L’Espresso
L'Espresso, 12/08/2009, PORTE GIREVOLI
Un governo sotto ricatto
Con le elezioni del 2008 era stata molto sottovalutata la formazione dell'alleanza di centrodestra. Silvio Berlusconi aveva messo insieme, intorno ai due partiti nucleo del Popolo della libertà, Forza Italia e An, due forze territoriali in chiara opposizione reciproca: al Nord la Lega di Bossi, e in Sicilia il Movimento per l'autonomia di Raffaele Lombardo. Pochi avevano valutato l'intrinseca contraddizione di questa coalizione. Sarebbe dovuto risultare evidente che era bizzarro avere nella stessa alleanza politica un movimento come la Lega, che in nome del federalismo richiedeva che le risorse degli elettori restassero al Nord, e un'altra che pretendeva fiscalità di vantaggio e trasferimenti pubblici al Sud. Probabilmente la sottovalutazione era determinata dalle dimensioni ridotte del movimento siciliano. Ma anche mettendo a bilancio questo aspetto, si doveva capire che per evitare conflitti politici interni alla compagine di centrodestra la compresenza di queste due forze politiche poteva essere trattata dal governo Berlusconi soltanto in un modo. Vale a dire con l'erogazione di spesa pubblica. Un classico della prima Repubblica. Destinato a divenire un metodo della Seconda, o comunque si chiami il sistema istituzionale in cui ci troviamo, se la spregiudicatezza degli attori locali poteva decidere di giocare la partita dei veti e dei ricatti. Va interpretata in questo modo la mancata nascita, o quasi nascita, o nascita abortita, del "Partito del Sud". Una iniziativa politica che certamente per il momento non ha messo in tensione estrema il centrodestra, ma ha chiarito le innumerevoli possibilità di ricatto politico implicite in una situazione che invece sembrava stabilizzata dai numeri parlamentari del Pdl. Eugenio Scalfari su "Repubblica", in proposito, ha parlato di «secessione silenziosa». Il termine è forte ma mette in luce l'assenza di un disegno generale per il Paese, e gli interessi che possono essere giocati da un'area territoriale contro l'altra, nella più completa indifferenza per un disegno comune e per un equilibrio che rispetti le compatibilità sociali e territoriali. Altro che "dualismo", storica condanna dell'Italia alle prese con territori sottosviluppati e con politiche di sostegno via via fallimentari: oggi potremmo essere in presenza di una dissoluzione potenziale della configurazione nazionale. Il governo di centrodestra ha risolto, almeno per ora, la questione impegnando 4 miliardi di euro, e sostenendo con le parole del ministro Claudio Scajola che queste risorse serviranno a rimettere in moto l'economia reale della Sicilia. I protagonisti della "piccola secessione" come Lombardo e Micciché possono vantare un risultato politico evidente. Ma intanto si tratta di vedere se questo ammontare verrà effettivamente utilizzato nel rilancio del sistema produttivo siciliano, o finirà nel calderone della spesa corrente e della cattiva ordinaria amministrazione. Già: è un vizietto del centrodestra dilatare la spesa pubblica senza che si sappia dove i soldi vadano a finire. Anche in questa legislatura, lo ha segnalato ancora Scalfari nel più completo silenzio dell'esecutivo, l'incremento è scappato di mano (per un totale che tocca i 35 miliardi, una superfinanziaria) senza che nessuno sia stato in grado o abbia voluto indicare a che cosa siano serviti. È un problema che riguarda anche la situazione locale. E nel futuro potrebbe concernere anche la grande corsa e il grande assalto alla diligenza, non appena i governi regionali e le classi politiche locali si renderanno conto che per nutrire le loro nuove clientele potranno muovere all'assalto del governo centrale. Tutto questo non sembra preoccupare l'opinione pubblica, che pure dovrebbe guardare con inquietudine all'andamento dei conti pubblici. Ma, oltre alle questioni finanziarie, l'elemento centrale, anzi cruciale, è la perdita di un orientamento comune. Il pensiero che la tenuta del Paese è assicurata soltanto dalla capacità di mediazione fra rivendicazioni localistiche e mediazione "dorotea" del governo centrale getta una luce sconfortante sulla capacità del Sud, cioè del Paese, di crescere e svilupparsi. Ci sono le premesse per assistere a un hobbesiano "bellum omnium contra omnes", ossia a una competizione famelica per sottrarre risorse senza innescare processi adeguati di sviluppo. A una balcanizzazione di un terzo del paese. Già adesso, come da qualche anno segnala la Svimez, tutti gli indici del Sud sono più deboli rispetto al Nord (non solo quelli economici e produttivi, anche quelli civili, scuole, biblioteche, ecc.). Pensare di risolvere questa situazione con le trovate finanziarie equivale a pensare a un Mezzogiorno che si illude di salvarsi ai danni della nazione.
L'Espresso, 20/08/2009, TELEVISIONE
Senti chi parla
Il moltiplicarsi delle piattaforme e dei canali digitali e satellitari ha spalancato le porte della comunicazione tv a una quantità impressionante di professionisti o semiprofessionisti del teleschermo. Non solo giornalisti, ma cuochi, soubrette, commentatori del tutto e del nulla, specialisti della funzione di ospite. Ma se esiste una certa professionalità diffusa, cioè la generica capacità di stare in video, ciò che è venuta a mancare è una dote primaria: il possesso di un italiano decente. Innanzitutto è caduto il controllo proprio sull'emissione della voce. Per un fenomeno riconoscibile di reciproco rafforzamento fra lo standard tv e l'abitudine linguistica quotidiana, oggi le donne parlano in tv con voce di gola e di naso. Gli uomini emettono in genere suoni dialettali. Ma ciò che stupisce è che non ci sia nessuna forma di controllo, specialmente sulla pronuncia. Basta guardare un tg di Sky, ma anche della Rai o di Mediaset, e ascoltare un corrispondente da Palermo, da Roma o da Trieste, per chiedersi quale sia il motivo per cui non ci sia nessuno che intervenga per dire: cara signorina, caro signorino, ma non vi rendete conto che il vostro italiano, con le vostre inflessioni vernacolari, è impresentabile? Non ci avete mai fatto caso? E invece no. Nessuno sembra farci caso. Così le ragazze parlano un romanesco "inzopportabbile", i ragazzi e gli adulti talvolta nemmeno si riesce a capire che cosa dicono. Una volta Carlo Emilio Gadda scriveva il manuale per il buon italiano radiofonico. Adesso, eh, adesso, l'importante è apparire. Il resto è un peccato di gola: anzi, di naso, di diaframma, di fonazione, e tanto peggio per chi ascolta.
