L’Espresso
L'Espresso, 08/10/2009, ATTUALITA'
pd batti un colpo
Il Pd è morto. No, è vivo. Storie, il Pd è un partito «mai nato», lo dice Francesco Rutelli nel suo annunciatissimo libro. Mentre i circoli votano, stanno per arrivare congresso e primarie, e i candidati Franceschini, Bersani e Marino se le danno un po' scolasticamente, dovrebbe chiarirsi la fisionomia del Pd. Il partito a vocazione maggioritaria, che Walter Veltroni portò a schiantarsi contro l'Armada di Silvio Berlusconi. Il partito «minoranza permanente», come disse Massimo D'Alema dopo la batosta elettorale del 2008. Per adesso, in ogni caso, un partito in surplace, cioè in attesa che emerga una leadership, che il partito esca dall'afasia e cominci a comunicare qualcosa all'opinione pubblica italiana, e non soltanto una generica quanto fondamentalista contrapposizione al berlusconismo. La posta in gioco è sostanziosa, perché si colloca nel solco della profonda crisi della sinistra europea, quella che coinvolge e forse travolge i laburisti nel Regno Unito e la socialdemocrazia in Germania. Roba da farsi venire i capelli dritti, mentre Berlusconi, dalla festa del Pdl a Milano, grida con la sua faccia più minacciosa: «Saremo sempre qui!», vale a dire, noi non ce ne andremo mai e voi non governerete mai più. Roba da brividi. Il pensiero di essere una nicchia incapace di competere per il governo del paese, e che si autorassicura con le proprie rabbie, è desolante per chi ha sempre avuto in mente una sinistra in grado di porsi alla guida del paese. Ma per riuscire a diventare il partito credibilmente alternativo al berlusconismo, il Pd deve affrontare alcuni punti caldi. Qui se ne sono individuati dieci, alcuni di prospettiva, altri legati al dibattito quotidiano ma che si proiettano sull'identità del partito. Tenetevi stretti, si parte. Punto caldo numero 1 Ma che partito è il Pd? Qual è la sua struttura? La sua organizzazione? È una entità liquida, vaporosa, gassosa, il partito etereo senza tessere, oppure è un partito solido, novecentesco, il «partito bocciofila» evocato da Bersani? Tutti sostengono, mentore Ilvo Diamanti, che oggi nelle competizioni elettorali la geografia ha sostituito la storia, e quindi occorre tornare al territorio. Dunque bisogna fare come la Lega, il cui lavoro «assomiglia a quello del vecchio Pci». Ma sono pochissimi i dirigenti pd che sanno effettivamente che cosa significhi lavorare sul territorio. I più giovani spesso assomigliano nel look a buttafuori da discoteca, i meno giovani si dedicano al revival degli anni Sessanta, in certe aree del Meridione il Pd è il partito delle tessere. Che fare? Per il momento conviene affrontare temi più filosofici. Punto caldo numero 2 Eccolo, appunto, il tema filosofico. La laicità. Che poi tanto filosofico e astratto non è, perché implica fratture politiche importanti. Intanto c'è un candidato alla segreteria, Ignazio Marino, che sembrava un candidato di pura testimonianza e invece sta raccogliendo percentuali significative, specialmente al Nord, come portatore di modernità: si vota Marino per segnalare un'idea di partito che si pone con chiarezza sul crinale dei dilemmi etici, ma che enuncia anche una radicalità modernista sui temi economici e infrastrutturali (ad esempio con il no all'energia nucleare). E poi c'è la contrapposizione ideologico-culturale fra ex Ds e laici vari, da un lato, e cattolici dall'altro: la linea di scontro si può trovare su qualsiasi argomento, dalla pillola Ru486 al biotestamento, con i "teodem" che non sono disposti a rinunciare alle loro posizioni o a modificarle in seguito a una discussione a maggioranza interna al partito. Quindi il principio di laicità è uno degli scogli su cui può naufragare il partito. Che dicono in proposito gli altri candidati, e in particolare, che dice il segretario Franceschini? Punto caldo numero 3 Già: Franceschini estremizza. Si butta a sinistra. Si laicizza. In realtà Franceschini ha un solo schema giocabile, il modello bipolare, e lo gioca con coerenza. Il segretario pensa che il pericolo maggiore per il Pd consista nella contaminazione centrista, e nella scomposizione del sistema politico. Per questo difende con le unghie il sistema bipolare dalle insidie del Grande Centro, anche se sa benissimo che nell'assetto politico attuale il Pd ha davanti a sé anni di opposizione. Ma Franceschini non è un dc classico, qualche anno fa inclinava verso i cristiano-sociali, e la sua collocazione a sinistra, che pure era già forte, sta diventando un elemento discriminante nella lotta per la segreteria. Nella formula bipolare, Franceschini è il candidato più di sinistra. Ma il Pd è un partito di sinistra? Punto caldo numero 4 Bersani dice di sì, che il Pd deve essere un partito in cui si può pronunciare la parola sinistra. Ma Bersani, se vince, rischia di essere un vincitore d'apparato. Eccolo qui, un punto caldissimo. Perché il piacentino Bersani si propone come colui che può interpretare modernamente il compromesso all'emiliana. Socialdemocrazia classica. Ma con la sua corte di amministratori, cooperatori, volontari delle feste di partito, vecchi compagni dell'Anpi, rischia di apparire come il candidato che fa risuonare antiche lealtà nel cuore del vecchio Pci. Avanti o popolo. Se questa idea circola, Bersani è fritto. Uno dei suoi sostenitori, il cattolico Enrico Letta, dice: «No, il rischio non c'è, il rimescolamento c'è già stato ed è stato profondo». Mentre Marco Follini è meno sicuro: «Dipende tutto dal dopo primarie, dai primi cento giorni. Tocca a Bersani riuscire a trasmettere un'idea nuova di sé e del partito. Per me può farcela, ma ci vuole uno sforzo culturale inedito». Punto caldo numero 5 Solo due parole per un punto sempre caldissimo a sinistra, la "questione D'Alema". Cioè il leader più amato e più detestato del centrosinistra. Quello che «capotavola è dove mi siedo io». Il principe elettore di Bersani. «Colui che con una sola battuta potrebbe incenerire