L’Espresso
L'Espresso, 14/02/2008
il sogno di walter
Aiuto, tutti in trincea, arriva la carica dei 25. Oppure chissà, dei 17, o almeno dei 14. Insomma i partiti della "Invencible Armada" del Caballero. «Tutta raccolta sotto l'ombrellum del Porcellum», ghignano nel quartier generale di Walter Veltroni. E noi proviamo a trasformarla in un'armata Branca, Branca, Branca, Leon, Leon, Leon! Segue fischio o pernacchio, a piacere, e infine il botto canonico: buuum. Sarà la tipica voluptas dolendi della sinistra, ma il vertice operativo del Partito democratico, riunitosi martedì sera con cinque agenzie di comunicazione per avviare la campagna di Veltroni, sembrava una gang di futuristi pronti ad assaltare il palazzo della Tradizione. Brain storming, ragazzi: fuori le idee per affrontare la macchina da guerra del Cavaliere. Innanzitutto. La sobrietà e «la serietà al governo» ce le siamo già giocati una volta, con Prodi e Padoa-Schioppa, e quanto è bello anzi «bellissimo» pagare le tasse. Quella era una politica da anni Novanta. Si è visto che il crollo di consenso del governo Prodi è avvenuto con la prima Finanziaria. Adesso ci vuole un messaggio diverso. «Ma intanto, ancora prima del messaggio», commenta il numero due del Pd, Dario Franceschini, «bisogna vedere come arriviamo alla decisione strategica per il Partito democratico, cioè correre da soli». Vale a dire? «Be', possiamo arrivarci con una bella discussione nel Pd, e una conclusione unitaria, oppure anche prendendoci a cazzotti e colpi di vanga. Per una volta sarebbe il caso di non farci del male da soli». Sottinteso: urge telefonata a Rosy e ad Arturo, nel senso di Bindi e Parisi, i pasdaran dell'alleanza larga fino a Rifcom. Intanto però si smorzano i toni, e il protoprodiano Giulio Santagata concede: «Al punto in cui siamo, ho anch'io l'impressione che non resti che correre da soli». Schema della partita. Noi siamo qui per provare a rivoluzionare la politica italiana. Non è retorica. Lo ha fatto capire Walter nel discorso del Lingotto, lo ha detto chiaramente Franceschini seguendolo a ruota. Rivoluzione. Significa dire addio ai dogmi. Si dovrà fare una buona difesa per proteggere il lavoro di Prodi, visto che Berlusconi ha già fatto capire che la campagna dell'"Armada" delle libertà sarà tutta rivolta contro il governo dei venti mesi: «Romano è il nostro atout», ha ripetuto il Cavaliere. Prodi come un punching ball da colpire gratis per tutta la campagna. Eppure, sostengono i "democrat", c'è stato un certo recupero nell'opinione pubblica, grazie a una gestione della crisi dignitosa, a testa alta: «Questa volta gli italiani hanno visto in faccia chi ha fatto cadere il governo: è un passo avanti», ha detto agli amici Arturo Parisi. Ma questo è il passato. Se vogliamo scommettere sul futuro dobbiamo seguire il ragionamento di Walter. Berlusconi è il vecchio. L'"Armada" è proprio la politica che non vogliamo più. Un esercito accozzaglia. «Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli», recita Franceschini, che è un letterato e uno scrittore di romanzi (vedi il realismo magico di "La follia improvvisa di Ignazion Rando"), citando il transito delle truppe imperiali nel trentesimo capitolo dei "Promessi sposi". Il nuovo siamo noi. Il Partito democratico. Non c'è da lasciarsi stordire dai sondaggi dei berluscones perché presuppongono un automatismo del passaggio fra sinistra e destra di un elettorato deluso. E invece i cittadini si troveranno di fronte la più grande novità politica dopo l'invenzione di Forza Italia. «Ricordate? Con la "scesa in campo" del 1994 Berlusconi portò il suo partito da zero al trenta per cento in sei mesi: il che vuol dire che non è vero che l'elettorato sia immobile». Se è per questo, non è statica nemmeno la politica: Giovanardi va via dall'Udc e si iscrive al Partito del popolo delle libertà, che non esiste ancora, Adornato e Sanza passano da Forza Italia all'Udc, Tabacci e Baccini fondano la Rosa bianca (e Fini, con il solito "esprit de finesse" postfascista: «È un crisantemo»). E a Bologna alcuni della lista civica guazzalochiana cominciano a guardare al Pd, se magari mollasse Cofferati, «perché non siamo di destra». Sì, ma noi, sostiene Walter, «dobbiamo comunicare un messaggio innovativo: l'idealismo pragmatico, la forza dei sogni». Ed Ermete Realacci, il responsabile della comunicazione del Pd, rispolvera il suo slogan storico: «Dobbiamo far capire che il Pd vuole bene all'Italia». In pratica, come dice l'antemarcia Michele Salvati, uno dei padri fondatori del Pd, si tratta di far venire fuori anche da noi il «realismo utopico» di Tony Blair. Il «centro radicale» teorizzato dall'ideologo del New Labour Tony Giddens, aggiunge Marco Follini, che sulle pagine del "Riformista" vede rinascere proprio il centro. E non dimenticate, aggiunge lo staff di Veltroni, che i sondaggi andranno misurati più avanti. Adesso le indagini demoscopiche misurano più che altro l'irritazione per Visco e le tasse: è la protesta anche degli evasori messi nell'angolo, non soltanto dei pensionati poveri e delusi, anche se nel frattempo il ceto dirigente si è convinto che la bonifica dei conti è stata fatta ed è mancato solo il tempo di realizzare un po' di redistribuzione decente. Ma fra qualche settimana, i sondaggi misureranno anche il gradimento per il centrodestra e i suoi uomini di punta: e allora, di fronte alle facce note di Gasparri, di La Russa, di Fini nel suo impermeabile alla tenente Sheridan, dell'infallibile Tremonti, e del reduce europeo, il commissario Frattini già candidato al ministero degli Interni, qualcuno si domanderà se è davvero tutta qui, la novità. E poi, non era stato proprio Fini, poche settimane fa, quando la Casa delle libertà era un «ectoplasma», ad attaccare Berlusconi perché ai suoi occhi era un signore troppo anziano? Può anche andare male, per carità, non siamo mica Superman. Ma intanto il