L'Espresso, 27/08/2009, TELEVISIONE
Perfetta Pivetti
Nelle desolate seppure bollenti e afose serate agostane, che cosa guardare nell'intrico di questi palinsesti desertici? Può capitare perfino di imbattersi nelle repliche di una fiction domestica, "Provaci ancora prof!", giunta alla terza stagione. Di solito abbiamo una diffidenza istintiva per le serie italiane, e non appena ne incrociamo una, salvo qualche raro Montalbano, mettiamo mano al telecomando. Ma questa volta la curiosità ha avuto il sopravvento, e soprattutto ha avuto il sopravvento la presenza di Veronica Pivetti. Giunta quasi a metà dei suoi quaranta, la Pivetti nel senso di Veronica si è riveltata un'attrice molto brava, oltre che una donna molto bella, se si apprezzano le bellezze asimmetriche, un po' cubiste, esplicitamente irregolari; e nel caso di Veronica, decisamente nordiste, padane, lombarde (anche se i repertori testimoniano di una simpatia della Pivetti attrice per il Partito democratico). In questa fiction, diretta da Rossella Izzo e premiata da un dilagante successo di pubblico, Veronica azzecca praticamente tutto, perfino l'abbigliamento da professoressa democratica, "comodo" e pochissimo elegante. Gli altri personaggi sono piuttosto schematici, se si esclude il co-protagonista Paolo Conticini, alias commissario Gaetano Berardi, le trame o troppo semplici o eccessivamente complicate ed esagerate, con troppi omicidi in ballo; mentre la professoressa Camilla Baudino, alias Veronica Pivetti, è essenziale e non sbaglia una mossa. È invadente, intrusiva, non si fa mai gli affari suoi, vuole aiutare tutti: la prof insopportabilmente perfetta. E la Pivetti, un'attrice popolare e praticamente perfetta anche lei.
L'Espresso, 27/08/2009, ATTUALITA'
L’autunno di Silvio
Dice il sociologo Giuseppe De Rita che il centrosinistra non tocca palla. Scrive Adriano Sofri che il 25 luglio del Cavalier Berlusconi è già avvenuto, e manca soltanto la ratifica. Se le cose stanno così, si capisce facilmente perché la politica d'estate è fibrillata fin quasi all'infarto su incidenti infimi. La questione centrale è che il ciclo berlusconiano si sta esaurendo, e al Pdl manca la capacità di rilanciarsi. Da un lato tutto il repertorio del berlusconismo mostra la corda, con le sue ossessioni, fissazioni, manie culturali. Forse il punto debole, il peccato originale della destra deriva con esattezza dall'atto di nascita del Pdl: avere messo insieme gli istinti liberaloidi di Forza Italia con i residui della cultura nazionalpopulista di Alleanza nazionale ha creato un grosso partito generalista, ma ha fatto perdere iniziativa e velocità alla nuova formazione politica. I problemi personali e pubblici di Berlusconi hanno introdotto un ulteriore elemento di debolezza nella coalizione di destra, oltre che un fattore di scadimento democratico: il capo del Pdl, con il suo divorzio, le escort, le liti ereditarie, impersona oggi una questione politica che condiziona ogni mossa dello schieramento, i rapporti con il mondo cattolico e la chiesa, la credibilità di fronte all'opinione pubblica e alle élite nazionali, e per evitare contraccolpi nel consenso impone un controllo dei media più simile a una "demokratura" di stampo putiniano che non a una normale democrazia liberale dell'Occidente. È per questo che il sistema di relazioni interno alla destra si movimenta, si agita, diventa aritmico: e come sempre in questi casi, oltre alle trafelate diplomazie dell'entourage berlusconiano nel tentativo di incontrare il papa, si esalta il ruolo della Lega. Ferragosto è scivolato via con i numeri funambolici di Umberto Bossi da Ponte di Legno sull'inno nazionale e "Va' pensiero": un pretesto, poi furbescamente rimangiato, per introdurre dinamismo e manovra dentro una coalizione dai riflessi condizionati. Bossi sa benissimo, da sempre, che per la Lega "chi si ferma è perduto": che si tratti «di Sionne le torri atterrate» o «arpa d'or dei fatidici vati», ciò che serve al Carroccio è fare scoppiare qualche allegro petardo che tenga in tensione i berluscones e gli ex aennini. Una trovata tira l'altra: prima il revival ormai tradizionale, da parte leghista, dei dialetti, fino all'invenzione delle fiction vernacolari della Rai, poi i matrimoni in dialetto, gli albi regionali per gli insegnanti; infine, per passare dall'immaginario al materiale, le gabbie salariali, ovvero i salari «territorializzati», e «la terra ai giovani» secondo la proposta del ministro Luca Zaia, che sta diventando uno dei "punteros" più vivaci e presenzialisti della Lega. Tanto per capire la remissività politica circostante, la proposta di Zaia, in apparenza stravagante, «è stata accolta da un consenso bipartisan». Ma ciò che conta è la sostanza politica di tutti questi piccoli fuochi e i risultati che essi ottengono: sono settimane infatti che tutto il mondo politico è indotto a giocare soltanto di rimessa sulle sortite della Lega. Nonostante le parole d'ordine trionfalistiche dei suoi ministri, il governo Berlusconi ha perso velocità, con il premier che su ogni tema e problema annuncia il suo impegno personale in prima persona, un «fasso tuto mi» alla lunga affannoso che tradisce una visione "corta": sulle prospettive del governo grava la pesantezza della crisi economica, che in autunno potrebbe farsi sentire in misura preoccupante, soprattutto nel settore manifatturiero e quindi al Nord, nelle aree di maggiore insediamento di Pdl e Lega. Finora l'esecutivo, soprattutto con il premier e il ministro Claudio Scajola, hanno utilizzato la tecnica del troncare e sopire, chiedendo fiducia, colorando di ottimismo i più pallidi segnali di ripresa, continuando a ripetere «il peggio è alle spalle». In realtà, le prospettive economiche sono da brividi, con i consumi in calo e l'eventualità che in settembre i cancelli di molte industrie restino chiusi. Forse per la prima volta nella sua vicenda, anzi, per dirla sempre con De Rita, nel suo "ciclo lungo", Berlusconi si trova a doversi scontrare con la durezza della realtà. Non c'è più alcun sogno, e neanche un