una candidatura» (attribuita ad ambienti bolognesi vicini all'ex leader dell'Unione Romano Prodi). Finora la prudenza ha prevalso e nessuno ha potuto dire che Bersani è il pupo di un puparo di Gallipoli. Domani si vedrà, e il silenzio di D'Alema sarebbe comunque d'oro. Punto caldo numero 6 Questione morale. Questione barese. Non ci si è capito niente, tranne che nel Pd un tale vicepresidente regionale Frisullo ha accettato la compagnia di qualche escort gentilmente offerta dal procacciatore della real casa Gianpaolo Tarantini, che un tale assessore Tedesco, ex destra ora Pd, è sotto tiro per gli appalti nella sanità, che Nichi Vendola ha azzerato la giunta regionale, accusando però il pm di abitudini ostili a sé medesimo e alla propria politica, che D'Alema ha fatto qualche cena forse discutibile. In generale tutto questo è solo la conferma che quando il cielo si svuota di Dio la terra si popola di idoli (Karl Barth), cioè che senza ideali in politica prevalgono gli interessi. Problema complicato, già affrontato da Michels e Weber. Come si risolve? Con un sistema di comando più serio, ossia con un partito che funziona (vedi al punto caldo numero 1). Punto caldo numero 7 Punto incandescente, perché riguarda la possibile disintegrazione del Pd. Mettiamo il caso che alla fine del ciclo congresso-primarie si abbia generalmente la sensazione che il Pd sia in effetti una pallida finzione politica, ma che la sua struttura interna giustifichi il sospetto di chi vede confermarsi la deriva ventennale "Pci-Pds-Ds-Pd". A quel punto, centristi e cattolici potrebbero sentirsi ospiti in una casa che non è la loro, e guardarsi intorno per vedere se c'è qualche altro affittuario, con un'altra casa. Punto caldo numero 8 Ma certo che c'è un'altra casa. È il grande, medio o piccolo centro. In parte occupato da Pier Ferdinando Casini. Ma in parte ancora tutto da costruire. Guardano al centro (e Franceschini, come detto, si irrigidisce per questo sul bipolarismo) tutti coloro che pensano che ogni soluzione sia migliore rispetto al blocco politico attuale, all'idea dell'eternità berlusconiana, a un governo inamovibile. Tanto vale, pensano costoro, procedere alla scomposizione del sistema, con tanti saluti a vent'anni di tentativi di cambiare l'Italia con le riforme elettorali e istituzionali. Al momento buono entrerà in campo Luca Cordero di Montezemolo, mentre intanto la sua fondazione "ItaliaFutura", sotto la regia del "boy" Andrea Romano, promuove studi liberalriformisti sulla mobilità sociale. È «l'Italia del buonsenso» evocata spesso da Casini. Ed è un magnete formidabile se si scatena una crisi politica grave, a sinistra (con la disgregazione del Pd) come a destra (con la caduta di Berlusconi, per scandali erotici, pronunce della corte sul Lodo Alfano o per faide interne al Pdl). Punto caldo numero 9 Parliamo una buona volta di alleanze? Perché liquidata la vocazione maggioritaria di Veltroni, si tratterà di capire, e finora non si è capito, se e quali alleanze verranno perseguite. Cari candidati, e cari specialisti nelle critiche a Di Pietro, volete dire qualcosa in proposito, senza le solite fumosità? Tanto per dire: qualcuno ricorda che la destra è stata battuta solo quando Prodi ha riunito tutte le forze del centrosinistra? Punto caldo numero 10 Qualcuno dei candidati ha una concezione economica e sociale da proporre? Qualcuno ha preso nota di ciò che è avvenuto con le elezioni in Germania? Sostiene Giuseppe De Rita, gran sociologo del Censis, che i politici devono soprattutto individuare il «ciclo lungo» e cavalcarlo. Ora, dentro una crisi che solo adesso fa sentire i suoi effetti sulle aziende e sull'occupazione, qual è il ciclo lungo? Dovrebbe far riflettere il fatto che negli ultimi sessant'anni l'arcipelago del benessere è stato l'Europa "renana", che ha distribuito ricchezza attraverso l'economia sociale di mercato. Ci vorrebbe qualcuno che sapesse salire sull'onda della crisi e riproporre un modello europeo rivisitato. Perché dopo la fine del ciclo neoliberista bisogna proporre un'alternativa, per non farsela scippare dalla destra e da Tremonti. Chissà se fra i magnifici tre ce n'è uno in grado di fare surf sull'onda lunga dell'uscita dalla crisi. n
L'Espresso, 15/10/2009, TELEVISIONE
Si salva solo Claudia Mori
Notevole la sensazione che "X Factor" sia uno specchio dell'Italia. La formula è abusata, ma se si guarda il programma di RaiDue è difficile sfuggire a questa suggestione. Probabilmente ciò che fa la fortuna della trasmissione è il pubblico. Che si affeziona a qualche personaggio per poi dimenticarlo dopo qualche mese. Tipica italianata. Come si chiamava la protagonista della edizione precedente? Giusi Ferrero, Ferreri, Giusi, o giù di lì. Chi se ne frega. Però intanto faccio il tifo per i nuovi. Dopo di che, se si vuole prendere in considerazione il programma in sé, ci sarebbe da discutere a lungo. Mara Maionchi non è riuscita a imporre il proprio carisma, e si è ridotta a polemista da assemblea di condominio: divertente, ma alla lunga stucchevole. Morgan dovrebbe far venire fuori la sua cultura, che pure c'è, musicale e non musicale, ma da quando si è tagliato i capelli sembra avere perso le parole: si succhia la lingua e non gli vengono le frasi, esita, tentenna. Miglioratissimo invece Francesco Facchinetti. Si diceva che è uno specialista del non saper fare nulla, e invece adesso è pronto, presente a se stesso, capace anche di improvvisare. E qui si lascia per ultima Claudia Mori, polemiche comprese. Perché la signora Celentano ha rivelato una capacità di eloquio che la qualifica come un'autentica leader potenziale del programma. «Bassezze», ha detto quando hanno mostrato una sua foto di 25 anni fa mettendola a confronto con la sua immagine attuale. Be', ci vuole cultura per pronunciare la parola "bassezze" in televisione. La Mori ha dimostrato che il misterioso "X Factor" ce l'ha lei. Viva Claudia, dunque, e basta con le bassezze.
