L’Espresso
L'Espresso, 02/07/2009, PORTE GIREVOLI
La sindrome di casoria
Si è infilato in bugie intere, in mezze verità, nelle solite provocazioni. Silvio Berlusconi non ha ancora trovato una risposta stilistica plausibile alla sua crisi. Ora tenta di apparire come uno statista, ingaggiando battaglie perdenti nell'Europarlamento, ora invece riacquista il profilo dentuto del Caimano, attaccando giornali e contestatori («Mi fate pena e disgusto»). Si è guadagnato la diffidenza della Cei e di "Avvenire", ha smarrito voti cattolici, rivendica con protervia uno stile di vita inadeguato a una classe dirigente credibile. Ma se si dovesse stabilire qual è il vero punto di crisi del Sultanato, come l'ha definito Giovanni Sartori, sarebbe arduo individuarlo. La verità più visibile è che dopo un quindicennio (e dopo le premesse poste dal primo urto della modernizzazione craxiana), sta cedendo il berlusconismo. Vale a dire un metodo sistematico di occupazione del potere basato sullo scontro esistenziale di due Italie: da un lato il paese della tradizione progressista, "i comunisti", cioè il pubblico impiego, il sindacato, l'ordine giudiziario, le istituzioni rappresentative, la scuola; dall'altro l'estemporaneità caotica di una classe dirigente che non dirige nulla, ma lancia di continuo progetti polemici contro «il Paese della conservazione». Fra l'Italia faticosa, e farraginosa, delle norme, e i vecchi lustrini di "Drive In", c'è in mezzo una tensione ideologica continuamente sollecitata. Perché non c'è mai stata discontinuità tra il format tv di sesso spicciolo, e di narcosi serale delle platee, e il modello politico e culturale berlusconiano. Forza Italia, la Casa delle libertà, e infine il Popolo della libertà nascono come un'aggregazione familistica. Sono privi di programmi politici culturalmente autonomi, e i loro intellettuali sono disponibili a modificarli sulla scia del contingente. Il mastice è il potere, e un'occupazione spettacolare di ogni spazio di manovra mediatica. Modello Gelmini, modello Brunetta, modello Alfano, modello Frattini, modello Ghedini, con l'aggiunta di uno sfruttamento edonistico delle occasioni ludiche che rende inevitabilmente scivolosa la discrezionalità del comando. Difficile distinguere tra la politica e l'intrattenimento personale. Tutto questo poteva forse reggere se ci fosse stata alle spalle l'eco di una cultura politica, ancorché calata nel "cafonal" della seconda Repubblica. Invece si è assistito, per ora, a un mezzo infarto di sistema. Si sa che le catastrofi non hanno mai una origine unica. L'eccesso di confidenza, il senso di impunità, lo smarrimento delle convenzioni istituzionali minime è tutto riassumibile nella sindrome di Casoria, nelle esasperazioni notturne, nelle accuse di Veronica Lario, nella diagnosi su un uomo «malato». Ma la situazione generale è forse ancora più inquietante dei festini romani e sardi. Perché si ha la sensazione che stia per avvenire, se non è già avvenuto, il ritiro della fiducia da parte di alcuni segmenti di establishment. I giudizi si consolidano nei corridoi corporativi del capitalismo domestico, nei circuiti di potere anche più opachi, nelle sale delle gerarchie vaticane, forse nelle arciconfraternite bancarie e massoniche. Non è un complotto. Può essere un verdetto. In contesti simili la mignottocrazia è più che altro un ulteriore elemento a carico. La durezza della realtà parla di un andamento produttivo che riporta il Paese dieci anni indietro, di continue minimizzazioni della crisi, di «poteva andare peggio», di rassicurazioni non convincenti sulla dinamica delle imprese manifatturiere, di una mortificante assenza del sistema Italia nel risiko mondiale dell'auto, di una inutile enfasi sull'incontro con Barack Obama (e di una folklorica partecipazione ai ludi imperiali di Gheddafi). Le mignotte riescono a dare il tono finale di losca vacuità a un'esperienza che non è più esclusivamente politica. Con i festini, le escort, i numeri sul «letto grande», tende a chiudersi un circo politico slabbrato che fin dall'esordio è stato un'esperimento antropologico. Il tentativo di convincere la società italiana che essa aveva un unico obiettivo, essere identica a se stessa, condividere il proprio tribalismo, avvolgersi nei propri egotici interessi. Su questo schema, Berlusconi ha vinto a mani basse. Dopo di che, nella grande crisi, è partita una crepa. La rottura del pack. Non si governa con le trovate. Può anche darsi che Berlusconi non sia finito, né umanamente né politicamente, che abbia ancora risorse, interessi e clan da mobilitare. Ma il berlusconismo, innanzitutto come stile di governo, è kaputt. Se n'è resa conto la destra sarkozysta interpretata da Gianfranco Fini. Sarebbe il caso che se ne accorgesse, con un'alternativa politica presentabile, anche il Partito democratico.
