L’Espresso
L'Espresso, 19/11/2009, TELEVISIONE
Gruber a Satyricon
Da qualche tempo alle spalle di Lilli Gruber si è dissolta l'ombra di Giuliano Ferrara, e adesso "Otto e mezzo" è un programma fatto e finito. Qualche volta cade nell'ufficialese, vedi le interviste a ministri come Maurizio Sacconi (e che volete che dica un ministro come Sacconi? La solita roba sugli ammortizzatori sociali e il riformismo di centrosinistra del centrodestra). In altre occasioni la Gruber sfida utilmente l'ovvio, come è avvenuto con la puntata dedicata al confronto fra la "spia" Roberto D'Agostino e il giornalista del "Corriere" Aldo Cazzullo. Il tema era mutuato dal libro di Cazzullo "L'Italia de noantri" (Mondadori), dedicato alla romanizzazione del Paese (ma si è davvero romanizzata l'Italia? Come no, basta ascoltare il pessimo linguaggio semidialettale che invade anche meteo e traffico). E su questo punto c'è da dire che D'Agostino è uno dei maestri contemporanei, proprio perché con il suo sito Dagospia è diventato uno dei cantori più sfacciati della romanità più sconclusionata. Una specie di Satyricon, che rivela i quattro cantoni più sfasciati della vita capitolina. Indimenticabili i suoi "Cafonal", grazie anche agli scatti del fotografo Pizzi. Ma il rischio era di portare Roma al livello della romanità, cioè del luogo comune fondato su tre o quattro episodi e quattro o cinque pettegolezzi. E da questo punto di vista la Gruber è stata brava a non cadere nell'ovvio. Ha cercato di tenere il discorso nelle sedi dovute, la politica con la politica, le smandrappate con le smandrappate. E alla fine questo modo di affrontare il costume è stato curioso. Anche D'Agostino, con i suoi anelli etnici, faceva la sua figura, quasi di guru.
L'Espresso, 26/11/2009
Metodo Paolini
La sera della commemorazione e celebrazione della caduta del muro di Berlino, su La7 è andato in onda "Miserabili", uno storico show di Marco Paolini, allestito questa volta nella gelida cornice atmosferica del porto di Taranto. Come succede ogni volta che c'è di mezzo un mattatore, e Paolini tende in effetti al mattatore, viene difficile staccarsi dal teleschermo (come è accaduto anche per il "numero" semiteatrale di Roberto Saviano a "Che tempo che fa"). Quanto a Paolini, due ore e mezzo di spettacolo, niente pubblicità, una maratona impressionante, anche naturalmente per la bravura del protagonista. C'erano comunque, e non vanno taciuti, alcuni difetti, nella performance: ad esempio, l'avvio è stato funestato da una goliardica ricostruzione di una bassa tournée teatrale a Praga, negli anni del socialismo reale, dove il protagonista era un banale Ford Transit. Inoltre lo spettacolo era molto diseguale: in parte ricostruzione di vicende di vita nella provincia veneta, in parte riflessione sul capitalismo thatcheriano, in parte analisi, o presunta tale, dei processi di modernizzazione contemporanei, industriali e scientifici. Insomma, lo show reggeva soprattutto per la carica convincente del protagonista di "Vajont". E per molti aspetti veniva fuori ancora una volta che un'altra televisione è possibile, seppur di rado, che si sottragga alle leggi implacabili della pubblicità e del palinsesto. Fa ascolti bassi, anche se non bassissimi, implica impegno da parte degli spettatori, ma alla fine genera anche intrattenimento di classe. Di questi tempi avventurati, si può pretendere di più?