L'Espresso, 15/10/2009, PRIMO PIANO
Dopo il lodo la piazza
È stata una sentenza durissima, praticamente spietata. La nettissima bocciatura a cui la Corte costituzionale ha sottoposto il Lodo Alfano è la prima vera e grande sconfitta politica di Silvio Berlusconi. Al confronto, sbiadisce persino la caduta del suo governo nel 1994, dopo solo sette mesi. La sentenza della Consulta è stata motivata nitidamente in punto di diritto, e non è possibile attribuirle una intenzione strumentale o politica. Indica un riferimento all'articolo 3, cioè al principio di uguaglianza dei cittadini, oltreché una sciatta violazione dell'articolo 138 della Carta costituzionale, nel senso che una legge di quella portata implicava un iter di modificazione costituzionale, e non una legge ordinaria. Bocciatura senza appello, dunque. Tuttavia, anche se la politica è rimasta fuori dal palazzo della Consulta, gli effetti del verdetto sul Lodo configurano una situazione potenzialmente distruttiva per il premier e per l'alleanza di destra, e quindi colpi di coda a non finire. Verrebbe anzi da dire: chi è causa del suo mal pianga se stesso, oppure: chi semina vento raccoglie tempesta, dato che i vertici del centrodestra e lo staff di avvocati del Cavaliere hanno contribuito in modo addirittura stravagante a drammatizzare la decisione sulla legge Alfano. Per dire, ancora nel pomeriggio della sentenza, Umberto Bossi aveva minacciato di «trascinare il popolo» nelle piazze in caso di bocciatura del Lodo, esercitando una pressione inaudita sulla Corte. A sua volta la pancia del Pdl si scatenava nei blog e nei siti del centrodestra sostenendo più o meno che «quindici parrucconi non fermeranno il popolo». Ma l'aspetto più inquietante sul piano istituzionale era stata l'offensiva messa in campo dagli avvocati che sostenevano la causa di Berlusconi e dell'immunità per il premier e le principali cariche pubbliche: lasciamo pur perdere la posizione dell'avvocatura dello Stato, che aveva offerto motivazioni di puro realismo politico, preferendo nelle proprie argomentazioni le opportunità della politica spicciola, e favorevole al capo del governo, al rigore giuridico (anche questa è una sconfitta nella sconfitta, e una sostanziale scalfittura nella credibilità per quell'alto ufficio). Ciò che invece è risultata sorprendente, fino ai limiti dell'incredibile, è stata la strategia di Niccolò Ghedini e Gaetano Pecorella, i due super professionisti che assistevano Berlusconi nell'affaire del Lodo. Ghedini e Pecorella hanno sostenuto che la Costituzione materiale aveva modificato, praticamente fino a travolgerla, la Costituzione formale. Ghedini si è spinto fino ad argomentare il sofisma secondo cui la legge è effettivamente uguale per tutti, ma può essere diseguale la sua applicazione, a seconda del soggetto che ne è coinvolto. Più "ad personam" di così si muore. Con maggiore sofisticazione giuridica, ma con esiti virtualmente travolgenti per l'assetto istituzionale, Pecorella ha sostenuto che, in seguito alla legge elettorale universalmente conosciuta come "Porcellum", il premier viene «eletto» dal popolo, senza mediazioni parlamentari, e quindi la sua diventa una funzione apicale, superiore a quella degli altri ministri: il primo ministro diventa, secondo Pecorella, non più un «primus inter pares», bensì un «primus super pares», meritevole quindi di un trattamento particolare nell'ordinamento generale. La tesi era insostenibile, proprio in quanto investiva la natura e la fisionomia stesse della Repubblica, che resta di tipo parlamentare, in cui il premier deve ricevere l'incarico dal Quirinale, e raccogliere la fiducia in Parlamento. Ma il "lodo Pecorella", se possiamo chiamarlo così, rivelava l'intento di forzare i limiti e i confini dell'apparato costituzionale, "sfondando" in modo plebiscitario l'impianto della Carta. Può essere proprio questa tesi a far inclinare il giudizio della Corte verso la bocciatura. E dovrebbe essere evidente che questa strategia preparava lo sfondo per il conflitto prossimo venturo. Perché è chiaro che Berlusconi e le sue truppe si stanno preparando alla guerra, e che la guerra comincerà immediatamente. Il Cavaliere è sotto attacco da parte della magistratura milanese, per il processo Mills (corruzione in atti giudiziari) e per i fondi neri nella compravendita di diritti cinematografici e tv; a Roma per il tentativo di acquisire il voto di alcuni senatori per far cadere il governo Prodi. Per la prima volta il premier rischia, soprattutto nel caso Mills, una condanna penale che potrebbe risultare devastante per la sua immagine, sul piano interno e sul piano internazionale. Che cosa farà quindi Berlusconi? A quanto si capisce, dopo avere dichiarato che nella Corte costituzionale «undici giudici sono di sinistra», è pronto ad andare "à la guerre comme à la guerre" e a «sbugiardare» i suoi nemici. «Vado avanti»: aveva già cominciato ad agitare i sondaggi di Euromedia, che gli assicurano un consenso mai visto, garantito dalla sua cappa mediatica. E quindi il suo piano bellico è facilmente descrivibile. Un uomo solo, ricco, amato e odiato, ma unto dalla «doccia di schede elettorali» si sente in grado di sfidare istituzioni e convenzioni della Repubblica. È un progetto iper-populista, con modalità ed esiti virtualmente peronisti. Berlusconi è come sempre pronto a sfidare l'universo mondo, la sinistra, i comunisti, i magistrati rossi, la stampa di sinistra, la televisione che fa opposizione, senza curarsi minimamente dei danni pubblici che la sua azione può provocare. Va da sé, allora, che lo scenario che si presenta davanti ai cittadini è un panorama di rovine, potenzialmente catastrofico. Ridiventano fin troppo evocative le immagini finali del "Caimano" di Nanni Moretti, con i fuochi appiccati dai supporter del protagonista. Certo non c'è da confondere la finzione con la realtà; ma per evitare sovrapposizioni disastrose fra i due livelli occorre una eccezionale saldezza degli apparati istituzionali e dell'establishment nazionale. Mentre sulla tenuta delle istituzioni si può nutrire una certa fiducia, visto che la stessa sentenza della Consulta testimonia positivamente in questo senso, e che comunque sull'ultimo Colle la presenza e la coerenza di Giorgio Napolitano offrono garanzie, il problema principale riguarda l'atteggiamento delle élite. In una condizione di paese normale, il premier si dimetterebbe e affronterebbe i processi che lo attendono. Sarebbe legittimo da parte sua cercare di mobilitare i suoi fan e tuffarsi nel grande gioco delle elezioni anticipate. Ma ci sono troppi vincoli, istituzionali e comportamentali, che coinvolgono il ruolo dei presidenti delle Camere e la funzione attiva del capo dello Stato. Tuttavia tocca soprattutto ai circuiti formali e informali del potere, a tutti i livelli, cercare di stabilizzare una situazione fortemente critica. Se l'establishment italiano accettasse di schierarsi secondo il modulo berlusconiano, dividendosi in modo cruento e sposando la causa dello scontro totale, si potrebbe anche chiudere bottega, in attesa della fine della bufera. Conviene augurarsi che per una volta la vischiosità del potere in Italia rappresenti un freno alla guerra civile ideologica che Silvio Berlusconi ha già dichiarato. Sembrerà stravagante appellarsi all'anima andreottiana o dorotea della nostra società; ma quando la situazione si colora di drammaticità è naturale aggrapparsi a tutto, anche alla prudenza e alle cautele che in passato hanno impedito un cambiamento fruttuoso. Qui e ora, probabilmente, c'è soltanto da provare a salvare un paese. n