L'Espresso, 09/07/2009, TELEVISIONE
Onore a Derrick di Edmondo Berselli
Non tutti conoscono il piacere anticonformista di soffermarsi su qualche vecchia serie di gialli d'annata. Ce ne sono ogni pomeriggio. Basta accendere la tv e si trova, che so, una puntata de "La signora in giallo". Non è necessario seguire la trama: è sufficiente verificare lo stato di salute e la consistenza delle guance di Angela Lansbury, la protagonista. Negli ultimi episodi sembra essersi ripresa, dopo un certo periodo di decadenza. E quel che conta, in questa serie davvero "storica", è l'aspetto rassicurante, la soluzione che arriva sempre puntuale, la capacità della vecchia zia Jessica Fletcher di chiarire il caso eliminando ogni dubbio nello spettatore. Ma il cult pomeridiano è ancora oggi una delle 281 puntate, rimasterizzate e restaurate, di "Derrick". È vero che il protagonista Horst Tappert è morto, le auto in scena sono reperti d'epoca, l'ambientazione è davvero fuori dalla storia: eppure in quella Germania e in quella Monaco così "altmodisch", vecchio stile, si avverte un senso sociologico di verità. Sono veri i protagonisti, gli attori, vere le acconciature alla tedesca, sono vere le case, i salotti, gli arredi, sono vere le storie. Certo, Derrick non potrebbe più andare in prima serata (ma chissà); eppure nel preserale rappresenta una specie di sublime archeologia della fiction. Per qualcuno potrebbe essere un oggetto di studio; tuttavia conviene lasciarsi prendere dalla trama, e godersi qualche puntata (su Fox Crime). Lo sguardo lievemente attonito, gli occhi azzurri dell'ispettore capo Derrick che fissa l'assassino, mostrando in via subliminale di sapere già tutto di lui, è uno dei classici della storia dei telefilm.
L'Espresso, 09/07/2009
Il partito che non c’è
Un equivoco incombe sul Pd e può soffocarlo. L'equivoco si iscrive nella parola "partito". Perché se lo scopo principale della dirigenza democratica consiste nell'articolare le strutture di una forza politica tradizionale, la parabola del Pd si è già interrotta. Non si fa un partito compatto con il vuoto intorno. Non serve a nulla cercare il "terzo uomo", o donna che sia, fra scelte coatte e lotte personali che risalgono alla Fgci. Serve a poco la caccia al giovane, soprattutto se i giovani sono inclini al populismo vernacolare di Matteo Renzi o politichine miracolate dalle circostanze come Debora Serracchiani (molti di loro, i cosiddetti "piombini", sembrano "giovani" specializzati nel fare "il giovane" come in un film di Nanni Moretti). Nonostante le rassicurazioni di Franceschini, e qualche salvataggio in corner alle amministrative, il Pd è un progetto pericolante. In primo luogo perché non ha ancora trovato la sua leadership. Secondariamente perché non è riuscito a declinare una cultura e a individuare un insediamento sociale e politico coerente ed espansivo. Quanto al primo punto, classe dirigente e leadership, le implicazioni sono evidenti. I due principali candidati alla segreteria, Franceschini e Bersani, rappresentano esattamente ciò che sono: il primo, un frammento di cultura cattolica di cui è arduo individuare i confini, ma di cui si vedono facilmente i limiti (definiti da una posizione cristiano-sociale scarsamente orientata all'azione di governo). Per ciò che riguarda Bersani, gli si può dare atto di una buona volontà nel colorare il compromesso socialdemocratico all'emiliana con la tradizione solidarista del mondo cattolico. Tuttavia, nonostante il sostanziale sostegno di Romano Prodi, quello di Bersani resta un progetto fin troppo tradizionale, difficilmente in grado di schiodare coalizioni di interessi finiti sotto la sigla berlusconiana. La tentazione meno brillante, per il Pd, consisterebbe nel cercare soluzioni personaliste in assenza di personalità vere. Tanto per dire, si può giurare sulla capacità di amministratore di un uomo come Sergio Chiamparino. Ma nessuno può scommettere sulla sua qualità politica in senso lato. Sotto questa luce il "Chiampa" vale, per capirci, Piero Fassino. Provata capacità professionale su una base migliorista. Pensare allora di quadrare il cerchio di un congresso con l'invenzione di una leadership, o piuttosto di una candidatura, significa perdere di vista l'obiettivo di fondo. Che per il Pd consiste ancora nella costruzione di un movimento, proprio così, di un movimento politico, sociale e d'opinione, ben prima che di un partito strutturato. Non ce l'ha fatta Veltroni, a confezionare questo post-partito, anche se il Lingotto era sembrato il romanzo di formazione, e di fondazione, di un movimento originale. Ma non c'è in gioco soltanto il "Bildungsroman" della sinistra moderna, nei prossimi quattro mesi. C'è in ballo la chance di un'alternativa culturale al berlusconismo: ma per crearla occorre scappare fuori dal circuito dell'ovvio. E soprattutto dall'idea che il Pd sia già fatto e occorra soltanto sistemare le poltroncine. No, al momento il Pd non esiste. Per farlo nascere non bisogna pensare a un partito, ma a una cultura. Ci vuole, e non sembri una bestemmia politica, la fantasia e la capacità di fare una Forza Italia di sinistra. Un non partito, certo. Uno strumento laico, secolarizzato, versatile, per lasciare al passato gli ideologismi della memoria politica. E con l'idea, finalmente, di passare all'attacco della destra, senza inibizioni, senza condizionamenti.
