L’Espresso
L'Espresso, 14/05/2009, TELEVISIONE
Bagaglino desnudo
L'abolizione del Bagaglino dagli schermi Mediaset è un segno dei tempi più forte ancora del «ciarpame senza pudore» o del recupero della Resistenza da parte del presidente partigiano (ricordare sempre, per scrupolo filologico, che «e un partigiano come presidente» si deve a Toto Cutugno). Tramonta il varietà arcaicizzante di Pingitore, e cambia l'epoca. Il perché è chiaro: l'Italia televisiva è avanti, irradiata nel futuro digitale, saltellitare, ologrammatico, fantasmatico. Il terremoto ha terremotato anche la tv. Perfino le carampane novantacinquenni gettano un'occhiata al rom vincitore e tombeur del "Grande Fratello": quale sarebbe il motivo per tenere alto lo share del teatrino con le donnine, gli imitatori un po' cosà, Martufello (c'è ancora Martufello? È mai esistito veramente? Esiste quella Ciociaria pingitoresca?), le false facce da Berlusconi e da D'Alema o Veltroni, e prima Mortadella Prodi, la memoria di Oreste Lionello, ecc. ecc.? E pensare che l'avevano perfino convocato per Putin, il Bagaglino (ma Putin è anche lui figlio di vecchi scenari con mummie, andropovismi, tristi moribondi per raffreddore da politbjuro). Ma adesso no, siamo dentro un'altra fase: ci vuole un SuperBagaglino, come una nuova SuperCazzola, come fosse Antani, o un IperAntani. Figurarsi se l'Imperatore, o Napoleone, si divertiva poi davvero con quelle immaginette da avanspettacolo. La "signora Veronica", di sicuro no. "Fare Futuro", la fondazione di Gianfranco Fini, ancora meno, nel suo radicalconservatorismo in versione francese (o messicana, tipo il Partito rivolucionario institutional: febbre suina permettendo).
L'Espresso, 21/05/2009, TELEVISIONE
Enigma Mattei
C'è una certa ossessione storicista nella produzione di fiction della Rai, testimoniata per esempio dalla recente proposta del caso Mattei su Raiuno. In proposito se ne sono sentite fin troppe: Mattei il corrotto incorruttibile, l'uomo che usava i partiti come taxi, colui che non voleva vivere da ricco in un paese povero. Il solito lessico d'archivio che toglie più che dare, avvalorando immagini da oleografia popolare. Ma dopo avere visto Massimo Ghini nei panni dell'uomo di Matelica (Snam, Siamo Nati a Matelica), che cosa rimane di una storia che è la vicenda della modernizzazione italiana? Secondo i diari di Indro Montanelli, Mattei rappresenta l'avvio di una satrapia illuminata, che tuttavia sconvolge le procedure democratiche proprio mentre il patron dell'Eni prova a sconvolgere il concerto mondiale del petrolio, fra insurrezioni terzomondiali e giochi di potere e di commercio sul limite dell'autosacrificio personale e nazionale. Resta da capire se la formula del racconto televisivo serve davvero a chiarire i meccanismi della storia politica, oppure se si limita a fare spettacolo e intreccio. Chi ha in mente, su Mattei, la storica inchiesta cinematografica di Francesco Rosi, fa fatica a considerare la fiction tv come uno strumento effettivamente utile nell'interpretazione della parabola italiana e della sua problematica modernizzazione. Eppure, eppure, se non ci fosse la tv a ricostruire questi segmenti di storia contemporanea, chi lo farebbe? La scuola, l'università? Ma non scherziamo. Alla fine, per raccontare a un paese inconsapevole il suo passato, anche il format della televisione più ovvia risulterà alla lunga insostituibile.