L'Espresso, 15/10/2009, PORTE GIREVOLI
Leghisti per fiction
Per fortuna, a quanto pare, secondo la critica più sfiziosa il film di Renzo Martinelli "Barbarossa" è venuto maluccio, e quindi è improbabile che possa trasformarsi in un "Braveheart" della Lega Nord. Il regista ha parlato di un Medioevo «sporchiccio, dove si lavavano poco», e l'opera dovrebbe rappresentare proprio questo senso immanente di sporcizia. Una schifezza, insomma. Cosicché, nonostante le attese spasmodiche di Umberto Bossi, e l'impegno profuso da Silvio Berlusconi con Agostino Saccà, nonché i venti milioni di euro di budget (soldi in gran parte pubblici), il film non è riuscito. Flop. Adesso si tratta di aspettare il responso del botteghino, per vedere se l'elettorato leghista si mobiliterà dalle valli al risuonare del sacro nome di Alberto da Giussano. «Milanesi, fratelli, popol mio!Vi sovvien, dice Alberto di Giussano,calen di marzo? I consoli sparuti cavalcarono a Lodi, e con le spade nude in man gli giurâr l'obedienza». Nessuno ricorda più i versi della "Canzone di Legnano" di Carducci, e non vale neanche la pena di segnalare che il Poeta, attraverso la figura leggendaria di Alberto da Giussano, intendeva svolgere un tema fieramente patriottico, a sostegno dell'Italia unita e solidale. Ma che importa: gran parte dell'ideologia storica della Lega è una tipica «invenzione della tradizione», secondo la formula dello storico Eric Hobsbawm, più o meno come il kilt e le cornamuse scozzesi. Quindi non c'è bisogno di precisione storiografica: ciò che conta, semmai, è esaltare l'autonomia dei Comuni contro il centralismo del Sacro romano impero e se si può contro Roma ladrona. E come a suo tempo fu inventata la radice "celtica" dei popoli padani, con i riti pagani dell'acqua raccolta in un'ampolla alla sorgente del Po sul Monviso, a Pian del Re, adesso si tratterebbe di creare una tradizione a partire più o meno dall'anno Mille; mentre fra poco potrebbe venire il momento di una fiction su Marco d'Aviano, nuovo idolo di Bossi. Chi era costui? Era un frate assai carismatico, ascoltatissimo consigliere spirituale e politico dell'imperatore Leopoldo d'Asburgo, che fu incaricato dal papa Innocenzo XI di riunire i sovrani europei contro la minaccia militare, politica e religiosa ottomana. Era la classica missione impossibile, a causa delle gelosie fra i monarchi, ma il frate realizzò il miracolo, e i turchi furono sconfitti dall'esercito cristiano alle porte di Vienna nel 1683, dopo battaglie furibonde, in una delle prime guerre moderne, con cannoni e mine, morti e feriti, stragi ed epos. Come si vede ci sarebbe materia, eccome, e purtroppo, per la fiction di regime. Ecco la sconfitta dei turchi a Vienna come una forma di respingimento verso quei clandestini della Mezza luna, così aggressivi e feroci (vedi la splendida ricostruzione di John Stoye, "L'assedio di Vienna", appena tradotto dal Mulino). Ma se prendesse piede la mitologizzazione della politica contemporanea, non ci sarebbe salvezza per il popolo televisivo. Immaginiamoci che cosa comporterebbe una fiction sulla nascita di Forza Italia, con la santificazione della luminosa figura di Marcello Dell'Utri. Oppure un film sul prodigio berlusconiano della spazzatura a Napoli, o sui miracoli edilizi dell'Aquila. Proprio per questo il sostanziale fallimento estetico e narrativo del "Barbarossa" è di buon auspicio per la salute mentale degli spettatori di tutta la penisola. Dopo i critici cinematografici e televisivi, i politologi faranno il loro dovere deontologico, andranno a vedere il film (distribuito in 250 copie, quindi con aspettative alte), ed emetteranno il loro giudizio. Noi ci auguriamo che le ragioni della critica prevalgano sui motivi dell'ideologia. Se il film è brutto, è brutto. Senza se e senza ma. Le cronache dal Castello sforzesco hanno raccontato di risposte a grugnito: anche il ministro Maroni non sarebbe riuscito a emettere suoni che noi umani potessimo capire, a proposito del film, tuffando subito dopo la testa nel piatto per evitare approfondimenti pericolosi. Ci eravamo già avvicinati insidiosamente alla cronaca politica, con le fiction su Alcide De Gasperi e sui papi come Giovanni XXIII o Albino Luciani. Adesso è il caso che si ritorni a film televisivi di intrattenimento, senza troppe intenzioni politiche. Anche inventare la tradizione è un mestiere difficile, e non è il caso di metterlo al servizio della politica politicante. Quindi "Barbarossa" addio, grazie al cielo. Qualche volta, anche i fallimenti aiutano.
L'Espresso, 22/10/2009, TELEVISIONE
Quegli spot vendono noia
La pubblicità in tv è una delle cose più semplici del mondo. Rispetta alcune tipologie semifisse. Alla fine è riconducibile a pochi modelli. Eccone alcuni. Pubblicità dei detersivi. Naturalmente i pubblicitari sanno benissimo che tutti i detersivi sono uguali, e quindi per convincere le casalinghe bisogna andare sul sicuro. Ci vuole sempre il tipo, adesso Fabio De Luigi, che si presenta e offre due fustini in cambio di uno. La novela va avanti da decenni, e le casalinghe della pubblicità ci cascano sempre. Anziché dire: ma certo, idiota, mi dia i due fustini, si aggrappano al feticcio del fosforo che lava più bianco del bianco. La pubblicità dei detersivi è orrenda, ma probabilmente i pubblicitari pensano che le casalinghe non meritano molto di più, e continuano con la bufala dei due fustini. Pubblicità delle auto. Regola principale di questo genere è che le automobili non si devono vedere mai. In compenso negli spot le macchine fanno cose impensabili e impossibili: scalano pareti di sesto grado superiore, spianano le dune, si trasformano in automi spaventosi. Il messaggio subliminale è il seguente: le auto fanno schifo, e quindi noi pubblicitari siamo costretti a raccontare balle. Pubblicità dei nuovi media, adsl, telefonini eccetera. L'importante di questi spot è che non si capisca niente. I protagonisti devono parlare in modo incomprensibile, riferirsi a fenomeni misteriosi, promettere tariffe miracolose. Anche la pronuncia delle parole deve essere biascicata, veloce, allusiva - vedi Fiorello. Converrebbe rivolgersi subito all'autorità antitrust per denunciare qualcosa, ma forse non ci capiscono niente nemmeno loro. La Luna consiglia: non appena arriva la pubblicità, fare un pisolo.
