L’Espresso
L'Espresso, 10/01/2008
L’ENIGMA ROMANO
D'accordo, il governo è un "dead man walking". Lo sanno tutti, lo dicono tutti: un morto che cammina. Un reggimento di ministri e sottosegretari che con la sua azione farraginosa è riuscito a scontentare il 75 per cento degli italiani. Trattasi del governo storicamente più a sinistra che l'Italia abbia mai avuto, che tuttavia è riuscito addirittura a farsi cantare un sarcastico "De profundis" da Fausto Bertinotti (con Prodi paragonato a Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente»). Insomma, il governo deve semplicemente andarsene, «perché sta rovinando l'Italia», come urlano le signore della libertà a Prodi, ormai difeso soltanto dalla moglie Flavia. Tolga il disturbo, faccia il piacere, in modo da lasciare posto a Berlusconi, a Veltroni, alle larghe intese, a Lamberto Dini, a Mario Draghi, al governo istituzionale, alla Cosa bianca, a Pezzotta, a Montezemolo, a chiunque altro. Insomma, ci fosse un referendum sull'opportunità della sua caduta, Romano otterrebbe un plebiscito: negativo, s'intende. Un trionfo a rovescio, almeno in parte inspiegabile, come riassume Giulio Santagata, braccio destro e ministro per l'Attuazione del programma: «Sapevamo benissimo che puntare contemporaneamente sul risanamento e sul rilancio della crescita sarebbe stato problematico. Ma non volevamo fare la politica dei due tempi, prima mettere a posto i conti e poi procedere con gli incentivi: c'era il rischio di strangolare l'economia prima di riuscire a ripartire. Mentre se uno oggi guarda i dati...». Già, i dati. Il totem dei tecnici al governo. Prodi e Padoa-Schioppa osservano lo schema riassuntivo dei conti pubblici, e si confessano con uno sguardo d'intesa che possono tirare grandi sospiri. Il debito pubblico in calo costante (entro la fine della legislatura dovrebbe scendere sotto il 100 per cento del Pil), il deficit che si è messo a veleggiare verso l'insperato risultato del 2 per cento. Le cassandre smentite. L'avanzo primario in via di ricostituzione. L'inflazione ancora bassa, nonostante il caro petrolio e l'impennata delle materie prime. «Noi non saremo granché», ghignano nello staff di Palazzo Chigi, «ma abbiamo rovesciato la tendenza rispetto a Berlusconi e al suo esercito di geni». Cioè rispetto ai tempi meravigliosi della crescita zero e dei conti euforicamente fuori controllo. Ma si sa che i numeri e i fatti non significano nulla. Il tasso di occupazione, ridotto al 5,6 per cento, un dato che non si vedeva da vent'anni. I successi nella lotta all'evasione fiscale. Le prime misure di redistribuzione ai ceti più svantaggiati, il pacchetto del welfare con i provvedimenti a sostegno del lavoro precario: non conta nulla. Non lo si sapeva fin dalla vittoria di Berlusconi nel 2001 che ciò che conta è il "sogno"? E per mettere in cantiere un altro sogno, cioè un'altra fuga dalla realtà, ciò che importa è buttare giù Prodi, disintegrare il bipolarismo "che è fallito", pensare alle nuove convergenze parallele, alla futuribile riedizione del compromesso storico e alla ricostituzione eventuale del centro. Ma una volta raggiunto, con una certa facilità, il consenso unanime sulla liquidazione del governo, bisogna pensare a ciò che viene dopo: e qui casca l'asino. Perché nessuno è in grado di procedere alla seconda mossa: cioè dire che cosa succede dopo la caduta di Prodi. Anzi, su questo tema, "tot capita tot sententiae". Ciascuno ha la formula magica per il governo futuro, salvo che in ogni progetto pensato nelle notti romane c'è sempre un difetto, un imprevisto o un attrito, vistoso o infinitesimale, che di giorno lo rende impraticabile. Il fatto è che la partita sulla scacchiera è complicata da una varietà pressoché infinita di variabili: il fattore Dini, alias "Lambertow", che da metà novembre ha sancito la fine dell'alleanza di centrosinistra e la sua inadeguatezza rispetto ai problemi del paese, e che non usa mezzi termini sulle soluzioni alla sindrome Prodi, che «destabilizza il Paese, perché è al 25 per cento dei consensi». Sostiene infatti Dini: «Per ricostruire la fiducia occorre un governo di larghe intese, che raccolga tutte le forze vive del Paese, politiche, imprenditoriali e intellettuali». C'è da fronteggiare la fuoruscita del senatore Domenico Fisichella, «indipendente dai due schieramenti», e la defezione di Willer Bordon, fra i primi a diagnosticare la fine dell'alleanza di centrosinistra. Poi una fila di questioni: la posizione che il sindacato assumerà sui progetti di detassazione dei salari, la vicenda Alitalia e il caso Malpensa, il rifinanziamento delle missioni internazionali, la base di Vicenza, le questioni di genere, i teodem, l'ostinazione della Binetti, la Corte costituzionale, il referendum... Già, il referendum. Gira e rigira si va sempre a finire in quei dintorni. Ci vuole solo un po' di pazienza, c'è da aspettare la metà di gennaio, allorché la Consulta si esprimerà sulla costituzionalità dei quesiti proposti da Guzzetta e Segni. Dopo di che, se il responso sarà un via libera, si assisterà in ogni caso a un'accelerazione e a una semplificazione. Si possono immaginare due fasi: un primo tempo in cui si cercherà di trovare la quadratura del cerchio sulla legge elettorale; un secondo tempo per vedere se ci sono le condizioni per impostare e approvare alcune modifiche costituzionali congruenti con la necessità di modellare un sistema politico-istituzionale in grado di esprimere la governabilità. Su questo terreno, gran parte dello sforzo ricade sulle spalle di Walter Veltroni. Spalle già un po' provate, per la verità. Dopo un primo giro negoziale di notevole successo mediatico, il sindaco di Roma e leader del Partito democratico ha cominciato a pedalicchiare a vuoto. Gli si è sbriciolato fra le mani il "Vassallum", cioè il sistema elettorale meticcio, ispano-tedesco, pensato per cercare di fondare la politica italiana sui due pilastri del Pd e del nuovo partito di Berlusconi. Fra le righe degli articoli di cronaca politica fioriscono spesso e volentieri malizie e cattiverie sull'indebolirsi progressivo della sua leadership. I suoi avversari gridano all'inciucio con Berlusconi. Prodi stesso gli tira qualche bombetta a mano, forse con voluttà, di sicuro per necessità, sostenendo che la nuova formula elettorale deve farsi carico della sopravvivenza dei piccoli partiti (che altrimenti potrebbero minacciare l'esistenza del governo). Per adesso, tuttavia, c'è da mettere a fuoco un problema piuttosto serio. Mentre si trova costretto a misurarsi con una prova forse di durata più lunga di quanto non avesse preventivato, Veltroni vede assottigliarsi il patrimonio ideale di salvatore della patria che aveva incassato nel presentarsi per la leadership del Pd. Ossia: di fronte a una perdita di popolarità come quella sofferta dal governo Prodi, andare a misurarsi nelle urne con l'esercito berlusconiano significa farsi massacrare. Forse una chance per Veltroni ci sarebbe stata se il confronto fosse stato a scadenza brevissima dall'ingresso in campo: mettiamoci l'effetto novità, un programma razzente in pochissimi punti qualificanti, tanta società civile e dosi di glamour esposti con gusto, istinto della modernità, grande sensibilità mediatica, ed ecco il boom possibile (magari anche con l'artificio di una "rupture" alla Sarkozy, cinica e strumentale, verso Prodi e l'Unione). Adesso invece Veltroni si trova, suo malgrado, inesorabilmente legato alle sorti di Prodi e del suo governo. Deve aspettare con pazienza che l'azione di governo dia gli esiti sperati: vale a dire che dopo la fase dei cordoni stretti si passi alla fase della borsa aperta, secondo il normale ciclo della legislatura. Come risultato forse si sta verificando, anche tra Veltroni e Prodi, lo schema classicissimo «nec tecum nec sine te vivere possum». Ma d'altra parte, secondo indagini demoscopiche ripetute periodicamente, l'elettore tipico del Partito democratico chiede alla politica solidità e innovazione, coerenza e modernità. Qualcosa che assomiglia al binomio involontario impersonato da Prodi e Veltroni. E dunque vale la pena di mettere tutto in discussione favorendo apertamente o clandestinamente il superamento del governo, e quindi il salto nel buio detestatissimo dai cittadini di centrosinistra? Può darsi benissimo che alla fine l'Unione, o ciò che ne resta, sia esausta, e che l'esperienza varata per le elezioni del 2006 sia giunta alla fine. Questa in realtà è l'ipoteca politica peggiore che grava sul governo Prodi. Il fatto è però che in questo momento non si vede un soggetto politico, e nemmeno una personalità politica, che possa assumersi in prima persona il compito di rovesciare il tavolo. Sulla sinistra grava il monito di Massimo D'Alema, dopo la sua uscita prematura da Palazzo Chigi: «Il nostro errore fu prenderci l'azzardo del governo». Oggi l'azzardo massimo sarebbe assumersi la responsabilità di fare cadere l'esecutivo e andare verso soluzioni tecnocratiche, alla Dini, a metterla bene; o verso una sconfitta elettorale spaventosa, nel caso di uno schianto del quadro politico. Se fanno bene i loro conti, Veltroni e Prodi si accorgono che nonostante tutto, e nonostante anche la morte annunciata del governo, devono provare a collaborare. n