L'Espresso, 21/05/2009, PORTE GIREVOLI
Berlusconi modello heider
L'annuncio di Silvio Berlusconi «No alla società multietnica» rischia di essere un autentico manifesto culturale per l'Italia di destra. Il capo del Popolo della libertà non fa nulla per nulla. Ogni sua misura politica è funzionale a un disegno di ricomposizione sociale e ideologica. E oggi si ha l'impressione che l'intento berlusconiano sia quello di rendere più compatta la fusione tra le componenti della destra. Ha scarse possibilità di venire a patti con le frange finiane di An, in cui il presidente della Camera raccoglie sensibilità radicalconservatrici e nello stesso tempo modernizzanti, secondo una prospettiva ispirata a moduli di ispirazione all'incirca francese. Berlusconi invece ha bisogno di riunire in un quadro concettuale pulsioni esplicitamente italiane, nazionali, domestiche, con l'obiettivo di realizzare davvero il Partito degli italiani, quello del 51 per cento. Per riuscirci, non ha bisogno affatto di modernità. Nel Centro del paese ha più che altro la necessità di stringere i bulloni del potere con i suoi uomini, assicurando l'opinione pubblica che non tanto il governo conta (il governo è in realtà una tellurica parata di annunci e di presenzialismi), quanto l'amministrazione del potere, attraverso la fitta genia dei Martusciello locali. Nel Sud, conta la capacità di stringere cartelli di clientele, sempre sismici organizzativamente, sottoposti alle manovre di uomini come Raffaele Lombardo, ma comunque gestibili perché anche i "clientes" sono sensibili agli assetti di lungo periodo, soprattutto dove il territorio politico e il consenso sono presidiati con efficace pressione persuasiva. La questione, come sempre, nasce al Nord, perché nelle regioni settentrionali il faccia a faccia con la Lega è evidente: Bossi e Berlusconi sono nello stesso tempo alleati e rivali, competitivi su elettorati analoghi, gelosi della propria qualificazione identitaria. Per questo il proclama di Berlusconi, con quel "no" così enfatico alla società multietnica, ha dettato il senso di un implicito manifesto ideologico. È presto per definire una sorta di "heiderizzazione" del premier. Ma non è affatto prematuro vedere nell'azione berlusconiana le premesse per una svolta netta. Lo hanno colto segmenti del mondo ecclesiastico, le organizzazioni di volontariato, frange vaticane, i cattolici con la barba e il mal di pancia politico. La popolarità di Berlusconi, tutta da verificare sul piano empirico-elettorale, e sul terreno dell'efficienza governativa, è tuttavia impressionante nella capacità di fabbricare un composto di consenso egemonico sul terreno culturale. Vale a dire che in questo momento il centrodestra sembra potersi permettere quasi tutto. È vero che non ha più una cultura politica ed economica, dato che il suo tardoliberismo da cortile si è inabissato con la crisi globale e le ricette caotiche del governo (vedi il penoso fallimento anche morale di Robin tax e social card, nonché i decantati incentivi agli straordinari, favola bella della recessione che ieri illuse anche i confindustriali). Ma nello stesso tempo sembra in grado di rilanciare una serie di pulsioni prepolitiche, che si rivolgono alla pancia del Nord. Allarmi securitari, revanscismi imprenditoriali, sostanziale indifferenza, se non proprio diffidenza esplicita dal basso, verso le proiezioni internazionali di un gruppo come la Fiat. In un contesto simile, Berlusconi ha bisogno di chiamare a raccolta proprio il suo «popolo»: gli occorre una specie di sfondamento che non può avvenire sui numeri dell'economia (ma andiamo, con le imprese attaccate all'ossigeno alla cassa integrazione), ma può invece verificarsi nella composizione di un blocco sociale in grado di occupare le regioni del Nord. Non è detto che l'operazione riesca in modo integrale, anche se ci sono buone possibilità, e Berlusconi ha cominciato a ricordarle con insistenza, di omologare le ultime province in mano alla sinistra alla filiera della destra. Purtroppo tutto ciò sta avvenendo mentre dà segni evidenti di sfaldamento e di decrepitezza l'establishment del Pci trasbordato nel Pd. E quindi la resistenza è smorta. I segnali di smobilitazione, se non di vero degrado, si diffondono. Berlusconi intravede quindi la possibilità di una svolta anche emotiva: basta con le complicazioni sociologiche, avanti con l'azione di contrasto sulla sicurezza e i clandestini, reale o figurativa che sia, procedere all'occupazione completa degli spazi civili e soprattutto corporativi del Nord. Con Bossi e Maroni la «quadra» si trova, a dispetto del referendum. Con il paese Italia, e la sua complessità multietnica, potrebbe per il momento essere sufficiente procedere a forza di proclami.
L'Espresso, 28/05/2009, TELEVISIONE
L’anno zero della politica
Per ragioni contingenti, in questi giorni guardo una quantità di talk show politici. Comincio al mattino con "Omnibus", finisco a tarda sera con "Ballarò" o con "Tetris", in cui Luca Telese gioca con la politica con domestica furbizia. Ma l'importante non sono i programmi. Lo capisce anche un bambino che "Annozero" è il format di Michele Santoro, costruito come infotainment di sinistra, inclusi i sinistri raziocinanti e i sinistri vocianti. Che la galleria di protagonisti di Giovanni Floris è una compagnia di giro, con i soliti compagnucci. Eccetera. Ma se uno vuole farsi idee spicciole su come vanno le cose, gli conviene concentrarsi sugli ospiti dei programmi soprattutto di seconda serie, dove imperano destri minori, leghisti di mezza tacca, sindacalisti light, dipietristi hard, respingitori marittimi, xenofobi formato famiglia. Lo spettacolo, sia concesso dirlo a chi non ha mai voluto cedere alla vena dell'antipolitica, è generalmente desolante, soprattutto dal lato del lessico. I gregari di Montecitorio parlano un autentico linguaggio di legno: sono tutti contro gli sprechi, a favore del governo che ha fatto le cose, entusiasti nel sostegno al premier, a Letta, a Bertolaso, anche al sisma. La sensazione del regime non viene dal superpotere di Berlusconi. Viene dalla mediocrità dei comprimari, dalla compulsività con cui fanno propaganda alla parte "vincente". E poi dicono che uno diventa snob. Ma quando mai. L'unico momento di verità, nelle ultime serate, è stato magister Sartorius dalla Gruber (ammesso che fosse la Gruber, che fosse Sartori, che fosse quella volta lì). Il politologo satanico è sempre lui. Che il Signore misericordioso ce lo conservi.