L'Espresso, 26/11/2009
La partita di Bersani
Con una certa sorpresa si è visto che il Partito democratico cresce nei sondaggi e si avvicina al 30 per cento. Miracolo? Le spiegazioni ufficiali appaiono incerte, e investono soprattutto la mobilitazione provocata dalle primarie. Ma l'effetto della scelta del segretario dovrebbe essere ormai in archivio, e quindi sarebbe meglio cercare altre indicazioni. Tanto più che in capo al Pd si preparano difficoltà fortissime, che sarà bene tenere presenti. In primo luogo la leadership del partito è ancora debole. Pier Luigi Bersani sta cercando un ruolo e una visione, ma deve ancora incardinarsi nella sua funzione. L'impegno a definire la scacchiera interna, cioè il sistema di rapporti e di poteri dentro il Pd, rende più difficile l'esercizio pubblico, e anche la polemica contro il governo e la maggioranza. Bersani al momento non è in grado di promuovere il dibattito frenetico che Dario Franceschini praticava contro Silvio Berlusconi, e forse non lo vuole nemmeno. Questo si vede nella discussione quotidiana, specialmente sul caso della giustizia e del processo breve, dove il comando della sacrosanta guerriglia è affidato di fatto al ruolo istituzionale di Anna Finocchiaro. Ma il problema principale del Pd, in questo momento, è ancora la sopravvivenza come alternativa credibile. La risalita nei sondaggi infatti può essere più razionalmente attribuita alla sensazione, da parte dell'opinione pubblica, della necessità di un'opposizione efficiente. Un partito che si avvicina a un terzo dell'elettorato comincia a essere un'opportunità politica. Certo, c'è da fare attenzione, perché si tratta probabilmente di un consenso volatile. In questo momento il Pd è una entità politica ancora molto fragile, e sottoposta a tensioni che per il momento riguardano segmenti di classe dirigente, ma in futuro potrebbero impattare la fisionomia stessa del partito, la sua composizione ideologica, il suo statuto pubblico. Bersani infatti è il portatore di una visione tradizionale del Pd. Il suo schema in fondo è ancora quello del compromesso socialdemocratico all'emiliana, derivante dai "ceti medi ed Emilia rossa" di togliattiana memoria, aggiornato secondo schemi che assomigliano ancora a quelli di Romano Prodi. Tessuto industriale, piccola e media impresa, cooperazione, collaborazione fra capitale e lavoro. La crisi economica, che si farà sentire pesantemente nei prossimi mesi nella manifattura, reca insidie velenose al modello. Ed è per questo che assume peso e importanza anche la piccola diaspora cominciata con l'esodo di Francesco Rutelli, e con abbandoni annunciati come quello del sindaco di Venezia, Massimo Cacciari. Perché ciò che viene messo in discussione da queste fuoruscite è proprio il progetto stesso del Pd. Roba da intellettuali e da politici di lungo corso come Rutelli, che potrebbero interessare pochissimo militanti e simpatizzanti del partito, e di sicuro quasi niente gli elettori che guardano al Pd semplicemente come un'ancora antiregime, quale che sia il suo disegno politico e culturale. Ma il veleno è sottile. Apre varchi nel sistema bipolare, e riporta il centrosinistra a un metodo di alleanze che potrebbe diventare complicatissimo. Ritorna il trattino, con l'illusione della coalizione con l'Udc, mentre qualcuno sogna l'invenzione di Kadima, il nuovo partito della nazione, un centro capace di condizionare spregiudicatamente l'intero arco politico, facendo di nuovo riscaldare i due forni di italica memoria. Il punto critico fondamentale, comunque, concerne le prossime elezioni regionali. Una sconfitta grave, con il mantenimento soltanto delle regioni rosse, non sarebbe facilmente assimilabile dal partito. Il segretario Bersani deve quindi concentrarsi su candidature e alleanze, tenendo presenti le difficoltà fondamentali, dalla Campania di Bassolino alla Puglia di Vendola. L'obiettivo, ancora una volta, è la resistenza. Se il Pd supera onorevolmente la prova delle elezioni regionali, le prospettive diventano progressivamente migliori. Per ottenere questo risultato, per il partito "bocciofila" occorre un pancia a terra senza sconti. A cominciare da un forcing sull'economia reale, per uscire dal concerto di bugie e falsi ottimismi della destra. A Bersani occorre trovare un buco nel sistema di consenso berlusconiano. Come è possibile infatti che crisi e disoccupazione determinino acquiescenza verso il governo, e passività politica di massa nei confronti della destra? Se il segretario trova la formula per smascherare le favole di regime, forse la partita politica si può ancora giocare.