L'Espresso, 17/01/2008
Bel fantasma
Nelle serate trascorse a zappare, nel senso di fare zapping, si incrociano un certo numero di canali, nel bouquet di Sky, in cui passano storie paranormali (fra l'altro, che bella parola, "bouquet": peccato che non si usi più per la televisione satellitare). Storie di fantasmi che si rifanno vivi, di morti che si lamentano, un ghost qui e un malmorto là, il sepolto nel posto sbagliato che non riesce a godere del sonno eterno e si lamenta perché c'è uno spreco di preghiere, a tutto vantaggio di quell'antipatico del vicino di tomba. Ormai il dito pollice è abituato, e non appena si accorge che sullo schermo tira aria di esperienze paranormali e di medium, scatta automaticamente sul telecomando a cambiare canale. Ma evidentemente in America c'è un clima favorevole ai fantasmi, ed è probabile che i produttori di fiction si siano accorti che sul mercato è forte la domanda di prodotti in cui si esorcizza la morte: ogni telefilm di questo particolare genere offre infatti visioni consolatorie, con i morti che sono sempre fra i piedi, e si guardano bene dal togliere il disturbo. Che dire? Niente. Ci sono tanti modi per sfuggire alla stessa paura. Si può fare come "Six Feet Under", in cui la causticità delle storie e delle situazioni depurava la trama dal fatto che i protagonisti erano beccamorti; oppure si può fare come in tutti i derivati del vecchio "Ghost", cioè offrendo l'idea che i cari scomparsi sono ancora con noi o possono ritornare. Con la conseguenza però che non si riesce più ad ascoltare "Unchained Melody" («Oh, my love, my darling, I've hungered for your touch», con tutti quei falsetti così emozionanti) senza ricorrere a un gesto apotropaico. E insomma, come si dice in questi casi: "li mortacci".
L'Espresso, 17/01/2008
Moratoria sulla tv
Qui si propone un'altra moratoria, ancorché frivola: quella della tv. Niente di drammatico e neanche di troppo impegnativo. Per dire, non una denuncia come quella di Karl Popper, ai tempi di "Cattiva maestra televisione", che proponeva una tv sotto tutela per evitare la dittatura dell'audience, lo scadimento dei programmi e di conseguenza la diseducazione bieca degli spettatori. E neppure l'esorcismo di Giovanni Sartori verso l'"homo televisivus", nuova configurazione dell'ideologia di massa e della caduta progressiva del saggio di qualità. Ogni moratoria ha bisogno di un manifesto. Eccone qui di seguito le linee di fondo. Siamo giunti al punto in cui si avverte la sensazione, suffragata indiziariamente dalla ricerca spasmodica di programmi evento come quelli con Adriano Celentano o Roberto Benigni, che ormai la tv sia al capolinea: quella generalista, almeno, che in Italia coincide con le reti della Rai e di Mediaset. Ebbene, i programmi, i documentari, la fiction, i film, l'informazione, i talk show e perfino la pubblicità, della televisione contemporanea sono finiti in un circuito autistico che li mortifica cristallizzandoli nella infinita replica di se stessi. Ormai è probabile che la tv non trasmetta neppure la tv, secondo quanto recitava il venerabile detto di McLuhan sul mezzo e il messaggio. Trasmette più verosimilmente stereotipi televisivi, frammenti e "cameos" dello "specifico tv", cioè del particolare linguaggio che si usa generalmente in televisione; e se va male invece emette detriti privi di significato, uno sfarfallio di immagini voluttuarie come nella televisione "celibe" di Gianni Boncompagni o del suo tardo emulo Fabio Canino. In conclusione, nella maggior parte del palinsesto il mezzo e il messaggio vengono amalgamati nel cazzeggio, produzione di luci a mezzo di luci, effetti fosforescenti proiettati sul nulla. È probabile insomma che il mezzo secolo abbondante della televisione stia completando un ciclo, al termine del quale nulla sarà più come prima neppure dentro gli schermi al plasma e a cristalli liquidi. In tutto il mondo avanzato lo schermo tv è stato ad un tempo lo strumento e il riflesso della modernizzazione sociale novecentesca. Ha accompagnato fenomeni colossali e processi globali come la crescita del mercato, il diffondersi dei prodotti di massa, l'affermarsi della cultura del corpo (qualcuno ricorda la gag di Roberto D'Agostino a "Quelli della notte", quando lasciava attonito Renzo Arbore con «l'edonismo reaganiano»?); e poi il modificarsi degli atteggiamenti fra uomini e donne, al cui culmine c'è per forza di cose la New York divertente e nichilista di "Sex and the City", come pure il propagarsi dell'estetica e dell'immaginario gay, reinterpretati in chiave consumista. In sostanza, ha centrifugato la "tarda modernità" di Alain Touraine in un composto fluido, nel blob totale della contemporaneità. Ma soprattutto, almeno negli ultimi venti-venticinque anni, ossia da quando l'offerta televisiva è cresciuta in modo esponenziale in tutte le democrazie sviluppate, la tv ha imposto uno stile nello "stare in pubblico". E questo stile si è affermato come l'unico stile possibile: il sorriso inevitabilmente smagliante, il dinamismo veemente à la Sarkò, l'ovvietà rilasciata sulla linea di minore resistenza con il gusto generale, in modo da fare scattare la claque automatica dell'ovvio: «Straordinario». Senza parlare dei "tempi" tv, per cui oggi qualunque discorso superiore al minuto "non è televisivo" (si richiedono invece come qualità essenziali le doti di sintesi, la capacità di ridimensionare a slogan ogni ragionamento complesso, eliminando qualsiasi sfumatura e portando all'apogeo la sintassi "paratattica", cioè costruita senza subordinate, senza ipotetiche, senza digressioni: tutte proposizioni principali, sostenute da congiunzioni "tattiche", anche sgrammaticate). La potenza della televisione (secondo l'immortale paradigma di Enzo Jannacci: «La televisiun la g'ha na forsa de leun») si poteva osservare nel gioco sociale di "specchi opposti riflessi" tra l'audience e i protagonisti televisivi: ovvero nella capacità della tv di raccogliere tutte le suggestioni e i segnali che affiorano nella società, per poi tradurli in un codice accettato, e trasmetterli di nuovo con una potenza impressionante alla società stessa, ansiosa a sua volta di adeguarsi al nuovo dettato. In questo modo, piccole trasgressioni estetiche e meno insignificanti trasgressioni etiche (dal piercing e i tatuaggi alle rivendicazioni pubbliche di scarti e devianze nei comportamenti erotici riconosciuti come regolari) venivano proiettate sugli spettatori, che a loro volta li interiorizzavano e li assimilavano, in un gioco di rifrazioni in grado di potenziare all'estremo un "segno" qualsiasi. Gli effetti sono stati presto spettacolari. Nella società sono diventati comuni, e alla fine bene accetti, quei comportamenti che tendono a integrarsi senza attriti con i "miti" televisivi. Il codice dell'innamoramento, che alla fine produce una concezione consumista dell'eros, secondo lo schema d'acchiappo calciatore-velina, è dilagato dai telefilm ai comportamenti generali. Il sacro totem dell'eterna giovinezza ha reso familiari i trattamenti per tingere i capelli fino agli henné più efferati, e ha fatto diventare un'ipotesi realistica per quasi tutti i trapianti più problematici (e non importa che si tratti di figure televisive o di protagonisti politici: i capelli di Paolo Limiti e Pippo Baudo valgono sotto l'aspetto tricologico l'epopea ferrarese del duplice trapianto di Silvio Berlusconi). Il mito dell'abbronzatura perenne, di cui è stato spesso vittima con sconvolgenti colori fra il cuoio e l'ocra Gianfranco Fini, è diventato uno standard, a dispetto del fatto che le riviste femminili di tendenza pubblichino almeno due articoli stagionali sui danni conseguenti agli eccessi di esposizione all'ultravioletto: degenerazione metastasica dei nei, crollo dell'impalcatura dell'epidermide, invecchiamento precoce, rughe e altri disastri assortiti. Soprattutto per le donne il look televisivo è diventato essenziale, se non obbligatorio, ai fini della costruzione, o più precisamente della ricostruzione, dell'immagine femminile privata e pubblica. Se il repertorio fondamentale della femminilità moderna è certificato dall'aspetto delle veline, va da sé che sarà accettabile e accettato, anche negli happy hour fra amici, o nei dopocena metropolitani, un certo tratto che si potrebbe definire "mignottesque": abitini leggerissimi sostenuti da spalline sottili, scollature formidabili sul davanti e abissali sul lato B, e nessun imbarazzo nell'esibizione della scosciatura, secondo il dettato filosofico della prima Alba Parietti. Così come ormai si è accettato che la bellezza non sia più un fattore assoluto, ma un insieme di compatibilità estetiche con il mezzo televisivo e i suoi codici: tanto che glicolici e botulini e filling e lifting talora sfacciati, e labbroni e gobbe zigomatiche spettacolarmente artificiali non vanno giudicati come mostruosità, bensì come tratti immanenti dell'estetica televisiva (in modo simile, la bellezza bionica di Carla Bruni era perfetta per la moda). Non è bello ciò che piace, è bello ciò che piace alla televisione. L'unica cosa che non piace, in tv, è il brutto, se non in telefilm specifici come "Ugly Betty"; tanto è vero che ormai le partecipanti a tutti i game show di prima serata sono graziose, una sfilata di bei volti, perché una volta eliminate le difficoltà dai quiz, negli studi televisivi non c'è spazio per le racchie. Ma forse dove il sistema televisivo ha mostrato la sua potenza in modo totale è stato nel definire il perimetro di ciò che esiste e di ciò che non esiste: dove ciò che esiste, naturalmente, è soltanto ciò che va in tv. In questo senso le conseguenze sono state imponenti per ciò che riguarda la politica, ma forse ancora più decisive per tutto ciò che si allinea sotto l'etichetta di cultura. Perché la televisione, per le sue stesse caratteristiche ontologiche, tende a replicare il replicato: e ovviamente più che l'idea o la riflessione conta il personaggio, la figura che si è imposta nello standard medio e nella conoscenza di tutti, la riconoscibilità immediata. Se volete il filosofo ecco Massimo Cacciari, se volete lo scrittore non conformista ecco Aldo Busi, se desiderate il critico irriverente ecco Vittorio Sgarbi. Non c'è da scandalizzarsi, per carità, ma la conseguenza è che se volete il lookologo arriva Diego Dalla Palma, per l'addestratore di cani è pronto Massimo Perla, e se qualcuno vuole il cartomante o il divinatore, ecco il Mago Othelma. E anche a buttarsi sulla nicchia, grazie al satellite, con programmi come lo show di David Letterman o di Jay Leno, ci si rende conto ben presto che in America la situazione non è molto diversa. Il senso più stringente della televisione consiste nel trasformare in freak i suoi protagonisti. È sufficiente mostrare abbastanza a lungo alcuni sconosciuti, come nel "Grande Fratello" per trasformarli in protagonisti, pronti per entrare nelle pagine dei rotocalchi di pettegolezzo e alimentare storie d'amore, di tradimento, di rimpiazzo, di ulteriore innamoramento, in una furibonda corvée post-alberoniana. Ecco perché ci vuole una moratoria. Non uno sciopero della televisione, non l'oscuramento o il boicottaggio dei programmi, non l'abbattimento luddista delle parabole e dei ripetitori. Ma piuttosto un movimento culturale che cominci a de-tivuizzare la realtà contemporanea e la televisione stessa. Sappiamo tutti che la televisione oggi è divenuta una commistione di informazione, reality show, fiction, senza che siano più rilevanti i confini tra i generi. La finzione dilaga nelle news, l'intrattenimento contamina i dibattiti, la manipolazione spettacolare invade i talk show. Se tanto ci dà tanto, il piccolo schermo non è più uno strumento della modernizzazione: riprendendo a prestito vocaboli del passato, si è perfezionata come strumento dell'omologazione. Ma non nel senso pasoliniano del termine: probabilmente non si è omologata affatto tutta la società, si è omologato il linguaggio televisivo, si è omologata la sua cultura, si sta omologando il suo ritmo. Dobbiamo provare a uscire da questo frullato di immagini e di suoni, di visioni del mondo colorate. Per cominciare, allora, ognuno, si inventi la sua moratoria. n
L'Espresso, 17/01/2008
Mettersi in gioco
Il senso così ampiamente invocato della laicità dovrebbe ispirare tutte le considerazioni sull'aborto e sulle norme che lo regolano. E allora la laicità, una laicità senza aggettivi, né «sana» come auspica papa Ratzinger, né insana come forma di fondamentalismo antireligioso, potrebbe condurre all'idea che la legge 194 va difesa, ed eventualmente meglio applicata, nonché modificata e migliorata se occorre, perché nulla è eterno e immutabile; senza dimenticare le ragioni che condussero alla sua approvazione democratica, cioè la volontà di risolvere la piaga degli aborti clandestini, e le condizioni spesso ancora drammatiche, sul piano economico, famigliare, fisiologico, psicologico, che conducono le donne alla decisione traumatica di interrompere una gravidanza. Dopo di che, sarebbe bene anche mettere a fuoco l'idea tutt'altro che reazionaria secondo cui l'aborto non è una questione semplicemente sanitaria. Non è una questione igienica. E con ogni probabilità non è neppure una questione da affrontare in termini utilitaristici, basati esclusivamente sui numeri, ossia sul calo degli aborti praticati. Ancora: non è nemmeno, anzi non è assolutamente, un problema da affrontare in chiave di appartenenza o di schieramento politico: come molti aspetti relativi all'etica della vita, comporta scelte tutte personali, che trovano composizione nella saggezza delle leggi, oltre che nella coscienza personale. Proprio per questo sarebbe un fraintendimento grave assumere l'iniziativa di Giuliano Ferrara per la richiesta di una «moratoria» sull'aborto come una provocazione politica, una trappola per scompaginare il centrosinistra e il Partito democratico, scatenando le contraddizioni interne ai partiti e all'alleanza di governo. Di Giuliano Ferrara e del suo giornale si può pensare ciò che si vuole: ma è difficile discutere la sua capacità di agitare temi cruciali e scuotere opinioni e coscienze. Si pensi pure che si tratti di un atteggiamento perfino estetizzante, tipico di una personalità egocentrica, che si sente eccezionale e in grado di imporre i contenuti del dibattito italiano a proprio piacimento: ma tutto questo non sposta di un millimetro il macigno messo in campo. Perché di macigno si tratta. Anche i più laici fra i laici farebbero bene a riconoscere che è stato sollevato un caso culturale, che smuove o che dovrebbe smuovere gli intelletti e i sentimenti, e che dovrebbe portare a un confronto sulla base etica della nostra civiltà. Che lo abbia sollevato un provocatore reazionario, il direttore di un quotidiano finanziato dalla moglie del capo delle destre, il delatore della Cia, un individuo tremendamente "self centered", un ateo devoto e papista, non cambia proprio niente della sostanza del problema. Una volta detto ciò che andava doverosamente detto sulla legge 194, e dopo avere ricordato le debite rassicurazioni sulla necessità della prevenzione, sulla paternità e la maternità responsabile, sull'educazione sessuale e la necessità di un'informazione sufficiente sui contraccettivi, sarebbe il caso di prendere atto che in questo momento, da destra, viene un'offensiva esplicita sull'argomento della vita (sul "diritto alla nascita" così come contro l'eutanasia). Ebbene, sarebbe un errore stupido, e un'elusione, ripiegare nel riflesso difensivo e rifiutare il confronto sull'argomento sostanziale. Cioè sull'aborto, sulla vita, sull'etica. Abbiamo il diritto, razionale e civile, di appellarci alla legge, e il dovere altrettanto civile di difenderla contro distorsioni volgari e attacchi propagandistici; ma non abbiamo il diritto di distogliere lo sguardo e di addurre ragioni burocratiche di fronte a un dilemma morale. Vale a dire: di fronte all'aborto, come di fronte a qualsiasi atto che interviene sul terreno della biologia e della vita, siamo tutti nudi, non abbiamo protezioni o schermature ideologiche. Non c'è una correttezza politica o scientifica che detta verità assolute. Serve a poco dividersi fra chi sostiene un'idea di progresso e chi si ritrova in una visione conservatrice. Perché il dolore e la scelta sono trasversali, e toccano soltanto la sfera del giudizio personale. È questa la ragione per cui, a titolo del tutto personale, io penso che proprio per non lasciarsi espropriare di un tratto autentico di umanità, sia necessario non distogliere lo sguardo; che non convenga ricorrere stancamente agli stereotipi, che non serva a nulla elencare statistiche. Vale la pena di mettersi in gioco, e misurarsi con quell'argomento maledetto o disperato, con l'aborto, senza veli: con la propria cultura, la propria fede se per caso c'è, di sicuro con le proprie passioni e i propri sentimenti, e magari con le proprie stolide incertezze. Ma senza richiudersi nell'ovvio, perché di fronte alle domande fondamentali, quelle che ci interpelleranno sempre, l'ovvio non serve a nulla.