Partito democratico deve fare un gioco di prestigio. Rovesciare la partita. Farsi rincorrere. Puntare tutto sull'innovazione. In primo luogo, dobbiamo attirare il capo della destra sul nostro terreno: vieni avanti, Cavaliere, perché non ce la battiamo ad armi pari? Perché non rinunci alla tua "Armada" e non ce la giochiamo fra i nostri due partiti? Non hai voluto fare la riforma elettorale, e questo è stato un grave peccato di gola, e allora pratichiamo la virtù politica nei fatti, uno contro uno, e chi prende più voti governa. Certo che Berlusconi non ci sta, è ovvio. È sempre lì che inziga per seminare zizzania: prima lascia che il "Giornale", quotidiano ufficiale, con articolo del suo direttore Mario Giordano, non l'ultimo dei praticanti, lanci l'idea della grande coalizione Berlusconi-Veltroni prima delle elezioni. Poi sussurra che il suo futuro governo potrà offrire qualche ministero anche al Pd. Infine lascia circolare la nuova linea, solo i quattro fondatori nel suo schieramento. La sensazione è che allo stesso Berlusconi la sua "Armada" non piaccia in fondo più di tanto. E poiché, novantanove su cento, il Cavaliere si ritirerà nel tepore della sua alleanza, da Storace a Casini, noi attaccheremo: l'"Armada" è un coacervo di mercenari. Fra l'altro, si è sentita, in venti mesi, una sola proposta politica del centrodestra, che non fosse la ribollita "Prodi se ne deve andare"? E allora il Pd deve fare una proposta politica fortissima, prima ancora che studiare gli accorgimenti tecnici per correre da solo "ma anche" accettando alleati che sottoscrivano il superprogramma. E il primo punto del programma non va neanche scritto, è dato dall'impegno "on the road again". Di nuovo sul pullman, come nel 1996: «Voglio andare in tutte le province d'Italia, nessuna esclusa». Una campagna furibonda ma tutta in positivo, a cominciare dai volti. Non appena scatterà la competizione, dovrebbe venire fuori la squadra, il governo snello con il programma stringato. «E a quel punto», dicono gli assistenti di Walter in Campidoglio, «ci si potrebbe divertire». Le bocche restano cucite, ma nelle ultime settimane sono stati troppi i vezzeggiamenti di Veltroni a Luca Cordero di Montezemolo. «Per questo giro mi tengo fuori», ha confidato il presidente uscente di Confindustria, ma il flirt è bastato per far balenare l'idea di un governo "all star". E soprattutto per trasmettere il concetto che il Pd proporrà un programma iper- riformista, fortemente modernizzatore. Ci sta lavorando Enrico Morando, che ha chiamato a raccolta l'intellighenzia "liberal" degli Ichino e dei Boeri. E nel «partito nazione» descritto da Alberto Reichlin si delineerà un interclassismo che va dai lavoratori al mondo della ricerca fino agli imprenditori. Già, resta solo il problema della corsa a handicap, con la destra avanti almeno dieci punti. Risposta: ma allora siete fissati. Adesso i sondaggi fotografano i partiti. Ma se cominciamo a immaginare una competizione in cui agiscono tre grandi blocchi, cioè l'"Armada" della destra, il Pd con Di Pietro, e la sinistra-sinistra, i numeri cominciano a cambiare. Gli "obamisti" del Pd, quelli che scommettono sull'effetto Obama, giurano che fra un mese i conti saranno tutti da rifare. Gli scettici, i prudenti, gli increduli e i pessimisti si stringono nelle spalle: bene il mondo nuovo di Walter, l'iperspazio politico, i forum tematici su Internet. Ma se va male, se ci siamo giocati l'eredità, se non riusciamo a mobilitare ancora una volta sul territorio i vecchi compagni, i volontari delle Feste dell'Unità e il ceto della post-sinistra dc, e se poi frana il Sud, in seguito alla crisi dei rifiuti e al "bandwaggoning" delle clientele, tutti sul carro dei vincitori annunciati, siamo fritti. Fritti. A meno che... Sì, a meno che, ti dicono con un sorrisetto certe vecchie lenze di partito, certi trafficanti di nomenklature antiche, a meno che la "poison pill", la pillola con cui Calderoli ha avvelenato al Senato la vittoria dell'Unione nel 2001, non produca l'ultimo effetto, impedendo la vittoria anche all'ultimo giro di flamenco del Caballero. E insomma: ride bene chi ride ultimo. n
L'Espresso, 22/02/2008
Stelle di plastica
Si chiamava "Uomo e gentiluomo", credo: le nebbie del palinsesto sono difficili da diradare e i protagonisti si dissolvono nella foschia. A quanto sembra era condotto da Milly Carlucci, e a occhio non sembrava peggio di molti programmi di successo della Rai. E però l'hanno sospeso, per mancata audience. Riposi in pace, nel camposanto dei programmi defunti. D'altronde, si sa che il pollice sul telecomando sta di nuovo cambiando la televisione. Ormai l'Auditel misura i minuti di "agganciamento": 20 minuti, grande successo; dieci minuti, mah; tre minuti, chiudere il programma. E quindi diventa difficile giudicare una trasmissione: si giudica un flusso di immagini alternate. A me sembra di avere visto, ma chissà se è vero, nel programma della Carlucci, un gruppo di persone che discuteva di estetica maschile e femminile. Tutti erano contrari alla tinta artificiale dei capelli, e tutti erano tinti a cominciare da Pippo Baudo. Tutti e quasi tutte, tranne l'Alba Parietti, erano contrarie alla chirurgia estetica: e l'effetto era paradossale, perché nel frattempo si inquadrava la Valeria Marini, che di profilo sembra Jessica Rabbit. Insomma, avranno chiuso "Uomo e gentiluomo" ma non hanno risolto il problema della plastica. Si sarebbero potute vedere altre puntate in cui insigni televisionari avrebbero mentito per la gola, negando l'evidenza, quando invece basterebbe rispondere come il vecchio Luciano Lama quando gli chiedevano increduli: «Ma tu ti tingi i capelli?». E lui, un po' scandalizzato: «Ma certo!». Erano altri esemplari di uomo e di gentiluomo. Adesso le dive protendono i würstel e dicono: ma no che non son rifatta. Per questo, la sera, davanti a una tv senza sorprese, si dormicchia.