L'Espresso, 03/12/2009, TELEVISIONE
scivolone littizzetto
In una formidabile puntata di "Che tempo che fa", prima arriva in studio Pedro Almodóvar, che si presenta dicendo che ha un italiano «pauperrimo» e che non ci sente da un orecchio, ma l'intervista con Fabio Fazio viene abbastanza bene, senza troppi inciampi. Solita marchettina per il nuovo film "Gli abbracci spezzati" ma siamo nelle convenzioni. Poi viene intervistato Valentino e si rimane un po' stupiti perché la presunta superficialità del sarto risulta più profonda dei pensieri di Almodóvar: il senso della bellezza di Valentino, il suo perfezionismo, la sua dedizione al lavoro ripagano tutto, anche la semplicità dei ragionamenti. Poi, negli ultimi dieci minuti, arriva la Littizzetto, che in modo piuttosto provinciale dice che Almodóvar assomiglia a Lello Arena e Valentino è uguale al mago Silvan. Poi comincia uno dei suoi numeri: solo che questa volta l'ispirazione deve essere svanita, perché si mette a fare il catalogo degli orgasmi delle donne e del modo in cui vocalizzano il momento supremo. Si tratta evidentemente di uno dei giochetti più abusati, e ci si stupisce che la Littizzetto sia ricorsa a questo espedientino. Siamo in un salotto della sinistra buona e dei ceti riflessivi, dove la cultura e il buongusto non dovrebbero mancare. E quindi ci troviamo davanti a una caduta estetica, decisamente imperdonabile. Ma noi siamo buoni, siamo buonissimi, e quindi ci rifugiamo nell'insufficienza di prove. Diciamo, con il dovuto buonismo, che "aliquando dormitat Homerus". E quindi perdoniamo la Littizzetto e i suoi facili peccatucci.
L'Espresso, 03/12/2009, ATTUALITA'
videocracy show
Presidente siamo con te, meno male che Silvio c'è... Il coro professionale delle veline canta gorgheggiando il nuovo inno del Pdl, quello che è venuto dopo «e Forza Italia, per essere liberi». E a quel punto ci si rende conto, senza scampo e senza sconti, che "Videocracy", il film documento di Erik Gandini, evento a Venezia 2009, è un autentico documentario dell'orrore. Ma è l'horror italiano contemporaneo, quello in cui siamo calati tutti. Aveva ragione Nanni Moretti nel "Caimano": sono vent'anni che Berlusconi si è impadronito dell'anima degli italiani. Ci siamo abituati all'orrore? Di sicuro non sembra che abbiamo un'alternativa disponibile. "Videocracy" è la testimonianza secondo cui non pare esserci un antidoto al velinismo, a Fabrizio Corona, a Lele Mora: e di seguito alla propensione degli italiani a cercare il colpo che risolverebbe le loro vite. Un colpo televisivo, naturalmente. Perché l'Italia è la televisione. Gli italiani guadagnano mille euro al mese ma vogliono vivere come Flavio Briatore. Per questo si affollano a Porto Cervo per fotografare i vip o presunti tali: per vedere quelli che vanno in televisione e la fanno. Fuori il cellulare e via con le istantanee. Metti lo zoom. Quello dev'essere qualcuno; quella pure. Poi può esserci nel panorama pure la passeggiata trionfale di Berlusconi, accompagnato, come dice lui, da «due ali di folla». Il potere televisivo logora davvero solo chi non ce l'ha. E Berlusconi non solo ce l'ha, l'ha inventato, creato, rifinito, perfezionato. Cosicché alla fine il vecchio "Drive In", ossia il tetteculismo, è diventata pura quotidianità, anzi, pura normalità. Non sarebbe altrimenti se non si vedessero casalinghe sovrappeso e con le smagliature che tentano la carriera come "velone" mostrando il corpo nudo e deplorevole, con i 20 chili di troppo e le mammelle pendule. Se non ci fossero coatti lombardi, operai in fabbrica, che si esercitano pazzamente nel karate e nella dance, facendo decine di provini e sperando in una chiamata (santo cielo, non hanno nemmeno la faccia giusta, ma: «Che faccio, resto in fabbrica tutta la vita?»). Meno male che Silvio c'è. È davvero lui l'autore dell'Italia di oggi, come in un Rinascimento a rovescio? Il regista Gandini porta in luce un fondo di disperazione, proprio perché l'Italia di Corona e Lele Mora, della