L'Espresso, 04/06/2009, TELEVISIONE
Fattore Simona
Il ritiro di Simona Ventura dalla 3ª edizione di "X Factor" sarà pure legato a «motivazioni personali», i figli, la famiglia. E quindi finirà nel catalogo delle emergenze individuali, senza nessun riflesso sulla dimensione televisiva della faccenda. Tanto più che di tutta l'équipe del programma, dalla Maionchi a Morgan e Facchinetti, la Ventura era la meno attrezzata musicalmente, e quindi di per sé la perdita non è particolarmente grave (a parte la scollatura bionica). Ma la défaillance di Simona impone, eh sì, impone una riflessione sul programma e sul suo spirito più autentico, sulle ragioni del suo successo e sulla sua filosofia, ammesso che sia lecito chiamarla così. Vale a dire: essendo una delle trasmissioni di maggiore successo di Raidue, e quindi di Antonio Marano, non si può trattarla come un programma "normale". Nel suo genere, cioè fra i talent show, "X Factor" è un caso a sé. Ci sono cantanti mediamente bravi, degli esecutori mediamente professionali, un medio coinvolgimento del pubblico. Si può dire che in realtà "X Factor" è il trionfo dell'esecuzione media, con tutte le conseguenze del caso. Difatti dal programma viene fuori musica omologata, aderente a un gusto generalizzato e uniforme, poco distinguibile dal flusso ambientale di suoni in ci siamo tutti collocati. Insomma, "X Factor" è un produttore di standard e un distruttore di stili. Niente di male, così va il sound contemporaneo. Ma almeno la Ventura non capiva niente di musica, e quindi introduceva qualche alterazione cognitiva. La prossima volta, senza i suoi entusiasmi caotici, il programma potrebbe essere ancora più prevedibile.
L'Espresso, 04/06/2009, ATTUALITA'
Eppure quel Franceschini ha grinta
Non è proprio che il Pd veda il riscatto. Ma un filo di speranza, un risultato non catastrofico, il disastro evitato sul ciglio dell'abisso, la dissoluzione esorcizzata in articulo mortis... Se davvero va così, dovranno tutti passare da Dario Franceschini, e rivolgergli il discorsino che segue. Caro Dario, caro Sudario, caro Dromedario, nessuno aveva la minima fiducia in te. Il «vicedisastro», ti aveva chiamato burlescamente l'"esprit florentin" di Matteo Renzi. "Ce la farà? ", aveva titolato in prima "l'Unità", dando voce e vita a un dubbio addirittura metafisico. Il segretario «sfigato» con le sue «sparate prive di senso», secondo le definizioni all'acido di Giampaolo Pansa. Bene, dovrebbero dire i compagnucci, mentre tutti noi siamo rimasti nelle seconde file, chi a progettare mozioni congressuali come Pier Luigi Bersani, e chi a sfoggiare nuove energie sessantenni da porre al servizio della sinistra come il nuovo D'Alema, chi a definire il ritorno di Sergio Cofferati come «un problema ligure», e una quantità di altre anime perse a progettare il nuovo centro, la fondazione della Kadima nazionale e progetti vari di ricomposizione della politica, tu, il Cireneo, ti sei preso sulle spalle le spoglie del partito che fu di Veltroni e hai cercato di farlo uscire vivo dal Calvario. Vivo. Sembra niente. Ma tenere in vita il Pd è un'impresa pazzesca, se si pensa che si sta sfaldando l'apparato di potere ex comunista, e proprio nelle regioni rosse, dove bisognerebbe organizzare la tenuta, non si dice la riscossa, nei prossimi anni. E tu, segretario a termine, hai provato l'impresa. Le modalità contano fino a un certo punto. La Costituzione, le regole, l'appello quotidiano su ciò che potrebbe accadere se Berlusconi sfonda (forse non sfonda, forse a "papi" i cattolici di base e soprattutto di vertice gliela faranno pagare, c'è modo e modo: perfino i più scettici fra i vecchi e scafati dc si inalberano al pensiero di qualcuno che dedica il suo tempo ad «allevare» schiere di veline). Per settimane l'immagine di Franceschini vista in televisione è stata quella di un ex giovane militare di fureria mandato in prima linea a sbattersi cercando di guadagnare spazio e qualche metro di campo, a qualsiasi costo, pugnal fra i denti, le bombe a mano. Su ogni argomento. La crisi economica, cercando di mostrare come l'ottimismo di Berlusconi sia soltanto manierismo puerile. Il forcing istituzionale del Cavaliere, tutto virato