L'Espresso, 16/07/2009, TELEVISIONE
Lippi che autogol! di Edmondo Berselli
Uno dei più colossali e penosi autogol pubblicitari visti in tv negli ultimi tempi è stato la campagna contro la contraffazione affidata dal ministero per lo Sviluppo economico al cittì della Nazionale di calcio Marcello Lippi, testimonial in sé prestigioso e carico di gloria. Lo spot è semplice: gli azzurri vengono presentati a centrocampo con nomi deformati e irridenti ("Zambrutta", "Buffone", "Pirlotta", "Grasso", ecc.), fino a quando Lippi si stufa, borbotta un «ma va'», e con un colpo ben assestato al primo della fila li manda tutti giù per terra, annunciando che la contraffazione danneggia l'Italia e tutti noi. Che imparino, quei loschi figuri, a stare al mondo. Ora, chi abbia avuto la brillante idea di mandare in onda questa schifezza non lo sappiamo. Geniale però è stata in ogni caso la scelta dei tempi: la campagna si è sovrapposta alle figuracce degli azzurri in Sudafrica alla Confederations Cup, con un effetto davvero deprimente per tutto il movimento calcistico domestico. Già si stava discutendo di una Nazionale vecchia, atleticamente inadeguata, tatticamente sorpassata, maltrattata dal Brasile e da squadre anche minori, ed ecco il colpo di genio ministeriale, con i nostri poveri atleti beffeggiati ogni sera. Vien quasi da pensare che al ministero si siano fatti matte risate, sul fine humour, o sullo spirito di rapa. Di sicuro, per noi che avevamo visto lo spettacolo in campo e vedevamo la miseria intellettuale dello spot pubblico, veniva voglia di tirare una pallonata nel televisore. O anche sulla fronte del ministro Scajola, uomo spiritosissimo, che avrebbe sicuramente apprezzato la precisione del tiro.
L'Espresso, 23/07/2009, TELEVISIONE
Calci al mercato
Ho commesso un errore. Aiuto. Ho lasciato la tv accesa su Sky Sport 24 "Calciomercato", e sono diventato praticamente psicodipendente. Io sono uno di quelli che con il calcio moderno si annoiano (troppi schemi, velocità parossistica e tecnica deficitaria). Ma trovo irresistibile il calcio parlato, la chiacchiera "discutidora", da salotto e da bar. E quindi, lasciando le notizie sullo sfondo, mi sono fatto prendere dal turbinio di voci, notizie, fatti e fattoidi che stanno animando l'estate calcistica. Ho visto la presentazione madrilena di Kakà e di Cristiano Ronaldo, ma non mi sono perso l'arrivo del neo-juventino Diego a Pinzolo (sarà bravo, ma mi è sembrato troppo brevilineo, diciamo così, uno gnomo). Ho sofferto per la trattativa della Juve con l'Udinese su D'Agostino, ho preso nota che Zenga con il Palermo vuole vincere lo scudetto, e che i suoi giocatori saranno «mentalizzati» alla vittoria del torneo nazionale, ho atteso che Felipe Melo, di cui colpevolmente ignoravo la presenza in Italia, si sbloccasse dalla Fiorentina. Adesso so praticamente tutto. Ma mi addormento con un brusio in testa, e talvolta mi chiedo; ma il Bologna avrà ingaggiato Tedesco? E chi sarà questo Tedesco? I giornalisti e i conduttori di Sky sono bravissimi, spesso ironici, spiritosi. Soprattutto quando devono seguire le conferenze stampa di calciatori afasici o scarsamente dialettici. Ci si chiede, qualche volta: che s'ha da fa' ppe' campà. Ma sia per i distratti spettatori sia per gli specialisti di mercato calcistico vale il vecchio detto: sempre meglio che lavorare. E poi, il Milan l'ha preso questo Luis Fabiano?
L'Espresso, 23/07/2009
Beppe Grillo e il re nudo
È un'ottima notizia che Beppe Grillo si sia candidato, con le sue maniere scandalistiche, alle primarie del Pd. Così com'era apparsa un'altra eccellente notizia la candidatura del "terzo uomo" Ignazio Marino. Questo perché il Partito democratico, di qui a ottobre e comunque per il futuro, ha un disperato bisogno di rientrare dalla realtà virtuale alla realtà reale. Finché Marino parla di laicità, nessuno può misurarne lo spessore effettivamente politico e la capacità reale di aggregare consenso. Si tratta di un fenomeno etico-mediatico. Così come quando parlano i "giovani" del Pd, nessuno è in grado di valutare l'effettiva qualità politica delle loro posizioni. Le parole di Debora Serracchiani e la prosa dell'emergente Giuseppe Civati, a un esame disincantato, sono ancora intrisi di politichese, e in ogni caso rappresentano il segnale che la preoccupazione fondamentale del Pd, fra giovani e vecchi, è la costituzione del partito: tradotto in termini volgari, l'occupazione e l'organizzazione di spazi di potere. Niente di male, la politica è anche questo. Ma ogni posizione va portata dentro la realtà vera. Cioè va misurata. Altrimenti rimane un bluff. La candidatura di Beppe Grillo inserisce un primo elemento di verità perché costringe a rivelare il bizantinismo dello statuto del Pd; ne inserisce un secondo, molto più forte, perché se effettivamente