L'Espresso, 24/01/2008
Barbara fra i barbari
Non so voi, ma io quando intercetto un programma come "Lo show dei record" (uno speciale di Canale 5 condotto da Barbara D'Urso e Raul Cremona, andato in onda il 7 gennaio in prima serata) non so resistere. Sfido le proteste dei famigliari più stretti, mantengo il possesso del telecomando e resisto. Vedo i detentori dei record più astrusi e siderali, quelli che sono finiti nel "Guinness dei primati": l'uomo più alto del mondo, l'uomo proiettile sparato da un cannone a 56 metri e rotti di distanza, il lottatore di sumo pesantissimo (267 gloriosi chili di muscoli e lardo), il cinese con il numero 63 di scarpe. Ma ci sono anche il folle che vuole superare i 3 metri e 30 nel salto in alto con la motocicletta, e il brutalone che tenta il record di lancio dell'uomo (un poverino di 60 chili), suscitando l'entusiasmo della D'Urso, a cui si potrebbe proporre di cambiare nome in d'Ursus, più adeguato alla fauna dei recordmen. E vabbuò: è televisione trash, cioè più o meno immondizia, e di questi tempi l'immondizia è meglio lasciarla dov'è (o anzi no, meglio trovare appena possibile una discarica). Ma è diffusa in tutto l'arco della televisione analogica, digitale e satellitare, in cui si vedono combattimenti grotteschi di wrestling, lottatori full contact che si sparano cazzotti e calci, omacci spaventosi che trainano camion a forza di braccia, brutti soggetti che sollevano auto e le spostano a spalle di una ventina di metri. Prima del sonno, una dose di Guinness fa bene, abbiate fede. L'unico rischio è restare troppo affaticati per questi sforzi delegati, se ci si immedesima troppo, per poi soffrire digrignando i denti mentre si sogna di spostare un tir.
L'Espresso, 24/01/2008
Sanremo desnudo
Sono anni che non si sa più che cosa dire del Festival di Sanremo. Questa volta, giunti alla cinquantottesima edizione, e alla tredicesima conduzione di Pippo Baudo, secondo Festival nell'era del centrosinistra con tanti saluti a Povia (l'uomo dei bambini che fanno oh e del piccione che fa uh), abbiamo provato a recensire interpreti e canzoni prima di averli ascoltati. Proprio così, prima. Un Sanremo a prescindere. Basterà attendere la settimana fatale del Festival per valutare se l'operazione di giudizio preventivo era troppo distante dalla realtà. Cioè per giudicare se i vecchi e i giovani leoni della musica leggera italiana hanno tenuto fede alle aspettative. Intanto, ecco le recensioni: prendere o lasciare. Little Tony "Non finisce qui". Rieccolo il vecchio leone, l'emulo nazionalpopolare di Elvis, il compare giovanile di Adriano Celentano, con il suo tipico ruggito. Fin dalle prime battute si sente il ritmo di "Cuore matto", nonché qualche traccia melodica di "Riderà". «Non finisce qui-i, no no non finisce qui-i», e siamo per incanto all'ombra del ciuffo, nello stile che si colloca fra «la spada nel cuore» e «bada bambina già signorina sei». Musicalmente, "Non finisce qui" è quel che è. Un po' prevedibile il ritornello, un po' scontata la strofa, l'arrangiamento così così, ma insomma, Little è sempre Tony, e viceversa. Voto: 6. Loredana Bertè "Musica e parole". Nuova provocazione di Loredana, che osa presentare a Sanremo una canzone fatta di musica e parole, una innovazione assoluta per la Riviera dei fiori. Non abbiamo parole, e forse neanche musica: stupefacente. La Bertè tuttavia, a dispetto di chi le vuole male, infila un vero capolavoro popolare, con una melodia che si situa fra Enrico Ruggeri e Ivano Fossati, evitandoli. Non potrà puntare al primo posto, e forse neanche al podio, perché le casalinghe la detestano, ma la vecchia leonessa ruggisce ancora. Nella melodia c'è un sentore di anni Settanta e Ottanta, richiamati dalla voce graffiata di Loredana. Echi di "Il mare d'inverno", tracce di "E la luna bussò". Con un po' di coraggio si poteva intitolare la nuova canzone "Non sono una signora". Voto: 9. Eugenio Bennato "Grande Sud". Giù il cappello di fronte al ruggito del vecchio leone della musica tradizionale. Quando parte l'invocazione, o l'evocazione, "Grande Sud", è difficile non avvertire gli echi emozionanti della "Tammurriata", unita alle tracce della tradizione che si deposita nella melodia come nel ritmo. Le parole «Grande Sud, Grande Sud» richiamano alla memoria i sedimenti di Mediterraneo e Oriente accumulati nella grande cultura meridionale. Ed è suggestivo l'accompagnamento della canzone, con le voci femminili all'unisono, i tamburelli, gli strumenti tradizionali come il clavicombolo, il cetrancolo e il pizzicagnolo, che lasciano nella memoria il commovente riscatto di una lingua e di una sonorità. Voto: 7. Toto Cutugno "Un falco chiuso in gabbia". Il ritorno di Cutugno era atteso, e bisogna ammettere che il vecchio leone della canzone-popolare-all'italiana-ma moderna-e-aperta-ai-nuovi mercati non tradisce le aspettative. Già l'immagine del rapace chiuso in gabbia è fortissima e molto nuova (molto meglio il falco dello scontatissimo canarino), ma ciò che impressiona è la musica: in cui si sentono echi di Celentano e si avvertono tracce dello stesso Cutugno. "Un falco" è una canzone fatta con tre accordi, ma si sa che Toto ha sempre sostenuto che il genio produce capolavori popolari con «gli accordi del barbiere». Certo, si nota l'assenza di una ouverture new age firmata Ludovico Einaudi, o almeno Giovanni Allevi (inoltre la copertina del disco non è firmata da un artista come Wainer Vaccari). Ma quando parte il pianoforte e dopo alcune battute entrano i violini, molti penseranno: effettivamente Cutugno ha bucato la mia vita. Senza voto Gianluca Grignani "Cammina nel sole". Era attesissimo anche il ritorno di Grignani dopo le note traversie (e anche quelle ignote); e bisogna ammettere che il giovane leone del post- battistianesimo non tradisce le aspettative. Il verso «Cammina nel sole, se vuoi, tu lo puoi» ricorda per certi aspetti una canzone semidimenticata che cominciava dicendo: e se davvero tu vuoi vivere una vita luminosa e più fragrante, e concludeva volando fra boschi di braccia tese. Gianluca riesce a fare sentire echi di "Il nostro caro angelo", ma al secondo ascolto si avvertono anche tracce di quel pezzo che diceva: bevendo un brodo caldo, che follia. Trattasi di un tipico pezzo melodico moderno, con influssi rock e una chitarra che fa il verso ad Alberto Radius. Grignani è maturato, e da idolo delle ragazzine si candida a esponente adulto del pop nazionale: difficilmente potrà candidarsi alla vittoria, perché le casalinghe odiano anche lui, ma di sicuro la sua canzone sarà fra le più gettonate (sempre ammesso che qualcuno trovi ancora dei gettoni). Voto: 6. Mietta "Baciami adesso" e Amedeo Minghi, "Cammina cammina". L'ex coppia diabolica del trottolino amoroso non ha avuto la forza di ricomporsi. Mietta presenta una canzone molto anticonvenzionale, con quel verso stupefacente, «Baciami adesso, baciami subito, baciami stupido», che rappresenta una innovazione assoluta, con echi dell'America negli anni Cinquanta- Sessanta, e tracce dei giovani leoni Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Non è una canzone, è un urlo, un blues che si stende "on the road". Il vecchio leone Minghi invece inanella una sua tipica melodia: se Grignani cammina nel sole, Minghi cammina e basta, accompagnato dal suo suggestivo pianoforte, in un brano quasi senza batteria, assimilabile per certi versi a una ouverture new age di Ludovico Einaudi (anche se Minghi suona decisamente meglio, solo sui tasti neri, con un tocco migliore e un'intensità irripetibile, da vero trottolino della tastiera). Voto: 10 a Mietta, 5 a Minghi. Sergio Cammariere "L'amore non si spiega". La sua canzone rappresenta uno dei vertici del Sanremo 2008, perché lo stile di Cammariere contamina generi e tendenze con una capacità onnivora. Si avvertono in questo artista echi del vecchio leone Paolo Conte e tracce di quella sonorità jazzy che potremmo far risalire fino al miglior Bruno Martino (e anche al Bruno Martino qualsiasi, magari). Candidato al premio della critica, sempre ammesso che Baudo mantenga in vigore questo riconoscimento, Cammariere questa volta ha scritto una canzone semplice, accattivante, per rivolgersi al grande pubblico: bisognerà vedere se il grande pubblico lo ascolterà, perché il grande