su avventurismi da Repubblica estrema. Il tentativo di tenere insieme l'elettorato, pur dopo l'errore sconsiderato dell'adozione dello sbarramento al 4 per cento (che manderà probabilmente al macero fra l'8 e il 10 per cento dei voti di sinistra), e una posizione di testimonianza sul referendum Guzzetta-Segni, che doveva semplicemente essere giocato in modo tattico come cuneo fra Pdl e Lega, ed è diventato un fastidioso, anzi autolesionista, principio di divisione dentro le varie opposizioni. Tutto questo, dovrebbero ammettere i dirigenti del Pd, l'hai fatto in un modo frenetico, con un impegno sovrumano. Sei riuscito persino a rievocare l'ombra di Enrico Berlinguer, una trovata che sarà piaciuta al popolo delle feste dell'Unità, ma non proprio alla parte moderata e cattolica del Pd, che è esente dai miti comunisti. E soprattutto sei riuscito a occupare spazi in tv, ogni sera, apparendo ogni volta dentro riprese bulgare, con luci non professionali, in condizioni catacombali di estrema difficoltà tecnica. Dovrebbero dirti: hai fatto una grande democristianata. Non si capiva bene che cosa sostenevi, l'accento era quello sbagliato, drammaticamente necessario di correzioni tecniche, del ferrarese in trasferta, il look era quasi sempre ai confini della realtà, tremende imitazioni Lacoste, braccioni in primo piano, cravatte storte su colletti di camicia fuori moda, una tensione visibilissima nelle ospitate televisive, con gesti di irritazione e di fastidio. Eppure, eppure, non è che ce l'hai fatta. Ma mentre tutti gli altri sembravano fare la faccia di chi dice «vai avanti te che a me scappa da ridere», tu ci hai messo la tua faccia e il tuo accento liquido. Vestito da uomo Facis, cioè da autentico ragazzo del popolo che non ha mai avuto tempo e gusto per l'immagine, hai detto cose di sinistra, perché non tutti sanno che Franceschini non è un democristiano classico, è un cristiano sociale, cioè uno che è venuto fuori dalla parrocchia coltivando certi suoi estremismi politici e certi suoi anticonformismi culturali. Magari non servirà a nulla. Può anche essere che il Pd sia un gatto morto, e se rimbalza è il rimbalzo di un cadavere. Ma se invece c'è una fiammella di vita, sarà stata tenuta in vita proprio dallo «sfigato». Al momento buono, c'è da scommettere che qualcuno contemplerà questo risultato impossibile, e deciderà che l'unico sentimento che si può nutrire verso Franceschini è l'ingratitudine. Coraggio, Dario, a ottobre non servirà nulla, basterà dire senza retorica: amici, adieu.
L'Espresso, 11/06/2009, TELEVISIONE
Laboratorio La7
Successo stracult per "Tetris", il programma di Luca Telese per La7. Ma per quale motivo? "Tetris" ha inventato un format nuovo, in cui il talk show si unisce al game show, con tanto di ironica gara su chi vince la tappa. Dal punto di vista dei contenuti, il programma di Telese si decodifica facilmente: esaspera la formula del talk show politico classico, gli toglie un po' di galateo, porta i protagonisti a dare il peggio di sé (che dal punto di vista dello stile "freak" televisivo in realtà è il meglio). In questo senso, "Tetris" sarebbe semplicemente una forma di ipertelevisione, in cui i protagonisti, da Borghezio alla Santanché fino alla coppia satanista Guzzanti-Sgarbi, rappresentano variazioni d'autore ipertrofiche su se stessi. Quindi il programma di Telese è una trasmissione laboratorio, in cui la modalità espressiva prevale largamente sul contenuto. Un programma che si potrebbe quindi definire "celibe", affidato quasi soltanto al proprio linguaggio. Dunque del tutto autoreferenziale, una centrifuga di attualità che produce significati arbitrari. Non aspettatevi conclusioni da Telese e da "Tetris". Aspettatevi piuttosto evoluzioni sul filo della cronaca, dibattiti sul verosimile, approfondimenti quasi veri o del tutto gratuiti. Proprio per questo "Tetris" è un programma moderno. Non lo si segue, lo si constata. In quanto programma fenomeno, rappresenta un grado zero del discorso pubblico. Ma Telese non fa politica, bensì infotainment. Fa televisione ammiccante, sapendo di farla. A suo modo è un manipolatore di stili: e dovremmo sapere che la migliore televisione è sempre manipolazione.