colui che i telegiornali di regime chiamano «il comico genovese» parteciperà alle primarie di ottobre, avremo la possibilità di conoscere la sua consistenza effettiva, numerica, quantificabile, tutta al di là dell'alone mediatico dei blog, dei Vaffa Day, del facile consenso degli "indignati". Fra i molti problemi della sinistra c'è quello di trascinarsi dietro una scia di rancori che assumono un rilevo emotivo molto intenso, ma non sembrano in grado di trasformarsi in una posizione politica razionale. Rabbie, proteste, frustrazioni animano «un volgo disperso che nome non ha», per citare il Manzoni, senza che questo vortice di antagonismi trovi una sintesi. Grillo, per dire, gliela offre. Bisogna vedere se avrà il coraggio di andare fino in fondo, accettando il responso del giudizio popolare alle primarie; oppure se invece approfitterà del palcoscenico offerto da «una sinistra del nulla» per urlare le sue idee eco-antagoniste, movimentare le piazze con il giustizialismo e poi tirarsi indietro, come talvolta fa, senza accettare il confronto e tornando al calore rassicurante e politicamente inutilizzabile del suo quasi-movimento. Insomma, c'è qualcuno che deve sbattere il grugno contro la verità, e vedere come ne viene fuori. Ne è venuto fuori malissimo, praticamente alla prima uscita, Marino, anzi, è uscito in modo grottesco con la storia della questione morale a proposito dello stupratore seriale responsabile di un circolo democratico romano. Si può non amare Massimo D'Alema, ma come si fa a ignorare ciò che ha detto in una memorabile intervista pubblica con Antonio Polito al Democratic Party di Roma? D'Alema dixit: si scagliano tutti contro gli apparati, ma io per le ultime elezioni ho fatto 130 manifestazioni nel Sud e quelli che parlano con disprezzo degli apparati non hanno mosso un dito. A Crotone, ha aggiunto D'Alema, provincia rossa, con 25 comuni su 27 amministrati dalla sinistra, siamo riusciti a presentare sei candidati di centrosinistra, di cui due del Pd, e siamo riusciti a perdere. Il senso del discorso dalemiano è indiscutibile. Qui non è in gioco il partito "bocciofila" di Pier Luigi Bersani (ma che cosa avrà voluto dire?) e neanche la dislocazione di potere fra le varie stalattiti di potere che vengono dal passato del Pd e dalle furbizie e dagli opportunismi odierni dei vari leader, veri e presunti. È in gioco una prospettiva di sopravvivenza per la sinistra, e non soltanto quella riformista. C'è qualcuno che ha sentito parlare di una cultura? Di indizi di una politica? Grandi discussioni, molto ispirate, su come il Pd deve essere, e balbettii pensosi su che cosa deve fare politicamente. Per questo non ci si può permettere di esorcizzare Grillo come ha fatto Piero Fassino, segnalando il rischio "Helzapoppin'". La politica è la politica, chiunque entri in campo. Dopo di che, chi ha qualcosa da dire, ma di reale e oggettivo, parli, discuta, convinca. Altrimenti c'è solo conformismo, convenzioni, politica politicante. E Grillo non vincerà le primarie, ma se è appena capace mostrerà la nudità del re.
L'Espresso, 30/07/2009, TELEVISIONE
a me gli occhi e i fornelli
Ci sono varie forme di dipendenza. Dopo il calciomercato a me è venuta quella della cucina in tv. Ci sono su Sky canali "dedicati", come "Alice" e "RaiSat Gambero rosso", ma si trovano anche sfiziosità micidiali su "Discovery Travel and Living", che ha presentato un programma pazzesco, "Orrori da gustare", in cui il conduttore gira il mondo mangiando ogni schifezza possibile, dai vermi agli hamburger (titolo originale, "Bizarre Foods"); programma con il pregio di mostrare anche ristoranti e mercati fantastici, come la Boqueria di Barcellona, con tutti i suoi prodotti più eccentrici e preziosi, dai "gioielli di toro" al miglior pesce del Mediterraneo (non fate sforzi di fantasia se non sapete che cosa sono i "gioielli": sono proprio loro, quelle cose mascule che hanno dietro i tori). Ma l'esercizio più interessante consiste nel seguire la realizzazione delle ricette da parte dei cuochi, e interpretare il loro linguaggio. Dunque, gli chef in tv di solito esagerano con gli ingredienti; eccedono nella varietà a scapito della linearità. Ma il loro lato più divertente è quello lessicale. Il cuoco, per essere un vero cuoco, deve ripetere ogni due per tre "un attimino", e soprattutto la locuzione "andiamo a". Cioè "andiamo a bollire, andiamo a sbollentare, andiamo a sbianchire". Fra le gag migliori, invece, sentita dall'assistente (una donna) di uno chef che "andava a preparare" la pasta all'uovo, «ora serve qualcosa per tenere uniti i bigoli...». I bigoli. Andiamo a tenerli uniti. A me piace il programma di uno chef giovane, Mario Bacherini, che insegna la cucina di base, senza orpelli. Andate a vederlo, su "Alice", e andrete a imparare qualcosa.