pubblico se ne fotte degli echi bluesy e delle tracce jazzy (se per Caso li sente, cambia canale). Voto: 7. Tiromancino "Il rubacuori" e Max Gazzè, "Il solito sesso". Attenzione, la multiforme band del giovane leone Federico Zampaglione potrebbe sbancare Sanremo. Perché lo stile è come al solito sofisticato, ma questa volta "Zampa" è riuscito a infilare echi e sonorità popolari, che grazie all'influenza della sua compagna Claudia Gerini richiamano il miglior Renato Zero (e anche il Renato Zero normale), con finalmente una ouverture new age alla Ludovico Einaudi. Invece Max Gazzè propone una canzone ideologica: "Il solito sesso" è una tipica filastrocca alla Gazzè, in cui il bravo cantautore si lamenta per un erotismo diventato abitudinario. Max è bravo e divertente, ma non sembra in grado di scalare le vette della classifica (in certi momenti la sua canzone sembra un madrigale secentesco, in qualche passaggio ci sono echi e tracce di Rino Gaetano: il pubblico potrebbe restare disorientato). Voto: bene bravi. Gli altri Bene tutti gli altri, a partire da Frank Hi Enrg. Benissimo, Anna Tatangelo, guagliona favorita per via delle tragedie di Napoli, con una canzone intitolata evocativamente "Il mio amico" (parla di gay, genere melodico-progressista, tendenza ovviamente trash). E anche Fabrizio Moro, quello che l'anno scorso sbancò il settore giovani con il rap impegnato contro la mafia intitolato "Pensa": con "Eppure mi hai cambiato la vita" punta al grande successo. Anche perché la sua canzone contiene echi e tracce: «Mi hai cambiato la vita» non può non ricordare «Hai bucato la mia vita» di Celentano. Occorrerà controllare se c'è un'intro new age di Einaudi o di Allevi. Se c'è, allora non ce n'è per nessuno.
L'Espresso, 24/01/2008
La bomba ratzinger
Si può anche fare come dice Giulio Andreotti, quasi novantenne maestro del "caute nisi caste", e quindi passare immediatamente al troncare e sopire. L'insurrezione della Sapienza? Un affaruccio fabbricato malamente da qualche professore e da studenti incattiviti. Per la verità i docenti, concentrati nella facoltà di fisica, erano 67 e i "ragazzi" che hanno occupato la sala del senato accademico un centinaio; gli studenti mobilitati nella rivolta antipapale circa cinquecento. Saranno pochi o pochissimi rispetto ai 140mila della popolazione universitaria della Sapienza, ma si sa che secondo i teoremi leninisti sono le avanguardie a fare scattare le rivoluzioni. Solo che a Roma, nell'Università degli studi e dei saperi, della ricerca del dubbio e della tolleranza intellettuale, non c'è stata una rivoluzione. C'è stato un faccia a faccia piuttosto deprimente tra una versione apodittica della laicità e una versione intimorita dell'autorità e del prestigio della Chiesa cattolica. Con il contorno, probabilmente di una perplessità, chiamiamola così, se non di un'incomprensione dei fatti, da parte del governo, che alla fine si è trasformata in un incidente colossale sul piano diplomatico, e più ancora sul terreno politico. Certo, a uno sguardo scettico come quello di Andreotti sarà apparso ironico il faccia a faccia fra un'identità papalina della religione e una laicità rivendicata in modo tale da sfiorare, magari con minore eleganza, l'anticlericalismo d'antan. Ma anche senza gli scetticismi di chi è un cultore della Roma del Belli, e quindi conosce il rapporto ora devoto ora canagliesco fra il papa, l'aristocrazia e la plebe, bisognerebbe dire che il disastro diplomatico della Sapienza non rappresenta affatto lo specchio di un'Italia in cui avvengono scontri fra opposte visioni del mondo. Anzi, proprio in una sede come la maggiore università italiana, dopo avere citato Galilei, il metodo scientifico, Paul Feyerabend e l'anarchismo epistemologico, e magari tutti gli studiosi come Thomas Kuhn che hanno mostrato la natura "sociale" (e quindi mutevole, progrediente, relativa) della scienza, con le visioni bisognerebbe andarci piano, magari ricordando il vecchio motto di Max Weber: «Chi vuole una visione del mondo vada al cinematografo». Quindi niente problemi di "Weltanschauung", per ora, se non per alcuni fissati. Ma un problema politico sì, invece, e anche grande come una casa, per il centrosinistra. Perché sarebbe il caso di ricordare che il suddetto centrosinistra, e in particolare a suo tempo l'Ulivo, sono nati su un'idea centrale, ultimamente abbastanza oscurata: e questa idea è la convivenza, e anche la reciproca legittimazione e il mutuo rafforzamento, fra la solidarietà cattolica e la solidarietà (post)socialista. Tradotto in termini politicanti, ciò significa l'incontro fra sinistra Dc ed ex Pc; portato invece nella politica della seconda Repubblica, dopo le catastrofi dei primi anni Novanta, questo incontro ha determinato lo sfondo su cui si sono mobilitati molti cittadini, cattolici e non cattolici, dopo il tramonto della Dc e del Pci, alla ricerca di un terreno comune non esclusivamente compromissorio. Anche se questa sintesi era problematica, è stata in realtà il solo fattore che ha reso possibile su base "ideologica" e programmatica, le affermazioni elettorali del 1996 e del 2006. E quindi ci vuol poco a capire che il disastro di immagine dell'affare-Sapienza, con le ripercussioni sui rapporti con il Vaticano, lo sconterà primariamente il centrosinistra, cioè il governo, la maggioranza, il Pd, Romano Prodi, cioè il cattolico «adulto» che aveva osato differenziarsi dall'ex presidente della Cei, Camillo Ruini, in relazione al referendum sulla fecondazione assistita, e Walter Veltroni, che ha già subito gli effetti, pochi giorni fa, di uno scherzo autenticamente "da prete", con papa Ratzinger indotto a parlare del degrado della Capitale, (e successiva pressante diplomazia del Campidoglio per incassare una rettifica). Ora è chiaro che nel centrodestra i problemi su questo terreno non esistono. Nello schieramento di Berlusconi, Fini, Bossi e Casini i laici sono pressoché scomparsi, e al momento buono tacciono o sono ridotti al silenzio. Una volta almeno c'erano le boutade di Umberto Bossi, che di tanto in tanto accomunava il papa a uno dei poteri forti della Roma deteriore e se la prendeva folkloristicamente con i «vescovoni», simbolo di un'Italia clericale e affarista. Oggi invece c'è uno schieramento di opportunisti bigotti, i cui esponenti, compresi salottieri e mignottieri, cioè gente abituata a frequentare non tanto le chiese e le messe, bensì salotti e donnine, inneggiano a ogni posizione ecclesiastica, vaticana e papale che possa mettere in difficoltà la sinistra. Perché i problemi esistono, e come, nel centrosinistra. Ed esistono più che mai nel Pd. Dunque, di fronte a problemi politici, occorrono risposte politiche. E le risposte politiche vanno date alla svelta. Perché l'Unione è già una coperta troppo infeltrita, con i centristi che la tirano da una parte, prima Lamberto Dini e poi Clemente Mastella in seguito alle grane giudiziarie della sua gentile signora Sandra, e dall'altra tira la sinistra estesa fino alle frange antagoniste estreme. Se ci mettiamo anche il riemergere di un "cleavage" otto-novecentesco, come dicono i politologi, cioè la frattura di matrice cultural-religiosa, l'alleanza è finita, e andate in pace. Forse il comitato preposto al manifesto del Pd troverà una formula talmente vaga da accontentare la teodem e opusdeista Binetti e l'ateo totale Odifreddi. Ma probabilmente ormai siamo di fronte a uno di quei momenti dove le decisioni vengono ancora prima delle riflessioni ulteriori. Walter Veltroni sa di avere un compito, ambizioso e difficile insieme: né più né meno che la costruzione del famoso partito «a vocazione maggioritaria», cioè capace di proporsi da solo all'elettorato. Bene, è venuto il momento di dare seguito alle parole. Grazie al sistema proporzionale, approvato unilateralmente dal centrodestra nella legislatura scorsa, la società italiana si trova in una poltiglia (la «mucillagine» di Giuseppe De Rita) in cui anche le istituzioni non sono responsabili e in cui affondano, (e difatti producono, letteralmente, rifiuti). Finora tutti i tentativi di correggere il sistema sono avvenuti attraverso soluzioni tecniche, cioè riforme elettorali e istituzionali. Oggi probabilmente, dopo la crisi della Sapienza, bisogna cominciare a pensare che nessuna soluzione tecnica può passare senza l'esercizio effettivo di una leadership. Tradotto in termini più robusti: finora Veltroni si è dimostrato un tessitore abile, un uomo paziente, capace di dotarsi di una strategia di medio periodo e di seguirla con duttilità. Adesso però sembra decisamente venuto il momento di esercitare il comando più che di raccogliere e organizzare il consenso. Sulla scia della decisione della Corte costituzionale a proposito del referendum Guzzetta-Segni, occorrerà passare all'azione. Il che non significa, meglio intendersi subito, scegliere tra fede e scienza, o tra laicità e qualcos'altro. Vuol dire indicare le priorità, un abbozzo di programma per il partito, chiedere chi ci sta: e andare avanti per la propria strada. L'intendenza seguirà, come diceva un grande leader francese. n