L'Espresso, 11/06/2009
Silvio circus
Cronache da un'Italia molto immaginaria, in cui gli uomini di punta del Popolo della libertà e della Lega ripetono ogni due per tre che in un anno di legislatura il governo Berlusconi ha realizzato l'intero programma dei cinque anni di mandato popolare. Sono leggende, naturalmente, propaganda quintessenziale, alchimia mediatica pura. Si sono già sentite nella legislatura 2001-2006, allorché, imbrodandosi, ogni esponente della Cdl magnificava le 36 riforme del governo Berlusconi. Una mente fredda come quella di Tiziano Treu ebbe gioco facile a rispondere: «Se hanno prodotto la crescita zero, le riforme erano sbagliate». La diagnosi era azzeccata, anche in vista del crollo politico-economico della destra di metà mandato, testimoniato dal siluramento del megaministro Tremonti, accusato da Gianfranco Fini di avere truccato i conti. Fra le misure "epocali" attuate dal governo a diretto coronamento della conquista di Palazzo Chigi nel 2008, oltre alla demagogica abolizione dell'Ici vanno messe agli atti la Robin Tax, approvata da Tremonti contro le banche e i petrolieri proprio mentre la congiuntura stava per virare, e gli sgravi fiscali sugli straordinari mentre era sul punto di esplodere il dato della cassa integrazione. Quanto all'efficienza del governo, è sufficiente mettere a fuoco il penoso fallimento della "social card", strumento mortificante di pauperizzazione di pensionati e ceti non affluenti, che per una serie di incidenti tecnici si è rivelato un boomerang. È la "Fiction Italia", benvenuti, una soap opera con la griffe della destra. Un equilibrio sofisticatissimo di annunci epocali e di realizzazioni precarie. Immondizia che sparisce a Napoli per poi provocatoriamente riapparire a Palermo. Equilibri di un potere apparentemente inscalfibile, come quello gestito da Raffaele Lombardo a Palermo, che viene bombardato, «raso al suolo» dal governatore, con un specie di operazione milazziana che azzera alleanze, relazioni preferenziali, blocchi corporativi, e quella fitta trama di scambi che si era imperniata sul rapporto fra il Pdl, l'Udc, i patronage siciliani e i clientelismi locali e nazionali gestiti dall'abilità manovriera del leader del Movimento per l'autonomia. Ora, che potesse reggere un equilibrio politico fondato proprio sul movimento di Lombardo era escluso dalla logica e dalla politica. Come aveva descritto Pier Luigi Bersani: «Nella destra c'è chi vuole tenere i soldi al Nord, e chi vuole i trasferimenti al Sud. Spiegatemi come si fa a dare le risorse del federalismo fiscale a Bossi e una fiscalità di vantaggio a Lombardo». In realtà il metodo esisteva, sembra facilissimo e consiste nel gonfiare la spesa pubblica. Ciò che il governo ha fatto con puntualità, trovandosi tuttavia a dover manovrare conti difficili, prima per l'aggravarsi della recessione, poi per la necessità di fronteggiare il disastro sismico dell'Aquila. In questo quadro largamente negativo, il capo del governo e il suo ministro dell'Economia non hanno saputo dire altro se non di «avere messo in sicurezza il risparmio degli italiani», in particolare con una serie di garanzie sui conti correnti bancari. Ottima scelta, se non si basasse su un'idea di continuità del funzionamento economico che per la verità è tutta da verificare. Perché il punto centrale della "Fiction Italia" dipende proprio dalla valutazione della crisi economica. Sono mesi che Silvio Berlusconi si aggrappa all'idea che la recessione è tutta un fenomeno psicologico, una specie di ingorgo mentale di cui liberarsi al più presto «con la volontà, con il nostro entusiasmo di imprenditori». È riuscito a comunicare questi concetti perfino alla platea della Confesercenti, non particolarmente simpatizzante nei suoi confronti, anche se non ha portato a casa risultati significativi. I commercianti, non importa se di destra e di sinistra, vedono ridursi «lo scontrino» e non vedono spiragli di ripresa. La stagnazione è qui con noi. L'entusiasmo non basta. Per la sua parte Berlusconi, senza averle lette, è riuscito a portare sotto una dimensione "berlusconiana" le considerazioni finali di Mario Draghi alla Banca d'Italia, che hanno rappresentato in realtà una delle più inquietanti sentenze economiche e finanziarie ascoltate negli ultimi anni. Perché il governatore Draghi non si è certamente fatto infinocchiare dalla retorica della destra, e ha esposto con nitidezza andamenti e fatti. E i fatti sono spietati. Nonostante le iniziative assunte dal ministro più popolare del governo, vale a dire Renato Brunetta, e tutti i progetti sul piano del welfare ipotizzati nel Libro bianco da Maurizio Sacconi (ancora scolastici, slegati dalla dimensione istituzionale, e ispirati comunque a un'arretrata visione "caritatevole"), la spesa pubblica è di fatto fuori controllo. Anzi, se si osservano gli andamenti reali della finanza nazionale, come ha rilevato Enrico Letta, e come è stato messo più volte in rilievo da Giuseppe Berta, il brivido nella schiena è assicurato, con un tendenziale del debito pubblico che ci riporta a un rapporto debito-Pil simile a quello degli anni Ottanta (120 per cento nel 2010), e con la