così superflua l'alleanza con la Lega. Se per evitare questa ipotesi Bossi decidesse di fare cadere il governo, come è già stato ventilato, Berlusconi potrebbe agitare davanti al popolo italiano il vessillo del 51 per cento e correre da solo. Naturalmente questa è un'ipotesi ancora molto teorica, e da questo punto di vista ha avuto ragione Dario Franceschini a insistere sull'election day del referendum con le europee e le amministrative: non soltanto per ragioni di risparmio, quei 400 milioni di euro che gridano vendetta in tempi di crisi economica, ma perché in questo modo il referendum sulla legge elettorale potrebbe diventare un inciampo sul cammino della coalizione di destra. Il referendum diventerebbe infatti un affare molto spinoso per la maggioranza. In primo luogo per la semplice ragione che non si vede come gli ex esponenti di An potrebbero evitare di impegnarsi su un referendum che avevano promosso (Gianni Alemanno ha già spiegato che sarebbe sbagliato tirarsi indietro). Va da sé che ci sono infinite diplomazie possibili, ma c'è anche un limite al ridicolo e al numero delle facce da esibire a seconda delle stagioni: è difficile sostenere a lungo che il Porcellum è una legge elettorale sbagliata, dare appoggio all'iniziativa referendaria e poi ritirare le corna dentro il guscio come lumachine prudenti. Insomma c'è di mezzo anche un po' di dignità politica. Sarà interessante vedere come la destra proverà a sciogliere questo nodo. Specialmente come lo affronteranno Berlusconi e gli uomini a lui più vicini. Nei momenti critici l'attuale premier è sempre riuscito a inventare soluzioni funamboliche. Questa volta, tuttavia, il compito è più difficile del preventivato. A impegnarsi per l'astensione entrerebbe in attrito con gli ex An; a cavalcare il referendum si scontrerebbe con la Lega; fare il pesce in barile non conviene al grande Conducator. E quindi è un compito dell'opposizione cercare di valorizzare le contraddizioni implicite nell'alleanza di destra. Non è ben chiaro se il Pd abbia una vera convenienza a scegliere di appoggiare il referendum. Ma intanto ha un interesse serio a cercare di liquidare la legge Calderoli: la sconfitta di Walter Veltroni nel 2008 è avvenuta anche perché l'allora leader del Pd ha giocato concettualmente una partita con il maggioritario mentre gli avversari disputavano il match con il proporzionale. Dunque conviene darci dentro. Il Pd non ha da perdere che le sue catene. Il dito nell'occhio alla sinistra antagonista l'ha già messo con l'approvazione dello sbarramento del 4 per cento nella formula elettorale per le europee. E allora tanto vale tirare un po' di peperoncino in un sistema elettorale approvato per avvelenare i pozzi alla fine della legislatura berlusconiana (2001-2006), per impedire all'Unione di governare, e che ha sempre favorito la destra. Altrimenti bisogna aspettare che la «stagione costituente» la apra Gianfranco Fini, e che arrivi in proposito il beneplacito di Berlusconi, che D'Alema convinca i diffidenti, e che Di Pietro non gridi all'inciucio. Troppe condizioni, troppe riserve mentali e politiche. Alla fine, meglio un bel calcio alla scacchiera.