miraggio, per il berlusconismo. Le riforme istituzionali non hanno la minima attrazione per l'elettorato, le liberalizzazioni si sono inabissate (sabotando anche le più sacrosante lenzuolate di Pier Luigi Bersani), la modernizzazione del sistema Italia è un ricordo. Le leggi sulle intercettazioni e sulla privacy sono provvedimenti ad personam. Il pronunciamento della Corte costituzionale sul lodo Alfano potrebbe scatenare una crisi politico-istituzionale mai vista. Ci sarebbe in sostanza amplissimo spazio per l'opposizione, se il Pd non fosse impegnato nelle sue vicende interne. Ma, per l'appunto, i democratici sono alle prese con la preparazione del loro congresso e delle primarie. Non c'è molto spazio per iniziative politiche di qualche significato generale. Ha fatto un certo rumore il sondaggio secondo cui Bersani avrebbe 19 punti di vantaggio su Dario Franceschini. Questo significherebbe che il futuro del Pd è già scritto. Tuttavia rimane incertissima la strategia futura del partito. Oggi come oggi il Partito democratico rischia di rappresentare quella «minoranza permanente» di cui parlò Massimo D'Alema dopo le elezioni politiche del 2008. Il tentativo di allargare l'area del consenso del centrosinistra investe i rapporti con l'Udc, e di riflesso la ridefinizione del rapporto con l'alleato rivale, vale a dire l'Italia dei valori di Di Pietro. E qui cominciano a delinearsi prospettive di ultrapolitica: secondo alcune analisi riservate, svolte in alcuni centri dell'establishment italiano, entrambi gli schieramenti sono vittime di un alleato che esercita un ricatto permanente: a destra la Lega, che approfitta dell'opacità programmatica del Pdl e dell'assenza di guida da parte di Berlusconi; a sinistra Di Pietro con le sue mobilitazioni giustizialiste. Nel momento in cui la crisi economica dovesse farsi sentire con crudezza, questa è la conclusione dei poteri forti, potrebbe venire all'ordine del giorno una grande intesa nazionale fra Pdl e Pd, con l'obiettivo di razionalizzare ulteriormente il sistema politico, escludendo i soggetti "anomali", e costringendo di fatto l'Udc a prendere posizione, rinunciando alla politica dei due forni che Pier Ferdinando Casini sta praticando con qualche successo, giocando di volta in volta alleanze diversificate sul piano territoriale. Credibile, il modello delle larghe intese? O pura fantapolitica? Prima di ogni valutazione in merito occorrerà aspettare il risultato delle primarie democratiche. Perché il futuro partito si disegnerà a seconda del vincitore. Se questi sarà Bersani, dovremmo assistere alla nascita di un partito che cercherà di riprendere la fisionomia del compromesso socialdemocratico all'emiliana. Il piacentino che piace a Bossi e a Cl, l'uomo del partito «bocciofila», sta cercando di mischiarsi con i cattolici (vedi Enrico Letta e Rosy Bindi, nonché l'appoggio non dichiarato ma evidente di Romano Prodi), per evitare proprio il rischio di un partito identitario, troppo simile al Pci e carico di elementi passatisti. Secondo analisti vicini ad Arturo Parisi, lo schema di Bersani è sbagliato, o perlomeno anacronistico: oggi infatti un partito di programma difficilmente può puntare da sinistra a un piano di riforme con al centro il welfare, in quanto si vede che questo programma può essere realizzato anche da una destra "compassionevole" (in Italia con ministri di ascendenza socialista come Maurizio Sacconi o Renato Brunetta). Quindi è possibile che a sinistra, dopo il congresso, la situazione diventi estremamente delicata. Il nuovo Pd può entrare in tensione, dal momento che i centristi potrebbero rifiutare la costituzione di un partito sostanzialmente "socialista". Nello stesso tempo, occorrerà mettere a fuoco anche gli elementi di laicità programmatica introdotti dalla candidatura di Ignazio Marino, che appaiono in grado di sprigionare conflitti aspri e poco negoziabili all'interno del partito. Insomma, anche se nessuno fra gli esponenti democratici vuole ammetterlo il Pd è un soggetto politico a rischio. I fattori di disgregazione ci sono tutti, ben visibili. E in ogni caso incombe sul partito e sul futuro segretario l'obbligo di ristrutturare la sinistra e l'opposizione. Per non rischiare l'emarginazione politica. E per non consegnare il paese a un lunghissimo ciclo di destra: oltretutto una destra senza progetti e intenta solo a occupare il potere. n
L'Espresso, 03/09/2009, TELEVISIONE
Medaglie ai cronisti
L'appuntamento con i Mondiali di atletica leggera era imperdibile e il vostro rubrichista li ha seguiti su Raidue. Che dire? Credo che l'atletica, pur bistrattata in genere dalla televisione, sia stata seguita decorosamente dalla Rai. Le telecronache sono state di buon livello professionale. Da anni ormai si assiste alla commedia dell'arte tra Franco Bragagna e Attilio Monetti. Quest'ultimo è un mago dei numeri e degli archivi, mentre Bragagna descrive gli eventi con un buon pathos. Bene, è ogni volta affascinante, che si tratti di Olimpiadi o di Mondiali, il modo in cui i due entrano in collisione. Adesso hanno trovato una specie di coabitazione. Monetti inanella cifre, record, riferimenti storici; ma quando da parte sua giudica che si è toccato il massimo di statistiche sopportabili, Bragagna interviene con una specie di gomitata, e riprende la telecronaca, anche nei momenti di noia agonistica. A Berlino, Bragagna è riuscito a non storpiare mai la parola Brandeburgo, e sono stati di buon aiuto i commenti tecnici di Francesco Panetta e Fabrizio Mori. Dal parterre, brava Elisabetta Caporale, che riesce a interpretare anche il peggiore dei "pidgin english" dei protagonisti delle gare (ma se correggesse il romanesco sarebbe perfetta). Per una volta, insomma, la Rai ha fatto un buon lavoro, e c'è solo da augurarsi che l'interesse per l'atletica non venga penalizzato dai risultati mediocri della nostra compagine nazionale. Nessuna medaglia, com'è noto: e nonostante questo siamo riusciti ad appassionarci alla Cusma, a Alex Schwazer e alla staffetta. Speriamo che vada meglio la prossima volta.
