L’Espresso
L'Espresso, 27/03/2008
Fattore Morgan
È vero che l'edizione italiana di "X Factor" ha esordito con dati d'ascolto fallimentari, approfonditi da critiche severissime; ma qui si vuole spezzare una lancia, o anche un paio. Ecco qualche ragione per dare un'occhiata a "X Factor": il super super super reggiseno di Simona Ventura, «casalinga tutta veleno» come scrisse il Poeta (cfr. "Un canto brasileiro", Mogol- Battisti). La testa di Morgan, con un'acconciatura che è un'autentica opera d'arte informale. Ma soprattutto la cattiveria di Mara Majonchi, manager discografica dotata di una lunga esperienza, che sembra avviarsi a una bella carriera di gloriosa stroncatrice. La Mara è potenzialmente una star. Trattasi infatti di una signorona che conosce l'ambiente, ha scoperto cantanti famosi come Gianna Nannini e Tiziano Ferro: ma soprattutto non ha le inibizioni dello stile televisivo, cioè la prudenza, il grigiore, il dico non dico. Mara, un incrocio fra Iva Zanicchi e Claudia Vinciguerra, possiede il dono della franchezza. Se lo svilupperà, ci sarà da divertirsi. Quanto al cosiddetto "talent show" in sé, destinato a scoprire nuovi artisti della canzone, è la solita zuppa, vedi il citatissimo "American Idol". Fortunatamente hanno ridotto la durata delle canzoni, che come si sa allontanano il pubblico. Nonostante tutte le critiche più aspre, anche Francesco Facchinetti fa la sua parte, con un'espressione un po' così. Quindi prima di buttare via "X Factor" (nonostante il titolo deprimente) aspettiamo ancora un momento. A occhio e croce potrebbe diventare il format di un programma per "salvare" il Festival di Sanremo. Se ne riparlerà.
L'Espresso, 10/04/2008
Manhattan da Cult
Sigaretta. Sigarette. Fumo. Accendini. E poi alcol. Whisky, bourbon, cocktail. È la New York degli anni Sessanta, cari amici, siamo in Madison Avenue a Manhattan, nella celebre agenzia di pubblicità Sterling Cooper. Cioè l'ambiente di "Mad Men", il nuovo serial che il canale satellitare Cult ha cominciato a programmare da metà marzo (seconda e terza serata il martedì, ma con varie riprogrammazioni in settimana). Per capirci: viste le prime quattro puntate, questa fiction sembra di quelle epocali. Per la bravura degli attori, in cui spicca Jon Hamm, il cinico capo dell'agenzia; e per l'intensità della sceneggiatura (non per niente la serie è ideata dall'autore e produttore dei "Soprano", Matthew Weiner). Ma soprattutto per il modo in cui si ricrea il clima d'epoca. La campagna di Kennedy sullo sfondo, la precisione degli oggetti, le macchine per scrivere d'antan, i vestiti così perfettamente vintage, le acconciature idem... E poi una scrittura in cui a volte gli attori inanellano battute formidabili, e altre volte invece restano lì allibiti perché nella vita reale succede che si resta effettivamente allibiti (con conseguente figura da fessi). Insomma: cinismo, sesso, confidenze fra donne che si passano "L'amante di Lady Chatterley" come una rarità porno, frustrazioni, trionfo del mercato, mors tua vita mea: un'anticipazione dell'inferno. Solo che il nostro inferno è privo di grassi e di veleni. Allora, fra un adulterio e una canagliata professionale, l'inferno era naturalmente pieno di fumo. (P S. Bisognerà seguire con attenzione il canale Cult, perché a occhio sembra un notevole esperimento di evoluzione televisiva).
L'Espresso, 10/04/2008
Il governo Letta-Letta
Largo al governo del pareggio, l'ultima trovata inciucista, con Walter Veltroni, il buonista, che continua a ripetere correttamente che chi ha un voto in più governa, altro che storie, e il Cavaliere trionfante, che ha assunto la veste del padre di famiglia preoccupato, e predica sobrietà quasi prodiana, pronto, secondo un pesce d'aprile, a cooptare Massimo Cacciari e Mario Monti. Già, il filosofo sindaco di Venezia, magari con barzellette annesse: «Com'è tua moglie a letto?». «Mah, c'è chi ne dice bene, c'è chi ne dice male...». Mentre in realtà questo è il momento dell'incertezza, ed è per questo che vengono fuori le strategie che una volta si sarebbero dette, da destra, "consociative". Il governo meraviglioso, secondo l'area terzista e compromissoria, degli ottimati, dei poteri forti, delle stupende leccate reciproche. Gianni Letta, un uomo di Stato! Enrico Letta, suo nipote! Il governo Letta-Letta, che sciccheria mondana! Da far fremere le Angiolillo e le Verusio, e i salotti e i party e gli happy hour, in un tripudio bipartisan. Eppure come si può dimenticare che è sempre la solita storia del "governo dei migliori"? Quella che periodicamente rispunta fuori in un paese che non vuole saperne di conflitti, regolati o no, e che preferisce il concordato, i lodo, il compromesso più o meno storico, la solidarietà, la garanzia, quell'area, come scrisse ripetutamente il bocconiano Mario Monti, corteggiato da Veltroni e indicato da Berlusconi, che ha ben presente quali sono le riforme da fare, al di là della destra e della sinistra. E mai nessuno che ricordi che il governo dei migliori, come scrisse ripetutamente Norberto Bobbio, «è una vecchia truffa reazionaria». E, se non si vuole essere accusati di ideologia, o di sinistrismo, di radicalismo deteriore e di mancanza di patriottismo e di identità nonché di orgoglio nazionale, occorrerà ricordare che non ci sono ricette condivise. Queste sono astrazioni. Si potranno condividere vaghe idee sulla riforma liberale del mercato del lavoro, o sulla riforma delle aliquote fiscali, ma poi ogni misura va parametrata sui dettagli. E sui dettagli casca l'asino. Sempre. E allora bisognerà spiegare, se proprio ci fosse la disgrazia del pareggio, che Berlusconi è stato ingordo, non ha avuto la pazienza civile di impegnarsi in una semplice riforma elettorale. E quindi, chi è causa del suo mal, con quel che segue. Insomma, se esce il segno del pareggio, altro che pensare ai Montezemolo, ai Marchionne, agli ottimati: non possiamo immaginare che l'unica soluzione per l'Italia è il governo di Dagospia. (O forse sì: ma allora ditelo, e che non sia solo un gossip elettorale).