L'Espresso, 22/02/2008
La lunga marcia di Walter
Riunioni su riunioni, in attesa dell'assemblea costituente. Mail che si intrecciano, documenti che passano di mano, consulenti che telefonano. Il programma. Il messaggio. I forum tematici da allestire. Le alleanze ancora sub judice. I "demos", cioè le indagini demoscopiche. «Hai l'ultimo demos di Ipr?». Walter Veltroni che guarda i sondaggi con freddezza: «Abbiamo appena cominciato una guerra asimmetrica». Già, non ci sono dubbi: «Noi siamo un partito nuovo, loro sono un listone elettorale». Sottinteso: hanno un bel da raccontare, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini, che la loro unione nel Popolo delle libertà è ispirata dal popolarismo europeo, dalla radice cattolica e da una sopraggiunta comune cultura moderata e liberale (anche se sul liberalismo di Fini ed ex camerati ci sarebbe molto da commentare). La realtà è che il Partito democratico fa procedure pubbliche, la carta dei valori, lo statuto, si dimentica la Resistenza e poi la recupera, in un caos non proprio calmo ma creativo, mentre "loro" hanno fatto un'operazione di maquillage elettorale, mettendo insieme il recuperato doppiopetto di Berlusconi e l'impermeabile di Fini. Vedremo se ci finisce dentro anche Pier Ferdinando Casini, ma intanto c'è la "federazione" con la Lega, su base territoriale, e dunque è meglio essere realisti: «Dobbiamo recuperare dieci punti». Loro sono a 40, noi a 30. Dieci gradoni percentuali, una montagna da scalare di qui al 13 aprile. Meglio cominciare alla svelta. Si parte dal 30 per cento, e si affronta il sesto grado. Punto per punto. Quota 31 Prima di tutto, ci vuole un messaggio chiaro, chiarissimo, solare. Michele Salvati, autentico padre fondatore del Pd, dice che il primo punto si guadagna dicendo così: «Dobbiamo fare dell'Italia un paese decente e rispettato». Puntare su un'Italia "fair". Ciò significa marcare la prospettiva riformista, chiarendo che regole e legalità sono un principio a cui si deve affiancare un processo di modernizzazione furibondo. Proprio così, furibondo? «Furibondo», conferma Salvati: «Senza le timidezze con cui ci siamo giocati il consenso sulle liberalizzazioni di Bersani». E avanti. Quota 32 Il balzo all'insù consiste nel convincere la fascia alta dell'opinione pubblica. Lo staff di Veltroni ne è consapevole: «Dobbiamo riuscire a presentarci come il partito della crescita, e soprattutto della modernità intelligente. Nella legislatura scorsa ci siamo giocati un elettorato "nostro", il lavoro dipendente qualificato, il management, i quadri aziendali, i dirigenti del settore pubblico, perché li abbiamo subissati di tasse». Quindi occorre dare l'idea di un partito che renda più snello il rapporto con le parti sociali: «Bisogna convincere il sindacato a modernizzare». E nello stesso tempo guardare con duttilità verso le organizzazioni imprenditoriali: dopo Montezemolo in Confindustria ci sarà probabilmente un altro interlocutore non ostile, Emma Marcegaglia, che è andata a raccogliere il consenso con la debita intelligenza diplomatica anche nelle aree confindustriali di destra, e che quindi non farà sconti politici, ma apprezzerà i progetti più innovativi nel settore economico. Un gradino più su, allora. Quota 33 Avanti con il programma "shocking". Il primo atout del Veltroni Group è il comitato informale degli economisti. Enrico Morando coordina un pool a geometria variabile a cui contribuiscono liberal purosangue come Tito Boeri e l'ultrariformista Nicola Rossi, e poi Tiziano Treu e Carlo Dell'Aringa, insieme con il direttore dell'Ires Cgil Agostino Megale e Stefano Fassina, consigliere di Vincenzo Visco, uomo del Nens (il centro studi fondato da Visco con Bersani). Primo obiettivo: un programma audace di tagli alla spesa pubblica. Secondo alcune stime di analisti indipendenti, nei conti pubblici c'è un "tesorone" di 80 miliardi di euro, potenzialmente e tendenzialmente recuperabile razionalizzando la pubblica amministrazione. E quindi conviene rinunciare alle inibizioni e ai discorsi in sindacalese: tutto deve entrare in discussione, compresi gli automatismi del pubblico impiego. Bonus individuali, premi di produttività, ma soprattutto cultura del risultato: il traguardo non è fare gli atti burocratici dovuti, ma realizzare gli obiettivi. Cercando di introdurre una catena di comando funzionante, con responsabilità accertabili e misurazione puntuale dei rendimenti. E issa. Quota 34 Eccoci pronti per il salto successivo: una mobilitazione straordinaria di risorse intellettuali, per la parte più glamour e generazionalmente efficace del programma. In primo luogo un messaggio alle generazioni più giovani, con la proposta del voto a 16 anni, basata sulla vecchia idea di Nicola Rossi «meno ai padri, più ai figli», offrendo quindi rappresentanza alle nuove leve. «Una nuova generazione di italiani chiede un'Italia più aperta e dinamica, più giovane e mobile», conferma Veltroni. Sul piano delle realizzazioni di medio-lungo periodo, progetti di investimenti massicci nel settore dello spazio e dei satelliti (come il sistema satellitare europeo Galileo), insieme con il sostegno all'innovazione nella robotica, nel biotech, nella meccatronica, nel wireless. A cui si affiancherà un programma "monstre" di risparmio energetico: «È l'ambientalismo del nuovo millennio», dice Morando, «la possibilità di ridurre sprechi e consumi e nello stesso tempo l'avvio di un'industria nel settore ambientale». Ci giochiamo molto, su questo terreno, aggiunge Ermete Realacci, una delle anime verdi del Pd: «Anche perché è un ambito della politica che vede un'attenzione trasversale, nelle giovani generazioni per una propensione ecologica, nelle fasce centrali dell'elettorato per i possibili risparmi sulle tariffe, e anche nei ceti medi superiori per l'aspetto trendy delle politiche tecnologiche di controllo dei consumi». Si arriva così al punto di svolta. Quota 35 Metà strada. E qui arriva, potentissimo e delicato, il