televisione imperante, dei soldi facili per pochi e difficili per molti, ma appetibili per tutti, sembra non avere aperture. Monade senza finestre, la tv ha replicato se stessa fino a diventare macrocosmo compatto. Come nel "Truman Show" è un universo chiuso, artificiale, intoccabile, non scalfibile. Nel suo genere, è la perfezione. Ma in questo modo, si chiederebbero la vecchia politica e la vecchia cultura, dove finisce la televisione, con i suoi riti mediocri, e dove comincerebbe la società? Siamo sinceri, "Videocracy", sottotitolo "Basta apparire", non ha esitazioni: ormai non c'è soluzione di continuità. Se non riesci a essere protagonista, come minimo vorrai, o dovrai, essere parte del pubblico. Ma non semplice spettatore: piuttosto meccanismo attivo del sistema, applaudendo la velina di turno su ordine del direttore di studio e mostrando entusiasmo per lo show, e per esserci. Oppure anche assistendo ai programmi tutto colore del mattino e del pomeriggio, dove l'effimero tracima, e i "dibattiti" toccano vette di imbecillità assoluta. In sostanza sembra che nessuno possa dirsi innocente, nel mondo di "Videocracy". Forse nemmeno noi che proviamo a rifiutare l'horror, gli yacht, le discoteche della Costa Smeralda, le donne scosciate, il clima di festa assurda, le ville clamorose, le piscine, il bianco sul bianco di Lele Mora nel divanone e sul lettone. Non siamo innocenti perché non abbiamo saputo elaborare una risposta, cioè una cultura altra. E quindi ci tocca assistere allo spettacolo di un potere scandaloso e avvolgente, di un kitsch che non è neppure kitsch, bensì il trash che fa la sua metamorfosi finale nel rubbish, immondizia pura, quintessenza di pattume. E quindi c'è poco da fare e molto da aspettare. La provocazione di "Videocracy" non ammette elusioni. O stai con Corona o stai altrove. Altrove vuol dire una riserva di significati e di aspettative tutte differenti rispetto al potere della televisione: una nicchia di senso in cui contano ancora la politica e la cultura, e il fatto che esistono ancora legami sociali non determinati soltanto dalla potenza dell'immagine. C'è un'altra parte dell'Italia che non si diverte a essere inglobata nella televisione. Chissà se questo può significare un'ancora di salvezza. n
L'Espresso, 10/12/2009, TELEVISIONE
Viva gli sposi versione reality
Se i super reality come il "Grande Fratello" arrancano, ci si può rifugiare volentieri sui mini reality come "Wedding planners" (su Sky, canale Discovery Real Time). Gestito dalla coppia di conduttori composta da Enzo Miccio e Angelo Garini, alias società Garini della Sforzesca, implica probabilmente un budget per i promessi sposi dall'ammontare simile a quello di un miniappartamento. L'architetto Garini e il "designer di eventi" Miccio, se lo volete, vi organizzano un matrimonio "comme-il-faut", di quelli che verranno amaramente rimpianti dopo l'eventuale separazione successiva e il pensiero dello scialo. Ma per il momento viva gli sposi, e que serà serà. Qualcuno obietterà che non si sposa più nessuno, e si costituiscono soltanto coppie di fatto, ma evidentemente non è vero: ci sono ancora progetti matrimoniali che vanno in porto, e Miccio & Garini fanno vedere come si programma e si organizza, nei minimi particolari, un giorno di nozze. Attenzione maniacale ai particolari, ai colori, alle tovaglie, alle posate, ai fiori, ai petali, alla cerimonia, al catering, agli abiti, alla musica: sicché anche i più scettici possono appassionarsi, con l'opportuna leggerezza, alle questioni di gusto e di stile. Ogni matrimonio, naturalmente, "viene bene", con soddisfazione degli sposi e degli invitati. Miccio & Garini trionfano come maestri di fashion, dopo avere saccheggiato negozi, gioiellieri e fornitori (visto anche un matrimonio in stile spagnolesco, con spedizione e ricognizione di Miccio a Barcellona, mantilla e pennetta, veli e olè). Alla fine, "orejas, ovaciones y musica", che in un giorno di nozze vuol dire lacrime e allegria. E che torta sia.