L'Espresso, 10/04/2008
La casta dei supermanager
Siccome molti di noi sono moderni, disincantati, aperti al mercato, fautori della concorrenza e confidenti nella competitività e nell'innovazione, non c'è nessuna ostilità verso i grandi emolumenti dei manager, ovvero dirigenti industriali, finanziari e bancari, attivi nei settori tradizionali o nei settori del terziario più o meno avanzato. Figurarsi: vale per tutti il paradigma con cui se qualcuno si scandalizza per lo stipendio di Ibrahimovic, come a suo tempo di Maradona o Platini, e auspica la moralità del calmiere, gli si risponde a brutto grugno: guarda che se in campo ci vai tu, quei soldi non te li danno. Dopo di che, capita fra le mani un editorialino non firmato del "Sole 24 Ore", non proprio un quotidiano ostile al capitalismo e alle imprese, che domenica 30 marzo, a pagina 10, scrive: «Il 2007 è stato un anno d'oro» per i vertici aziendali. «Tra super-stipendi, bonus e stock option, i top manager di banche, industrie e imprese di servizi hanno messo in cassa cifre da capogiro, spesso meritate ma, in alcuni casi, anche molto distanti dal valore creato per gli azionisti». Ah, però. Il quotidiano della Confindustria si riferisce a una tabellina pubblicata il giorno prima, sabato 29, in cui a pagina 37, in apertura della sezione "Finanza e mercati", si riportava la classifica provvisoria delle retribuzioni manageriali. Classifica interessantissima, che vede al primo posto Matteo Arpe (37 milioni e mezzo lordi), l'ex amministratore delegato di Capitalia, uscito dalla banca dopo una brusca rottura con il secondo della classifica, Cesare Geronzi (24 milioni), seguito dai due ex Telecom Riccardo Ruggiero e Carlo Buora (rispettivamente 17 e quasi 12 milioni di euro). Il quotidiano diretto da Ferruccio de Bortoli è un solido esempio di professionalità giornalistica, e spiega il perché e il percome di tanti soldi. Qui c'è una buonuscita, qua un bonus, qui una stock option, poi una liquidazione, gli incentivi all'esodo, il compenso straordinario, il premio alla carriera, il patto di non concorrenza: insomma, c'è sempre una spiegazione a far capire perché i primi cinque della graduatoria hanno incassato 102 milioni di euro, contro i 58 dei Top Five nel 2006. Da cui si capisce che c'è una certa inflazione anche per i manager, in primo luogo, e poi che in realtà, senza il premio per le fusioni, per le integrazioni, le acquisizioni e compagnia bella, i manager devono accontentarsi, nel senso che in testa alla classifica provvisoria si situa Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fiat e della Ferrari (poco più di 7 milioni di euro) davanti a Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat poco meno di 7 milioni; (vedere inchiesta a pagina 154). Che dire? Boh. "Il Sole 24 Ore" commenta con una frasetta al cianuro: «Anni fa si diceva che il problema italiano era nel considerare il salario una variabile indipendente: oggi la stessa questione sembra porsi per i manager», valutando l'aumento dei compensi in relazione al segno meno che caratterizza l'andamento della Borsa. Vero è che Marchionne e Montezemolo hanno alle spalle il risanamento della Fiat e i successi della Ferrari. Ma vero anche che ci sono dirigenti che hanno praticato soprattutto il modulo di Woody Allen "prendi i soldi e scappa". Catastrofiche gestioni delle ferrovie si sono tradotte in buonuscite sensazionali; tragiche corresponsabilità in casi penosi come quello dell'Alitalia hanno visto correre stipendi da fiaba. E allora qui non è certo il caso di essere moralisti, né di stracciarsi le vesti, perché siamo tutti modernissimi e competitivi e aperti e bla bla. Ma con tutti i pomposi codici etici che sono stati approvati nelle aziende, ci fosse mai stato qualcuno che avesse rispolverato qualche vecchia usanza dell'ultraliberista economia americana, dove in certe società la retribuzione dei top manager non doveva superare limiti prefissati. Si potrebbe stabilire che la remunerazione di un dirigente, fusioni o no, buonuscite e stock option comprese, non ecceda, che so, il multiplo di cento volte il salario di un usciere. È troppo poco? Il mercato disapproverebbe? I sostenitori della libertà d'impresa si straccerebbero le vesti? Ma ci sarebbe una soluzione alternativa, allora: dopo avere tanto blaterato di trasparenza e concetti collegati, non si potrebbe connettere il compenso dei manager al rendimento aziendale? A obiettivi, fatturati, efficienze da raggiungere? Perché il mercato è bello e fa bene: ma ormai sembra che il mercato debba agire a senso unico. E questo non è bello, questo non va bene. A proposito della casta: la sensazione è che non ci sia solo la casta politica. Qui le caste prosperano, altroché: e di Maradona e Platini se ne vedono pochini.
L'Espresso, 17/04/2008
Quanti Grilli parlanti
Noi di questa rubrica non abbiamo niente contro Renzo Rabellino, leader del grande movimento No euro e candidato premier per la benemerita Lista del Grillo, dove sarebbe capolista al Senato un tale Giuseppe Grillo detto Beppe. Ma che la legge sulla par condicio costringa a ripartire i tempi televisivi fra i singoli partiti, e a far subire agli ascoltatori che pagano il canone (e anche a quelli che non lo pagano) conferenze stampa di illustrissimi sconosciuti, costituisce una delle distorsioni più forti 1) del cosiddetto servizio pubblico, 2) del sistema proporzionale. Perché è ovvio che la legge sulla par condicio in tv aveva un senso nel 2006, quando c'erano di fatto solo due coalizioni, e quindi anche di diritto andavano in televisione, nei talk show, uno di destra e uno di sinistra. Ma adesso che il sistema maggioritario è stato smantellato, la par condicio ha un unico scopo, ossia tutelarci dallo strapotere televisivo berlusconiano. Con il risultato di ascoltare personaggi bizzarri che pontificano con ragionamenti da assemblea di condominio. E di non aver potuto osservare il faccia a faccia tra il signor B e il candidato W (usiamo queste sigle esoteriche per non infrangere qualche comma della pc, par condicio, legge comunista come si desume dall'acronimo). E come corollario, cari conduttori, e osservatori intelligenti, e critici disincantati, che avete così ben criticato come assurde le regole tassative dei due confronti tra Prodi e Berlusconi, è meglio un confronto con regole rigide o nessun confronto? A risentirci, brava gente, dopo questa campagna del pari e patta, che però ha significato una straripante presenza televisiva del signor B. Ma guarda un po'.