discorso delle tasse. Il listone di Berlusconi, capeggiato dall'ideologue colbertista Tremonti, per ora ha riciclato vecchie idee: l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, insieme a tecnicalità fiscali favorevoli al lavoro autonomo (come il pagamento dell'Iva solo al momento della fatturazione). «Fatto il risanamento, dobbiamo farci perdonare dai nostri ceti di riferimento», ha confidato Bersani. Se n'era convinto Romano Prodi, e anche Visco era d'accordo a redistribuire le risorse derivanti dal contrasto all'evasione. «Ma adesso», sostiene Salvati, «abbiamo bisogno di un cambio di marcia. Ci vuole un'altra tornata di liberalizzazioni strutturali, a cominciare dai servizi bancari e dai trasporti pubblici nelle città, e bisogna fare in modo che lo sgravio fiscale sia selettivo. Non possiamo adottare misure che mettano sullo stesso piano i contribuenti obbligati e gli evasori. E perciò occorre pensare a favorire la produttività, non la rendita». Quota 36 A questo punto comincia la fase due. Finora ci si è preoccupati di guadagnare il consenso delle élite, dell'establishment economico, degli studiosi liberali e trendy come Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, per fare breccia nell'opinione pubblica di centro. Ma l'identità del Pd non deve dimenticare una esplicita dimensione popolare, come ha sottolineato Veltroni a Spello rivolgendosi «alle donne e agli uomini, e ancor più alle ragazze e ai ragazzi, per cambiare l'Italia». Il rapporto fra l'efficienza di sistema e la solidarietà. E allora, grandissima questione strategica, le donne. L'altra metà dell'elettorato, oltre che del cielo. Possibili alcune candidature di superlusso, come quella di Evelina Christillin, musa della Torino "glam" di Sergio Chiamparino. Ma poi un programma praticamente scandinavo, per elevare il tasso di occupazione femminile, uno dei più bassi dell'Europa avanzata. Confida Veltroni ai suoi: «Qualcuno sa spiegarmi perché in Emilia le donne lavorano come in Europa? Evidentemente i servizi sociali funzionano, e non ci siamo dimenticati che Reggio Emilia ha le migliori scuole materne del mondo». Ergo, quintuplicare gli asili nido, come hanno fatto in Germania nell'arco di un quadriennio. Se passa il messaggio, siamo un altro passettino avanti. Quota 37 Il fatto è che bisogna ripensare largamente lo Stato sociale. C'è chi fa le battaglie sui valori, ma i valori è meglio declinarli nella realtà, come dice il numero due del Pd Dario Franceschini: «A noi non piace fare della retorica sulla famiglia; proponiamo misure realistiche e concrete: bonus fiscale alle famiglie numerose, credito d'imposta alle donne che lavorano». Sul piano del metodo, aggiunge Nicola Rossi, occorre individuare le criticità vere nel corpo sociale: donne lavoratrici, giovani precari, lavoratori over 55 spinti ai margini del mercato. E puntare moltissimo sulla scuola, senza cedere alle formule convenzionali. Come hanno dimostrato gli studi dell'Ocse, non serve a niente investire indiscriminatamente; occorre invece investire sulla professionalità degli insegnanti. Quota 38 «Non facciamoci aggredire da Berlusconi e dalla Lega sulla sicurezza», ha detto Franceschini. Per poi aggiungere: il Cavaliere ha già detto che punta sulla tolleranza zero verso rom e clandestini, con toni da caccia all'uomo. Noi dobbiamo spiegare invece che la sicurezza è un prodotto della cura urbana, della manutenzione, del decoro cittadino, del rispetto della convivenza. Che insomma si può parlare della sicurezza in modo non reazionario. Quota 39 Di nascosto, sottovoce, senza fare arrabbiare Fausto Bertinotti, occorrerà far capire agli indecisi di sinistra che potrebbe essere necessario il "voto utile". I sondaggisti come Nando Pagnoncelli (Ipsos) e Roberto Weber (Swg), stimano che almeno un 25 per cento di elettorato della sinistra "arcobaleno" potrebbe votare Pd come unico argine antiberlusconiano. E allora eccoci alla vetta finale. Quota 40 Ragazzi, se tocchiamo quota 40 vuol dire che l'Italia è cambiata. Che non dobbiamo morire berlusconiani. E per farla cambiare bisogna che non ci credano solo gli italiani. Occorre che ci creda l'informazione. Quindi, ventre a terra, curare i giornali. E che i media siano con noi. n
L'Espresso, 28/02/2008
Sette più a La7
Premesso che non si capisce per quale motivo uno dovrebbe guardare sulle televisioni generaliste programmi di attualità. O meglio, si capisce: perché l'intera programmazione di film su Sky è fiacca. Insomma, premesso quel che è da premettere, a me è capitato di vedere "Niente di personale", la trasmissione condotta su La7 da Antonello Piroso. E non una puntata qualsiasi, ma la sera, lunedì 12 febbraio, in cui l'Antonello uno intervistava l'Antonello due, vale a dire Venditti. Be', insomma: mica male. Perché sarà vero che Piroso ha una certa tendenza a fare le domande e anche le risposte (non è mica colpa sua se gli ospiti non hanno i tempi televisivi), ma con Venditti è stato praticamente esemplare. Conosceva le canzoni e i testi, faceva i collegamenti giusti, concedeva ar core de Roma la possibilità di sviluppare i suoi ragionamenti: perché voi sapete che fra i molti pregi di Venditti, uno dei pochi cantautori laureati (nel senso che ha una laurea in diritto minerario, e una specializzazione in filosofia del diritto), non c'è quello della sintesi televisiva. Antonello due ha bisogno di tempo per il suo discorso. Antonello uno gliel'ha dato. Gli ha anche dato del lei, accidenti. Ed è riuscito perfino nell'impresa di presentare a Venditti la massima parodia di Venditti che sia mai stata realizzata: ossia la tremenda, anzi terroristica, esecuzione di "Tuttoroma", capolavoro sadico di Corrado Guzzanti: «E se avremo una bambina poi la chiameremo... Roooma». Venditti è riuscito a non svenire, e ha fatto il possibile per essere spiritoso. Piroso ha scherzato con galateo. Alla fine, ne è venuta fuori una cosa civile: bravi tutti, almeno questa volta. Voto a La7: sette più.