L'Espresso, 16/12/2009, TELEVISIONE
Moana troppo fiction
La miniserie in due puntate dedicata da Sky a Moana Pozzi, classificata come "evento" televisivo, starring Violante Placido, è stata accolta da critiche in genere negative. Forse era inevitabile, perché è vero che la vita e la tragica scomparsa della pornostar hanno emozionato a suo tempo il pubblico italiano. Ma in sé e per sé le pornodive non hanno storia. Da parte sua, Moana ha avuto il destino di entrare a contatto con la politica, e con uno dei più importanti leader degli anni Ottanta. Ma, se si dovesse riassumere la sua vicenda umana, si avrebbe più che altro la sintesi di una donna di spettacolo, sempre ammesso che di spettacolo vero si possa parlare. E si intuisce facilmente che con lo spettacolo è difficile raccontare fino in fondo una storia. In secondo luogo l'avventura umana di questa showgirl del sesso è stata caratterizzata dalla sua vitalità a suo modo culturale, fatta di parole e filosofie spesso esoteriche; nonché dalla sua tragedia personale. Basta tutto questo per realizzare una fiction? Non è detto affatto. Il regista Alfredo Peyretti ha cercato di dare corpo al mito di Moana, giocando sugli abiti e le svestizioni, i costumi e le curve, ma anche le parole e il carisma. Evidentemente non è bastato. C'era un livello zero di narratività. Forse Moana era troppo unica, ingente, esagerata, per poter essere raccontata da un film televisivo, ed era troppo poco tridimensionale per risultare effettivamente attrice e protagonista della propria vita e della propria professione. Esisteva come una Jessica Rabbit, fantasma del piacere, spettro lento e gentile della lussuria immaginaria. Raccontare un fantasma non è mai facile.
L'Espresso, 16/12/2009, PORTE GIREVOLI
Cosa manca ancora al Pd
Negli ipermercati delle Coop i clienti vanno a caccia di sconti e di prodotti sotto costo. Questo dato commerciale, non appaia un paradosso, è un primo indizio che ci sono due o tre cose da sapere sul Partito democratico, sulla sua condizione sociale, sul suo elettorato. E in questo senso aiuta molto l'indagine svolta nei primi giorni di dicembre da Ipsos per "Il Sole 24 Ore". I dati disponibili risultano impressionanti rispetto alla tradizione: perché dimostrano che il berlusconiano Popolo della libertà ha costruito un blocco sociale apparentemente inscalfibile, e dalle caratteristiche addirittura impensabili. L'alleanza con la Lega rende maggioritaria la destra fra gli operai, i pensionati, i disoccupati, le casalinghe, oltre che ovviamente fra gli imprenditori, i professionisti e i commercianti, e territorialmente nel Sud del Paese. Non è una novità. La classe operaia era passata a destra già alle elezioni del 2001, sfiorando il 60 per cento. Invece l'insediamento del Pd è molto più circoscritto. Nel Triveneto i consensi fra Pdl, Lega e Pd sono divisi esattamente per tre. Il che significa banalmente che il Pd è pesantemente minoritario in una delle aree trainanti dell'Italia attuale, recessione permettendo. Se in passato Ilvo Diamanti aveva discusso del rischio che il centrosinistra si confinasse in una specie di «Lega centro», isolata nelle solite regioni postcomuniste, oggi sembra