L'Espresso, 17/04/2008
il miracolo? si può fare
A poche ore dal voto il candidato Walter Veltroni, leader del Partito democratico, è sereno, tranquillo, rilassato. Come sta? «Benissimo. Godo di una forma fisica inspiegabile». Eppure ha completato il tour delle cento province, ha preso parte a riunioni su riunioni, ha inseguito Silvio Berlusconi per un match televisivo che il capo del Pdl non aveva nessuna voglia di fare: insomma, avrebbe il diritto di essere esausto. Oltretutto, i sondaggi danno una situazione statica delle preferenze degli italiani. Se il Pd avesse davvero finito la benzina, si andrebbe verso una soluzione elettorale scontata. Un esito fisiologico, prevedibile, previsto, senza sorprese. Solo che Veltroni non ci crede. Veltroni è fiducioso. Anche in questi ultimissimi giorni di campagna, Veltroni è andato diritto per la sua strada, senza prestare orecchio a cassandre e annunci funebri. Perché è convinto che si possa ricostituire un rapporto con la politica. Nel nome della razionalizzazione della spesa pubblica, di costi politici dal volto umano. Candidato Veltroni, lei combatte non solo contro la destra, ma anche contro la ventata di antipolitica, di delusione, di disincanto che minaccia di tenere gli elettori lontani dalle urne. «Facciamola diventare ragionevole, la politica italiana. In base al nostro "decalogo" vediamo che si può risparmiare un miliardo di euro, riducendo il numero di parlamentari, tagliando le retribuzioni a un livello europeo, segnalando anche simbolicamente la fine dei privilegi. Dopo di che, si tratterà di vedere se a destra ci sono progetti simili o solo chiacchiere. E quindi affidare la valutazione su questi progetti ai cittadini elettori, fuori dalle astrazioni dei sondaggi». Però ce lo deve spiegare, perché non crede ai sondaggi. «Non è che non ci credo. Solo che a ogni elezione i sondaggi sbagliano, dopo di che ci si dimentica che hanno sbagliato e su che cosa hanno sbagliato. Le indagini demoscopiche si basano su una scienza quantitativa, deterministica, ma in ogni espressione del consenso c'è un margine di imponderabilità. La politica smuove settori profondi della società e delle percezioni collettive, dando luogo a spostamenti che non sono sempre registrabili con nitidezza». Ragionevole, ma di qui a negare che il Pdl sia apparso in vantaggio netto e stabile fino al canonico blackout sondaggistico delle ultime due settimane... «E che cosa dicevano gli ultimi sondaggi prima delle elezioni del 2006? Che il centrosinistra era in vantaggio di sei punti, per tutti i sondaggisti all'unisono. In realtà i sondaggi non riescono a intercettare una diffusa stanchezza per i lessici del passato, e quindi l'apprezzamento per il nuovo». Dove il nuovo sarebbe il Pd e il passato Berlusconi? «Provi lei a spiegare perché tanta gente è venuta nelle piazze e nei teatri, costringendoci a uscire dalle sedi prefissate. La ragione per cui abbiamo incontrato tanto entusiasmo, tanta simpatia, e suscitato tanta attenzione. Nel Nord, nel Sud, dappertutto. Commenti unanimi, mai vista tanta gente. A Varese e a Milano come a Lecce o a Matera». Si è sentita echeggiare molte volte la sentenza di Pietro Nenni, «Piazze piene, urne vuote». «Vorrei sapere che cosa avrebbero detto, gli antipatizzanti, se ci fossero state le piazze vuote. Ci avrebbero garantito urne ancora più vuote? No, c'è stata una mobilitazione significativa perché è stata percepita la novità della nostra campagna. Lo abbiamo visto negli spazi occupati dai simpatizzanti, dalla gente comune nelle città, ma anche nelle dimostrazioni spontanee, nei piazzali degli autogrill, davanti al pullman». Che bilancio si può trarre allora della decisione di correre da soli? Si è trattato di una innovazione politica che interrompeva lo schema precedente, e che poteva risultare traumatica. «Avevo cercato di fare un calcolo sugli effetti di quella decisione, valutandone costi e benefici. Ciò che non avevo previsto è stato il senso di liberazione che ciò ha determinato. Come se l'andare da soli, con un proprio programma, sulla scorta delle proprie idee consentisse finalmente di fare ciò che prima non era riuscito, di recidere mediazioni estenuanti, di andare dritti al punto». Probabilmente perdendo una parte di elettorato tradizionale, quello sicuramente di sinistra. «Sarà un caso, ma non appena abbiamo chiuso il rapporto con la sinistra radicale le piazze si sono riempite di giovani. E gli applausi più convinti sono sempre venuti sulle parti del programma dove parliamo con maggiore severità: sulla sicurezza, sui doveri». I critici più a sinistra la considererebbero la prova che il Pd è un partito di centro. «Siamo un partito riformista, come in altri Paesi europei. Ed è proprio questa caratteristica che innova l'ambiente politico del nostro paese». Per la verità Berlusconi negli ultimi giorni dice che siete rimasti gli stessi e ha rispolverato l'armamentario anticomunista. «Per la verità è la destra a essere rimasta senza armi. Ci ha provato, a ritirare fuori la polemica contro il fattore K, contro Stalin, la menzogna rossa, le doppie verità dei comunisti: ma non funziona, è solo un dagherrotipo, non la fotografia della situazione reale». E nel paese reale che cosa rappresenta il Pd? «Diciamo in primo luogo che con la decisione di correre da soli noi abbiamo realizzato, esclusivamente con la politica, un pezzo di riforma istituzionale. Il governo che uscirà dalle elezioni sarà un governo di tipo europeo, in grado di governare per la legislatura. In più si è realizzato un passaggio generazionale: io ho l'età che hanno mediamente i leader politici europei. E questo è un elemento politico, non solo anagrafico». Questa bisogna spiegarla, perché non è intuitiva. «All'Italia in tutti questi anni, tranne che nel 1996, è mancata l'idea e la prospettiva di elezioni capaci di aprire un ciclo politico. Quello che è avvenuto con Reagan, la Thatcher, Clinton, Blair. Quando si va a votare e si capisce che non si vota solo per un uomo, ma per aprire una fase». Lei vuole insinuare che non si va da nessuna parte con un leader come Berlusconi