L'Espresso, 31/01/2008
Cuor di metropoli
Si guarda con stupore la conurbazione infinita, con i suoi 12 milioni di abitanti, le luci, il traffico, e all'improvviso, la sera, il vuoto, apparentemente il nulla. Siamo a Los Angeles, in una delle città del progetto "Megalopolis" di Francesco Conversano e Nene Grignaffini (produzione Movie Movie, su Raitre il mercoledì alle 23,30; seguono San Paolo, Il Cairo, Shenzen, Karachi, Tokyo). Los Angeles viene ripresa dall'alto, mentre un elicottero la sorvola e in basso scorre il traffico incessante del secolo postnovecentesco. Su tutto sembra aleggiare la possibilità della catastrofe improvvisa, l'eventualità di un incubo metropolitano. Potrebbe accadere, da un momento all'altro, qualcosa di spaventoso. Un terremoto, un incendio, una rivolta razziale. Per questo buona parte del film è dedicata alla descrizione del controllo di polizia: una nervatura segreta, che incasella e tiene inquadrata tutta Los Angeles, evidentemente nella convinzione che la struttura della megalopoli è fragilissima: il confine fra legalità e criminalità la percorre tutta, e mentre la polizia si integra con gli abitanti (ronde, gruppi di cittadini), "l'altra città", quella delle gang dei latinos e degli afroamericani, si spartisce il territorio. Alla fine, la megalopoli è un film, una rappresentazione, un dramma quotidiano in se stessa. La science fiction è diventata realtà. Il Grande fratello orwelliano si è incarnato in una rete fittissima di computer, telecamere, strumenti tecnologici di controllo. Le riprese di Conversano fanno intuire una realtà che contiene altre realtà: la vita della megalopoli corre troppo in fretta, potrebbe dire un Baudelaire postmoderno, per il cuore di un mortale.
L'Espresso, 31/01/2008
I sinistrati
Una specie di processo. Oppure una seduta di autocoscienza politica. Fumo di sigari toscani. Gli sguardi dello staff di Palazzo Chigi, qualcuno sbigottito, qualcuno divertito, tipo euforia degli abissi, allegria di naufraghi. Battute finto ciniche, e una domanda che aleggia sulla crisi: mi sapete dire dove abbiamo sbagliato? Già, dov'è l'errore fondamentale del governo Prodi, dov'è il baco della maggioranza? La domanda principale che si rivolgono tutti è semplice. Nasce da una constatazione brutale, già messa a fuoco da tempo: una serie di dati sostanzialmente positivi è stata percepita dall'opinione pubblica, dai cittadini, dall'elettorato, anche dentro il centrosinistra, come un disastro totale. E allora di chi è la colpa di questa malattia? Risposta: di Berlusconi e dei berluscones. Controllo di ampi settori di stampa, le reti Mediaset. No, troppo facile. Facciamo la lista: abbiamo avuto un po' di crescita che il Cavaliere se la sognava di notte, i conti sotto controllo, la ricostituzione dell'avanzo primario, il deficit ridotto oltre le attese alla faccia di Almunia, la disoccupazione in discesa, l'inflazione sotto le aspettative, l'andamento del debito pubblico finalmente di nuovo in discesa, l'evasione messa sotto attacco, il tesoretto, i primi effetti della redistribuzione, l'abolizione dello scalone, la "quattordicesima" ai pensionati poveri, l'adozione di strumenti a favore del lavoro discontinuo. I precari, dici? Ok, tutti argomenti forti, che "Romano" ha rivendicato a Capodanno, cercando di passare all'attacco e scommettere sulla «nuova concertazione» con le imprese e il sindacato. Per provare a far crescere la produttività, abbassare le tasse, sostenere i redditi. E allora, secondo voi che cosa è andato storto? C'è anche un'altra risposta: la comunicazione. Il governo agisce ma non sa comunicare. Facce che si rivolgono verso il volto freak di Silvio Sircana, il "portavoce unico" del governo nominato a Caserta all'epoca della verifica nei pressi della reggia (anzi, «l'unico portavoce di cui non si conosce la voce», ironizzano anche i suoi amici e i collaboratori). Ancora no, tutte storie. All'epoca, pure il governo Berlusconi, Dio l'abbia in gloria, elevava ululati lamentandosi che le sue trentasei o trentasette mirabili riforme erano state fraintese, non capite. E prima di lui si erano lamentati Giuliano Amato e Massimo D'Alema. No, ragazzi, quando il popolo non capisce non si può fare come diceva Bertolt Brecht, cioè chiedere le dimissioni del popolo. Ci dev'essere una ragione strutturale. C'è sempre una ragione strutturale, dicono i più realisti. Quelli come Giulio Santagata, per esempio, che si ostinano a guardare i fatti. O quelli che sono stati considerati i pasdaran, almeno per un certo periodo, dell'Unione, come Arturo Parisi. I prodiani puri. È colpa loro, dice qualcuno, perché in seguito alla loro miopia, o alla loro fissazione intellettuale, non si è stati capaci di leggere adeguatamente il risultato delle elezioni del 9 aprile 2006. Non avevamo vinto, boys. "Romano" poteva anche dire che la maggioranza così ridotta era «sexy», ma questa era un'illusione ottica. Sexy sarà Carla Bruni, chiedere a Sarkozy, non Clemente Mastella. E quindi è stato un errore fare la voce grossa, e forzare sulle cariche istituzionali. Probabilmente non si poteva dare retta a Berlusconi sul governo istituzionale, sulle larghe intese, soprattutto dopo un voto che aveva spaccato l'Italia e una campagna elettorale che era diventata uno scontro di civiltà. Ma la politica è la politica, devo dirvelo io? Si poteva essere più duttili. Parisi aveva detto che «vincere significa prendere un voto in più»? A che cosa è servito prendersi la presidenza della Camera, quella del Senato, e infine il Quirinale? Più che altro a rendere tesi i rapporti, a mostrare ingordigia, a sprecare energie anziché a creare spazi operativi. Non dovevamo essere così fondamentalisti, dice qualcuno. Ci voleva diplomazia verso Casini. E soprattutto dovevamo rivolgerci al Paese con messaggi più rigorosi. Noi eravamo quelli della sobrietà, della serietà, del lavoro, e il primo messaggio in bottiglia che abbiamo lanciato nel mare magnum dell'opinione pubblica, anche ai nostri elettori, è stato quello del numero dei posti di governo, ministri e sottosegretari. La carica dei 102, o dei 104, non sappiamo nemmeno quanti sono. Adesso riconosciamo che anche questa inflazione numerica era un effetto della coalizione «larga», dall'Udeur a Rifondazione, da Lamberto Dini a Franco Turigliatto (scusate, qualcuno mi spiega chi li ha scelti, Turigliatto e gli altri dissidenti?). E nel momento della verità, o della disperazione, dovremmo anche dire che in effetti noi non avevamo un programma: avevamo il famoso libro di 281 pagine, che aveva certificato gli accordi tra forze politiche poco compatibili. E allora, diciamolo: abbiamo governato avendo dentro l'Unione un virus mortale. Una specie di impossibilità esistenziale, ontologica, genetica a stare insieme. I rifondaroli, i teodem come la Binetti, i superlaici, gli atei come il matematico impertinente Odifreddi, i nemici della Nato e delle basi militari, i contrari all'Afghanistan, i liberisti, gli statalisti, eccetera eccetera eccetera. Vedi come sono finiti i Dico. Guarda i casini con il papa e la Cei. E le continue crisi sulla politica estera, ogni volta uno psicodramma. Eppure abbiamo chiuso la base della Maddalena con ordine, abbiamo la guida di 13 mila uomini in Libano, siamo venuti via dall'Iraq in modo indolore, l'ha riconosciuto anche Bush: e allora spiegate il mistero dolorosissimo: Zapatero viene via dalla guerra in modo traumatico ed è un eroe, noi usciamo con eleganza, con tutti i