cristallizzarsi anche la stratificazione sociale, con l'aggravante che l'insediamento sociale del Pd tende a fissarsi sui settori tradizionali dell'impiego pubblico, cioè proprio sugli apparati sottoposti al forcing di ministri come Renato Brunetta e di Mariastella Gelmini. In sostanza, Pier Luigi Bersani deve trovare una formula politica per spezzare l'accerchiamento del Pd. In questo senso, le elezioni regionali di marzo potrebbero essere un appuntamento decisivo. Una disfatta rappresenterebbe il fallimento di un progetto. Una tenuta, anche faticosa, costituirebbe un nuovo punto di partenza.Tuttavia il problema del Pd non è dato soltanto dalle percentuali elettorali e dalla conquista eventuale di una regione in più rispetto alle previsioni più pessimiste. I dati dell'Ipsos mostrano fra l'altro un numero alto di incerti (oltre un terzo del campione), ma offrono anche l'indicazione di un'opportunità politica. Ma qui c'è il busillis: con quale progetto, proposta politica, programma culturale il Pd bersaniano si prepara allo scontro con la destra? Per ora la diaspora aperta da Francesco Rutelli, con l'accompagnamento di personalità riformiste come Linda Lanzillotta, non sembra avere provocato danni seri; e nello stesso tempo il Pd cresce nei sondaggi anche perché cannibalizza la sinistra antagonista, dai resti di Rifondazione comunista e i Comunisti italiani a Sinistra e libertà. Dunque rimangono a Bersani e al suo pacchetto di mischia (la presidente Rosy Bindi e il vicesegretario Enrico Letta, autore di una dubbia uscita sulla legittimità di Berlusconi di difendersi "dal" processo, giustificata a quanto si dice da un presunto suggerimento del Quirinale di mantenere aperto il dialogo sulle riforme) le urgenze più forti. Vale a dire: come si fa a infrangere il gioco di prestigio che ha indotto i poveri e gli impoveriti, cioè le casalinghe da hard discount, i precari licenziati, i cassintegrati, coloro che subiscono gli effetti della crisi economica, all'acquiescenza, alla passività verso il governo Berlusconi. C'è un problema di alleanze, reso complicato dalla sostanziale incompatibilità fra l'Udc di Casini e l'Idv di Di Pietro. Esiste come problema il rapporto con la piazza "viola", emerso con la manifestazione romana del No-Berlusconi Day. Ci sono anche questioni chissà quanto gestibili sulla bioetica, la pillola abortiva, il testamento biologico, il fine vita. Ma si avverte specialmente l'assenza di un cuneo politico-culturale che sia in grado di esorcizzare la magia mondana del berlusconismo: non in quanto ideologia secolare e modaiola, happy hour, movida milanese o romana, bensì agglutinamento di interessi non sempre ben identificati ma integrati in una collosità inscindibile. Con il tempo, il Pd ha smarrito anche una parte consistente del rapporto con il mondo cattolico. Meno di un terzo dei cattolici praticanti vota per il centrosinistra, mentre fra Pdl e Lega, fra i praticanti assidui o saltuari, le preferenze superano di buona lena il 50 per cento. Si è persa insomma la sintesi prodiana, politica, economica, culturale e religiosa. Che possa essere recuperata, è forse la vera e ultima chance del socialdemocratico Bersani.