che a fine legislatura avrebbe 77 anni. «Voglio dire che dobbiamo uscire dalla condizione frustrante in cui l'alternanza significa la coazione a votare contro il governo uscente. Perché il lavoro da fare sull'Italia è impressionante, richiede anni di impegno, dato che ci sono da smantellare poteri illegali, assetti corporativi, barriere, protezioni, rendite, privilegi. E quindi è bene che la politica abbia davanti a sé un orizzonte temporale adeguato». Alcuni sostengono che la linea del Pd sarebbe stata più efficace se il "correre da soli" fosse stato vero fino in fondo. Cioè senza l'accordo con Antonio Di Pietro e l'Italia dei valori. «No, non capisco. L'Idv ha sottoscritto e firmato un programma, e nel prossimo Parlamento ci sarà un gruppo parlamentare unico. Questo è un cambiamento reale. Nella legislatura scorsa c'erano 14 partiti. Un gruppo unico significa: niente anticaglie compromissorie come i vertici di maggioranza, niente cerimonie, liturgie, mediazioni; quindi linearità rispetto alla volontà degli elettori. Tanto per dire, Di Pietro ha firmato un programma in cui si dice che si possono certamente disporre le intercettazioni telefoniche, per ragioni di sicurezza, ai fine delle indagini, ma il magistrato che le dispone è responsabile che non finiscano sui giornali. È garantismo questo o no?». Vediamo quali sono i punti davvero critici per il Pd. Lei ha fatto un ampio viaggio nel Nord del paese. Dove non si direbbe che l'atteggiamento verso la sinistra sia proprio favorevole. «La mia impressione è invece che sia caduto un muro. Vede, Romano Prodi ha fatto un grandissimo lavoro: è un uomo di Stato, ha risanato i conti pubblici per la seconda volta. Chi nega questo risultato fa della propaganda. Il suo problema è che non aveva una maggioranza riformista coerente. C'era una parte dell'Unione il cui obiettivo era poter dire "anche i ricchi piangono", in seguito alle tasse. Invece il nostro compito consiste nell'investire su chi produce ricchezza: la piccola e media impresa, l'agricoltura, l'artigianato e il commercio. Questa parte di paese vuole un paese più semplice e dinamico. Vuole uno Stato più rapido e più lieve». A proposito di punti deboli, anche la classe operaia si orienta in maggioranza a destra, dicono le ricerche. «Cerchiamo innanzitutto di sfuggire ai luoghi comuni. Secondo alcune interpretazioni i lavoratori erano orientati a una politica conflittuale, contestativa: e poi si è visto che all'80 per cento hanno votato sì al pacchetto del welfare. Non ci vuole molto a capire che nelle aree più dinamiche del paese imprenditori e lavoratori dipendenti condividono lo stesso modello culturale, si sentono vicini, magari si scontrano sui casi concreti ma trovano soluzioni funzionali allo sviluppo delle imprese. Per questo oggi ci vuole un patto tra i produttori e occorre estendere la concertazione alle piccole e medie imprese». Nella realtà c'è la precarietà del lavoro. «Il primo provvedimento legislativo che presenteremo sarà proprio orientato a intervenire su questo problema. Che viene spesso sottovalutato come una specie di fattore fisiologico del mercato del lavoro: fino a quando non capita, come è capitato a me, di incontrare una signora, con ottime qualità culturali e professionali, una donna che ha alle spalle 27 anni di contratti da precaria. E allora non c'è liberalizzazione che tenga, ci sono drammi personali, difficoltà esistenziali. Sarà il caso di affrontare anche questa sfera della modernizzazione, o no?». Quali sono i punti di maggiore importanza incontrati e verificati durante questa campagna elettorale, nella consapevolezza dei cittadini? «Il primo punto è che ci troviamo davanti un gigantesco problema nel sistema formativo, che non funziona. Perfino l'edilizia delle scuole è ottocentesca, la scuola è concepita burocraticamente come un ufficio, non si è diffusa l'idea dell'educazione permanente, in quanto continuo adattamento a condizioni mutate. Vogliamo dare ai ragazzi la possibilità di usare la scuola come uno strumento flessibile, tale da migliorare le loro qualità di base, oppure al contrario come uno strumento livellatore, in cui se sei bravo in scienze ti castighiamo in storia? Il fatto è che non serve una scuola punitiva, serve una scuola capace di selezionare i talenti e svilupparli». Il fatto è che abbiamo visto riforme adottate e poi smantellate a ogni cambio di governo. Come il caso dell'esame di maturità che a forza di cambiamenti estemporanei è diventato una lotteria. «Vero, è diventato un terno al lotto. Non si possono riformare le riforme a ogni legislatura. Ma per restare ai grandi temi generali, insieme al sistema dell'istruzione c'è in primo piano il tema della riconversione ambientale dell'economia. Non sono esoterismi: sono cose che riguardano la vita della gente, che ne è cosciente. Energia, fonti alternative, qualità dell'aria, impronta ecologica dello sviluppo, la nuova agricoltura come sistema delle imprese agricole su un territorio da rispettare e da valorizzare: fanno già parte del nostro orizzonte di comportamenti politici». Intanto però il territorio è devastato, basti pensare alla tragedia dei rifiuti a Napoli. E sull'intero paese incombe la questione del Sud, che continua a divaricarsi dal resto del paese. «Anche il Mezzogiorno è un gigante imbrigliato, ma dobbiamo evitare di collocarlo sotto una etichetta che lo fissa per sempre. Anche il Sud cambia. Oggi gli imprenditori denunciano il pizzo, e le associazioni imprenditoriali sanzionano con l'espulsione chi lo paga: la società è più strutturata, anche se è ancora compressa dal potere criminale. Per questo ho drammatizzato l'appello rivolgendomi ai mafiosi: non votate per noi perché noi vogliamo distruggervi. Un'espressione troppo forte, ha commentato qualcuno. Ma come si fa, ragionevolmente, a far crescere il Sud senza distruggere la mafia?». Qualcuno le rimprovera un atteggiamento troppo morbido. Walter deve cominciare finalmente a menare, è il senso di molti discorsi. Come quello che ha fatto Pier Luigi Bersani. «Se si vuole un giudizio sulla destra, è presto detto. La