sostanziale perdita di controllo del deficit. In queste condizioni non c'è spazio per l'ottimismo di maniera. Le immagini di Alitalia e di Malpensa stanno lì a dimostrare l'effetto notte delle strategie nazionali e antimercato del governo. Anche perché i tenui segnali di rallentamento della recessione che sembra di incrociare nei dati economici rischiano di essere tutti bruciati dagli effetti reali della crisi. Se si osserva infatti la tendenza del settore manifatturiero nelle regioni italiane tradizionalmente vocate, si intravedono scenari inquietanti, con cadute del fatturato fra il 25 e il 50 per cento. Le conseguenze di un simile trend sul piano occupazionale sono già state segnalate dal governatore Draghi nelle considerazioni finali, e comportano un incremento della disoccupazione fino a oltre il 10 per cento, con conseguente caduta della domanda di merci e servizi (e quindi con contraccolpi appariscenti nei livelli commerciali e nella grande distribuzione). Nelle aree di grande industrializzazione come il triangolo industriale, il Nord-est, l'Emilia- Romagna, le imprese stringono i denti, usano con fantasia e duttilità i contratti di solidarietà in tutte le forme possibili, accedono al welfare in modo anche creativo, ma nessuno è in grado di prevedere per quanto tempo potranno resistere. All'assemblea generale della Confindustria, Emma Marcegaglia ha invitato il premier, con calore e mimica perfino eccessivi, ad approfittare del consenso di cui gode (che andrà verificato alle elezioni europee, per uscire dalla numerologia del 75 per cento), per varare immediatamente «le riforme di cui il paese ha bisogno»: che sono poi sempre le stesse, e di solito prendono il via dall'età pensionabile e dalla struttura remunerativa nel medio-lungo periodo della previdenza. Sulle altre riforme di mercato, a partire dalle liberalizzazioni, nel grigiore delle aule parlamentari e nelle commissioni la destra si è distinta in un'opaca opera di blocco delle vecchie lenzuolate di Bersani, a favore di un modello corporativo che fin qui appare come il vero e unico schema politico-sociale di Berlusconi e Tremonti. Tanto più che oggi, in attesa del G8 aquilano, si ha la sensazione di una vistosa perdita di credibilità sul piano internazionale, testimoniata ad esempio dalle fallite spedizioni a Teheran del ministro Franco Frattini, e in qualche caso dalla percezione di una politica personale di Berlusconi, rivolta specialmente verso la Russia di Putin, in cui il premier non sembra avere le mani del tutto libere. Insomma, finora la "Fiction Italia" ha avuto successo esclusivamente nell'imporre un modello sociale ed estetico. Il mondo velinaro sembra realizzare effettivamente la fase suprema e la malattia senile del berlusconismo: una realtà in cui non si sa chi effettivamente crea valore, chi paga, chi spende, chi incassa. È il mondo dell'immagine e del look, immortalato dal fazzoletto del premier con il fondotinta incorporato. A cui si affianca la politica dura verso l'immigrazione, clandestina o no, con i respingimenti che hanno inquietato anche la gerarchia cattolica. Tuttavia occorre considerare che l'Italia di oggi, simile in parte alla struttura occupazionale della Germania, è dotata di un apparato industriale che occupa ancora oggi il 20 per cento della forza lavoro. Rispetto a questa realtà, il berlusconismo è del tutto spiazzato. Non ha un'idea di politica industriale. Non ha una cultura in grado di inquadrare concettualmente la questione della crescita. È possibile quindi che la soluzione alla fiction debba venire da altre fonti. Se è vero che per maneggiare l'evoluzione della crisi economica occorrono strumentazioni politiche assai più sofisticate, occorrerà prendere atto che nelle ultime settimane si è assistito a una fortissima redistribuzione dei poteri al livello internazionale, che dalla Casa Bianca di Barack Obama ha coinvolto la Francia di Nicolas Sarkozy e soprattutto la Germania di Angela Merkel. Gli effetti di questa redistribuzione si sono visti nell'afasia del governo sul caso Fiat-Magna International, con i balbettii provinciali dei nostri ministri economici, Sergio Marchionne lasciato allo scoperto e la completa assenza di Berlusconi dal gioco grande, impegnatissimo com'era nel difendere i suoi silenzi sulle vicende velinare con le trame dei suoi staff produttori a getto continuo di format fasulli. Per questo può nascere la sensazione che nonostante tutto, nonostante la maggioranza monstre, nonostante la sicurezza ostentata dal premier, qualcosa di essenzialmente politico si stia aggirando lentamente dentro la politica italiana, cercando qualche sbocco inatteso. Il partito unico del berlusconismo presenta diversi buchi. E allora l'attivismo ancora imprecisato ma visibile di Massimo D'Alema, il tentativo radical-conservatore di Gianfranco Fini, con i suoi continui spostamenti laterali dal paradigma del berlusconismo, e anche l'embrione di associazioni e fondazioni come quella di Luca Cordero di Montezemolo, sembrano dire che il grande processo di semplificazione (populista e istituzionale) a cui guarda o guardava Berlusconi, pare ormai secondario rispetto a ciò che avviene nel cuore della realtà politica. La fiction potrebbe durare ancora, finché piacerà all'amoralismo degli italiani. Ma è assai difficile che la "Fiction Italia" possa trovare un buon finale con la farragine narrativa di un modello che ormai appare largamente sfasato rispetto alla durezza della realtà. n