L'Espresso, 30/07/2009
Sex and the Silvio
Abbiano pazienza l'avvocato e deputato Ghedini e lo staff del premier, ma la loro linea difensiva non potrebbe essere più catastrofica. «Tutte invenzioni», sono insorti dopo la pubblicazione del nuovo scoop de "L'espresso" sulle registrazioni sexy realizzate dalla escort Patrizia D'Addario a Palazzo Grazioli. In avvio del nostro principale reality, Ghedini aveva messo a segno il plateale autogol a proposito di Silvio «mero utilizzatore finale» dei servizi offerti da quelle signorine così di casa nella residenza del presidente del Consiglio. Per questo qualcuno, nel giro di Montecitorio, aveva cominciato a chiamarlo "Comunardo" Ghedini, a ricordo imperituro del difensore del Cagliari e della nazionale Niccolai, passato alla storia perché specializzato in autoreti spettacolari. Ma quali «invenzioni», avvocato! L'invenzione, in casi come la prostituzione di regime, implica inevitabilmente la menzogna. Sarebbe fin troppo facile ribaltare l'accusa sulla corte berlusconiana, sostenendo che da mesi il premier vive in una zona grigia fra meschine bugie sul privato e presunti splendori turcheschi in pubblico, con il contorno di "clientes" che cercano di assecondare le narrazioni del sultano Silvio. Ma ci vorrebbe poco a capire che questa versione romanesco-brianzola-barese di "Le mille e una notte" rappresenta integralmente la verità. Anzi, per la precisione, le odalische di Palazzo Grazioli costituiscono la proiezione nell'immaginario italiano dell'ultraverità, forse dell'iperrealtà incarnata da Silvio Berlusconi. Il Cavaliere è impegnato in una compulsiva ricerca tesa a imporre la propria immagine, molto simile solo a pensarci a un fumetto anni Settanta, clonato a partire dal Dna della mascella ipertrofica di Lando Buzzanca: da Cavaliere a Cavalcatore, dal Cid Campeador a Fanfulla da Lodi il passo è brevissimo. Altrimenti non si spiegherebbero le battute come «Vi piace il presidente ferroviere? Io preferisco il presidente puttaniere», e neppure le palpatine all'assessora trentina, nonché l'infinito repertorio di storielle e barzellette tutte legate a una visione del mondo allegramente maschilista. Se non ci fosse una fede così fervente nell'ultrarealtà, senza nessuna paura della kryptonite verde o rossa (quella rossa aveva la brillante caratteristica di costringere Superman a combinare un mare di cavolate), IperSilvio non sarebbe capace di improvvisare un comizio sul G8, il G14, il G16 davanti alla escort D'Addario, al futuro premio Nobel per l'economia Tarantini e altri eccellenti ospiti, imbrodandosi sul suo ruolo prodigioso al comando dell'economia globale: «Io sono l'unico che ha presieduto il summit due volte. Adesso sono in-su-pe-ra-bi-le! Tre volte!...». E mentre sullo sfondo degli «utilizzi finali» del premier va in onda, e non poteva che andare a finire così, lo hit di Sal Da Vinci "Zoccole zoccole", dal musical neomelodico "Scugnizzi" («Zoccole, zoccole, zoccole, so' tante e campano a dispiétto 'e tutti quante»), come si fa a non ricordare l'inno nazionale scritto da Paolo Villaggio e Fabrizio De André, tanti anni fa: «È mai possibile, o porco d'un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi puttane». Ecco, in omaggio alla battaglia di Poitiers i "moros" li abbiamo (e li "respingeremos") e le puttane non mancano: ma prima di concludere che non è una cosa seria bisogna considerare che la politica ha le sue regole. Se uno le infrange, e "papi" le ha infrante tutte, deve affrontarne le conseguenze. Per il suo staff e i suoi cortigiani Berlusconi sta completando il suo capolavoro esistenziale in quanto genio pop; per le persone normali, il premier è arrivato alla fine del suo giro dell'Oca. Lo ha confessato proprio lui che deve stare fermo qualche giro, chiudere Villa Certosa, «cambiare vita», andare in pellegrinaggio da padre Pio. Ecco, autosospendersi: l'unica soluzione sufficientemente drammatica per essere più che dignitosa: perfino elegante. n
L'Espresso, 06/08/2009, TELEVISIONE
Toh chi si rivede
L'idea di un canale "tematico", tutto dedicato alle migliori serie televisive dagli anni Settanta ai Novanta, è più interessante del suo aspetto di semplice archeologia televisiva. Il progetto prende il via il primo agosto, con il varo su Sky del canale Fox rétro. Verranno rimessi in onda alcuni cult come "Charlie's Angels", "Baywatch", "Miami Vice", "Starsky e Hutch". E questo consentirà agli spettatori più attenti di ripercorrere la storia del nostro immaginario. Perché quelli che una volta chiamavamo "telefilm" riassumono il codice estetico, culturale, perfino etico, dell'epoca in cui sono stati realizzati. Quindi avere a disposizione una galleria di serial come quello del nuovo canale consentirà esercitazioni critiche formidabili. Non è un segreto che ormai le serie televisive più importanti rappresentano opere più importanti dei film hollywoodiani, richiedono investimenti molto elevati, e soprattutto sono in grado di restituire integralmente lo spirito del tempo, oppure, come avviene in "Lost", di anticipare la formazione di miti e antropologie. Nello stesso tempo i "legal thriller" come "Law and Order" e "Avvocati a New York" sfruttano fino in fondo le contraddizioni del sistema giudiziario americano. E naturalmente in questo caso occorre citare il "Dr. House", che esplora tutti i dilemmi professionali e morali della vita contemporanea. Rivedere le serie del passato significa quindi ripercorrere il nostro "come eravamo", cioè gli stili di vita, i canoni estetici, i codici comportamentali. Un esercizio in parte sociologico, ma soprattutto autobiografico. Abbiamo vissuto, tutti insieme, con i nostri telefilm; rivederli significa rivedere la nostra cultura.