crismi, con il rispetto dell'alleanza e siamo dei pirla. No, gente, il problema è stato economico. E anche sociale. E anche di "manico", se permettete. Perché quando Bersani ha lanciato le prime liberalizzazioni avevamo il 97 per cento favorevole: solo che ci siamo giocati tutto perché abbiamo calato le brache con i tassisti a Roma. Anche Veltroni ci ha messo del suo, nel caso specifico. E a un certo punto abbiamo dovuto vedere anche la scenetta di Gianfranco Fini, davanti a un pubblico di imprenditori, che difendeva il Pra, grande lezione di liberismo postfascista. Siamo diventati impopolari troppo presto. L'idea di Tommaso Padoa-Schioppa di tenere insieme i due momenti, risanamento e impulso alla crescita, non è stata capita. Si è capito soltanto che eravamo il governo delle tasse. E lui diceva che pagarle è «bellissimo». I politologi hanno spiegato che non ce la potevamo fare, perché al Nord si aspettavano libertà ed efficienza, e hanno avuto fisco, e Visco; al Sud si aspettavano trasferimenti pubblici, cioè soldi, che non sono arrivati. Tuttavia noi, beh, noi siamo stati dei geni: aumentare l'ultima aliquota, penalizzare il lavoro dipendente qualificato, quello che traina il paese anche secondo De Rita e il Censis, oltretutto un settore dove avevamo il maggiore insediamento elettorale: fantastico. Quando qualcuno ha provato a dirlo a Bersani, lui è scoppiato a ridere: «Solo loro possono capirci!». Bella battuta, ma politicamente un mezzo suicidio. Sì, ma ve lo siete dimenticati che non passava giorno senza che Francesco Rutelli attaccasse la politica fiscale del governo? E i fischi della Confesercenti a Prodi, una platea che non doveva essere per forza ostile? E il governatore Draghi, che non ha perso l'occasione di dire che sì, avevamo risanato, ma l'avevamo fatto «dal lato delle entrate», cioè con le imposte. E la Confindustria ammette a denti stretti che il risanamento c'è, ma è congiunturale: avviene nei saldi di bilancio, non con la messa in efficienza dei comportamenti statali, non con la valorizzazione della spesa. Lascia perdere la Confindustria, guarda: con il suo stile ora felpato, e ora aggressivo come nell'ultima assemblea generale, quando si è messo a urlare «mai più nuove tasse», Luca di Montezemolo ha portato a casa quello che nessuno dei suoi predecessori era mai riuscito a mettersi in tasca. I tre punti di cuneo fiscale, l'Irap, l'Ires. L'aveva detto Santagata: «Questo governo di perfetti incapaci ha operato un intervento fortissimo sulla tassazione alle imprese». Non l'abbiamo detto abbastanza forte o abbastanza chiaro. E quindi siamo stati dei polli. Anche perché nel frattempo i due punti di cuneo destinati ai lavoratori sono finiti nel mucchio dell'Irpef, e non li ha visti praticamente nessuno. E i Comuni e le Regioni ci hanno messo l'ultima briscola aumentando le addizionali. Ci voleva più attenzione. Già con la prima Finanziaria, settembre 2006, il consenso era crollato. Renato Mannheimer aveva rilevato una caduta verticale, che riguardava in particolare la gente in possesso dei titoli di studio più elevati, «i segmenti centrali della vita socioeconomica del paese». Abbiamo visto le contestazioni a Prodi al Motorshow di Bologna, praticamente a casa sua. Era partita una raffica fastidiosa di aumenti di prezzi, tariffe, ticket, bolli. Un pulviscolo fiscale, come l'ha chiamato Giuseppe Berta, micidiali polveri sottili di tasse. Mica male per un governo che era nato esprimendo l'intenzione di restituire il potere d'acquisto perso negli ultimi anni, provando a «rimettere il dentifricio nel tubetto», come ripeteva Prodi. Non siamo stati capaci di fare un po' di sano populismo con le tariffe: se il signor Moretti alzava le tariffe degli Eurostar bisognava che qualcuno gli dicesse, eh no, caro amico, prima mi fai vedere il miglioramento del servizio. E allora, aveva un bel dire Romano che «il paese è impazzito». Certo, abbiamo visto all'opera le corporazioni, lo spirito di clan, i particolarismi. È arrivata la «mucillagine», come ha detto il Censis. La società «sfilacciata» del presidente dei vescovi, il cardinale Bagnasco. E l'indulto, dove lo metti l'indulto? E le interviste di Prodi a cazzeggio come quella alla "Zeit"? E la perdita di credibilità a causa delle indagini e le intercettazioni su D'Alema e Fassino? Abbiamo avuto anche la sfortuna di intercettare l'ondata dell'antipolitica. Il libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo sulla "casta" ha rovesciato addosso alla classe politica quintali di fango. Qualcuno di importante, uno come Giovanni Sartori, il grande politologo, ha perfino preso sul serio Beppe Grillo e il "Vaffa Day". Ha detto che «ci sa fare» e che era meglio che Prodi sparisse dalla circolazione, essendo il tappo su una situazione politica bloccata. Bene, di nemici ne abbiamo avuti tanti. Ma noi non siamo stati capaci di fare qualche battaglia esemplare. Per esempio, qualcuno sa dove è finita la legge sul conflitto d'interessi? E la legge Gentiloni sul sistema televisivo, che oltretutto non è proprio una rivoluzione? E poi c'è stata la botta dell'immondizia a Napoli. Mica colpa di Prodi. Ma vaglielo a spiegare alla gente che Bassolino non ha responsabilità: quello è andato in tv da Bruno Vespa e ha detto che ha fatto quel che doveva fare, ha firmato le carte, ha mandato avanti gli atti. Ma la monnezza è lì, e Gianni De Gennaro mica può fare miracoli. E a questo punto... A questo punto ci mancava soltanto la spallata, non quella di Berlusconi: l'autospallata, quella di Veltroni. Noi correremo da soli. Capito? Una fatica d'inferno per tenere unita la coalizione, uno sforzo bestiale per mostrare all'Italia che si poteva governare, anche con i comunisti e Rifondazione, con Diliberto e Giordano, mentre Bertinotti diceva che "Romano" è come Vincenzo Cardarelli, «il più grande poeta morente», e quello là, Veltroni, mette sul tavolo l'asso del Pd che vuole andare da solo alle elezioni. Puri si vince. E adesso siamo qui, ai piedi di Cristo. No, lascia perdere Cristo e la santa madre Chiesa, è meglio. Eppure qualcuno un giorno dovrà inchinarsi alla testa quadra di "Romano", alla sua ostinazione reggiana, e magari anche alla sua caratteristica leggendaria. Il famoso "culodiprodi"? E dov'è finito? Questi venti mesi di resistenza disperata si devono tutti a lui. E magari a quelli che ce l'hanno messa tutta, come la Finocchiaro al Senato. Sì, ma lui, Romano, che fa, che farà, Romano? Se volete un consiglio, credetemi, non datelo mai per morto, Romano. n
L'Espresso, 07/02/2008
Il corsaro Fiorello
L'incursione di Rosario Fiorello nel palinsesto della Rai con "Viva Radio2... minuti" si presta ad alcune considerazioni generali. Per certi aspetti, il minishow di Fiorello rappresenta la reincarnazione di "Carosello": uno spazio definito fra i continenti televisivi, un'isola nella sera, l'appuntamento imperdibile per grandi e piccini. Quindi meta-televisione pura. Ma potrebbe anche essere un esempio e un primo assaggio della televisione del futuro: cioè una tv "corsara", svincolata dalle rigidità della programmazione. Certo, per fare quella televisione ci vuole la classe di un fuoriclasse come Fiorello; e una struttura ideativa efficace, esemplificata dal ruolo di spalla (e non solo spalla) di Marco Baldini, come anche dagli stupendi balletti citazionisti alla maniera di "Studio uno". Comunque il microevento serale di Fiorello sembra testimoniare proprio la possibilità di scomporre la struttura quotidiana della televisione generalista. Ragion per cui si potrebbe interpretare "Viva Radio2... minuti" come un programma tutto sommato eversivo. In primo luogo perché la bravura di Fiorello mette allo scoperto la povertà della programmazione normale. E in seconda battuta perché dovrebbe fare venire in mente a qualcuno, magari nei canali satellitari, che è possibile una tv a evento continuo, a struttura destrutturata, capace di alternare dirette e blob, telefilm e avvenimenti, storia, informazione e cronaca. Per intanto, grazie a Fiorello per le sue parodie, da Carla Bruni a Vasco Rossi. E aspettiamo fiduciosi qualcuno che abbia voglia e sia capace di uscire dalla televisione dell'ovvio e di inventare format sovversivi (il format sovversivo è una contraddizione in termini, ma dovremmo esserci capiti).