destra non può governare. L'ha già fatto, ha governato e non ha fatto nulla, se non alcuni puntuali provvedimenti di interesse personale. Quanto all'alleanza in sé, il Pdl più la Lega è un impasto di culture che non possono stare insieme. Secessionisti e nazionalisti, liberisti e protezionisti. Logico che vengano fuori pasticci su tutto, dall'Alitalia al voto agli immigrati. Anche con aspetti grotteschi, come Umberto Bossi che minaccia per l'ennesima volta di imbracciare le armi, a cui risponde Raffaele Lombardo, candidato alla presidenza della Regione Sicilia, dichiarando che anche i siciliani caricheranno i loro fucili». Con la copertura di Berlusconi che fa da garante. La gente guarda lui, non i suoi alleati. «Ma nella realtà questa destra che cosa offre? Minacce, tensione, totale assenza di senso delle istituzioni. Lo spettacolo di due alleati che minacciano fucilate, forse reciproche, verrebbe da pensare, è il lato bizzarro di una inadeguatezza civile, oltre che di contraddizioni politiche insanabili». Conclusione, lei è convinto che si può vincere. «Guardi, al "Democratic Day" nei gazebo sono venuti sei milioni di persone. È stata una mobilitazione grandissima, simile a quella delle primarie. Le indagini demoscopiche hanno mostrato l'esistenza di un terzo di indecisi e astensionisti, che tuttavia in maggioranza sono tendenzialmente dalla nostra parte. E, soprattutto, il paese sente che non può continuare così. Sì, possiamo farcela». n
L'Espresso, 23/04/2008
A notte colta
Mezzanotte, ora dei vampiri. E invece il martedì in terza serata, su Raitre, appare la ragazza. Cioè Giovanna Zucconi, con il programma "Gargantua", trasmissione esplicitamente e programmaticamente culturale. Oddio, la cultura, dice uno. Voi sapete che noi siamo contrari alla cultura in tv. Saremmo per l'innalzamento culturale della tv in generale, non a favore dei giardinetti di cultura in orari impossibili. Eppure. Eppure, una volta tanto, siamo rimasti lì come allocchi, fin verso l'una, incantati dalla lieve qualità del programma e della conduttrice. Programma difficilissimo, che mette insieme libri e spettacolo, teatro, musica, intrattenimento, e per l'appunto "tutto quanto fa cultura". Che fra l'altro conteneva come hit una notevole intervista al Ayaan Hirsi Ali, l'autrice del libro che ha ispirato il provocatorio film di Theo Van Gogh "Submission", dedicato alla repressione delle donne nella realtà islamica. È difficile indovinare i tempi della cultura in tv. Se vai troppo lento scoraggi gli ascolti. Se vai troppo veloce tutto diventa uno slogan insopportabile. Se chiami Susanna Tamaro ti senti costretto a parlare del suo ultimo romanzetto, "Luisito", con la storia del pappagallo. E invece la Zucconi e i suoi autori hanno infilato un ottimo dialogo sulla scuola fra la scrittrice e Andrea Bajani; e hanno invitato poi il matematico "impenitente" Piergiorgio Odifreddi a discutere di musica con il pianista Roberto Cognazzo. Se abbiamo capito bene, "Gargantua" è l'esatto contrario del programma-marketta. Si prendono le mosse dai libri, dagli autori, dalle specializzazioni, per innescare tv riflessiva. Ottimo modo di lavorare, ottimo giornalismo culturale.
L'Espresso, 23/04/2008
Trisilvio
Nella serata di lunedì, mentre in televisione apparivano i numeri monumentali conquistati dalla macchina berlusconiana, e cominciava a diventare chiara una vittoria politica vistosa, Silvio Berlusconi abbandonava le vesti del "joker", il fantasista del gesto dell'ombrello e delle boutade sulla bellezza delle donne di destra, e provava a interpretare qualcosa di simile al ruolo dello statista. Il trionfo elettorale consentiva in effetti esercizi di understatement elegantissimi. Secondo i suoi sostenitori, dietro una lunghissima cravatta rosa Gianfranco Fini dissimulava l'euforia, felicissimo comunque di avere azzeccato per la prima volta una decisione politica strategica. Eh già, si capisce: ancora poche ore prima, nei minuti degli exit poll pazzi, si poteva dare ragione ai malevoli che lo avevano accusato di avere svenduto An per uno strapuntino alla Camera. Adesso, invece, aria di contenuta e sobria soddisfazione. Corretta semmai psicologicamente dall'essere stato confinato nel ruolo del comprimario, o del servitor cortese, in seguito all'avanzata impetuosa e "barbarica" della Lega. Tuttavia è vero che l'aria euforizzante della vittoria e la sicurezza sull'entità numerica della rappresentanza al Senato consente di mettere per il momento nel cassetto il sospetto che la grande alleanza di centrodestra sia in realtà un coacervo difficilmente gestibile. Un grande conoscitore della realtà italiana profonda, Giuseppe De Rita, sostiene che alle forze del Pdl e più in particolare alla Lega riesce più agevole contemperare sul piano locale «comunità di interessi» apparentemente in conflitto: «Il caso Malpensa è esemplare. Qualcuno deve contemperare le esigenze dei piloti d'aereo con quelle degli inservienti dell'aeroporto. La Lega ci riesce, il Pd no». Eppure l'eclettismo del centrodestra è acrobatico. Se si tratta di una vittoria «bavarese», come sostiene Stefano Folli, è una Baviera "de noantri". In altri tempi si sarebbe detto che il carrozzone berlusconiano non può, nel lungo periodo, reggere le proprie contraddizioni. Conta poco avere firmato un programma. Riesce difficile capire come possono convivere, al momento delle future scelte di governo, i vecchi liberisti e liberali di Forza Italia e i neoprotezionisti guidati da Giulio Tremonti. Come si potrà liberalizzare l'economia e le professioni avendo davanti l'opposizione di Fini, portatore e rappresentante di un trito pensiero nazionalcorporativo. E ancora: il secessionismo "bavarese" della Lega deve fronteggiare le clientele vecchie e nuove pilotate dall'autonomista Raffaele Lombardo, che da sempre chiede «fiscalità di vantaggio» per la Sicilia. Ma chi vince, almeno nell'immediato, ha sempre ragione. Può esibire sorrisi e coscienza istituzionale. I problemi sono dall'altra parte. Il miracolo possibile di Veltroni è avvenuto, ma purtroppo è avvenuto a rovescio. Verso la mezzanotte