L'Espresso, 06/08/2009
Gran Premio Formula Pd
Per cortesia, prendete nota che voi lo chiamate congresso, mentre i democratici la chiamano convenzione. Tuttavia, convenzione o congresso, com'è la battaglia per la leadership del Pd? Ma quale battaglia. È una guerra. Combattuta per mare e per terra, in trincea e in assalti alla baionetta, ora leale, talvolta invece sotterranea e incarognita, una guerra asimmetrica alla al Qaeda con un ampio repertorio di manovre canaglia. Scommettere su chi vince è un azzardo. Anche se «vince Bersani», dicono tutti. Perché ha l'appoggio delle regioni rosse, dei segretari locali, dei sindaci, degli assessori, degli "apparati" del vecchio Pci. Perché è nato lo stesso giorno di Silvio Berlusconi, 15 anni dopo, «seduto in quel caffè», cioè il 29 settembre. Secondo Enrico Letta, entrato a far parte del club degli emiliani, è piuttosto interessante osservare la dislocazione del sindacato: «Mentre il capo della Cisl Raffaele Bonanni si è subito schierato per Franceschini, la Cgil è spaccata in due, con esponenti importanti del suo circuito di dirigenti attuali e passati, come Cofferati e Nerozzi, che hanno scelto Franceschini, mentre Guglielmo Epifani e, credo, una parte consistente della base, sembra favorevole a Bersani». A questa realtà piuttosto omogenea culturalmente e politicamente si aggiungono quei cattolici come Rosy Bindi e lo stesso Letta, nonché i cristiano-sociali, che vedono con favore l'idea di un partito "secondo Bersani", radicato nel territorio e vicino al tessuto di imprese grandi e piccole (soprattutto piccole, come nel sistema del Nord-est e in Emilia). E su questi punti c'è l'endorsement implicito di Romano Prodi, che non ha lanciato squilli di tromba, ma non perde occasione per lasciar capire qual è la preferenza del padre nobile. D'altra parte il piacentino Bersani, grazie al consenso dell'asse che va da Prodi a Vasco Errani, governatore dell'Emilia-Romagna, sta facendo un autentico sforzo culturale, cercando in modo esplicito di presentarsi come un punto di sintesi fra culture, in pratica suggerendo un'immagine di sé simile a un nuovo Prodi: «Noi del Pd non veniamo dal nulla e neppure dall'ultimo mezzo secolo», ha detto e ripetuto in ogni occasione recente: «Rappresentiamo una traiettoria iscritta in 150 anni di storia, e che riassume vicende diverse ma complementari: quella delle società di mutuo soccorso, del mondo cooperativo, del movimento operaio e del sindacato, delle associazioni cattoliche e socialiste». Traduzione: non siamo semplicemente gli eredi del Pci e di qualche frangia della sinistra democristiana. "Bersani09", la sigla della sua mozione, richiama nello slogan un verso di Vasco Rossi: «Un senso a questa storia», forse dimenticando che Vasco ha sempre simpatizzato per Marco Pannella. Sul piano concreto, la mozione di Bersani rappresenta la riproposizione del "modello" emiliano, cioè quel sistema di economia sociale di mercato che ha creato e redistribuito ricchezza dal Dopoguerra in poi. Si vince, con questa specie di ritorno al passato? «La vittoria non è scritta a priori, e non è detto che sia così immediata e facile», risponde uno dei prodiani di lungo corso, Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma nei due faticosi anni dell'Unione, e oggi sostenitore di Bersani. «La Convenzione dell'11 ottobre probabilmente si concluderà con l'affermazione di Bersani, ma c'è da considerare che in seguito le primarie del 25 ottobre sono aperte, non limitate agli iscritti. È esemplare in questo senso la provocazione di Francesco Storace, che ha annunciato la sua partecipazione e ha invitato i suoi elettori a votare Bersani. E quindi la situazione diventa molto più incerta, perché le strategie dei cosiddetti apparati, con la concentrazione di blocchi di tessere, conteranno molto meno». Secondo Santagata voteranno alle primarie un milione e mezzo, forse due milioni di elettori, a seconda della temperatura dell'antiberlusconismo, e quindi fare previsioni è un esercizio sterile: «Il partito è contendibile, e molto dipenderà dalla velocità con cui i candidati usciranno dal congresso. È come la partenza in Formula Uno: conta lo scatto al via, ma conta soprattutto la velocità con cui si esce dalla prima curva». Sulla griglia di partenza restano gli altri due candidati, Dario Franceschini e Ignazio Marino. Franceschini sta puntando molto su un partito "identitario". Si dimostra preoccupatissimo riguardo a questioni sistemiche come il bipolarismo. Può darsi che, come sostiene Massimo Cacciari, sia ancora legato allo schema di Walter Veltroni, per cui il Pd si giocherebbe ogni volta la sua partita in un faccia a faccia con il Pdl; ma si tratta di vedere quale sia il gradimento di queste posizioni e specialmente se l'opinione pubblica sia ancora motivata da argomenti relativi all'impianto del sistema politico e della legge elettorale. Per certi versi è curioso il sostegno all'attuale segretario di alcuni pezzi di nomenklatura e di figure storiche della sinistra, come