L'Espresso, 16/04/2009, TELEVISIONE
Professor Mou
Il "Chiambretti Night" (Italia 1) con José Mourinho ha ottenuto fenomenali riscontri di pubblico, battendo tutta la concorrenza, e si capisce: di questi tempi l'allenatore dell'Inter è assimilabile a un santone mediatico. Ma va anche detto che un'intervista con lui è una prova faticosa, perché il guru parla praticamente a monosillabi, dice che questa cosa non lo interessa, e quell'altra nemmeno, e via così per delle mezze ore. Quindi la puntata di "Chiambretti Night" è servita più che altro a vedere come se la cavava per l'appunto Chiambretti. Perché Mourinho ha fatto il Mourinho, dicendo che i libri su di lui sono pieni di falsità, che figurarsi se al pubblico fotte qualcosa del suo giudizio sul papa e i preservativi, che bisogna lasciare fuori la Madonna di Fatima dalle partite di calcio, e quindi piantarla di chiedere miracoli o favori. Ha avuto anche un delizioso cedimento da parvenue, il Vate, allorché Chiambretti gli ha chiesto conferma: «Tu eri un professore di ginnastica, vero?». E "Mou", il nuovo mago, ha storto la testina opportunamente pettinata, ha messo in linea il profilo con la barbina adeguatamente livellata, e poi ha detto che sì, anzi sì ma, perché non gli piaceva il termine ginnastica. «Educazione fisica e scienze motorie, preferisco», ha detto con il sussiego che gli è proprio e con seria coscienza corporativa. A occhio e croce, Pierinho Chiambretti è uno che a scuola faceva proprio ginnastica, non educazione fisica. In conclusione: Mourinho prevedibile, nell'alto dei suoi cieli. Chiambretti notevole, per aver saputo occupare spazio e tempo, con una prova di preparazione e improvvisazione davvero all'altezza dei suoi momenti migliori.
L'Espresso, 16/04/2009
La musica infinita
Per quasi mezzo secolo i protagonisti del mondo musicale hanno cercato di trasformare la struttura delle canzoni. Le hanno allungate, deformate, stiracchiate, amputate. In "Aftermath", annata 1966, i Rolling Stones registrarono "Going Home", un interminabile blues di 11 minuti e 18 secondi, che sconvolgeva le abitudini dell'industria discografica a 33 giri, e naturalmente degli ascoltatori. I Beatles provarono a sfuggire alla dittatura di quelle che Paul McCartney avrebbe chiamato «silly love songs», sciocche canzoni d'amore, con i loro esperimenti melodici, i medley di "Abbey Road", lo sperimentalismo acido del celebre album bianco. Poi non c'è che l'imbarazzo della scelta: si è passati attraverso l'ascolto delle lunghe suite del rock "progressive", il flauto neoclassico di Ian Anderson, le "opere rock" degli Who e dei Pink Floyd, i distruttivi ed elementari "power chords" del punk, fino agli esperimenti siderali dei Radiohead, alle prove barocche di Sting, ai lirismi spettacolari di Björk, agli esercizi vocali unisex di Antony and the Johnsons. Il catalogo delle variazioni sulla forma canzone sarebbe lunghissimo, e comprenderebbe fra i capitoli fondamentali, in casa nostra, anche certe magnifiche filastrocche di Rino Gaetano, l'immaginazione rétro di Paolo Conte, e soprattutto lo sforzo di demolizione condotto in cinque dischi esoterici, da "Don Giovanni" a "Hegel", a opera di Lucio Battisti e Pasquale Panella (con certi versi mai scritti e mai ripetuti in una canzonetta italiana, tipo «quando sei per me dolcezza e liturgia, orgetta e leccornia»). Ma negli ultimi tempi è successo qualcosa di inatteso. È vero che le canzoni hanno resistito, opponendosi a qualsiasi tentativo di decretarne la morte e la trasformazione. Si sono invece trasfigurate, perché in primo luogo è cambiato radicalmente il modo di ascoltare la musica. Ormai viviamo in un flusso sonoro in cui le canzoni possono essere processate dall'iPod, come pure dalle suonerie del cellulare, dagli archivi di Google, concludendo la loro esistenza dentro un flusso sonoro scarsamente differenziato, tutto "random", casuale, privo di scansioni e di