L'Espresso, 28/02/2008
IL Paradosso Gianfranco Fini
Per avere voluto a tutti i costi le elezioni anticipate, Silvio Berlusconi doveva essere matematicamente, scientificamente certo della vittoria. In effetti fino a un paio di settimane fa prevedere una impasse del Popolo delle libertà sembrava più che altro una boutade. Ma è proprio scritto che a destra si prospettino soltanto magnifiche sorti, e progressive? E che quindi il Partito democratico debba soltanto puntare a una sconfitta onorevole, in attesa che il tempo faccia dimenticare il fallimento dell'alleanza che fu chiamata Unione, condizionata dalla sinistra radicale e sabotata alla fine dai centristi Mastella e Dini? Può darsi. Può darsi che per il momento occorra soprattutto parare i colpi e pararsi il didietro, per evitare il fatidico ombrello di Altan. Ma i sondaggi non sono una scienza esatta. Lo straordinario vantaggio vantato dal Cavaliere è un atto di fede, se è vero che i sondaggisti indipendenti stimano al 30 per cento i cittadini che non si pronunciano. Ma al di là dei dati scientifici ci sono altri metodi per cercare di indovinare i risultati elettorali. Valgono più o meno come l'analisi dei fondi di caffè o del volo degli uccelli, ma ognuno crede a ciò che vuole. E quindi le prossime elezioni possono anche essere divinate in base al "paradosso Fini". Non dite che non conoscete il paradosso Fini. Si chiama così perché Gianfranco Fini è l'uomo politico che ha sbagliato tutte, diconsi tutte, le grandi decisioni politiche; e ciò nonostante è riconosciuto dai sondaggi come l'uomo politico italiano dotato di maggiore credibilità. Mistero misterioso. L'elenco degli errori "strategici" del capo dell'ex An è impressionante. Poco prima di Tangentopoli inneggiava al fascismo come una teoria politica non transeunte, e proponeva un «fascismo del Duemila» come eterno destino dell'Msi. Poi si oppose al referendum maggioritario, convinto che il suo partito dovesse rimanere nella nicchia. Quindi alternò il bene e il male in un ottovolante da "tenetevi stretti": divenne maggioritarista fondamentalista, parlò di Mussolini come massimo statista del secolo, si unì allo sfortunato Mariotto Segni, ripudiò il fascismo «male assoluto», fece cadere il divo Tremonti. E infine ha annunciato che An si scioglierà nel Pdl. Ma chi può giurare che quest'ultima sia la "cosa giusta"? Fini potrebbe semplicemente avere ceduto il partito per assicurarsi la primogenitura. Ma la sua scelta rappresenta uno, e solo uno fra gli altri, dei processi in corso a destra. L'unificazione tra Forza Italia e An, con l'alleanza della Lega, prospetta una forza popolar-conservatrice più simile alla bavarese Csu che alla Cdu di Angela Merkel; in ogni caso ha liberato energie politiche a destra e al centro. A destra si aprono spazi per il duo Storace & Santanché, i quali faranno una fiammeggiante campagna contro "Esaù" Fini, reincarnazione del personaggio biblico che si vendette l'eredità per un piatto di lenticchie (in questo caso "un partito per uno strapuntino", secondo le battute feroci degli storaciani). Al centro invece si è determinato un affollamento imprevisto. L'Udc, la Rosa bianca, l'Udeur, ovvero Casini, Tabacci, l'orfano e sfrattato Mastella. A cui si aggiunge la campagna per la moratoria antiaborto di Giuliano Ferrara (che rimane credibile se va in solitaria, ma non come lista veicolo sospettata di trasferire voti cattolici a destra). Il fatto è che la politica è in movimento tellurico, tutta. E allora fare previsioni è un esercizio sterile, per il momento. Anche perché almeno finora il Pdl e Berlusconi in persona non sembrano avere proposto novità sostanziali, programmatiche, politiche o psicologiche. A quanto si capisce, il Cavaliere proporrà alcune fra le sue tipiche "ricette", misure di riduzione fiscale, provvedimentini che piacciono ai commercialisti e alle aziendine, oltre alle solite campagne contro piemme, giudici, intercettazioni, e la proposta della tolleranza zero contro i clandestini. Ma di un nuovo "sogno" finora non c'è traccia. È anche possibile che, come dice Giuseppe De Rita, il futuro si giochi sulle grandi connessioni infrastrutturali («Visto che non possiamo gingillarci ancora fra Ponte di Messina e pavimentazioni comunali»), e quindi sulla modernità delle proposte politiche. A cui forse è più disponibile il Pd, mentre il Pdl sembra ancora per molti versi espressione di corporazioni, categorie, clan professionali, notabilati, oltre all'elettorato d'ordine della vecchia An. Quell'Italia invecchiata che riesce difficile presentare come un'espressione di spinta e di innovazione, sarkozista o imprenditoriale che sia: quando in realtà è la solita Italiona di stampo corporativo. Corporazioni degli anni Duemila: ma sempre corporazioni sono.
L'Espresso, 06/03/2008
Caravaggio è ok
La fiction di Raiuno dedicata a Caravaggio ha ottenuto un successo più che notevole. Il protagonista Alessio Boni ha riscosso consensi (e per i critici più vecchi era difficile evitare il confronto con Gian Maria Volontè, interprete del Merisi alcuni secoli televisivi fa). La regia di Angelo Longoni, la protagonista Elena Sofia Ricci, tutti bene. Poi, si sa che la vita di Caravaggio è effettivamente una fiction di per sé, e quindi la trama per una volta non mancava. Il momento critico è venuto quando Caravaggio viene introdotto a palazzo dal cardinal Del Monte, e incontra il bel mondo. Gli si avvicina un tale, che si rivela essere il suo quasi coetaneo Giovan Battista Marino (proprio lui, quello che «è del poeta il fin la maraviglia») e con una faccia un po' così gli chiede più o meno: «Voi v'intendete anche di poesia? E chi preferite, l'Ariosto o il Tasso? ». C'è sempre un punto nelle ricostruzioni storiche cinematografiche in cui si sfiora il sussidiario o l'antologia delle medie (qualche momento del genere c'era anche in "Amadeus"). Tasso, Ariosto. Una soluzione fantasiosa poteva essere questa: che il Merisi tirasse una ginocchiata nelle parti basse al cavalier Marino, dicendogli in buon lombardo: «Tel chi l'Ariosto!», ovvero «Tel chi el Tasso!», così quel vagheggino, l'autore dell'"Adone", impara a farsi i fattacci poetici suoi. Gli eccellenti autori non hanno osato. Eppure il caratteraccio di Caravaggio avrebbe potuto consentire qualche licenza poetica. Comunque, ottimo film: da cui si capisce che anche nella tv del Terzo millennio i drammoni a tinte forti, luci e ombre per l'appunto caravaggesche, non deludono mai.