Cofferati, parlamentare europeo e probabile prossimo segretario della Federazione ligure. Si tratta di un'occupazione preventiva di spazi di potere dentro il Pd? Anche la starlet generazionale Debora Serracchiani si è sistemata alle spalle del segretario Franceschini. E con il cinquantenne segretario ferrarese si sono schierati gli ambientalisti di Ermete Realacci. Mentre sembra gravato da troppe zavorre il terzo uomo Ignazio Marino, portavoce di un principio laico che viene giudicato insufficiente per raccogliere consenso in sede congressuale. Inoltre dentro il partito ha risuonato in modo sgradevole la vicenda dei rimborsi truccati con l'Università di Pittsburg, e le solidarietà espresse nei suoi confronti sono apparse di tipo diplomatico, quindi poco significative sul piano del riconoscimento formale della sua correttezza amministrativa. Un siluro non da poco per il candidato che aveva evocato una questione morale ingente nel partito, dopo l'arresto di Luca Bianchini, presunto stupratore seriale e responsabile di un circolo democratico romano. Anche per Marco Follini, Bersani è il candidato favorito: «Ma occorrerà vedere se al congresso riuscirà convincente. Se Bersani ce la farà ad apparire un leader ragionevolmente capace di creare mescolamento, ci sono poche possibilità che venga battuto. Ma anche lui, in questi due mesi e mezzo, vive sotto un incubo, o una spada di Damocle». Che sarebbe la tutela di Massimo D'Alema. Si scrive Bersani e si legge Líder Máximo. Qualcuno a Bologna, molto in alto fra le figure di riferimento del Pd, sostiene che basterà una frase di D'Alema, un'intervista o una battuta, per incenerire la candidatura di Bersani e ridurlo a un burattino nelle mani del "vecchio bolscevico" Baffino. Tuttavia non c'è soltanto questo aspetto: secondo Antonio La Forgia, esponente bolognese dell'"école parisienne", cioè del magistero di Arturo Parisi, il limite della candidatura di Bersani è proprio di matrice ideologica e culturale: «Pier Luigi è il portatore di un recupero del compromesso socialdemocratico, cioè la vecchia strada emiliana, fra la via Emilia e il welfare. Ma i punti di forza di questo schema politico hanno esaurito il loro potenziale, nel senso che possono essere utilizzati anche a destra, senza caratterizzazioni politiche specifiche. Quindi alla fine il discorso di Bersani davanti all'opinione pubblica potrebbe essere convincente, ma non è detto che sfondi». Invece per Letta la competizione è comunque un elemento positivo perché provoca un rimescolamento: «Io mi sono schierato per Bersani in una chiave liberale e ulivista. Perché sono convinto che occorre ritrovare radici e convinzioni che ridiano spinta al centrosinistra. Ma aggiungerei che anche la candidatura di Marino, voluta e appoggiata da Goffredo Bettini, suscita energie nascoste e richiama in primo piano idee e posizioni che altrimenti avrebbero una rappresentanza minore nella politica italiana». In conclusione, giochi aperti. Si assisterà a uno scontro campale, e a un'estate rovente. «Ma alla fine», dice Letta, «con tutti i limiti dello statuto, e la possibile sfasatura tra il risultato della convenzione e le primarie, questo sarà un congresso pulito. E per la nostra politica questo sarà un risultato di eccezionale importanza».
L'Espresso, 12/08/2009, TELEVISIONE
Cerco casa ma esagerata
Cerco casa disperatamente... va in onda sul canale satellitare Discovery Real Time, ed è un mini-reality basato su una formula semplicissima: da una parte una coppia o una famiglia che cercano una nuova abitazione, dall'altra un'operatrice immobiliare e due architetti che formulano tre proposte e accompagnano i potenziali acquirenti a visitare le case prescelte. Fin qui niente di strano o di particolarmente originale. Ciò che invece può sorprendere è la qualità e il prezzo delle abitazioni proposte. Vale la pena di cominciare dai prezzi perché sembra che sia crollato il senso della riservatezza rispetto ai budget disponibili e richiesti: i due-tre milioni di euro per un appartamento a Roma, o di tre-quattro milioni per una villa con piscina in Sardegna, sembrano appartenere alla normalità. E tutto l'intreccio del programma sembra inteso a mostrare la diffusione di una ricchezza anonima, tuttavia "normale" legata naturalmente alla vita e alle carriere di avvocati, architetti, professionisti vari. Si tratta di una ricchezza sconosciuta, e chissà quanto censita dal fisco, che trova un preciso corrispondente nell'arredamento degli appartamenti e delle abitazioni proposte in vendita: una sovrabbondanza, un eccesso, un "troppo pieno" che ha tutta l'aria di voler rispondere all'ansia stilistica della borghesia compratrice. Troppi colori, e troppo vistosi, troppi accessori, troppa architettura "cheap". Che alla fine mostrano, più che una scelta estetica, un'assenza di stile, e testimoniano proprio il deficit culturale della nostra classe medio-alta, interessatissima al barbecue e alla cucina, e pochissimo alla bellezza delle soluzioni semplici.