L'Espresso, 03/09/2009, PORTE GIREVOLI
Se manca la riserva
Le ultime rivelazioni sulla dipendenza sessuale del premier (vedi la nuova edizione del libro di Maria Latella "Tendenza Veronica") avvalorano la sensazione che la parabola di Silvio Berlusconi sia arrivata vicina alla fase di caduta: certo l'uomo di Arcore, e di Villa Certosa, ha una forza spaventosa, e prima di cedere il potere organizzerà spettacoli impressionanti. Ma il beckettiano finale di partita di Berlusconi, tutto giocato su uno scenario virtualmente catastrofico, rischia di essere ulteriormente complicato da un fattore chiave, che investe la struttura morale e istituzionale dell'Italia contemporanea: l'assenza di riserve credibili, cioè la mancanza di uomini simbolo, in grado quando è necessario di fare da argine al degrado e da supplenza alla politica. In passato abbiamo avuto la possibilità di ricorrere a uomini come Carlo Azeglio Ciampi, al quale venne richiesto un compito difficilissimo prima come capo di un governo di transizione, poi come ministro del Tesoro, e infine come presidente della Repubblica. Non si può dimenticare il ruolo preziosissimo ricoperto nella vicenda dell'ingresso nell'area della moneta unica, quando il suo prestigio in campo europeo contribuì a superare i dubbi dei partner sulla capacità di tenuta dei conti pubblici italiani, gravati da un debito fuori dai parametri di Maastricht. Così come oggi, nel momento di un attacco squinternato all'unità nazionale, non è possibile trascurare il sottile e fitto lavoro di cucitura eseguito nei suoi sette anni al Quirinale, con la valorizzazione dei simboli (la bandiera e l'inno nazionale) e soprattutto con i cento viaggi nelle province italiane, alla ricerca di una società più unita e solidale di quanto non mostrasse la politica. Oggi stiamo assistendo a un solerte lavoro da parte di Giorgio Napolitano, nel tentativo di tenere sotto controllo un'azione legislativa spesso scombinata, e animata da intenzioni sbagliate o dalla voglia di slabbrare strumentalmente l'architettura istituzionale del sistema. Ma ci si rende conto facilmente che al di là del capo dello Stato c'è un grandissimo vuoto, uno spazio che difficilmente può essere riempito. Dopo il mandato di Napolitano si può immaginare un'occupazione "manu militari" del Colle, con effetti purtroppo immaginabili sugli equilibri istituzionali (anche se grazie al cielo, e ai sofisticati microfoni utilizzati dalla escort Patrizia D'Addario, si direbbe che è evaporata dall'orizzonte politico l'ipotesi di Berlusconi al Quirinale). Può sembrare piuttosto bizzarro che in tempi di crisi della politica (crisi culturale soprattutto, crisi di idee complessive e di progetti) si possa assistere in prospettiva a una superpoliticizzazione dei poteri neutri dello Stato. Ma si tratta di un fenomeno facilmente spiegabile: quando non sono in gioco valori supremi, la politica è anche gestione, amministrazione, spartizione. Cambia tutto, nella scena, se dovessimo affrontare un periodo di crisi conclamata, come sarebbe possibile ad esempio con la caduta di Berlusconi e con un autunno disastroso per l'economia e l'occupazione. Tutta la politica italiana, infatti, di governo e di opposizione, dipende dalla figura del Cavaliere, dal gioco di attrazione e repulsione che ha innescato negli anni e che condiziona ormai l'intero sistema politico. Il suo ritiro, o autoeliminazione, rappresenterebbe potenzialmente la catastrofe finale di una Repubblica mai compiuta, e quindi fragilissima nei suoi meccanismi, nonché vulnerabilissima socialmente in seguito al prevedibile colpo di coda della recessione. È in queste condizioni che verrebbero utili, e anzi essenziali, quelle figure di alta credibilità biografica e intellettuale a cui chiedere il sacrificio personale dell'impegno pubblico nel momento della massima tensione politica e istituzionale. Ma ormai le riserve della Repubblica sono esaurite. Dovesse effettivamente crollare il berlusconismo, si può intravedere in controluce l'eventualità di un governo Fini, grazie anche all'asse con il Quirinale. Curiosa ipotesi, anche questa, di una felice coabitazione e di un "idem sentire" fra un ex comunista e un ex fascista: ma anche in questo caso si tratterebbe, e in parte già si tratta, di un esemplare combinazione realizzata da una politica che non ha saputo trovare niente di nuovo, e quindi deve affidarsi al vecchio. Nella speranza che il "patriottismo della Costituzione", secondo la storica definizione di Habermas, sia sufficiente a reggere gli equilibri di un sistema che sta già cedendo.