L'Espresso, 11/06/2009
La disfatta Fiat-Opel
Sono anni che alla Confindustria, in Banca d'Italia, all'Abi e in ogni sede dove si rappresentano interessi economici consistenti, scorrono fiumi di parole sulla compattezza del Paese e delle sue strutture di leadership. Fare squadra, organizzare cabine di regia, creare classe dirigente. Dopo avere assistito alla stupefacente prestazione dell'establishment italiano nella battaglia per la conquista di Opel, anche l'osservatore meno informato non può non restare sbalordito dal funzionamento delle nostre strutture di governo durante il negoziato con il governo della Repubblica federale e la presentazione da parte della Fiat del piano industriale per la gestione della casa automobilistica tedesca. Ci vuole niente, infatti, a riconoscere che si è trattato di un'autentica guerra asimmetrica. Da un lato si è vista la Fiat giocare la sua battaglia, con tutti i suoi limiti, tutta imprenditoriale e di mercato, di fronte allo schieramento dei poteri tedeschi, comprensivi del sindacato, dei Länder, delle banche, e delle coalizioni che si creavano intorno al "kombinat" di Magna, entità austro- russo-canadese che fa da termometro dei rapporti fra l'economia della Rft e le opportunità ancora tutte da esplorare degli spazi economici con la "demokratura" russa di Putin e Medvedev. Da una parte, in sostanza, abbiamo visto schierata la potenza di relazioni e di potere politico del Paese centrale dell'Europa: era sufficiente verificare orientamenti e giudizi del ministro Karl- Theodor zu Guttenberg, il ruolo di perno diplomatico di Angela Merkel e l'azione di lobbying filorussa esercitata dall'ex cancelliere Spd Gerhard Schröder per accorgersi di uno schieramento difensivo poderoso, legato esplicitamente alla strategia di tutelare l'assetto neocorporativo dell'economia tedesca, la sua rete istituzionale e la sua futura proiezione globale. «Una soap opera», l'ha definita l'ad della Fiat Sergio Marchionne; ma la definizione è riduttiva. Perché non mette nel giusto rilievo il completo squilibrio con cui si è giocata questa partita europea e mondiale: da una parte un blocco di potere politico coalizzato, connesso alle istituzioni politiche americane e alla presidenza di Barack Obama. Dall'altro un "player" solitario, seppure galvanizzato dal successo nella trattativa "global" con la Chrysler. Che si trattasse di un'impresa segnata dalla precarietà era scritto nel contesto. Come ha sentenziato sul "Corriere della Sera" Sergio Romano, del governo italiano si è vista soprattutto «l'assenza». Fino a riconoscere che «non è edificante» il confronto «fra la serietà delle trattative di Berlino e la litigiosa frivolezza della politica italiana». In queste condizioni, di cedimento strutturale della credibilità (e di esclusione totale dal vertice telefonico di Madrid fra Merkel e Obama), era come se il "piccolo e brutto" capitalismo all'italiana volesse catturare il "big government" della Germania. Quindi partita impari, che in certi momenti è sembrata sfociare in un velleitarismo incomprensibile. Se c'era un momento in cui si è rivelata la debolezza strutturale dei cosiddetti poteri forti, e in particolare delle strutture che presiedono alla politica internazionale del nostro Paese è stato proprio ciò che si è visto nelle fasi finali dell'asta per la Opel. I balbettii del ministro Claudio Scajola, capace soltanto di rispondere a ogni passaggio problematico che «esistono ancora margini per la Fiat», e le dichiarazioni del ministro dell'economia Giulio Tremonti secondo cui il governo tedesco ha cambiato in corsa le regole del gioco, rappresentano in realtà soltanto il segno visibile di un'impotenza. In questi giorni abbiamo assistito in sostanza alla verifica effettiva del peso e della qualità della presenza italiana nel contesto internazionale. Da un lato un raider come Marchionne, deciso a trovare per la Fiat un ruolo fra i grandi giocatori mondiali dell'automobile. Dall'altro, quella sottile, anzi impalpabile trama di amicizie, di retorica, di improvvisazioni, su cui si gioca da anni l'azione, chiamiamola così, del governo italiano di destra. L'asimmetria è fin troppo evidente. Anzi, clamorosa. In questi giorni è sembrato di assistere a un gioco strapaesano, in cui il provincialismo italiano l'ha fatta da padrone. Affiorerà anche al G8 dell'Aquila, si è visto nei mediocri trionfalismi romani di Roberto Maroni e Angelino Alfano nel G8 sulla sicurezza. Nel frattempo, il premier Berlusconi scherza sulle veline, si trucca con il fazzoletto magico da cavaliere mascherato, continua ad apparire sui luoghi del terremoto facendo promesse di case e crociere vestito come nei Soprano. Ma a guardare gli elementi oggettivi, i dati duri visibili sotto la partita Opel, viene voglia di dire che per la Fiat si è trattato di una sconfitta, ma per il governo italiano di una disfatta.