identità singole. Una canzone allora può essere usata come sottofondo, o ancora meglio, o peggio, come "desilenziatore" negli ascensori dei grattacieli e nelle hall degli alberghi, con quell'effetto "lounge" che trasforma le aree comuni, di transito e di stazionamento, in spazi di tipo aeroportuale, o in corridoi di ipermercato, come pure restringersi invece nello spazio pneumatico dell'auto: è indimenticabile la Golf nera di Michele Serra, emblema di un mondo musicale giovanile in cui il suono viene pompato nell'abitacolo a pressione, con effetti prevedibili sulla psiche di chi c'è dentro (e, per Serra, simbolo del male, e del degrado della civiltà). La perdita d'identità, per le canzoni, rischiava di essere fortissima. Già il settore si trova in uno stato di sovrapproduzione, che porta a rendere particolarmente difficile isolare un pezzo e ricordarlo, non si dice farlo diventare uno standard. Per qualche tempo c'è stato lo strumento difensivo del karaoke, che impone di selezionare qualche decina di brani riconoscibili e di renderli patrimonio comune, una specie di canone contemporaneo conosciuto da tutti o quasi. In parallelo, si è tentata la strada dei grandi eventi come i ripetuti "Live Aid", le reunion dei gruppi più famosi e fossilizzati, i duetti fra artisti di punta. Ma oggi, per l'ascoltatore comune, le canzoni sono un puro fluire, non sono isole sonore riconoscibili. Quindi, per l'industria dell'intrattenimento musicale è sorta la necessità di fare risuonare le canzoni in contesti diversi. Di riprogettare le canzoni e la loro esecuzione. Non c'è più soltanto il concerto, con la successione implacabile, la scaletta intoccabile, l'alternanza fra brani ritmati e lente ballate; e neppure soltanto il disco, con la religiosità arcaica dell'ascolto in poltrona. La musica popolare ha cercato altri "ambienti", e li ha trovati con una certa efficacia. È in corso infatti una specie di rivoluzione, innocua ma potente. Forse il capitolo più importante di questa svolta è avvenuto con il film della regista Julie Taymor "Across the Universe", costruito su 33 canzoni dei Beatles, eseguiti dagli attori, con alcuni cameo formidabili (Bono e Joe Cocker fra gli altri). È ovvio che collocati dentro una sequenza narrativa formale i pezzi del quartetto di Liverpool assumono sfumature e colori nuovi: la storia esalta le canzoni e ne viene esaltata, con effetti psicologici potenzialmente irresistibili. Non è un semplice ritorno al musical. È una forma ibrida nuova, che ricontestualizza le canzoni e le trasforma in detonatori narrativi, con risultati talvolta esplosivi. Si selezionano i brani e su quelli si costruisce la storia. Il format è quasi sempre inesorabile. La gente al cinema piange e ride, canta, si emoziona. Un'operazione analoga, anche questa fortunata, è stata quella di "Mamma mia!", che fu prima un musical basato sulle musiche degli Abba. E poi è diventato un film di successo, intessuto di 24 canzoni in cui brilla la classe assoluta di Meryl Streep, e che fanno battere il piedino anche allo spettatore più tiepido. Insomma, la formula si è capita. Le canzoni sono un giacimento: possono essere sfruttate come materiale grezzo, vendute a un distributore come pura essenza liquida in serbatoi anonimi, oppure inserite in contesti nuovi, dove diventano capitoli di una sequenza narrativa: servono come snodo nel racconto, oppure come sintesi sentimentale, in una grammatica che esalta il loro contenuto emotivo: Pier Paolo Pasolini parlava del «potere abietto» delle canzoni, un che di ricattatorio che scatta immancabilmente, se si è minimamente disponibili, facendo partire un brivido di piacere, fra il melodramma e il kitsch. Ecco, proviamo a trasferire il potere ricattatorio delle canzoni da una sala da ballo a un film con gli effettacci giusti al momento giusto, e il risultato sarà infallibile. Si ride, si piange. Nell'ultima serie di "Dr. House", il