L'Espresso, 22/10/2009, ATTUALITA'
l’ombra di max
Odiosamato. È un destino ironico per Massimo D'Alema: diventare il leader più temuto, accantonato, esorcizzato del Pd, e sotto sotto adorato, con un fremito di ammirazione e di terrore. Sembra infatti di risentire l'eco lontana delle parole di Palmiro Togliatti quando ascoltò il discorso di accoglienza del piccolo Pioniere: «Quello non è un bambino, è un nano». Oppure le battute del circolo dei prodiani a Bologna, intorno allo studio del Professore in Strada Maggiore: «Abbiate pazienza, sapete che basterà una battuta di D'Alema per affossare la carriera di Pier Luigi Bersani nel Pd». Una battuta? «Due righe sui giornali». Eppure la "guardia vieja" dei prodiani, prima Giulio Santagata e alla fine il meno allineato Silvio Sircana, ha scelto il realismo socialdemocratico di Bersani. A titolo di curiosità si può annotare che Santagata nel suo libro "Il braccio destro", dedicato ai "Quindici anni di politica con Romano Prodi" lo aveva sarcasticamente definito «il comunista più intelligente dell'Occidente». Ma allora che dire della regia del líder máximo, del più stimato e temuto dirigente postcomunista? Ci sono davvero le sue tattiche e le sue manovre, dietro la candidatura di Bersani? C'è un disegno, un progetto, un programma dalemiano per il futuro del Pd e più in generale per il centrosinistra? Calma e gesso. D'Alema ha l'aspetto di un magnifico sessantenne pepe e sale, che quando arriva agli incontri pubblici con il suo vestito chiaro sull'abbronzatura da skipper fa una magnifica figura da statista. Promana intorno a sé un alone istituzionale, un senso di serietà e di rigore: purtroppo è uno statista senza Stato, un leader senza esercito. Di lui si ricordano le vecchie battute al cianuro sulle «iene dattilografe», o ancora meglio sui due «flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi» (Prodi e Veltroni). Adesso, quando si lascia andare, può accennare, come ha fatto in una conversazione con "Il Riformista", al fatto che lo spessore politico di Bersani sia «incommensurabilmente superiore» a quello di Dario Franceschini. Incommensurabilmente. Un avverbio per segnalare una sepoltura politica. Ed ecco allora le accuse: zizzania, il solito incontenibile dalemismo, la spocchia e il furore. E nel frattempo il dato per morto Franceschini ruba la scena al presunto vincitore Bersani nel clima calduccio della convenzione, cioè del congresso piddino, con un discorso che era un comizio, fatto apposta per mettere un po' di adrenalina nelle arterie addormentate del Pd e per chiarire che la battaglia durerà fino al 25 ottobre, giorno delle primarie, senza la resa preventiva che qualcuno aveva chiesto. Sicché le primarie, date per scontate nel risultato fino a qualche giorno fa, adesso sembrano tornate aperte, o perlomeno socchiuse. Bersani non sarebbe più il vincitore annunciato, Franceschini fa allegramente il movimentista antiberlusconiano, buttandosi dentro il clima della guerriglia civile aperta dal capo del governo. Nel frattempo D'Alema perfeziona il suo disegno politico, lo lima, cercando di adeguarlo alle condizioni della politica italiana, dove tutto è in subbuglio. Ma qual è il progetto? Fare come in Russia no, non se ne parla più. Ma fare come in Germania sì, il modello è quello. E non solo perché dalla parte di Bersani c'è Rosy Bindi, ovvero «la nostra Angela Merkel», come ormai dicono i suoi fan; ma perché il politico puro D'Alema ha alcune convinzioni ben chiare. Primo, dopo la caduta del maggioritario, e l'avvelenamento della politica nazionale con il premio di maggioranza, occorre puntare a un "bipolarismo dinamico", che consenta l'allestimento di coalizioni funzionali; insomma una politica più manovriera e duttile, in grado di dare spazio alla rappresentanza e di movimentare un sistema che altrimenti rischia di incepparsi di nuovo come nel bipartitismo imperfetto della prima Repubblica. D'Alema lo aveva detto poco dopo le elezioni del 2008, in cui la «vocazione maggioritaria» di Walter Veltroni si era schiantata contro l'Armada berlusconiana. Il rischio, secondo D'Alema, era che il centrosinistra si riducesse a una «minoranza permanente», con quel che segue: una scia di rancori e "rabbie" incapaci di misurarsi con l'attitudine al governo, e la coltivazione di nicchie emotive e simboliche in grado tutt'al più di soddisfare la vena sentimentale della sinistra. Ecco allora che il partito «solido» di Bersani, il modello «bocciofila», costituisce in prospettiva uno strumento in grado di elaborare strategie e alleanze per sbloccare il sistema politico. In primo luogo c'è da sviluppare un sistema di alleanze, a cominciare dal rapporto con l'Udc di Pier Ferdinando Casini: per arrivare alla maggioranza dei voti, occorre staccare pezzi di elettorato dal centrodestra, magari con gli ispiratori del grande centro come Luca di Montezemolo, dopo avere dimostrato che la politica economica e sociale di Berlusconi è stata e sarà elusiva, deludente, statalista, «dorotea». Mentre Berlusconi, per problemi suoi, è tutto mobilitato infatti sulle riforme istituzionali, dal processo penale alla forma di governo, dalla composizione della Corte costituzionale a quella del Csm, il ticket Bersani-D'Alema si concentra tutto sul governo dell'economia, e sulle sue ricadute sociali. Non è un caso che Bersani piaccia a un altro postcomunista classico, Giuliano Ferrara, anche lui amante della Realpolitik. Sono le affinità elettive che si fanno sentire di nuovo, anche se i problemi stanno aumentando. Il modello tedesco così caro a D'Alema si è frammentato