L'Espresso, 22/12/2009, TELEVISIONE
Lerner senza veli
La puntata de "L'Infedele" che ha avuto per ospite e protagonista Patrizia D'Addario ha rappresentato un salto di qualità nel lessico e nella rappresentazione televisivi. Il programma di Gad Lerner su La7 è un'isola di decenza formale nei talk show serali (niente applausi o quasi, tentativo spesso riuscito di approfondimenti, resistenza alla faziosità politica, e soprattutto poche urla e sovrapposizioni di voci). Ma questa volta il terreno era molto scivoloso. Si parlava di consumo del sesso, del corpo, del mercato del piacere. E quindi occorreva un linguaggio adeguato. Sarebbe stato possibile usare eufemismi, ma non è stata questa la scelta del conduttore e degli ospiti. Si è andati deliberatamente sull'esplicito. E quindi se non è stata una sorpresa ascoltare Pietrangelo Buttafuoco che diceva «dove ci sono campane ci sono puttane», è risultato invece sorprendente il modo chiaro con cui Lucetta Scaraffia e altri ospiti hanno usato le parole: senza filtri moralistici, con immediatezza, quasi con un senso di liberazione rispetto ai tabù linguistici della televisione tradizionale. Risultato: una innovazione molto forte, uno strappo alle regole voluto ed evidente. Detto con una formula: "sdoganamento dello sputtanamento" (parola usata ripetutamente nel programma). Apertura al linguaggio quotidiano, senza inibizioni. E con un senso di naturalezza che non si era mai sentito in una trasmissione televisiva. C'è solo da augurarsi che il modo esplicito e "colto" con cui Lerner e ospiti hanno trattato il tema non diventi, in altri programmi, un modo volgare di trattare argomenti pruriginiosi per un pubblico meno avvertito.
L'Espresso, 22/12/2009
politica dell’odio
Si chiede Berlusconi dal San Raffaele: «Perché mi odiano?». E qui ci vuole un po' di storia, altrimenti la vicenda dell'odio in politica si perde fra opposte polemiche. In realtà sono 15 anni, esattamente dall'ingresso in politica di Silvio Berlusconi, che l'Italia è stata divisa in due parti separate da una ostilità addirittura antropologica. E non per caso. Berlusconi nel 1994 ruppe ogni convenzione della prima Repubblica. Leghista al Nord con Umberto Bossi e post-fascista nel Centro-sud con Gianfranco Fini. Ma l'invenzione più spettacolare fu la demonizzazione totale dei «comunisti»: un termine con cui Berlusconi intendeva tutti i suoi avversari, in politica e nella società. Per un quindicennio l'Italia si è trovata così divisa in due blocchi nemici. Prima il ceto politico era colluso, nelle tangenti; dopo divenne separato da una malevolenza implacabile, alimentata a destra dalla rivincita contro Mani pulite. Da un lato ecco il Polo, la Casa, il Popolo della libertà, le imprese, il lavoro autonomo, le partite Iva; dall'altro l'area "comunista", composta dai fannulloni, dal pubblico impiego, i magistrati, i sindacalisti, gli insegnanti, il lavoro dipendente, in una parola gli antiberlusconiani innati. Per anni, grazie al controllo dei media, il Cavaliere ha inoculato veleni nei loro confronti, fissando la leggenda di una macchinazione permanente ai suoi danni, gestita dalle «toghe rosse», oltre che naturalmente dalle «sinistre» nemiche della libertà e incapaci di un esito «socialdemocratico» (accusa che ha ripetuto ancora nel «pacato», e in realtà tiratissimo, comizio di Piazza del Duomo, prima dell'aggressione di cui è stato vittima). Curioso: in quindici anni, Berlusconi non ha mai fatto il nome di un pm persecutorio. Ha tentato di approvare il decreto "salvaladri". Al momento buono si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ha fatto procedere 18 leggi ad personam. Ha sempre rivolto accuse generiche verso «certa magistratura», e soprattutto si è dedicato a una reinvenzione sistematica della storia: come la caduta del suo primo governo, attribuita all'avviso di garanzia durante un vertice internazionale (in realtà fu il «traditore» Umberto Bossi, il «ladro di voti», a ritirare la fiducia e a uscire dalla maggioranza dopo uno scontro sulla Finanziaria). Qualcuno ha dimenticato il «questa volta non faremo prigionieri» di Cesare Previti? Il «kapò» all'indirizzo di Martin Schulz nel gelo del Parlamento europeo? E la violenza quasi eversiva con cui Berlusconi respinse la sconfitta elettorale del 2006, attribuendo i 24 mila voti di vantaggio dell'Unione ai «brogli» nei seggi? Mentre ora ci dimenticheremo l'inimicizia contro chiunque sia in odore di sinistra, dalla Corte costituzionale agli «ultimi tre presidenti della Repubblica»? Quindi prima di parlare di odio e di chi l'ha scatenato ci vuole discernimento. Metà della società italiana, anche e soprattutto quella che non crede al Berlusconi mafioso e stragista, e tuttavia consegnata al disprezzo da riservare ai «comunisti», aspetta ancora che la strenua cortina di ostilità sollevata nei suoi confronti venga revocata.