finale comprendeva sempre una canzone che faceva da consacrazione passionale alla puntata, magari con il protagonista che la accompagnava al piano o alla chitarra elettrica, e naturalmente erano lacrimoni e riflessioni amare anche per gli spettatori più disincantati. In modo analogo, nella fiction di Raiuno "Tutti pazzi per amore", grazie alla verve narrativa dell'autore Ivan Cotroneo, l'universo televisivo della soap, ripetitivo e prevedibile, veniva riscattato e proiettato nei cieli del sentimento e della passione con i protagonisti che cantavano una canzone italiana di quelle adeguate all'occasione (con brani di interpreti popolari come Umberto Tozzi, Matia Bazar, Jovanotti, Giorgia). Fa un po' ridere, all'atto pratico, che il protagonista di un serial si fermi sulla porta di casa e si sgoli per amore o per solitudine? No, perché una volta assunto come ragionevole l'artificio, tutto risulta naturale. Tanto più che non ci sono soltanto i serial. A teatro, Neri Marcorè ha reinventato i song di Giorgio Gaber, ricollocandoli intorno al personaggio del "Signor G." e facendoli diventare capitoli di una storia esistenziale simbolica, un emblema della spersonalizzazione nella nostra contemporaneità. Shel Shapiro, la classica voce guida dei Rokes, ha preso un testo di chi scrive ("Sarà una bella società") e lo ha costellato di canzoni d'epoca, in modo da far riascoltare il sound dei Sixties: anche le canzoni più note, in questo modo, da "Blowin' in the Wind" a "California Dreamin'" vengono sottratte al clima del revival e ricompaiono filologicamente come testimonianze d'epoca, piccoli insostituibili prodotti di una storia. E che dire dell'operazione multimediale di Claudio Baglioni? Il romantico divo dei pianoforti bianchi ha preso la sua canzone più famosa, "Questo piccolo grande amore", e lo ha trasformato in "Q.P.G.A.", un acronimo che comprende un album, un tour, un film e un romanzo (pubblicato da Mondadori, la versione cartacea di "Q.P.G.A." sta scalando le classifiche e moltiplicando le ristampe). Se poi ci si sposta nell'ambito della tecnologia, le cose si complicano ulteriormente. Esistono giochi da console famosi come "Rock Band" o "Guitar Hero", in cui si possono riprodurre, suonate e cantate, canzoni celebri, misurandosi di volta in volta con la musica dei Sex Pistols, Smashing Pumpkins, Metallica, Michael Jackson, Linkin Park. E fra qualche mese dovrebbe essere pronto il videogame dei Beatles, che sarà una sorta di edizione speciale di "Rock Band" (dovrebbe costare 250 dollari, inclusi chitarra, batteria e microfono, e darà la possibilità di interagire con cinquanta brani; in futuro il catalogo dovrebbe ampliarsi fino a 300 canzoni). Insomma, la musica non è mai finita. Assume sempre di più la forma del "progetto". E siccome le canzoni non finiscono mai, si tratta semplicemente di trovare il modo di reinventarle. Sono già pronti i software che consentono di intervenire a fianco delle superstar globali in alcuni tra i più famosi concerti live. Ma è probabile che per qualche tempo il modo più funzionale di ridare fiato alla musica sarà quella di trattarla come un elemento dentro una storia, televisiva, cinematografica o teatrale che sia. Anche in Italia, anziché il concerto di Zucchero, di Vasco Rossi, di Adriano Celentano o dei Pooh potrebbe diventare più interessante assistere a una storia "raccontata" dai protagonisti, metà recitata, metà cantata, assistita da video e luci. È anche il modo, per i capitani di lunghissimo corso della musica popolare, di riciclarsi senza ricorrere a trucchi troppo impegnativi contro l'età. Perché si sa, i cantanti passano; ma una canzone, se viene messa nel contesto giusto, in un ambiente nuovo e piacevole, è per sempre. n
L'Espresso, 16/04/2009
Dario che calvario