alle elezioni di fine settembre, e il bipartitismo "corretto" della Repubblica Federale si sta modificando in modo tale da non costituire più un esempio per il nostro sistema politico. Ma questo per D'Alema non è un problema. È probabile che mentre Franceschini si aggrappa al bipolarismo, ai suoi occhi un sistema "multipolare" sarebbe benvenuto, per le soluzioni combinatorie che consentirebbe. Alcuni hanno già notato che la formula dalemiana assomiglia insidiosamente alla riapparizione del Pci sotto altre spoglie: il Pd sarebbe un partito di minoranza strutturale che fa da perno a un sistema di alleanze per poter conquistare la maggioranza elettorale. Un ritorno al passato. D'Alema direbbe alla "classicità" del fare politica. Ma c'è un altro elemento da considerare: a vedere come si sono schierati i principali leader ex Ds, D'Alema con Bersani, Veltroni e Fassino con Franceschini, si ha la sensazione di un duello infinito, che si svolge tutto dentro le stanze di un partito che non esiste più. Sembra la riedizione del film di Ridley Scott "I duellanti": anziani rivali che continuano a trovare ragioni per combattersi ancora, mentre tutt'intorno esplodono altre sanguinose guerre. Se poi si aggiunge che per Franceschini si è schierato anche l'ex sindaco di Bologna ed ex capo della Cgil, il "Cinese" Sergio Cofferati, si ha la sensazione di un D'Alema accerchiato, meridionalizzato, tutto sommato lasciato solo a combattere la sua battaglia neo-socialdemocratica. Regata "en solitaire", si direbbe. A meno che, naturalmente, Bersani non confermi alle primarie la vigorosa maggioranza percentuale ottenuta nel voto degli iscritti. Perché a quel punto occorrerà vedere se i due dioscuri avranno il coraggio di fare ciò che hanno annunciato. Il partito solido, la politica di manovra, il realismo nelle alleanze, il rapporto con la Cgil, la guerra di corsa nel mare agitato dell'economia. È l'esatto contrario di ciò che si è visto nell'epoca "leggera" del dopo Prodi. E toccherà al comunista più intelligente dell'Occidente riuscire a restare nell'ombra, a ispirare una politica senza ergersi a protagonista. Se gli va bene, per D'Alema si prepara una vita da padre nobile. n
L'Espresso, 22/10/2009, TELEVISIONE
L’horror è servito
A dispetto del titolo, "Orrori da gustare" è un programma interessante. Va in onda sul canale satellitare Discovery Travel and Living, ed è condotto dal cuoco newyorkese Andrew Zimmern. Potrebbe sembrare una trasmissione shocking, anche se il titolo originale americano suona più semplicemente "Bizarre Foods", e in qualche caso l'horror è giustificato (quando per esempio Zimmern ingurgita carne di cammello putrefatta, specialità marocchina, o larve del tronco della noce di cocco, lunghe venti centimetri). Ma in genere il programma risulta curioso perché è "etnico", si reca sui luoghi e fa vedere autentiche meraviglie antropologiche. Di recente, sono state fantastiche le puntate sull'Islanda e il Cile, e poco importa che in quell'isola lontana si mangiasse una schifezza bianchiccia, lo skir, che è un formaggio molto molle che va condito con la panna e lo zucchero, e sulle alture delle Ande si assistesse alla castrazione dei vitelli, con relativa abbuffata di "gioielli di toro" (questi però li ho mangiati anch'io, almeno una volta, senza andare sulle Ande, e posso garantire sulla loro prelibatezza). Quindi gli orrori passano in secondo piano, e rimane l'interesse per i luoghi, le tecniche di allevamento, la qualità dei ristoranti, o semplicemente la natura. Quindi se siete un po' schizzinosi, quando il conduttore si infila tra le fauci delle cose immonde distogliete pure gli occhi; e potete pure pensare che un americano sarebbe capace di divorare tutto, eccetto forse i parenti stretti, o magari anche quelli. Ma se vi capita, soffermatevi per qualche minuto su "Orrori da gustare".
L'Espresso, 29/10/2009, TELEVISIONE
Falqui ovvero la tv
Lunedì 12 ottobre, in seconda serata su RaiDue, è andato in onda "Giochiamo al varietè", un programma della serie "La storia siamo noi" scritto e diretto da Gianluigi Attorre (con la collaborazione di Massimo Favia). Superfluo dire che Antonello Falqui è stato uno degli inventori della televisione italiana, a cominciare dal successo del "Musichiere" presentato da Mario Riva. Ma ciò che colpiva, nel programma di Attorre, era soprattutto un giudizio di Sergio Rubini, attore scovato da Falqui nei teatri romani: «Era una televisione che voleva essere migliore del suo pubblico». Il programma era ricchissimo di brevi citazioni dai principali spettacoli di varietà realizzati da Falqui. Si potevano ammirare le partecipazioni di Mina, Lelio Luttazzi, Paolo Panelli, Walter Chiari, le Kessler, Raffaella Carrà. Ma soprattutto, in quella televisione in bianco e nero, risultavano di impressionante bellezza le scenografie, tutte in uno stile "optical" tipico degli anni Sessanta, e di formidabile professionalità tutti gli elementi dello spettacolo, dai balletti alle luci. Era effettivamente una televisione che si collocava un passo davanti al popolo, approfittando della posizione di monopolio che il sabato sera assicurava 20 milioni di spettatori, e che spacciava qualità eccelsa in forma di spettacolo popolare. Con "Studio Uno" e le varie "Canzonissima", Falqui, con i suoi collaboratori, autori e ospiti d'onore, proponeva professionalità pura, con risultati che ancora oggi appaiono stupefacenti. Era una tv che poteva ancora consentirsi prove di una intera settimana. E poteva permettersi un regista dittatore, che a ogni puntata scriveva un capitolo di storia della tv.