L'Espresso, 10/09/2009
Il Tevere più largo
Con ogni probabilità il caso Boffo si è dilatato oltre ogni previsione e ogni calcolo tattico. Doveva essere un siluro contro il direttore di "Avvenire", colpevole di avere dato voce a lettori, laici e consacrati, che criticavano il silenzio della Chiesa sui comportamenti erotici di Silvio Berlusconi; si è tramutato ben presto in un ordigno a testata multipla che ha fatto danni molteplici nel rapporto fra Palazzo Chigi e il Vaticano. Piccole e grandi esplosioni si sono susseguite qua e là, divisioni e pareri discordanti si sono manifestate fra i vescovi, il direttore dell'"Osservatore Romano" ha difeso formalmente Boffo criticandolo con asprezza nella sostanza del suo modo di dirigere il giornale della Cei, e addirittura il Papa si è sentito coinvolto, fino al punto di manifestare il proprio sostegno alla Conferenza episcopale. Ma la conseguenza principale è quella in apparenza meno visibile: perché dall'"incidente Boffo" in poi è cambiato radicalmente il rapporto fra le gerarchie ecclesiastiche e il sistema di potere che ha al proprio centro Berlusconi. Prima, il premier poteva intestarsi una specie di rapporto preferenziale, anche se non formalizzato, con i vertici del mondo cattolico. Un asse che si realizzava con le scelte di governo, ispirate a reverenza e conformismo per le preferenze vaticane. Basti ricordare la legge sulla fecondazione assistita, il caso Englaro e la legge sulla fine vita, la riluttanza a regolare il divorzio breve, la repulsione per la pillola Ru486, l'appoggio anche economico alla scuola privata. Era un governo al cui centro Berlusconi poteva arrogarsi un ruolo importante, di gestore "lateranense" del regime concordatario nonché di interprete del sentimento religioso prevalente nel paese. Si trattava di un ruolo ideologico, fondato su una visione culturale deformata della realtà italiana e delle idee che serpeggiano nella nostra società. In quanto tale, il sospetto di strumentalità era più che fondato. Ma l'accordo sostanziale fra la gerarchia e il premier risultava conveniente per entrambi. La Chiesa traeva benefici in termini valoriali e pratici, Berlusconi conseguiva guadagni in termini di consenso. Ora invece si fronteggiano, praticamente senza mediazioni, due poteri. Per buona parte della Cei, è risultato incredibile che il direttore del "Giornale" potesse attaccare il direttore di "Avvenire" senza rendersi conto che in questo modo infliggeva una ferita cruenta anche ai vescovi. Di qui a immaginare una strategia concordata di Feltri e Berlusconi ne corre, tuttavia anche nella Cei vige il principio andreottiano secondo cui a pensare male si fa peccato ma ci si azzecca. E in questo caso il pensare male coinvolge l'idea che per difendersi dai propri peccati il Cavaliere abbia conferito al direttore del giornale di famiglia un mandato talmente ampio da implicare necessariamente la possibilità di qualche incidente anche grave, o di qualche vittima per fuoco amico. A tutto ciò si aggiunge una pressione che viene dal cattolicesimo di base, dalle parrocchie, dove i calcoli di realismo politico della gerarchia verso i comportamenti pubblico-privati del premier vengono considerati un'ipocrisia difficilmente tollerabile in base ai criteri del magistero cattolico. Quindi riesce difficile pensare che dopo il caso Boffo i rapporti possano tornare com'erano all'origine. Ci sono troppe tensioni fra un vertice vaticano desideroso di ripristinare le relazioni secondo il vecchio e consumato schema e altri settori del cattolicesimo nazionale che considerano ormai inaffidabile un uomo politico che si era affacciato sulla scena politica come un campione della tradizione cattolica, e ora appare gravato da un divorzio incombente, da inclinazioni personali incontrollabili, e da un'eccessiva scioltezza nel gestire le proprie armi mediatiche che può configurare una sostanziale inaffidabilità. I rapporti con Berlusconi entrano quindi in una fase fluida, in cui gli apparati diplomatici conteranno molto più delle relazioni personali, specialità del capo del Pdl. E senza dubbio le diplomazie sono sempre lente e prudenti: ma si porranno, con ragionevolezza, con buon senso e realismo, il problema di individuare un altro interlocutore, una persona capace ad un tempo di soddisfare la gerarchia e di non scandalizzare il popolo di Dio.
L'Espresso, 24/09/2009, TELEVISIONE
Il Gene del calcio
Sono almeno due le ragioni per cui il "Gnok Calcio Show", che va in onda su Sky 1 condotto da Gene Gnocchi, è un programma significativo. La prima ragione: prende il calcio sul serio; la seconda: non prende il calcio sul serio. Prende il calcio sul serio perché il mondo del pallone, con tutto il suo business economico e il delirio televisivo, piace comunque a Gene, che è ancora una mezz'ala di classe. Non prende il calcio sul serio perché l'autismo di quel mondo induce Gnocchi a una doverosa ironia. Ecco allora uno studio riempito di simpatici freak, calciatori di categoria, bambini invadenti, un moviolista che alla minima occasione prorompe in un successo canoro di Al Bano: ma questa è la parte più facile. Più difficile è la striscia di commenti ironici che scorrono nella parte inferiore dello schermo, dove la bizzarria di Gene trova il suo apice: «Del Piero non gioca perché in settimana ha fatto un lavoro differenziato: ha lavato la macchina di Diego». Il programma si regge sul difficile equilibrio fra l'insensatezza del pallone, con le conferenze stampa in cui si continua a dire «noi non facciamo programmi o tabelle, giochiamo alla giornata, e la "bala es tonda", le partite finiscono al novantesimo più l'eventuale recupero», e il buon senso emiliano di Gene, che talvolta spinge le situazioni alla follia. Eppure c'è sempre un fondo di affetto, che Gnocchi non riesce a nascondere. Ebbene sì, siamo sempre al Bar Sport, ognuno può dire la sua. Ma alla fine si gioca con la palla della nostra infanzia, e anche Gene deve ammettere che nonostante la stupidità di un mondo nel pallone, "la bala es tonda, por siempre". Taca la bala, allora, Gene!