A fare da spia delle insofferenze fra cattolici ed ex comunisti nel Pd non sarà l'annuncio che Ciriaco De Mita si candida con l'Udc alle elezioni europee. C'è piuttosto tutto l'arco delle questioni sulla bioetica, dalla fecondazione assistita al biotestamento. E soprattutto c'è una sostanziale incomprensione sul programma politico generale. Obbligata quindi la conclusione, di stretta osservanza dalemiana, secondo cui il Pd è davvero «un amalgama mal riuscito»? Dario Franceschini ce la mette tutta per provare a ridare un'impronta politica al partito. Ha spostato a sinistra il discorso pubblico, con l'accento su una fiscalità redistributiva. È andato al Circo Massimo con la Cgil, sfidando le conseguenze di scossoni con la Cisl e la Uil. Ha innalzato il tasso di antiberlusconismo, talvolta con giudizi al limite dell'incomprensibile, come quando ha detto che Berlusconi è arrivato all'ultimo giro della sua corsa politica. Tuttavia sembra di avvertire nel Pd una sostanziale sfiducia. Circola un dubbio esistenziale: all'attesa messianica del Partito democratico come compimento di un processo politico lungo anni, se non decenni, si va sostituendo il sospetto che la casa comune sia sbagliata. Le storie sono diverse, non c'è dubbio; e se le differenze fossero inconciliabili? Alla sua maniera Franceschini cerca una sintesi per salvare il salvabile, attingendo al suo repertorio più da cristiano-sociale che da democristiano. Conta anche su un effetto psicologico, il fortino assediato, la nave che rischia il naufragio. Da una parte la minaccia Di Pietro, dall'altra l'ombra dei sondaggi. Il segretario del Pd ha intuito che il punto di sintesi può avvenire, almeno nel breve termine, non tanto sui valori, i criteri guida, la sfera dei diritti, la laicità: questo è un campo minato. Quindi Franceschini prova a puntare su idee economiche, su un'idea di assetto sociale solidarista, su una concezione più a sinistra di Veltroni e perfino di Prodi. Tuttavia il vero punto dolente dei cattolici nel Pd è l'impossibilità genetica di essere e sentirsi opposizione permanente, «minoranza strutturale» per dirla sempre con D'Alema. Senza la prova del governo, per gli ex dc, non c'è politica. E qui si arriva al dilemma di fondo: il Pd non sta insieme se non è il fulcro di una politica di alleanze. Cattolici e postcomunisti possono convivere soltanto se le loro idee si intrecciano con altre ispirazioni politiche. Qualcuno lo sussurra già da tempo: senza dirlo in pubblico, per non sembrare passatisti, forse occorrerà ripartire dall'Ulivo.
L'Espresso, 23/04/2009
Se Fiorello diventa il Grande Fratello di Edmondo Berselli
Anche con il ciuffo ciuffoso, Rosario Fiorello ha confermato di essere un fuoriclasse (se non "il" fuoriclasse) dell'intrattenimento italiano. Va da sé che i 40 minuti serali del "Fiorello Show" sul canale Sky 1 funzioneranno davvero quando la macchina sarà rodata e oliata, si creeranno abitudini d'ascolto e lui realizzerà i suoi tormentoni migliori. Magari a quel punto non ci saranno più in platea ospiti politici ingombranti come Alemanno o Rutelli o la Meloni, che non aggiungono molto allo spettacolo, imbranati come sono, nonostante gli sforzi del nostro gran fantasista. Dopo di che, dato a Fiorello ciò che è di Fiorello, e inviato un "poke" anche all'uomo orchestra Cremonesi, degno suo complice, occorrerà fra poco anche provare a mettere a fuoco la politica avviata da Sky. Oltre a Fiorello ci sono in programma Mike, Panariello, la Cuccarini, e poi si vedrà. Ma non c'è il rischio di precostituire un terzo polo uguale agli altri due? Se una rete deve andare a caccia dei campioni nazionali televisivi, il rischio è l'effetto replica. E se alla fine arrivasse, che so, Baudo, o la Carlucci? Abbiamo bisogno di un altro monopolio dell'intrattenimento, da aggiungere all'oligopolio molto imperfetto Rai-Mediaset? Neanche per sogno, naturalmente. Rischieremmo un regime orwelliano dello spettacolo. Un grande fratello della tv. E allora che sia chiaro: il Grande Fratello "Sky Editino" no, ne abbiamo abbastanza.