L'Espresso, 29/12/2009, TELEVISIONE
Acuti d’Ilaria
Appena su Sky Sport, dopo gli incontri del campionato di calcio, appare Ilaria D'Amico, con il suo immodificabile tubino nero, e la sua voce fin troppo squillante, io mi dico: stiamo allegri, è domenica. La Ilariona per la verità è diventata prontissima nelle risposte e nei faccia a faccia, scherza con allenatori e presidenti, campioni e scamorze, assi e bufale, dimostrando sempre una perfetta tenuta. E risultano rassicuranti anche i suoi commentatori, Mario Sconcerti e Massimo Mauro, seppure per ragioni piuttosto diverse. Sconcerti infatti è ormai uno dei pochi giornalisti sportivi che offre non solo analisi ma anche opinioni. Si sbilancia, insomma, infila statistiche e poi trae conclusioni. Nel conformismo generale del calcio, un refolo di originalità. Meno brillante il suo sodale Massimo Mauro, a cui farebbe bene un corsettino di dizione, per togliere l'accento troppo pronunciato. Ma questo è il meno: Mauro rappresenta l'opinionista che sente il bisogno di dare all'intervistato una tesi su cui andare d'accordo. Ragion per cui offre domande e risposte insieme, facendo il possibile perché l'interlocutore si trovi in linea con lui, con tutti, con il gioco del calcio e con lo spirito del tempo. Per fortuna rientra subito in gioco la D'Amico, che scombina i giochi, fa un po' di ironia, ricorda fatterelli della settimana, e soprattutto non ha paura di giocare con gli ospiti e gli intervistati. Strilla sempre, e dovrebbe abbassare di due toni il diaframma. Ma tant'è: siamo dentro il "dibbattito", per quanto calcistico. E se finalmente c'è una "domina", che regge il tiro, viva la faccia, e la voce.
L'Espresso, 10/01/2008
Servizietto pubblico
D'accordo, è vero, come obietta su "la Repubblica" Giovanni Valentini, che in tutti i paesi avanzati c'è il servizio pubblico e c'è il canone, anche molto più caro che da noi. Ma c'è un ma. L'Italia non è un paese avanzato. Siamo nel pieno del Medioevo più la televisione: di là si staglia l'Imperatore, con i suoi possedimenti immensi su cui non cala mai l'antenna, di qua si profila il feudatario, il vassallo, il valvassore, fino al giullare di corte e al servo della gleba, richiesto di certe corvée. Per capire questa realtà feudale, che sfiora la grandezza degli affreschi di Marc Bloch per inoltrarsi nei territori dei Vanzina, basta un ripasso dei ludi telefonici fra Silvio Berlusconi e Agostino Saccà. Presidente, direttore, tu, lei, il papa, la soldatessa, lo stronzo, quasi meglio di Totò e Peppino, con annessa la malafemmina di turno. Ragion per cui si tratterebbe di capire come si può riformare il servizio pubblico (o il servizietto, per meglio dire) per rifarlo più bello e più grande che pria (bravo, grazie). E la risposta è quella volterriana: nel migliore dei mondi possibili, quello del dottor Pangloss, basta una buona riforma, per ridare alla televisione una «maggiore» autonomia dalla politica, come dice di solito il ministro Gentiloni. Ma siccome noi viviamo in uno dei peggiori pianeti dell'universo, maggiore o minore autonomia sono parole che non valgono niente. Tanto vale prenderne atto, e trarre le conclusioni. Si è sempre detto che la Rai è lo specchio del paese. Be', il paese è quel che è, e fa quel che può. Oltretutto, con il ritorno della proporzionale, l'incubo della lottizzazione è ancora più incombente. Nessuno che abbia buoni propositi, per l'anno che comincia?