L'Espresso, 24/09/2009, TELEVISIONE
Un bis per Zingaretti
Che la serie del commissario Montalbano sia una delle migliori fiction italiane, e forse la migliore in assoluto, dovrebbe essere assodato. Professionalità degli attori a cominciare dal protagonista Luca Zingaretti, mano sicura del regista Alberto Sironi, solidità delle sceneggiature tratte da romanzi e racconti del bestseller Andrea Camilleri. Durante i mesi estivi, la sera della domenica, RaiUno ha rimandato in onda la serie, sotto il titolo antologico "La calda estate del commissario Montalbano". E questo è stato utile per un bilancio ulteriore. Perché in sé e per sé "Montalbano" è una fiction di genere, senza troppe sorprese narrative e senza grandi invenzioni nelle trame. Tuttavia funziona. Sarà probabilmente il fascino del protagonista, la sua fisicità, il suo modo di parlare, di mangiare, di nuotare. Sarà anche l'ambientazione della fiction, particolarmente suggestiva, in quella Sicilia incerta fra terra e mare. Ma come accade per pochi altri esempi di film televisivi, "Montalbano" attrae il pubblico perché è credibile, realistico, agganciato alla vita vera in un luogo ben determinato. Non che sia privo di difetti. Alcuni caratteristi sembrano macchiette, parodie dei siciliani, e forse queste soluzioni sono state adottate per il mercato straniero, che evidentemente si aspetta di vedere la gente di Sicilia secondo gli stereotipi più annosi, minchia. Ma sono vizietti innocui. Le storie sono molto televisive (e d'altronde Camilleri è stato a lungo uno sceneggiatore tv d'eccezione); e viene perfino il dubbio che i manierismi di Montalbano vengano meglio sul teleschermo che non sulla pagina scritta.
L'Espresso, 24/09/2009, PRIMO PIANO
Un’altra tv è possibile
Flashback uno. Siamo al "Musichiere", con Mario Riva che ospita il fantasista parigino Charles Trenet. Il "romanaccio" Riva parla un disinvolto francese; con Trenet allestisce un vero teatrino, come gli era riuscito con Joséphine Baker: il divo transalpino si schermisce, fa il ritroso, confessando il dubbio, se non la certezza, che nessuno qui in Italia conosca le sue canzoni. Mentre Mario Riva eccepisce: ma monsieur, volete scherzare, le conoscono tutti. Ne cita una, chiedendo al pubblico se c'è qualcuno in grado di accennarla, e si alza uno spettatore, che è in realtà un cantante professionista, e intona lì per lì "Que reste-t-il de nos amours". E così via con altre canzoni di Trenet. Un trionfo, un divertimento di grande classe, colto e popolare insieme. Flashback due. È un sabato sera, ci troviamo in uno di quei programmi che hanno fatto la storia della tv italiana: "L'amico del giaguaro". Marisa Del Frate, Gino Bramieri e Raffaele Pisu intonano una parodia canora, a più voci. Niente di improvvisato, ovviamente. Tutto è stato scritto e preparato con cura durante la settimana, con prove assidue, e la prestazione alla fine risulta un piccolo show di professionismo esemplare. È la televisione a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta: la tv democristiana che sta facendo tesoro delle professionalità che vengono dal varietà e dal cinema, dai teatri di rivista e da Cinecittà, approfittando così del contributo di scrittori, soggettisti, tecnici, registi, operatori che nella televisione di Stato stanno trovando nuove opportunità. Capacità di alto livello, che conferiranno alla Rai uno standard qualitativo d'eccezione. Eccola qui la televisione di qualità, eccola la cultura, non soltanto con la Rai dell'"Approdo" e con la pedagogia nazionale del maestro Manzi ("Non è mai troppo tardi") rivolta ai semianalfabeti di un'Italia che si modernizza. C'è anche "Carosello", che insegna agli italiani a consumare, e alle aziende a comunicare, e che visto oggi rivela nei suoi sketch una impressionante quantità di invenzioni narrative, di sorprese nella scrittura, di felici scarti linguistici. Dopo di che, anche per misurare gli scarti di egemonia politica, occorre tornare nella realtà contemporanea. Triste realtà. In primo luogo perché stiamo assistendo a un nuovo assalto della destra al sistema tv. Il tentativo di neutralizzare anche l'enclave di Raitre, liquidando il direttore Paolo Ruffini ed esercitando pressioni di vario genere sui programmi come quello di Milena Gabanelli (con lo strumento vilissimo del ritiro della copertura legale). Poi le gomitate a Michele Santoro, che pure è sempre stato sostenuto da Antonio Marano, ex direttore di Raidue e ora vicedirettore generale, nel nome di un principio di funzionalità: «Santoro? Un comunista sfacciato, ma una bestia televisiva unica». Sullo sfondo, i tg già ampiamente normalizzati. Insomma, si va verso l'omologazione totale. Questa volta senza bisogno di editti bulgari, e facendo in modo di non lasciare martiri sul terreno. Nello stesso tempo si afferma integralmente il modello televisivo, e politico, degli ultimi vent'anni, teso a ipnotizzare l'audience, e a condizionare, come scrisse il filosofo Carlo Galli, «le platee implose nella privacy». E si sa che oggi la postpolitica, ha come obiettivo la conquista del maggior numero di voti: si potrebbe dire, in gergo tv, di "share". A colpi di mano e con colpi bassi. I partiti sono generalisti come alcune reti televisive. Secondo il politologo Giovanni Sartori, analista dell'"homo videns", la tv attuale soggiace a una legge dell'entropia, nel senso che la rincorsa all'audience, imposta dalla logica della pubblicità (che richiede grandi eventi e grandi ascolti), implica un ribasso continuo della qualità culturale, in un circolo vizioso che non ha fine. D'altra parte va considerato che il pubblico è bugiardo: interpellati dai sondaggi di marketing tv, i