L'Espresso, 30/04/2009, TELEVISIONE
Annozero voto zero
Dunque, il re fa il mattocchio e cacciano il giullare. Secondo i critici di destra Santoro aggiunge danni al terremoto, e allora ostracizzano Vauro. Quindi puntata di "riparazione", con Michele che prende tutti in giro e vince l'auditel a mani basse. Purtroppo "Annozero" ha i suoi problemi. Bene Travaglio che recita pezzi di cronaca dedicati a Berlusconi marcando una tipica retorica da Ventennio; purtroppo in studio c'è l'avvocato Ghedini, un sofista, il quale si straccia le vesti perché così facendo si offendono Bertolaso e Letta, due monumenti che il mondo c'invidia, e questo non sta bene. Filmati, crepe dall'Aquila, condomini fatti con materiali di scarto, donne amareggiate: ma il clou dovrebbe essere un confronto fra il suddetto avvocato Ghedini, difensore del piano casa di Berlusconi, e Antonio di Pietro. Ne viene fuori un minuto di orrore, con i due protagonisti che parlano insieme urlando senza che si capisca un benamato accidente. Alla fine il pubblico, non sapendo che fare, applaude. Poi vignette di Vauro in diretta telefonica, le solite robe di giovani ad "Annozero", e l'atteso show di Sabina Guzzanti che in veste di giudice meridionale conduce una requisitoria contro l'orrendo Vauro. La prestazione lascia raggelato il pubblico; non un applauso, non una risata in tutto il piccolo show. Alla fine un tipo che ha guadagnato notorietà perché rifiuta i contributi di solidarietà agli abruzzesi, dato che paga le tasse e non ha colpa del cinquantennio precedente, conclude a urla: bisognerebbe sospendere per un anno lo stipendio ai parlamentari. Il civilissimo e progressista, nonché consapevole e antipopulista, pubblico di Santoro, erompe in un'ovazione. Ma dai: voto zero.
L'Espresso, 30/04/2009
il paese normale
Sarebbe meglio accorgersi alla svelta di un fenomeno insidioso, cioè di una fase diversa del berlusconismo. Complice l'emergenza, complice il terremoto, complice la crisi economica, complice la fragilità delle opposizioni a cominciare dal Pd, la società italiana si sta abituando a Berlusconi. Già. L'Italia "normale" è quella di Berlusconi, azione di governo e decisioni rapide. Efficaci? Boh. Eppur presenzia. Andrà alla celebrazione del 25 aprile, per la prima volta. Critica con sufficienza padronale la lottizzazione patrimoniale dell'informazione Rai, alza le spalle davanti alle accuse di fare le nomine a casa sua («Lo faccio per risparmiare allo Stato le telefonate private»; «E prima dove li facevano, questi vertici?»). Si propone come il vero depositario del buonsenso in un paese infestato da untori fanatici. Insomma dopo il presidente donnino, il presidente operaio, l'unto del Signore, quello dell'amaro calice, ecco finalmente il Presidente Italiano, somma o meglio sintesi della medietà nazionale. Berlusconi iperbole dell'italiano medio, e anche dell'italiana media, per virtù seduttiva innata. «Avesse una puntina di tette», diceva infatti Enzo Biagi, «farebbe anche l'annunciatrice»: la battuta è antica, ma quando una battuta diventa verità e rafforza ogni giorno se stessa diventa un dato genetico, una rivelazione, una totale verità. Il fatto è che non siamo ancora all'appeasement con il capo del Pdl, dopo 15 anni di strattonamenti, a corpo a corpo, lotte e attacchi, risate e dissimulazioni, menzogne e ipocrisie. La pacificazione semmai l'hanno fatta gli establishment e le corporazioni, con l'Alitalia e i benefici fiscali via tolleranza all'evasione. Tuttavia la società nel suo complesso, anche se non ha fatto la pace, comincia ad abituarsi. Ad assuefarsi. Vabbè, non è un governo di prima classe, è fatto di personalità trovaticce, i risultati sono dubbi, le invenzioni estemporanee superano del tutto i progetti, c'è molto più potere che amministrazione, erano liberisti e sono diventati protezionisti o chissà che cosa, la politica sull'immigrazione è catastrofica e la sicurezza lasciamo perdere, erano liberali e sono diventati ratzingeriani. Ma, si dà il caso, è l'unico governo che c'è. Le alternative non si vedono (l'ultima alternativa ce la siamo