del "Black Monday", il numero due del Pd, Dario Franceschini, commentava con una desolazione perplessa: «Mah. È difficile capire che cosa potevamo fare in più per convincere il Paese». In realtà nel Pd, e si capisce, sono tutti sotto choc. Fino alle ultime ore, e fino agli exit poll, era circolata la sensazione di un possibile testa a testa, una conclusione al fotofinish. Non era soltanto un'illusione mediatica, la fiducia nella profezia che si autoavvera, il rilancio su sondaggi sempre in crescita che si poteva tramutare in una rimonta effettiva. Veltroni e gli uomini a lui più vicini ci avevano creduto davvero e trasmettevano sicurezza. Avevano visto le piazze piene del Nord, i teatri stracolmi, la gente entusiasta; e folle immense nel Sud, giovani, mobilitazioni mai viste. E allora? E allora, dice Ilvo Diamanti, risulta ancora più vera la registrazione del 2006 che esistono «due piccole Italie», di formato differente e di ispirazione opposta, ma il cui perimetro per ora non è scalfibile. Anche negli ultimi sondaggi si poteva notare che le appartenenze ai blocchi di sinistra e destra erano «granitiche» (il sondaggista Piepoli dixit). La sconfitta del Partito democratico, se ne deduce, viene da lontano. Secondo i funambolismi culturali di Giulio Tremonti, che affonda il coltello nelle carni del governo uscente, la responsabilità è tutta di Romano Prodi, colpevole di non avere capito i rischi fatali della globalizzazione, e anzi, di essere stato uno dei colpevoli «di una globalizzazione fatta in otto anni anziché in decenni». Al di là delle grandi visioni geopolitiche e geoeconomiche, il tentativo di fare dimenticare le asprezze del governo uscente era difficile. «Veltroni era inseguito dall'ombra lunga di Prodi», dice Giovanni Sartori. Cioè dall'impopolarità determinata dalle scelte del risanamento. «Soprattutto la prima legge finanziaria del governo dell'Unione», ha commentato il direttore del "Sole 24 Ore" Ferruccio de Bortoli, «ha colpito e quindi inimicato ceti, come certi settori del lavoro dipendente qualificato, che si erano schierati per il centrosinistra». Il risanamento, come aveva ricordato il governatore Mario Draghi, era avvenuto tutto dal lato delle entrate. La Confindustria era convinta che la bonifica dei conti non fosse strutturale, ma dipendesse largamente dal ciclo economico. In meno parole: tasse, tasse, tasse. Una redistribuzione sostanzialmente fallita, almeno nella percezione popolare, con la convinzione che alla fine il governo di centrosinistra ha dato i soldi alle imprese, con il taglio del cuneo fiscale, senza riuscire a farli vedere ai lavoratori: «Quando i poveri danno i soldi ai ricchi il diavolo balla», aveva commentato ironicamente un anziano socialista in una lettera ai giornali. E una sostanziale sottovalutazione del costo della vita in aumento, e delle tariffe in crescita. Veltroni ha sempre riconosciuto con lealtà che il lavoro di Prodi, ancorché impopolare, era stato quello di un «uomo di Stato». Ma l'uscita stessa di scena, da parte di Prodi era stata una cerimonia crepuscolare, venata di malinconia. Finiva una fase. Uno dei protagonisti di quindici anni della vita politica italiana se ne andava verso la sua condizione di «nonno». Una certificazione precoce di senilità, mentre il quasi settantaduenne Silvio Berlusconi sfidava anche nell'abbigliamento le convenzioni della politica classica, doppiopetto scuro e chissà cosa sotto («Ahò, me sembra il cantante dei Dik Dik», sarebbe stato il commento confidenziale di "Walter" ai suoi collaboratori). Ma soprattutto il punto di svolta era stato la grande "rupture" di Veltroni, il cambiamento radicale di schema politico. Per quindici anni, Arturo Parisi in veste di ideologo e Romano Prodi come braccio operativo avevano fatto tutto il possibile, e anche qualcosa oltre il possibile, per tenere insieme l'alleanza "larga" del centrosinistra, estesa fino a Rifondazione comunista e a tutta l'area della sinistra alternativa. Con un solo gesto, e dopo avere cercato una muta intesa con l'interlocutore, il non più demonizzato Berlusconi, Veltroni ha azzerato il "format" precedente e ha annunciato lo slogan del "correre da soli". Non era l'inciucio, e nemmeno la premessa del "Veltrusconi": si trattava semplicemente di una iniziativa lucida, ma che puntava su una sola carta: far dimenticare Prodi, trasformare il Pd nel "partito a vocazione maggioritaria" che Veltroni aveva in mente almeno da un anno, reinventare un partito di centrosinistra con l'ambizione di sfondare al centro. Legittimato dal voto delle primarie, il leader del Pd sapeva che si trattava di un azzardo totale. Ed è stato anche sfortunato: il mancato accordo fra Berlusconi e Pier Ferdinando Casini ha ricostituito un filtro interposto al centro del sistema politico, con l'Unione di centro che ha drenato anche elettori cattolici del centrosinistra, preoccupati per il reclutamento della pattuglia radicale, e non più garantiti nemmeno dal «cattolico adulto» Prodi. Ma per tentare in ogni caso lo sfondamento al centro, Veltroni aveva l'obbligo di rivolgersi credibilmente ai ceti sequestrati da Berlusconi e dalla Lega. E qui sono cominciati i guai. Perché il leader del Pd ha condotto una campagna brillante, ma non è riuscito a rivolgere un messaggio consistente e convincente alle imprese, al Nord, agli imprenditori, alle partite Iva, a quella che di solito si definisce la parte più moderna e produttiva della società italiana. Le candidature di Colaninno e Calearo hanno avuto l'aspetto di fioriture effimere, rondini senza primavera. Adesso si capisce che le piazze piene erano un'illusione percettiva. Ma occorre mettere a fuoco le ragioni di questa illusione. Infatti Veltroni è riuscito a trasmettere segnali coerenti sul piano simbolico e dei valori: la laicità, il rispetto delle coppie di fatto, la tolleranza, la cultura, l'apertura; e poi i valori vecchi ma stabilmente al centro della mentalità della sinistra riflessiva, ossia la convivenza civica, la lealtà repubblicana, la fedeltà costituzionale. Tutto questo però è servito soprattutto a mobilitare il