telespettatori francesi affermano di preferire cultura, documentari, reportage e informazione, e riservano solo un 14 per cento di gradimento ai serial americani; ma poi i dati di ascolto premiano sempre questi ultimi, con un notevole effetto di sbugiardamento. In realtà non è facile fare cultura in senso stretto, nella televisione di oggi. Jean-Marie Charon, sociologo dei media, ha una tesi precisa: «Dopo l'estinzione del "Bouillon de culture" e dell'"Apostrophes" di Bernard Pivot, la tv francese vive con l'incubo di criticare letteratura e cinema in quanto è accusata di essere all'origine del loro declino. Inoltre, con la riforma entrata in vigore in gennaio, che cancella la pubblicità sulle reti pubbliche a partire dalle 20, la parte dello Stato si è fatta più importante. Diviene una presenza preoccupante per i professionisti dell'audiovisivo, che temono tagli alle risorse in caso di ristrettezze di bilancio, e una dipendenza sempre più forte dall'Eliseo, che ha in mano le nomine di controllo». E allora, fuori dall'isola "elitista" della rete franco-tedesca "Arte", il problema della tv di qualità è dato interamente dalla miscela di intrattenimento, pubblicità e tv "trash". Il professionista disincantato sosterrà che la televisione è sempre televisione, sia che la facciano Santoro e Travaglio, la Gabanelli e Riccardo Iacona, o viceversa Alessia Marcuzzi con il "Grande Fratello", come pure Mara Maionchi e Morgan con "X Factor", non importa se insieme a Simona Ventura o alla nuova prevedibile diva, Claudia Mori, chiamata a sbancare simpatie e antipatie del pubblico. Ma c'è da considerare anche il modello dei due canali della Bbc, finanziati dal canone e del tutto esenti dalla pubblicità, e in cui l'intrattenimento, soap opera comprese, si avvale di una scuola nazionale di attori che riscatta ogni trama, comprese quelle più esili o quelle più popolari (come almeno in parte avviene anche nelle reti tedesche, dove fa scuola l'esempio di "Derrick"). Il trash è escluso dalla Bbc: per quello c'è Itv, e a volte Channel Four, che trasmette la versione inglese del "Grande Fratello"; e la ragionevolezza pragmatica di stampo britannico si mette in luce nella tendenza a nominare dirigenti di altissimo profilo (vale per tutti l'esempio dei fratelli Attenborough, due registi prestigiosi, che sono stati rispettivamente nel comitato di Channel Four e alla direzione di Bbc 2). La spazzatura semmai è il regno della tv spagnola, specialmente nei palinsesti della berlusconiana Telecinco: la "telebasura", come la chiamano gli spagnoli, è la cifra di tutte le programmazioni, suffragata da un'inflazione pubblicitaria che occupa 30 minuti in ogni film. Pura tv marmellata. Eppure si sentono anche pareri diversi. «L'audience non è un fine in sé. È la conseguenza del nostro lavoro»: questa è la filosofia di Luis Fernández, presidente della Corporación Rtve, la tv pubblica spagnola che spopola con i programmi di informazione. Ma l'opinione più diffusa è che «la televisión española es mala». Per il David Letterman nazionale, il presentatore Andreu Buenafuente, «se esiste un dio della tv, sicuramente è italiano», tanto è evidente «la povertà della tv spagnola, fondata sul predominio della telebasura, la telespazzatura». Secondo l'associazione degli utenti dei mezzi di comunicazione, Telecinco è la rete leader della tv basura, poiché offre il 75 per cento del trash. A proposito, il successo più grande l'ha firmato "Sin tetas no hay paraíso", senza tette non c'è paradiso, una novela di Telecinco che aggancia più di 4 milioni di spettatori. Allora che cosa si può concludere? Che c'è un problema politico, innanzitutto. Quanto più lo stile televisivo e lo stile politico si sovrappongono, tanto più diventa insidioso lo schema retorico, cioè propagandistico, dei programmi. L'evento della consegna delle prime case in Abruzzo, non importa se finanziate dalla Croce Rossa e non dal governo, auspice la diretta di "Porta a porta", diventa l'atout politico della stagione, e mette nell'angolo "Ballarò", programma non allineato a priori. E c'è di conseguenza un problema qualitativo e culturale, perché la televisione omologata, le sei reti possedute o condizionate da Berlusconi, hanno due obiettivi complementari: uno, mostrare tutto; due, non dire nulla. Mostrare tutto significa illustrare ogni impresa di regime. Non dire nulla implica sottrarre dalla spazio della comunicazione pubblica ogni segno di conflittualità, ogni polemica, ogni scandalo. In sostanza, riparleremo a suo tempo di tv di qualità e di cultura televisiva. Cioè di quella televisione fatta di tecnica, di professionalità, anche di cinismo, che conduce a prodotti confezionati a regola d'arte. Qui da noi siamo all'ipnosi. E quando l'audience è in anestesia, di che qualità o cultura si può parlare? Al massimo si può, amaramente, ricorrere ai classici e alla piccola memoria poetica: dalle platee narcotizzate si levò alto uno sbadiglio. n
L'Espresso, 24/09/2009, PORTE GIREVOLI
Il problema Bersani