giocata con il biennio di governo caotico 2006-2008 e con la "vocazione maggioritaria"). E quindi sarà bene capire che l'assuefazione generale a Berlusconi e al berlusconismo è una questione politicamente scivolosa. Non per confermare quelle certezze antropologiche dei grandi scettici e cinici alla Longanesi, quelli che hanno sempre sostenuto che il popolo italiano è una corte di conformisti e servi, pronti a seguire il padrone di turno. Tutte storie. Il paese si è addormentato per una quantità di motivi, dalla perdita delle culture, dal degrado della vita civile, dal disastro dei processi di formazione, fino alla sostanziale abdicazione civile della sua classe dirigente e dei suoi clan, come anche per l'ipnosi profonda prodotta dalle reti televisive Mediaset e controllate e quindi l'atomizzazione in una individualità implosa. Sì, sarà la risposta, ma non è tutto così: al margine del berlusconismo e dei suoi officianti, fuori dalla pappa delle soubrette e dei terzini, delle rifatte e dei palestrati, dei cocainomani sociali e dei talent show, c'è ancora un'Italia civile e civica che tiene. Ancora piena di passioni, con accenni di impegno, rivolta a temi solidali. Non illudiamoci. È l'Italia dello spazio esterno. Fuori dai confini del reale. Fuori dalla foto. I famosi ceti medi riflessivi. Quelli che prima di consumare ci pensano, quelli biologici e ambientali. Quelli che credono ancora nei contratti collettivi. Quelli che si fermano con il giallo, che rispettano le regole, magari anche quelle non scritte, e che ancora pensano ci sia in prospettiva un'Italia moderna e ispirata a una simpatia per gli altri, i meno privilegiati, quelli che ce la fanno a stento o non ce la fanno più. Ecco, potrebbe sembrare un moralismo babbione, e si potrebbe finire tutto questo con l'esecrazione dei telefonini e di Facebook. Ma non è questo il senso: il berlusconismo normalizzato mette ai margini tutti gli altri. Chi resta fuori è qualcuno che ulula alla luna. Sono out quelli che si indignano, i fissati che vedono le infliltrazioni mafiose nell'economia, coloro a cui continua a sembrare inconcepibile una democrazia che non sia contendibile, quelli che si attaccano alla Costituzione. In questo modo, la realtà è Berlusconi. L'irrealtà rischiamo di essere noi. Se non ce ne rendiamo conto, siamo destinati a danzare nel vuoto, pallide figure di un mondo che non c'è più.
L'Espresso, 07/05/2009, TELEVISIONE
Ologramma rom
Se il rom montenegrino Ferdi vince al "Grande Fratello", si possono trovare mille spiegazioni, compresa quella che le comunità di riferimento votano il loro eroe. Ma se fosse solo questione di nicchie di auditel, il problema sarebbe tutto sommato irrilevante. Ciascuno ha i suoi sostenitori, e il gioco è fatto. Magari però, fra le varie nicchie in gioco, la somma farebbe zero. È più interessante, invece, lo schemino secondo cui nella realtà al rom gli incendiano il caravan, e nella realiticità lo premiano alla fine dello show. C'è allora un incrocio possibile fra queste due realtà, o queste due irrealtà? Il primo pensiero è che davanti alle telecamere, reclusi nel grigiore del "GF", tutte le caratteristiche sociali, e perfino antropologiche, si adeguano a una forma televisiva universale. Anche il rom non è più un rom, è un ologramma mediatico. Una figura del plasma tv. Amoreggia, trama, combatte, vince, incassa, chissà se ce la farà a infilare la porticina delle comparsate, nelle discoteche e nei supermercati. Forse sì, perché appena fuori dalla Casa tornerà a essere non soltanto parvenza televisiva bensì rom dotato di corpo, di fisionomia e di fisicità perfino "razziale". E quindi sarà di qualche interesse vedere nella vita reale, cioè nel mondo notturno dell'intrattenimento che cosa resterà dell'alone glamour del rom di successo. Un ulteriore elemento di trasgressione, per il brivido delle star da balera? Oppure la delusione che scivola subito giù, vedendo che il carisma elettronico è un fenomeno transitorio, elettricità statica che crepita per pochi momenti fatali? Intanto, semplicemente per tifo, non resta che dire: forza Rom.