L'Espresso, 18/06/2009
Lei balla da sola
Il tentativo di Sky uno di trasformarsi in un canale generalista per rastrellare abbonati mostra seri, o serissimi, problemi, nonostante i dati di ascolto sbandierati dai dirigenti. Fiorello non ha ancora trovato il format del suo spettacolo, mentre lo show di Lorella Cuccarini è fin troppo ovvio. "Vuoi ballare con me?" è un clone, distribuito su quasi tutta la giornata di programmazione. A quanto si capisce partecipano famigliacce, coppie di fidanzati, mamme e padri e figlie, ognuna cercando il numero che le emancipi dalla mediocrità. I giurati (visti Franco Miseria piuttosto generoso e la sempre concettuale esteticamente Paola Barale) tendono a emettere di continuo giudizi entusiastici. Ma il problema è che per una televisione che dovrebbe essere di tendenza come Sky il programma della Cuccarini ha un insopportabile sentore di casalinghitudine, di brodo, di pulizie domestiche, di detersivi e prodotti da forno. Queste caratteristiche della 44enne ristilizzata Lorella sono sempre state la sua forza, ma nei format della televisione generalista. Sarebbe come se Milly Carlucci, dopo i trionfi di "Ballando con le stelle", esportasse pillole di quello show sul satellite, senza cambiare modalità espressiva. Non funzionerebbe. Andrebbe meglio "Amici", che è già concettualizzato per una fruizione parcellizzata. Ma il fatto è che il talent show è un esercizio televisivo difficile, che si nutre di alchimie iniziatiche poco programmabili. La Cuccarini per ora fa spettacolo per famiglie in assenza di famiglie. Il risultato, bisognerà riparlarne. Per ora, pollice verso.
L'Espresso, 25/06/2009, TELEVISIONE
Silenzio: parla il proconsole
Sapete quando uno si fa prendere da un interesse non si sa quanto motivato. Be', il vostro rubrichista ha deciso di seguire le conferenze stampa predisposte per le elezioni europee e amministrative. Con una preferenza per i partiti minori, quelli che non avrebbero fatto il quorum del quattro per cento (sublime invenzione). Ci si fa una cultura, in questo modo. Magari un po' erratica, perché c'è sempre un Oliviero Diliberto o un Marco Rizzo che si scagliano contro l'acquisto costosissimo di bombardieri, «soldi buttati di cui non parla nessuno». Si vedono scenette un po' imbarazzate come quando Luca Telese a "Tetris" maltratta un libretto di Maurizio Gasparri, che se la prende, se ne va e poi ritorna. Oppure avete visto carneadi liberaldemocratici, consumatori, valdostani, faide siciliane gestite con tanta abilità dialettica del proconsole milazzista Raffaele Lombardo, che un "continentale", fra le diatribe di Gianfranco Micciché e Renato Schifani, pochissimo ci capì. Nel frattempo si sente per l'ennesima volta il pentimento di Sinistra e Libertà e di Rifondazione e dei comunisti per una scissione di troppo. Ma il momento "clou", in ogni programma, è quando si comincia a parlare della Lega Nord. Qui si entra nell'alta strategia. E lo schema su cui tutti giurano è che la Lega di Bossi sta sostituendo nel territorio l'insediamento del vecchio Pci. «La Lega è l'unico partito leninista rimasto sulla scena politica», si galvanizza David Parenzo. Gli altri annuiscono. Ripetono la formula. La fanno diventare vera. Finalmente, dopo un paio di conferenze stampa, è lecito lasciare calare le palpebre, con l'occhio lassù, nel brumoso Nord.
L'Espresso, 02/07/2009, TELEVISIONE
Guardaroba show
I programmi sul brutto anatroccolo rifatto in laboratorio sono ormai centinaia, e molti sono inguardabili perché sanguinolenti e hard. Invece è piuttosto divertente la nuova stagione di "Come ti vesti?!", trasmesso da Discovery Real Time. Lo spunto è semplice. Si prende una sciattona, abituata a vestirsi in modo "comodo", un po' sovrappeso e impresentabile, e la si mette nelle mani di due ottimi ristrutturatori di stile, vale a dire il "wedding planner" Enzo Miccio e Carla Gozzi. Per la verità l'idea del restyling viene di solito dal compagno o marito, spesso più impresentabile ancora, con 20 chili di troppo e look da periferia. Ma la trasmissione è curiosa perché non mostra soltanto come si può rifare un'immagine, bensì come la "costruzione della bruttezza" sia un processo progettuale e lungo, coltivato ogni giorno dalle campionesse della propria sciatteria. Le donne da ridisegnare non sono infatti soltanto un cumulo di inestetismi: sono il risultato di uno schema di autopersuasione, in cui si sono convinte di stare bene come stanno, appaiono soddisfatte, e non si porrebbero mai, se non sfidate dalla tv, il problema di cambiare il loro modo di apparire in pubblico. Alla fine il risultato salta fuori, e il marito o compagno coatto si dichiara soddisfatto, con baci e abbracci, anche se farebbe meglio a pensare alla sua, di immagine. Mentre si sbarazzano di interi guardaroba di orrori, i due conduttori fanno uso di buone dosi di equilibrio. Alla fine, ci si rende conto che il buon gusto assomiglia al buon senso. Resta solo una domanda: gli uomini fanno orrore, ma perché a volte le donne non si accorgono di volersi così male?