Circola la sensazione che Pier Luigi Bersani vincerà agevolmente le primarie del Partito democratico. Ma probabilmente Bersani non è la soluzione, è il problema. Perché la conquista della leadership del Pd da parte sua rappresenta la riproposizione del modello socialdemocratico di ispirazione emiliana, che appare in grado di mobilitare larghi settori della sinistra classica, ma che nello stesso tempo configurerebbe il Pd, partito ancora relativamente nuovo, come l'erede diretto del Pci e delle sue filiazioni post Ottantanove. Di questo apparente salto all'indietro, Bersani non ha colpa. Da mesi sta elaborando una "narrazione" culturale che cerca di tenere insieme culture diverse, appellandosi ai centocinquant'anni di storia che accomunano il movimento operaio e socialista, l'associazionismo cattolico, il mutualismo cooperativo rosso e bianco. Tutto questo proprio per cercare di superare i confini storici della sinistra, le spaccature e gli steccati del Novecento, i conflitti ideologici e civili che hanno diviso comunisti e cattolici. Sembrerebbe un compito tutto sommato facile, se non fosse che la frattura tra gli eredi del Pci e i democristiani memori del degasperiano «partito di centro che guarda a sinistra» fa ancora sentire i suoi effetti. Sostengono i cattolici che hanno scelto la mozione Bersani, in particolare Enrico Letta e Rosy Bindi, che il rimescolamento fra le culture è già in corso, e se si completerà, il Pd avrà raggiunto il suo scopo. Tuttavia siamo sempre nel discorso ipotetico. E i contraccolpi sono sempre possibili, come si è visto con le sortite di Francesco Rutelli agli stati generali dell'Udc, dove il candidato antiberlusconiano del 2001, fondatore del Partito democratico, ha prefigurato lo scioglimento del patto da cui nacque il Pd, e una possibile confluenza centrista. Se con il successo di Bersani dovesse verificarsi un contraccolpo nel Pd, con la diaspora di esponenti cattolici, è probabile che dal punto di vista quantitativo ciò non sia un fenomeno politico rilevante. Sarebbero segmenti di nomenklatura a spostarsi nella mappa politica, mentre gli effetti sull'elettorato, almeno nel breve periodo, sarebbero tutti da verificare. Di certo, o almeno probabile, c'è che un rafforzamento dell'area centrista, al momento presidiata dall'Udc, appare nell'ordine delle cose. Verso il centro convergono in questo momento frange cattoliche rese inquiete dalle rivelazioni sulla vita privata e pubblica di Silvio Berlusconi, preoccupate dalla violenza mediatica rivoltasi verso il direttore di "Avvenire", nonché fasce moderate che non gradiscono l'egemonia esercitata dalla Lega sulla coalizione di destra. Al contorno di tutto questo c'è la convinzione di nuclei forti di potere, a cominciare dall'establishment economico-finanziario e dai vertici confindustriali e di categoria, che la destra è una coalizione tenuta insieme dalla figura di Berlusconi. Ma nel dopo? C'è un protagonista in grado di assumersi la leadership del Pdl e di gestire utilmente il rapporto di coalizione con la Lega? E di trattare con chiarezza di obiettivi l'arco delle riforme necessarie? Oppure quando verrà il momento della successione occorrerà un ridisegno complessivo del sistema politico, fino a configurare il "modello Kadima", partito della nazione, luogo di una politica consensuale? Va da sé che il ridisegno centrista, connesso esplicitamente alle élite economiche (vedi l'attivismo trasversale di Luca Cordero di Montezemolo) e nello stesso tempo legato alle sensibilità moderate del cattolicesimo diffuso, appare irresistibile per molti ambienti che si sono stancati del "primato della politica". Un Grande Centro, magari anche piccolo, un Centrino, che fosse in grado numericamente di condizionare la formazione delle alleanze elettorali e delle maggioranze parlamentari, sembra uno strumento irresistibilmente attraente per relativizzare la politica. Non è un caso che Dario Franceschini si aggrappi alla difesa del bipolarismo. Il progetto del Centro implica la sconfessione del modello politico su cui il centrosinistra ha scommesso negli ultimi quindici anni, e un rimescolamento delle carte da cui potrebbe uscire una democrazia negoziale, basata sulla trattativa continua tra partiti alleati, e su un fitto tessuto di mediazioni con i settori economici. A occhio, Bersani dovrebbe fare tutto il possibile per disinnescare questo progetto. Ma per farlo sarebbe opportuno che non sbandierasse troppo spesso la parola "sinistra", anche se fa parte della sua identità. La sinistra è meglio farla con i programmi, anziché con gli slogan.
L'Espresso, 08/10/2009, TELEVISIONE
Tra bob dylan e il concilio
Un esempio di televisione di alto, o altissimo, livello culturale si è avuto su Raitre il 25 settembre, quando in prima serata è andato in onda il film documentario di Alberto Melloni "Il Concilio. Storia del Vaticano II". Il film di Melloni (regia di Nicola Vicenti, ricerche di Fania Pedrelli, con la collaborazione di Fabio Nardelli e Federico Ruozzi, montaggio di Andrea Masella) fa parte del ciclo "La grande storia", curato da Luigi Bizzarri, ed è a tutti gli effetti un esempio di narrazione storica televisiva. «Fazioso e brillante come sempre», ha scritto Giuliano Ferrara di Melloni e del suo film; ma la definizione migliore è un'altra. Melloni, infatti, sulle note ricorrenti della dylaniana "The times they are a-changin'", introduce nella storia del Concilio un elemento continuo di drammaticità. Si avverte la stessa tensione che deve avere attraversato la grande assise cattolica nel formarsi di una maggioranza e di una minoranza fra i padri conciliari, e sull'orientamento complessivo che il Vaticano II doveva assumere. Tradizione o innovazione? Secondo Melloni, per la Chiesa il Concilio è stato un'occasione per fare i conti con la modernità, ed è logico quindi che il corpo ecclesiastico fosse percorso da una specie di brivido, fra le spinte innovatrici e le resistenze dei padri conservatori, fra chi voleva la collegialità dei vescovi e chi si afferrava al potere esclusivo del papa. Temi culturalmente complessi, raccontati e spiegati con competenza e chiarezza, attraverso un patrimonio immenso di documenti filmati. Di tanto in tanto, fra la tv spazzatura, appare qualche perla. E si sa che le perle non vanno giudicate solo con il metro dello share.