L'Espresso, 06/03/2008
Candidati da vetrina
Più che il programma poté il candidato. Il candidato mediatico, il candidato da talk show e da show semplice, il candidato nepotista, il candidato giornalista, il candidato scientista, il candidato laicista, il candidato cattolicista. Vabbé che gli specchietti per le allodole ci sono sempre stati, ma una volta c'erano le preferenze, e le allodole si erano fatte furbe alla svelta. Se uno si trovava in lista, che so, Massimo Boldi alias Max Cipollino, poteva decidere in piena coscienza che cosa fare al momento del voto. Adesso invece no. Le liste bloccate designano candidati bandiera, che quindi vengono sbandierati e magari eletti. Candidati in divisa per la sicurezza democratica, come il prefetto Luigi De Sena, inviato a fare la guerra alla 'ndrangheta dopo l'omicidio Fortugno, capolista in Calabria per il Pd al Senato. O come il prefetto Achille Serra, candidatura trasversale di Walter Veltroni che ne ha «una grande stima», tralasciando volentieri il fatto che il prefetto fu deputato di Forza Italia nel 1996. Mentre Silvio Berlusconi candida il generale Speciale, quello fatto fuori da Padoa-Schioppa, immortalato in viaggi aerei e feste aragostane a Cortina, su pei monti, sui pei monti che noi andremo (ma quelli erano gli alpini, non i finanzieri). Eppure, dubbio amletico: serviranno a qualcosa i supercandidati? O è politichetta? Il sociologo Alessandro Cavalli, anima razionale, ha soprattutto dubbi: «Anche una figura indubbiamente prestigiosa come Umberto Veronesi può portare voti da una parte e perderli dall'altra». Cioè si guadagna il voto di Sandra Mondaini e di qualche laico distaccato, ma si perde qualche cattolico convinto. Forse può funzionare meglio il lato mondano e cinematografico, letterario e culturale, perché l'ambiente veltronico si pregia di fornire l'immagine di una densissima galassia intellettuale: ecco Paolo Virzì, ecco Ferzan Ozpetek, ecco il divo Sandro Veronesi, autore del dibattutissimo "Caos calmo", e che dite di Gianrico Carofiglio, il sellerista (nel senso di Sellerio e di bestseller), inventore del "legal thriller" all'italiana? Le soubrette tv di rango minore rappresentano il lato trash, per i lettori elettori da rotocalco, a partire dall'Angela Sozio, ex "Grande fratello", nota per il mano nella manina del Cavaliere in Sardegna, per continuare con l'ex del Fratello piccolo, Katia Noventa. Una volta, quando c'era lui caro lei, si sarebbe parlato di nani e ballerine. Adesso, mah. Certo che di giganti non se ne vedono. Deborah Bergamini, l'uomo fiction Agostino Saccà e l'Alfredo Meocci, quello che «un errore ci è costato tanto» a noi contribuenti, ricevono dal Popolo della libertà il premio fedeltà, mentre il possibile ritorno da Strasburgo di Lilli Gruber è un trionfo del "democrat chic". Se poi con il Pdl, ci finiscono anche giornalisti pregiati come Fiamma Nirenstein, che una volta, tanto tempo fa, era molto di sinistra, e pure (chissà) Magdi Allam, occorrerà vedere se nel Pdl c'è ancora spazio per il gotico "flamboyant" Paolo Guzzanti. Nel frattempo qualcuno ha criticato la candidatura nel Pd di Matteo Colaninno, ma il presidentino è dotato di personalità sua, e come guida dei giovani di Confindustria si è spesso fatto valere senza timidezze. Piuttosto, bisogna vedere se i "figli di" saranno di qualche aiuto ai partiti. La biondina ventisettenne Marianna Madia, capolista "democrat" a sorpresa nel Lazio è stata una trovata a effetto. Ma cosa porterà alla Rosa bianca il Giuseppe De Mita nipote di Ciriaco? E quale sarà l'apporto alla Destra storaciana di Falcao jr? È una fiera delle vanità: e c'è già da scommettere che quelli che saranno eletti, dopo qualche mese rilasceranno interviste dicendo quanto sono delusi. Quanto li ha delusi Veltroni. Quanto li ha delusi Berlusconi. Ma sia ben chiaro fin d'ora: non è mica colpa nostra, se loro si fanno eleggere.
L'Espresso, 13/03/2008
Salviamo Sanremo
Si è aperto il concorso: ricetta per salvare il Festival di Sanremo. Non che l'edizione Baudo- Chiambretti sia stata malvagia, ma i numeri, eh i numeri. Noi abbiamo la ricetta. Anzi, ne abbiamo diverse. Eccole qua. 1. Ridurre la durata del Festival: bastano due o tre serate, forse una serata sola, magari tardi, oltre la mezzanotte. 2. Aumentare la durata del Festival, minimo tre mesi, con batterie, eliminatorie, quarti di finale, semifinali. 3. Abolire la giuria di qualità. 4. Abolirla ma tenere in squadra lo juventino Mughini e il nichilista Boncompagni. 5. Dare più spazio alle canzoni e ai cantanti. 6. Dare meno spazio alle canzoni e ai cantanti, perché quando in tv appare il cantante il pollice preme automaticamente sul pulsante del telecomando. 7. Fare condurre la prossima edizione a Bonolis. 8. No, affidare la conduzione a Fiorello. 9. Macché, affidare la conduzione al card. Ruini. 10. Soluzione totale, affidare la conduzione a Giuliano Ferrara, con la collaborazione di Tony Renis e del teologo Vito Mancuso. 11. Più ospiti stranieri, anche se in playback. 12. Meno ospiti stranieri, che si fanno solo pubblicità. 13. Invitare come unico ospite, italiano e straniero, Gigi D'Alessio, purché ci consenta di accertare se le tette della Tatangelo sono vere o finte (come si è letto in un formidabile articolo di Maria Luisa Agnese). Ma soprattutto inserire nella commissione esaminatrice il maestro Vince Tempera, che per il "Tg2punto.it" di Michele Bovi ha condotto la rubrica "San Remo patrono del copia copia", rivelando ogni giorno assonanze e copiature. Magari accompagnato da Elio e le Storie tese, che hanno spopolato a orari impraticabili. Arrivederci, cari.