L'Espresso, 29/10/2009, PRIMO PIANO
Benvenuti nella horror tv
Un po' di zapping, e si è nel trash puro. Perché nella nostra televisione generalista regnano criteri ferrei: occorrono femmine scosciate e discussioni virulente. Specchio del Paese? Più probabilmente oggi la tv rispecchia se stessa, si esalta della propria cattiva creanza, riversa sugli spettatori la pessima qualità di programmi in cui tutti hanno capito che conviene litigare con tutti. In modo bipartisan o tripartisan, che importa. Ciò che conta è il trionfo della rissosità, anche nei programmi pomeridiani o domenicali: obesi contro magri, un classico visto di recente mille volte, oppure monogami contro adulteri, va sempre bene. Se dev'essere rissa, che rissa sia. E poi quelli di sinistra dicono che non c'è libertà d'informazione. Sono faziosi o estremisti, secondo la classificazione di Angelo Panebianco sul "Corriere". Fanno manifestazioni a Roma e osservano con finto sconforto la caduta dell'Italia nelle classifiche internazionali (secondo Reporters sans frontières siamo caduti al 49° posto, un gradino appena sopra la Romania). Ma anche le classifiche sono faziose, e tutte le associazioni che contengono il lemma "senza frontiere" sono estremiste, e al momento buono occorre tenere presente un solo vero principio: il pluralismo. Sotto questo aspetto non c'è da lamentarsi. Perché è vero che ultimamente c'è stato il tentativo di allestire una fiction di regime, con il kolossal "Barbarossa", firmato da Renzo Martinelli e con Umberto Bossi come "guest star": soldi del popolo, una paccata di milioni di euro, per celebrare l'epos della Lega. Per fortuna il film è risultato fallimentare, con i critici che hanno parlato di una «miseria formale» e il botteghino che piange. Ma in compenso, oltre all'epica ufficiosa, abbiamo anche almeno due televisioni ufficiali: la tv del silenzio e quella dell'urlo. Dovremmo essere negli standard giusti. Quindi vediamole nel dettaglio, le due televisioni. La tv del silenzio prende corpo con la nomina a direttore del Tg1 di Augusto Minzolini. Occorre considerare che secondo le analisi di Ilvo Diamanti più dell'80 per cento della società italiana trae le informazioni dalla tv. E quindi il Tg1 ha una funzione strategica. Se il Tg1 non dà una notizia, quella notizia non esiste. Chi deve darla, il Tg5? Figurarsi. Ragion per cui, se Minzolini spiega con un editoriale che il caso della prostituzione di regime, rivelata dalla escort Patrizia D'Addario e dall'inchiesta barese sull'imprenditore Gianpaolo Tarantini, non è degno di essere messo in scaletta, lo scandalo semplicemente non c'è. Il pubblico riceverà al massimo notizie frammentarie, enigmi, barlumi di fatti ridotti al rango di "gossip". Mentre tutto il mondo civile con la sua informazione libera, una specie di nuova Radio Londra, mette nel mirino la vita allegra di Silvio Berlusconi, qui da noi si fanno abili giochi di prestigio: la realtà scompare, et voilà, si materializzano candide colombe, ma notizie, mai. L'importante è sfuggire ai vizi della faziosità e dell'estremismo, capire quindi che le seratine a Palazzo Grazioli fanno parte del tempo libero di una persona schiacciata dal lavoro, che avrà pur diritto a qualche ora di svago (ma non aveva raccontato, il premier, che lavorava fino a ore impossibili, e la luce accesa nella sua stanza era la prova del suo eroismo? Bah.). Quando uno ne ha abbastanza della tv del silenzio, ecco in alternativa la tv dell'urlo. È sempre stata una tecnica degli esponenti di destra quella di saltare sulla voce degli interlocutori di sinistra, portando il dibattito all'incomunicabilità. Ma adesso l'urlo ha trovato interpreti di alta se non altissima classe. Specialisti di questa disciplina sono per esempio il direttore di "Libero" Belpietro e il condirettore del "Giornale" Sallusti. Certo non ci si può inventare urlatori dalla sera alla mattina. L'urlatore provetto deve avere in repertorio alcuni brani celebri, in voga nei migliori bar. Eccone alcuni. Mani pulite è stata una macchinazione gestita dalle toghe rosse. Il primo governo Berlusconi è caduto per colpa di un avviso di garanzia spedito durante un vertice internazionale. Il capo del governo, sempre Berlusconi, ha subito 106 processi. La Corte costituzionale sul Lodo Alfano ha smentito se stessa, essendo un organo politicizzato «con undici membri di sinistra». Con la nuova legge elettorale il popolo ha "eletto" Berlusconi a presidente del Consiglio. Non basta? Qualcuno di voi sostiene che a far cadere il primo Berlusconi fu Bossi? Che i processi al premier sono 12 (più altri quattro in arrivo); che la Consulta è stata coerente con se stessa in quanto il Lodo Alfano era un'ingiuria alla Costituzione; che secondo la legge elettorale vigente non si elegge nessun capo del governo, ma solo si indica nel simbolo il capo della coalizione? Ecco, con ogni probabilità voi appartenete al pericoloso partito del Gruppo Espresso, quello di "Repubblica" e di Carlo De Benedetti, che tenta di sovvertire la volontà popolare. Non è facile resistere alla tv dell'urlo. Come si fa a rispondere in modo sensato quando qualcuno, sgolandosi, sostiene che i registratori di cassa furono introdotti per dare un aiutino a De Benedetti, e altre leggende metropolitane di questo tipo, a partire dalla Omnitel "regalata" all'Ingegnere? Ci vuole forse la caparbietà di Rosy Bindi, la nostra Angela Merkel, che è riuscita a sgranocchiarsi il ministro Sacconi sfoderando numeri, tagli e politiche sballate sulla sanità. Ma che fare di fronte a un agguato come quello praticato contro il giudice Mesiano da "Mattino 5", punta di lancia di Mediaset? Questa non è la tv del silenzio e neppure dell'urlo: è la televisione trash del complotto, della diffamazione praticata con ogni mezzo: «Su questo giudice ne vedremo delle belle», aveva detto Berlusconi in persona. Di bellissime: i calzini «turchesi», le «stravaganze». Poi le scuse, un po' pelose. Ma intanto il danno è fatto, l'intimidazione compiuta. Colpiscine uno per educarne cento. Alla fine, se qualcuno si lamenta, interviene la tv del silenzio. Oppure la tv dell'urlo. Non c'è che l'imbarazzo della scelta. Questo è pluralismo. Questo è trash. Questa è la tv della libertà. n
L'Espresso, 05/11/2009, TELEVISIONE
Una passione molto Serena
Siccome da anni il sottoscritto cova una passione sottaciuta per Serena Dandini, viene troppo facile parlare bene di "Parla con me", il talk show in onda su RaiTre dal martedì al venerdì alle 23.15. La passione è così intensa da indurre a sottovalutare il fatto che, stando alle gazzette, il compenso annuale della sovreccitata Dandini ammonterebbe a 710 mila euro. Urka. Settecentodiecimila euro per la sinistra di classe e i ceti medi riflessivi, mica noccioline. Comunque, la passione è piuttosto diffusa, se è vero che su Google ci sono 8.200 occorrenze per "Dandini cosce". Anvedi. E vabbé, comunque parliamo benissimo del programma innanzitutto perché gli ospiti sono generalmente di gran classe: vista per esempio una prestazione clamorosa del professor Ilvo Diamanti che presentava il suo libro "Sillabario per i tempi tristi" e argomentava a proposito delle rotatorie, altrimenti dette rotonde: Diamanti sembrava una specie di Buster Keaton, che con aria imperturbabile diceva e sottolineava delle enormità, descrivendo l'inopinata fioritura di rotatorie fra Caldogno, patria del suddetto professore e di Roberto Baggio, e Vicenza. Ma una delle risorse del programma è anche la musica, in parte per le gag della Banda Osiris e in parte per la partecipazione di gruppi come i Quintorigo, ascoltati in una clamorosa interpretazione per archi di "Purple Haze" (Jimi Hendrix). E infine la risorsa maggiore è la presenza di Dario Vergassola, il più brutto e più bravo comico della tv contemporanea. Vorremmo solo sapere il suo cachet, e poi saremmo pronti per un'avventura con lui. Si fa per dire, s'intende. Su Google, le occorrenze per "cosce Vergassola" sono insignificanti.