L'Espresso, 12/08/2009, CULTURA
Rock The End
come avviene il passaggio dalla rivoluzione alla restaurazione? Dal rock come mito al rock come convenzione? E poi dicono le transizioni: ma intanto bisognerebbe cercare di non rimanere a bocca spalancata quando l'"Osservatore Romano" beatifica Bruce Springsteen, dopo il suo ultimo potentissimo concerto romano (a Torino, altro trionfo da 45 mila paganti), definendolo musica allo stato puro, e non solo: l'organo del Vaticano esalta lo «spessore letterario dei testi delle sue canzoni e l'attenzione ai valori cattolici», facendone un'immagine di verità sociale, di "Deep America", di classi popolari in camicia a quadri che balzano nella storia, provenienti idealmente dalla Depressione e dal New Deal. D'altronde ci vorrebbe poco per qualificare il Boss come un poeta di corte, il cantore di Obama: oltretutto non ha cantato l'inno "We Shall Overcome» nelle famose "Seeger Sessions"? Lo riscatta l'energia, dicono i fan, la generosità sul palco, la forza di imbracciare una chitarra elettrica con la E-Street Band a quasi sessant'anni, e di tener su tre ore di musica, con un'esplosione di talento scenico che ancora scuote gli aficionados. Allora viene la tentazione di capire dov'è finita la grande eversione spontanea, il suono della musica "sudicia" che faceva inorridire Frank Sinatra e i crooner, la trasgressione cominciata con Bill Haley e "Rock Around the Clock", e proseguita con il vitalismo nero e bianco di Elvis Presley. Dov'è finito lo standard antico del rock, il "vivere e il morire veloce", che ha accomunato lo stile di Jimi Hendrix, con le sue chitarre bruciate sul palco, e la gestualità "bianca" di Jim Morrison? Rimane la memoria, una nostalgia di secondo grado, ricreata per esempio in forma di commedia come nel film su Woodstock di Ang Lee . È rassicurante e gentile, "Taking Woodstock", il film del regista di "La tigre e il dragone", inteso a dimostrare che una parentesi di "Peace and Love", trascorsa ad amoreggiare nel fango e tra la musica, con un'esibizione ingenua di treccione, barbe, baffi, nudità d'epoca, oggi può apparire come uno squarcio rivelatore di una storia: quando la guerra nel Vietnam era un incubo livido e quotidiano, e l'urlo americano e anti- americano della chitarra di Hendrix offriva davvero l'idea di lacerare un velo su un mondo di violenza. Di mezzo c'è effettivamente una lunga stagione senza scansioni storiche, in cui le mode e gli stili della musica si susseguono senza mai diventare un paradigma collettivo. Dopo il "progressive", con le sue lunghissime suite, dopo i flauti di Ian Anderson, dopo i manierismi di Emerson, Lake e Palmer, venne il tempo dell'insurrezione punk, tre accordi e "no future", insulti al pubblico, droga e grida tossiche. Ma erano rivolte settoriali. Se invece si guarda al modo in cui i protagonisti veri hanno elaborato il rock, si nota alla svelta che intorno agli anni Ottanta la musica è stata portata alla maniera e al barocco con il "grotesque" esibizionista dei Queen di Freddie Mercury, melodramma omosessuale a torace nudo, trasformato in gospel o in canto di vittoria ("We Are the Champions"), cioè l'esatto corrispondente di un altro clou del kitsch mondiale, "Vincerò" dei Tre tenori, con la "Turandot" e il principe Calaf monumentalizzati a slogan canoro sempre più usurato e volgare. Lo schema aveva funzionato, e funziona ancora, con Madonna: che non è una eroina del rock, ma una costruttrice di show, di immagini, di configurazioni. Con i suoi crocefissi latinoamericani, ipersessuali e lucidi di sudore. Oppure con la beatificazione "global" di Evita Perón, e oggi con il recupero, a cinquant'anni, dei ritmi "dance", Madonna non è più da tempo come la definì Mick Jagger: «Un bicchierino di talento in un oceano di ambizione». Madonna è il passaggio dal rock al look, un'impresa e un'imprenditrice, una cantante mediocre e una proiezione totale di immagini sullo schermo della globalizzazione. Tanto più che anche Jagger e i Rolling Stones, con i loro ricorrenti e un po' infastiditi tour mondiali, rappresentano lo spettro rugoso di se stessi, e di quella collera non-politica, bensì generazionale e gratuita, la «nostra rabbia un po' idiota», che pervadeva gli anni di "Satisfaction". Una possibile verità è che, privato del mito, il rock è sopravvissuto come successione prevedibile di eventi. Nell'ultimo concerto a San Siro, gli U2 hanno creato uno spettacolo di suoni planetari, fatto di campionature e di tecnologia. E gli ultimi 25 anni del pop e del rock sono costellati dai "Live Aid", per l'Africa e il Terzo mondo, cioè dalle manifestazioni di massa che, sotto gli auspici di Bob Geldof o Bono, portano su un palcoscenico immenso i divi sempre più invecchiati di mezzo secolo di musica. Che rifanno se stessi, gli stessi cori, le medesime canzoni passate in archivio, perché il pubblico vuole riconoscersi in ciò che conosce già, ossia nella propria storia e nel proprio vissuto: il mito, nel rock, è una formulazione psicologica minore, che fa incontrare vicende individuali altrettanto minori, trasferendole in una coralità autoriconoscibile. Ci sono anche altre storie, apparentemente più dimesse, come quella di Leonard Cohen, che a 75 anni va ancora in giro a cantare con la sua voce da basso la stessa meravigliosa tiritera. Tuttavia questo non è rock, e neanche mito. Cohen è quanto di più simile a un poeta si sia potuto incontrare nella musica degli ultimi quarant'anni (anche quando racconta il suo fugace rapporto con Janis Joplin fra le lenzuola del "Chelsea Hotel"). Il mito invece, altro che poesia e letteratura: accetta degradazioni dal basso, si lascia sporcare. Lo ha capito, in un modo stralunato, Bob Dylan, che a ogni tappa del "Neverending Tour" perde spettatori e stravolge la sua musica; e non è un caso che in Italia qualcosa di simile al mito si sia incarnato in Vasco Rossi, ovvero un eroe deliberatamente provinciale, «sbudellato» (come scrisse Pier Vittorio Tondelli»), e comunque fieramente disattento all'estetica. Viene da dire, allora, che la restaurazione rocchettara, con l'imprimatur dell'"Osservatore Romano", è il prezzo pagato a un peccato delle origini, quando la rivoluzione aveva l'obbligo di immergersi nel fango di Woodstock e della musica "nera", fitta di istintualità. Poi è venuto il tempo della convenzioni. E se si vuole del business. Del carrozzone mondiale. Il rock è diventato vecchio insieme con i suoi sacerdoti e i suoi adepti. Il mito non si sporca più. E quando una mitologia è troppo igienizzata, resta solo come fenomeno di consumo, o di revival, di fronte al quale, man mano che passano gli anni, risulta superflua l'essenza, cioè l'emozione. n