L'Espresso, 13/03/2008
Sindrome GIULIANO
E se la moratoria sull'aborto, con relativa lista politica alle elezioni rappresentasse la vera storia personale e pubblica di un fraintendimento? Dell'effetto di una convinzione etica maturata nella propria coscienza e che tuttavia porta, nel giudizio sulle quantità, all'errore sociologico? Insomma, di una specie di illusione ottica che induce a scambiare il flusso di consensi individuali con un consenso di massa? Potrebbe trattarsi della "sindrome Ferrara": quella solitudine di fronte al mondo, ma anche al destino cinico e baro delle indagini demoscopiche, che porta perfino a chiedere conforto ai lettori, nel «giorno dell'angoscia», un colpo di scena per sfuggire al pessimismo elettorale: cari amici, ditemi se andare avanti o rinunciare. Di certo Giuliano Ferrara, 56 anni, direttore del "Foglio", (ex) star della tv intelligente, ex ministro di Silvio Berlusconi, ex Pci, ex craxiano, ex quasi tutto, è una forza della natura e dell'intelligenza. Non ci sono in Italia tante esperienze intellettuali, e perlomeno non ci sono negli ultimi vent'anni, che come la sua abbiano saputo scuotere l'opinione pubblica italiana. Prima con la tranquilla forza della faziosità neoliberista, quando sembrava che il Cavaliere fosse una dinamica reincarnazione reaganiana o thatcheriana; poi con la riscoperta dei valori, dei temi "etici", a cui peraltro il centrodestra italiano ufficiale non sembra politicamente avvinto, nemmeno nei comportamenti personali. È una storia che avviene tutta in pochi mesi, cioè da quando dopo avere registrato il successo politico e d'immagine del governo italiano all'Onu, con la moratoria sulla pena di morte, Ferrara decise di lanciare una moratoria analoga sull'aborto, evocando la grande «strage» contemporanea, il miliardo di non nati, l'eliminazione selettiva delle femmine, il rischio eugenetico, il supermarket tecnologico della specie. C'entra in tutto questo la fascinazione evocata e incarnata da Joseph Ratzinger, il papa teologo e filosofo, portatore e vessillifero agli occhi di Ferrara dell'ultimo pensiero forte dopo i debolismi novecenteschi e il crollo del marxismo. Forse ai tempi di una concezione consapevolmente e superbamente ieratica della Chiesa, il pontefice e la gerarchia vaticana avrebbero risposto a Giuliano il neofita come papa Pacelli rispose a Clare Boothe Luce, l'ambasciatrice americana convertitasi al cattolicesimo nel 1946 e fin troppo entusiasta, in udienza, nella sua professione di fede: «Signora, sono cattolico anch'io». C'era, è vero, il precedente della legge sulla fecondazione assistita, che sembrava poter mobilitare vescovi e fedeli. Invece stavolta le reazioni cattoliche sono state piuttosto morbide, laterali, sfuggenti. Diffidenze visibilissime nel cattolicesimo di sinistra, con accuse di clericalismo e toni aspri come quelli di Alberto Melloni, che ha richiamato l'Action française, il movimento della destra integralista di Maurras scomunicato nel 1928, e ha stabilito: «Quando perde le idee, la destra indossa i paramenti». Ma diffidenza simmetrica anche da parte del mainstream, della Cei, del quotidiano "Avvenire": distinguo, sottigliezze, riconoscimento di una battaglia giusta ma di metodi contestabili. E dunque conviene cercare di capire la tiepidezza, se non proprio la freddezza ecclesiastica, a fronte invece del fiume di lettere, fax, mail che si è riversato sul "Foglio", da parte di comunità, preti, parrocchie, ciellini, credenti integrali angosciati dalla «strage silenziosa». La prima giustificazione sarebbe politica. Ferrara e "Il Foglio", con tutta la stirpe degli atei devoti, vanno benissimo quando aprono fronti informali di polemica. Va benissimo la polemica contro l'islamismo, la difesa del Benedetto XVI di Ratisbona, la passione per le encicliche come la "Spe salvi", una certa animosità anche di tipo patrimoniale contro i Pacs, e perfino, sul versante basso, il disprezzo per i preservativi e forse gli anticoncezionali in genere, e la provocatoria ripubblicazione dell'"Humanae vitae" di Paolo VI, manifesto di un umanesimo coniugale che è in perfetta e totale antitesi con il consumismo erotico attuale (quello garantito infine dalla pillola RU486, cioè dall'aborto «in solitudine, sprofondato nella privacy»). Ma invece non va bene, il laico Ferrara, anche se la sua iniziativa ha assunto proporzioni mondiali, ha coinvolto il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon, si è inserita nella campagna elettorale della Spagna zapaterista, sta raccogliendo consensi sparsi in tutto il pianeta, e non va bene la moratoria se diventa un programma elettorale, come sta avvenendo con la lista Aborto? No, grazie. Le gerarchie storcono il naso, anche dopo avere assistito alla stretta di mano fra Giulianone il Nichilista e Ratzinger, dopo la messa celebrata dal papa l'ultima domenica di febbraio in una chiesa romana. Un avvenimento organizzato mentre il cardinal Bertone era a Cuba, che ha suscitato anche qualche ironia negli ambienti della segreteria di Stato: «Non si era mai visto un baciamano "concesso" durante una campagna elettorale». Neanche nel '48 con De Gasperi (e si parva licet, anche Berlusconi nel marzo 2006 fu respinto con perdite allorché aveva cercato di insinuarsi nella visita al papa della delegazione del Ppe). Perché sulla giustezza della battaglia di Ferrara, ovviamente, non ci possono essere dubbi: l'opposizione morale all'aborto è stata sancita anche nel decalogo che il nuovo direttore dell'"Osservatore Romano", Giovanni Maria Vian, ha ricordato di recente ai cattolici in politica. Ma tradurre politicamente un'idea etica appare rischioso ai vertici della chiesa. La strategia premiante è semmai quella inaugurata dal cardinale Camillo Ruini, allora presidente della Cei, all'epoca del referendum sulla procreazione assistita: coprire con il mantello prelatizio l'astensione, in modo da confondere il numero dei cattolici nella vastità astensionista (anche quella fisiologica) e appropriarsi alla fine della "vittoria". Mentre l'appoggio esplicito della chiesa sarebbe stato un azzardo politico insostenibile: se poi, come sembrano dire i sondaggi, la «lista pazza» di Ferrara dovesse prendere pochi decimali di punto, per il Vaticano si tratterebbe di una sconfitta catastrofica in una guerra nemmeno combattuta. Un'ipotesi diabolica. Tanto più che la lista Ferrara contiene un vizio politico d'origine, un "peccato originale" per restare in tema: e cioè è una lista di destra. Non si schiera al Senato per evitare problemi al Pdl, e trasferisce dentro lo schieramento moderato il fondamentalismo "single issue" di Ferrara. Vero che Berlusconi non li ha voluti, i ferraristi, in quanto «l'aborto è qualcosa di intimo» (ma soprattutto: «Sto dedicando i giorni, e anche le notti, a concentrare 18 sigle in una e ora Giuliano Ferrara me ne propone una in più...», così alla fine non ha voluto Ferrara nemmeno come candidato per il Campidoglio); ma il