consenso dei sostenitori tradizionali, senza scalfire la rocciosità delle forze avverse. «Veltroni ha fatto una buona campagna sui simboli», commenta lo storico Giuseppe Berta, che ha appena pubblicato da Mondadori un libro sul Nord industriale che tutti gli esponenti politici del Pd farebbero bene a leggere con attenzione, «ma si dà il caso che in questo momento fossero in gioco gli interessi». Quindi al Partito democratico è riuscita almeno parzialmente una mobilitazione politica che ancora una volta ha capitalizzato la paura antiberlusconiana; ma non c'è stato un messaggio davvero mobilitante e trasversale sulla modernizzazione del Paese. È mancata quel senso di «modernizzazione bruciante» di cui aveva parlato uno dei padri del Pd, Michele Salvati, e che sarebbe stato necessario per garantirsi il via libera degli establishment. Berlusconi parlava del bollo auto, commenta il direttore di "Quattroruote", Mauro Tedeschini, «mentre Veltroni parlava dei diritti, dei ricercatori, dell'università, dei sentimenti civili; e non ha mai detto una parola sul costo della benzina, tanto per dire». Tutto molto elevato ma sfasato rispetto ai ragionamenti terra terra dell'avversario («Parliamo dei precari», gli chiede Enrico Mentana a "Matrix"; «No, parliamo degli anziani», risponde Berlusconi, mostrando una significativa consapevolezza dei target elettorali e demografici). Tuttavia a questo punto la sconfitta del Pd è una sconfitta multipla, e sono da valutare con attenzione tutte le sue possibili implicazioni. A cominciare dalla più sanguinosa: vale a dire l'amputazione della sinistra alternativa dal sistema politico, con il tragico fallimento della Sinistra Arcobaleno. Un fallimento che ricade largamente sulle spalle di Fausto Bertinotti, già partecipe a suo tempo della liquidazione del Psiup (che non fece il quorum alle elezioni del 1972, e si guadagnò la sigla di "Partito scomparso in un pomeriggio"). Ma il Psiup era un partito del 2 per cento. La sparizione traumatica della Sinistra Arcobaleno significa la mancata rappresentanza di un abbondante 10 per cento dell'elettorato e di un partito importante, ancora dotato di strutture sul territorio, di organizzazione e di militanti impegnati nel lavoro politico e nelle istituzioni locali come Rifondazione comunista. E implica conseguenze ancora non prevedibili per il Pd. In questo momento molti sono propensi a riconoscere a Veltroni un ruolo decisivo nella semplificazione del sistema politico: peccato, aggiungono i critici, che la semplificazione si sia realizzata con l'abrogazione di un pezzo della sinistra. L'abolizione della sinistra critica non era ovviamente nelle intenzioni di Veltroni. Anche perché essa ha una conseguenza immediata. Comporta infatti una riconsiderazione della strategia complessiva del Pd. «Hanno fatto un deserto e l'hanno chiamato un partito», sogghigna a denti stretti qualche vecchio compagno di Rifondazione. Si pone infatti davanti al Pd una domanda semplice e imbarazzante: ma il Pd è un partito competitivo? Oppure è un'Italia geneticamente di minoranza, a cui è preclusa proprio l'intenzione maggioritaria che si era autoattribuito? «Veltroni ha aperto il vaso di Pandora», dice Salvati. Traduzione: ha avuto coraggio, ma ha scatenato forze che forse a sinistra nessuno è in grado di controllare. «Ma non vorrei che adesso cominciasse la caccia al leader sconfitto, perché non possiamo permetterci una nuova ondata di masochismo». E allora? Nessuno in questo momento se la sente di passare all'attacco. Ma nelle prossime settimane, quando apparirà chiaro il deficit strategico del Pd, privato anche di un raggio di alleanze possibili, occorrerà mettere a fuoco una risposta. Si parlerà di fare un congresso. Ma intanto, dice Gianfranco Brunelli, anima del "Regno" e prezioso tessitore di relazioni politiche nel mondo cattolico, «prima sarà meglio fare un partito, visto che la struttura del Pd è provvisoria». E poi: riconsiderare i rapporti con il mondo cattolico, proiettarsi sulla riforma elettorale, sull'appuntamento del referendum, sulla tappa delle elezioni europee. Qualcuno dice che, come nei migliori remake, adesso Massimo D'Alema presenterà il conto. Qualcun altro già vede una diarchia "garante", con D'Alema e Marini a coprire Veltroni. Forse mai una sconfitta è stata carica di conseguenze potenziali come questa. Probabilmente il Partito democratico comincia domani. n
L'Espresso, 30/04/2008
Amici suoi
Il colpo da ko è venuto quando sulla prima pagina di un quotidiano di Torino è apparsa, di spalla, una column di Walter Siti dedicata ad "Amici", il programma di Maria De Filippi: «Trionfo di ascolti, mediamente sopra il 35 per cento di share, con vette del 55 verso la mezzanotte». Ostrega. «Era la puntata finale, d'accordo», proseguiva l'ottimo Siti, «ma in tutta la stagione il programma è rimasto intorno al 30, segnalandosi come il maggiore successo di Mediaset». Al che, già, al che, ci siamo inquietati. Mica per niente, ma per noi che siamo critici poco letterari il modenese Walter Siti è il migliore scrittore italiano contemporaneo (vedi "Troppi paradisi", 2006; "Il contagio", 2008). E dunque se un importante scrittore, autore di romanzi «in cui una lucida visione della realtà sociale spesso si sublima, e viene filtrata, da storie intense d'amore omosessuale» (Wikipedia), qualche animo malnato si potrà indispettire perché non gli frega nulla dei programmi di Maria la Sanguinaria (copyright Dagospia), o magari non gli importa un tubo delle intense storie omosessuali, o magari è uno scrittore italiano che detesta che qualcuno venga giudicato migliore di lui. Ma se il grande Walter Siti ci assicura che con "Amici" le famiglie «vogliono dimenticare i rischi di disoccupazione, la cocaina, l'indifferenza e il nichilismo sentimentale che minacciano i loro figli», noi diciamo "chapeau", ci inchiniamo al vincitore Marco Carta, e pronunciamo l'atto di dolore. Mi pento e mi dolgo di avere fatto scattare il pollice sul telecomando ogni volta che appariva "Amici". E giuro sui romanzi di Walter Siti: la prossima edizione, "Amici", lo guardo.