L'Espresso, 07/02/2008
Partita tutta da Giocare
Certo che se uno spaurito elettore del centrosinistra, con lo spirito demoralizzato dall'abbattimento del governo Prodi, si lasciasse impressionare dalla colossale, e vittoriosa a priori, campagna lanciata da Silvio Berlusconi, dovrebbe lasciare ogni speranza: il centrodestra ha già vinto, dato che i sondaggi riservati che circolano fra le multinazionali mostrano dati spaventosi, da thriller o da horror, quasi 30 punti di differenza fra i due schieramenti, il presagio di un trionfo berlusconiano con qualsiasi sistema elettorale e con qualsiasi alleanza. Insomma, neanche farle, le elezioni. Conviene consegnare il potere direttamente al Cavaliere, con tutti i salamelecchi del caso, un cuscino con le chiavi di Roma e mazzi di fiori. E poi mettersi nella posizione acconcia per ricevere con espressione compunta l'omaggio dell'ombrello di Altan. Ma nelle situazioni difficili, e quella presente a essere franchi è una situazione perlomeno molto problematica, non conviene cedere alla disperazione. E che sarà mai, Berlusconi. Il populista democratico, come lo chiama Giuliano Ferrara, che abbiamo già conosciuto, con la sua corte di Dell'Utri, Gasparri, Fini, La Russa, Cuffaro, Previti, ecc. Facce note e stranote, e quindi esorcizzabili. Inoltre, qualcuno lo ricordi alla destra, non sta bene cantare vittoria prima di avere disputato la partita. Non sta proprio bene, non fa parte del galateo. E poi, è proprio scritto nei cieli della patria che il destino italiano debba dipendere da Berlusconi e dalle sue "troupe"? Va da sé che il centrosinistra è alla canna del gas. Sono bastati pochi senatori fra Mastella, Fisichella e Dini, per buttare all'aria il difficile e complicato contratto con 19 milioni d'italiani, stipulato a suon di voti nell'aprile 2006. Mentre passeggia sconsolato in Strada Maggiore a Bologna, Romano Prodi non riesce a farsi una ragione di come sia finita questa vicenda politica: pazienza cadere, ma cadere per lo sgambetto di gente che rappresenta soltanto se stessa, questa è peggio che una beffa, è una tragedia travestita da farsa. Dunque, adesso, la parola spetta a Veltroni. Il quale ha un compito mica da poco: deve convincere metà del Paese, quella parte che non ha voglia di rivedere certe facce al potere, che i giochi non sono fatti. Recuperiamo la saggezza padana di Giovanni Trapattoni: non dire quattro se non l'hai nel sacco. Una buona campagna elettorale riduce le distanze. Il centrodestra trionfante di oggi è tutto da valutare: in 20 mesi di opposizione non ha espresso un'idea che sia una, se non quella di mandare a casa Prodi. E allora quale sarebbe la sua miracolosa credibilità? E va bene, Veltroni ha un compito proibitivo. Ma può anche puntare a far diventare competitivo il Partito democratico. Qualsiasi partita giochi, nel 2008, in coalizione o da solo, deve guardare qualche metro davanti a sé. Non troppo lontano: nel 2009 ci sono le elezioni europee. Ecco, perdere "bene" le elezioni politiche e vincere benissimo l'anno dopo, facendo diventare il Pd il primo partito italiano sarebbe già un ottimo progetto: sempre ammesso che il centrodestra berlusconiano vinca davvero il confronto nell'immediato. Perché "Walter" avrà tanti difetti, ma si sa che come "homo televisivus" non è inferiore a Berlusconi: anzi, forse lo batte, perché è più giovane, piace alle mamme, alle nonne e alle zie, è rassicurante, può essere convincente. Quindi non vale la pena di fasciarsi la testa prima di essersela rotta. Anziché alzare le mani in segno di resa, conviene ricordare ciò che ebbe a dire il senatore Enrico Morando, rivolgendosi ai parlamentari del centrodestra, durante la discussione in aula per uno dei tanti voti di fiducia, a proposito dell'andamento della spesa pubblica: «Noi non siamo granché, ma voi avete fatto un disastro». Quindi conviene giocarsela. Con qualsiasi formato, da soli o in alleanza con la sinistra. Perché in questo momento l'importante è partecipare. Esserci. D'ora in avanti si assisterà al lento calo dei sondaggi favorevoli alla destra: è fisiologico, non ci vuole un indovino. Non appena il confronto si scalda, la mobilitazione cresce. E quindi c'è spazio per una proposta politica stringente. Non il paradigma del "ma anche", ma un progetto politicamente impegnativo. Perché in questo momento vale più il messaggio che si offre all'opinione pubblica che non il perimetro dell'alleanza. Se la sinistra, una sinistra moderna, ha un segnale o un messaggio da dare al Paese, questo è il momento per mostrarlo. Il pessimismo, e il masochismo, sospendiamoli, almeno per qualche settimana.
L'Espresso, 14/02/2008
Famiglia poco serial
Per ora "Dirty Sexy Money", il serial di Fox annunciato come la rinascita di "Dynasty" o di "Dallas", non mantiene tutte le eventuali aspettative. Dovrebbe essere il drammone dei Darling, una famiglia ricchissima, anzi, più che ricchissima, sfondata, ma viste le prime puntate i drammi sono piuttosto meccanici. Il protagonista Peter Krause, reduce dal cult "Six Feet Under", è bravo nella parte dell'avvocato idealista che sostituisce il padre (morto in un misterioso incidente) nella gestione degli affari della famigliaccia; gli altri attori/personaggi sono abbastanza azzeccati, ma senza esagerare. In particolare, quello che fa il figlio maggiore e che alla fine dovrebbe candidarsi fino alla presidenza degli Stati Uniti, ma che invece è innamorato di un trans di raro buonsenso (nonché ottimamente doppiato), sembra un po' pollo, reduce da telefilm nella parte dell'imbranato (come insegnava Marcello Mastroianni sembrano un po' fessi tutti quelli che hanno molta pelle fra il naso e il labbro superiore). A sua volta, il figlio prete e padre di un bambino è clamorosamente comico nelle sue dissimulazioni. Il resto, più che altro manierismo. Tuttavia vale la pena di spendere due parole su Donald Sutherland e Jill Clayburgh, cioè il pater familias e sua moglie. Coppia funestata da un adulterio (di lei, con l'avvocato di famiglia, vedi caso) durato decenni, ma soffusa di una dignità assoluta e di uno stile supremo. Lei è un mito per chiunque abbia il ricordo di un clamoroso film passato in Italia con il titolo "Una notte con Vostro Onore". Lui, Sutherland, a 73 anni riesce a circondarsi di una malinconia esistenziale vicina allo stoicismo, che riscatta tutta la storia.