pensiero che attraverso l'istanza antiabortista passino per incanto a destra voti che di destra non sono costituisce in ogni caso un problema, oltre che un miracolo politico-ideologico. Non per "Big Giuliano", secondo il quale la sua non è politica, è «superpolitica». Ossia un progetto sovrannazionale, planetario, che investe la questione femminile nell'India delle bambine mai nate e nella Cina delle politiche di nascita selettiva. Forse qualcosa di non dissimile dalle iniziative utilmente "paranoiche" di Marco Pannella, con cui Ferrara ha rifiutato un confronto in tv per non cadere nelle trappole della convenzionalità televisiva, «per non ridurre la moratoria a un format» (ma poi è andato a "Le invasioni barbariche" a maltrattare senza costrutto la fredda e pugnace Daria Bignardi). Se le elezioni confermeranno i sondaggi, vale a dire se la pubblica opinione di massa rifiuterà la superpolitica d'élite del direttore del "Foglio", si riproporrà l'analisi del conflitto fra avanguardie e intendenza, o apocalittici e integrati, volendo. Una volta uno che di cattolici se ne intendeva, Mino Martinazzoli, ironizzò proprio su Pannella, dicendo che alla fine di ogni sua avventura avrebbe raccolto tutti i suoi seguaci e li avrebbe «venduti agli emiri». Ecco, dopo la possibile illusione ottica della moratoria, potrebbe anche darsi che di nuovo, per Giuliano, «la persona più intelligente d'Italia» nel giudizio di Antonio Socci, diventasse congruente l'immagine del Pifferaio di Hamelin: e che dopo avere affascinato i suoi sostenitori appassionati, pronti politicamente o misticamente a immolarsi per una missione di altissima qualità etica, non restasse altra strada che riprendere realisticamente il mare della politica. Con il rischio della normalità, con il timore della noia, come sempre dopo la delusione e la solitudine dei numeri. n
L'Espresso, 20/03/2008
Fascino falsario
Si guarda "Italian Job", il programma in onda su La7 la domenica in prima serata, in cui Paolo Calabresi sperimenta il suo genere tv, le inchieste fiction, o lo scoop reality, quasi con un senso di colpa. Calabresi interpreta una parte, che può essere l'inviato di un'oligarchia russa spedito nel Sud per tentare di aprire un casinò grazie a compiacenze e favori politici; oppure il falso psicologo americano Joseph Nicolosi, l'autore di una cura riabilitativa dall'omosessualità; e magari il finto imprenditore che vuole l'annullamento del matrimonio dalla Rota romana. Soprattutto quando ci sono di mezzo politici di secondo o terzo livello, si vede l'atteggiamento compiacente, di qualcuno che forse si farà corrompere e forse no, ma intanto ci sta, approfondisce, riferirà a livelli superiori. L'imbarazzo è palese, perché anche se Calabresi è bravissimo, si ha la sensazione che l'imbroglio potrebbe toccare a tutti noi. E magari anche noi resteremmo lì incerti, attratti dall'abilità del trasformista Calabresi e dalla nostra personale ingordigia. Se poi invece di Calabresi si facesse viva con notizie bomba una graziosa ragazza, ammiccando a chissà quali possibili opportunità, saremmo sicuri di resistere alla tentazione, e non invece di finire in una situazione da "Scherzi a parte"? Per questo "Italian Job" è un esperimento spurio. Calabresi ideologizza, sostenendo che il falso scopre la verità. Ma basta ricorrere all'ermeneutica per sapere che il punto di vista modifica la realtà. La finzione non scopre la verità, instaura un'altra condizione. Per questo "Italian Job" diverte, ma alla fine è una macchina celibe, che racconta soltanto se stessa.
L'Espresso, 27/03/2008
Requiem per Moro
Domenica 16 marzo è andato in onda lo speciale di Raiuno "Se ci fosse luce sarebbe bellissimo", dedicato ad Aldo Moro. Si tratta dell'ultima frase che Moro scrive alla moglie durante la prigionia nel loculo delle Br. Uno squarcio di speranza, o di attesa, o di disperazione, dal buio della propria reclusione. Il programma, condotto da David Sassoli, ha messo in scena un film di montaggio realizzato da Alberto Melloni, Fabio Nardelli, Federico Ruozzi e Francesca Morselli. Il film di Melloni e del suo gruppo è un "trittico", in cui le immagini di repertorio ripercorrono la carriera politica di Moro, con alcuni dei suoi discorsi principali, contrappuntati dalle sequenze della prigionia e dalle testimonianze successive alla morte. A trent'anni di distanza, le immagini hanno una forza terribile. Nel riascoltare Moro si avverte una semplicità allora non riconosciuta; nelle parole dei leader politici si sente l'incapacità di gestire una politica senza chi l'aveva pensata. Ma soprattutto si percepisce il clima di una "finis temporis", come se la vicenda italiana si trovasse allora davanti a una frattura, a un solco fra due epoche. Un che di luttuoso, ma anche di malinconico e autunnale, avvolge il film, sottolineato dalle note raveliane della "Pavane pour une infante défunte". Si capisce allora che l'Italia non sarà mai più la stessa, e la politica ne porta la responsabilità. Magnifico e terribile, più forte di qualsiasi dietrologia o rivelazione, in quanto mostra la nuda qualità della politica, il film è diventato una mostra che si può visitare in varie città (a Siena, Reggio Emilia, Modena, Bologna, Roma, Milano e altre ancora). s
L'Espresso, 27/03/2008
Versetti pazzi
Il libro più pazzesco, divertente ma anche depressivo della stagione si intitola "Primo libro delle profezie", è diviso in una parte di "Versetti" e in un "Annale", ed è stato scritto da Giorgio Dell'Arti (l'editore è Marsilio, pp. 236, e 13). Per la verità non è neppure stato scritto: si tratta dei residui di una rubrica che Dell'Arti tiene ogni giorno sulla "Gazzetta dello Sport", fatta di cinque domande e di cinque risposte su un argomento specifico, trasferiti in una compilation numerata. I detriti di questa rubrica dellartiana compongono il mosaico fenomenologico e quindi incongruo del "Primo libro delle profezie", che si apre con una visione della Cina e dei cinesi «impazziti per le Olimpiadi» articolata in 54 punti (al punto 12: «Pechino, venti milioni di abitanti. Grande come il Belgio»; al punto 43: «Mao non tirava mai l'acqua»; al punto 48: «Il presidente Mao si pettinava di continuo, ma non si lavava mai i capelli»). Se si vuole il ritratto di un naufragio globale, punteggiato di relitti locali, il libro di Dell'Arti è l'optimum. È una declinazione radicale della sineddoche, figura retorica in cui la parte rappresenta il tutto. Se ne ricavano indicazioni sparse e apparentemente convincenti sui mutui subprime, sul costo del petrolio, sulla demenza del mondo contemporaneo, sui fallimenti del mercato, sull'inflazione, sul potere di Putin, sul fatto che: «A Baghdad non ci sono che una dozzina di cinema, dove si proiettano solo porno» (con tanti saluti alle grandi strategie internazionali e alla conquista «dei cuori e delle menti»). Da tenere sul comodino come memento e/o antidoto alla grande catastrofe che incombe, forse, su di noi.