L'Espresso, 05/11/2009, PORTE GIREVOLI
Pagheremo tutto
Ai tempi dei tempi, il centrodestra italiano era una fotocopia su scala minore del reaganismo. Nella campagna elettorale del 2001, Silvio Berlusconi appariva sui cartelloni sei per tre con lo slogan "Meno tasse per tutti": era una variante italica dell'economia "supply side", secondo cui abbassando le aliquote il gettito sarebbe aumentato (una trovata neoliberista che non è mai stata dimostrata empiricamente ma che ha goduto di molto successo a partire dagli anni Ottanta). Inoltre la coalizione elettorale di Berlusconi si presentava con una ideologia tutta legata a principi liberisti, a cominciare dalla liberalizzazione del mercato del lavoro: qualcuno ricorderà la battaglia sull'articolo 18, la libertà di licenziare presentata come "libertà di assumere". Era tutto un imbroglio. Il governo Berlusconi di quel quinquennio non ha mai rispettato i criteri neoliberisti a cui diceva di ispirarsi. La caduta e la sostituzione del ministro dell'economia Giulio Tremonti rappresentò il fallimento integrale della legislatura di centrodestra. Il Contratto con gli italiani stipulato a "Porta a Porta", con dotazione di stilografica e scrivania di ciliegio, non venne rispettato. Berlusconi si preparava ad andare incontro a una nuova sconfitta elettorale contro l'Unione di Romano Prodi. Il Cavaliere, va pure detto, non è granché fortunato. Riconquistato Palazzo Chigi nel 2008, si è trovato davanti a una crisi economica acuta. Non sapeva come affrontarla, e per mesi ha pigiato il tasto delle aspettative. Nei suoi slogan, la recessione era il frutto di atteggiamenti psicologici che deprimevano i consumi; occorreva ottimismo, propensione alla spesa, un'euforia artificiale. A un certo punto, tutti gli esponenti del governo hanno cominciato a sostenere la tesi, infondata, secondo cui "il peggio era alle spalle". E si è proseguito così, con proclami e annunci, mentre anche il clima culturale cambiava radicalmente. Anziché il neoliberismo dei primordi, cominciava a diventare moneta corrente lo statalismo colbertista di Tremonti. Il cambio di rotta non doveva dispiacere a certi ambienti della maggioranza, soprattutto agli ex An confluiti nel Popolo della libertà. Ma si trattava di una specie di metamorfosi: con un cambiamento a rovescio, dal male al peggio: la farfalla liberista diventava il bruco dirigista. E il risultato finale, dopo scontri, manfrine, bufere di neve inventate a San Pietroburgo per far saltare un consiglio dei ministri, incontri privati ad Arcore, era la decisione di non fare niente. Nulla. Dopo il solito annuncio dell'abolizione dell'Irap si è deciso di rinviare tutto a tempi migliori. Di fatto, siamo passati alla non-politica economica. Evocazione di carrozzoni come la Banca del Sud. E la famosa "exit strategy" per uscire dalla crisi? I ministri e i viceministri che compaiono come ospiti nei talk show televisivi continuano a ricordare le risorse impegnate negli ammortizzatori sociali: ma c'è voluto un operaio ad "Annozero" (non un economista di grido, un semplice operaio!), a ricordare polemicamente che dalla crisi economica non si esce con la cassa integrazione, ma con misure di sistema. I giornali hanno dato ampio spazio al Forum della piccola impresa a Mantova, in cui è stato dato l'allarme su un milione di piccole imprese a rischio di chiusura. Ma non sembra che sia stato segnalato che cosa implica tutto questo: cioè milioni, diconsi milioni, di disoccupati potenziali. Nel frattempo il governo è impegnato a progettare riforme costituzionali, sulla giustizia e sulla forma di governo. Forse non c'è una buona conoscenza della situazione economica reale. D'altronde, quando l'ingegner Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia, ad "Annozero" sostiene a gran voce che dall'inizio della crisi gli Stati Uniti sono calati nel Pil del 13 per cento e il Regno Unito del 12, mentre «noi stiamo resistendo», che si può dire? "La voce.info" ha smentito rapidamente il viceministro leghista (gli Usa calano del 3,6 per cento, il Regno Unito del 5,5, e noi non stiamo resistendo affatto). Ma nel frattempo noi, cioè l'opinione pubblica, siamo bombardati dalla propaganda del Pdl. Tanto che si perde di vista qualcosa di clamoroso: in pochi anni, la destra è passata da una politica economica neoliberista a una statalista, per finire a nessuna politica economica. Tremonti cadrà o non cadrà, Umberto Bossi lo salverà o no. Ma nel frattempo si può già constatare, di nuovo, il fallimento del partito berlusconiano sull'economia. Conti pubblici allo sfascio, la spesa inarrestabile, il deficit al 5 per cento, il debito come nei primi anni Novanta. Intere stagioni di sacrifici buttati via. Con qualche conseguenza: alla fine pagheremo caro, pagheremo tutto.
L'Espresso, 12/11/2009, TELEVISIONE
Prigionieri della Marcuzzi
Per un debito sociologico, ogni anno ci si chiede se la nuova edizione del "Grande Fratello" confermerà o smentirà l'ipotesi di fondo: i reclusi nella Casa rappresentano un campione significativo della società italiana di oggi oppure costituiscono un esperimento di microetologia umana, o qualcosa del genere. Naturalmente dipende dalle preferenze: uno potrebbe semplicemente confessare che i pochi minuti dedicati al programma vengono impiegati per controllare in quali condizioni siano le ghiandole mammarie di Alessia Marcuzzi (come per la mitologica Luisona del Bar Sport di Stefano Benni). Stanno su? Cadono giù? Accettano le leggi della fisica oppure le sfidano? Ma se si vuole rispettare lo statuto sociologico della trasmissione e dell'osservatore è meglio avanzare qualche risposta, indifferenti al fatto che magari l'anno scorso o gli anni prima si sarà risposto in modo contraddittorio: eh, ma le condizioni cambiano, i personaggi pure, i prigionieri sono diversi, quest'anno c'è o ci dovrebbe essere il trans e l'illibato, e quindi non dovrebbero esserci dubbi: "Grande Fratello" nella decima versione è esattamente lo specchio dell'Italia contemporanea. Con il che, ci si potrebbe mettere a piangere sulle condizioni del Paese, e sul modo in cui i nostri concittadini cedono alle mode e alla "Tendenz". Ma che dire? Il reclusorio grandefratellifero l'abbiamo accettato noi, con i grandi ascolti, che neppure quest'anno sembrano flettere: e quindi non c'è da stupirsi se siamo diventati uguali ai reclusi. Chi è causa del suo mal, pianga se stesso; oppure, in un impulso di autodenigrazione, pianga il Sé fesso.