L'Espresso, 30/04/2008
La video tribù
Per scrivere 516 pagine di un libro che si intitola "Contronatura", e che parla di una sovrarealtà, o di una ultrarealtà, che assomiglia alla realtà o eguaglia la metarealtà televisiva, bisogna essere convinti di avere nelle proprie corde la qualità essenziale del capolavoro. Massimiliano Parente ha scritto il voluminoso romanzo che Bompiani manda in libreria a maggio, ed è evidente che ogni pagina, e anzi ogni riga di questo progetto letterario, di un autore 38enne, trasmette l'idea che siamo finalmente in presenza di un'opera d'arte fondamentale, un colossale "Meisterwerk" che guarda alle grandi avanguardie dei decenni centrali del Novecento e a esse si richiama, programmaticamente: nella fluvialità, nell'andamento, nel ritmo, nella perdita del centro e forse anche dell'io, sottoposto alle ingiurie dello zapping. Come dichiara l'autore, «trattandosi di opera d'arte e non di prodotto giornalistico o d'intrattenimento narrativo», non vale la pena di trattarlo come un semplice romanzo a chiave, e cercare di decifrare chi sia Naike Porcella, o Mayara Vita, o Scarlett, o Madame Medusa, o una qualsiasi delle figurazioni che compaiono nel libro, compreso il "Parente" che si sovrappone feticisticamente e con deliberati effetti narcisistici all'autore del romanzo. Sicché, data la mole e l'ambizione, occorreranno letture approfondite e analisi criticamente avvertite per definire lo spessore culturale e letterario di questa prova narrativa. Ma intanto, sembra evidente che "Contronatura" (si racconta di uno scrittore che vuole diventare un autore tv e che per mettersi in luce combatte la tv, ma è solo un pretesto per parlare d'altro) propone una tesi, e una tesi anche eroica, se non si capisce male: vale a dire che la realtà apparentemente contronatura della televisione è l'unica realtà oggi disponibile. È certamente possibile che Parente non approvi affatto questo verdetto. Ma prendiamolo per buono, non foss'altro che per utilità pratica. L'argomentazione infatti è eccitante perché contraddice le tesi a cui più o meno ci si era abituati nell'era televisiva precedente. Vale a dire: fra la società nel suo insieme, cioè fra le immense platee televisive «implose nella privacy» (secondo la definizione del filosofo Carlo Galli) e l'universo televisivo conosciuto si è instaurato da tempo, e probabilmente fin dagli albori della tv negli anni Cinquanta, un rapporto di interazione, in cui l'una e l'altra, società reale e società televisiva, si rafforzano a vicenda. La televisione legge, o meglio "vede", ciò che si manifesta nella società, se ne appropria e lo enfatizza a dismisura, riproiettandolo sulle comunità che si specchiano nel piccolo schermo, in un processo infinito, che porta alla creazione di mostri, al di qua e simmetricamente al di là del diaframma a cristalli liquidi. Questo schema era discretamente affascinante perché consentiva di leggere razionalmente e ragionevolmente l'evoluzione sociale e televisiva. Vedevi i freak della tv, e capivi il processo imitativo che si innescava nella società, che a sua volta rafforzava le identità dei mostri in televisione, in una moltiplicazione senza fine. Ma adesso il paradigma potrebbe essere dimezzato. Esiste soltanto la realtà televisiva. Come nel mito platonico della caverna, le nostre vite sono soltanto pallide ombre gettate dalla luminescenza del plasma televisivo. Il passo avanti è clamoroso, a quanto si direbbe. Secondo questo schema, ogni aspetto della vita reale degrada allora a tenue imitazione della verità. Vero, e forse più vero del vero, è il tatuaggio dei capelli di Silvio Berlusconi sul suo cranio liscio, il lifting e l'esplosione del seno delle ipermaggiorate destinate a una vita da veline e da una sopravvivenza esistenziale a base di markette; veri sono gli ultracorpi che sarà un problema smaltire, a suo tempo, data la produzione inevitabile di diossina nella cremazione. Vero è il linguaggio degradato dal romanesco, «ho dimentigado le parole», il tappo di sughero sulla calvizie, i labbroni da pornostar grazie al filler, gli zigomi in cui si intravedono le protesi, la sessualizzazione iperbolica di qualsiasi ospitata. Non ci si misura più con "competitor" nella realtà quotidiana: ci si confronta con l'unica realtà consentita, il riverbero di uno studio televisivo. E quindi ci si ritrova davanti a un'estremizzazione parossistica della vita, del gioco, della sessualità, dell'erotismo e del godimento: certo, nella vicenda televisiva concreta non si vedono gli «orgasmi spaventosi» che Madame Medusa descrive in via epistolare rivolgendosi al «mio adorato Parente». Ma è come se ogni immagine televisiva fosse un'allegoria in minore dell'esplosione erotica a cui il Parente reale si riferisce. Sottinteso: dietro le immagini di ogni ragazza che compare in scena, con un abitino striminzito, uno straccetto che lascia vedere quasi interamente le cosce e le tette, dietro la sineddoche del reggiseno in vista di Simona Ventura in "X Factor", c'è un invito a trattare la realtà come puro universo di segni e miti pornografici. Piccola conseguenza: la realtà così comunicata, anzi, l'idea di normalità così trasmessa è un'esistenza in cui è fisiologico strafarsi di coca, acquistare una pasticca di ecstasy (secondo la registrazione fenomenologica effettuata da Francesco Bianconi dei Baustelle: «Charly fa surf, quanta roba si fa, mdma», dove quest'ultima sigla è il principio attivo della droga da discoteca, praticare il sexual harassment come unica forma plausibile di corteggiamento, convocare una partouze con due o tre puttane in quanto modalità sbrigativa e perciò efficiente, di gratificazione sessuale. Che poi questa ultrarealtà sia comunicata solo per indizi, o per sintomi e allusioni, non cambia nulla. Basta un minimo di sensibilità cognitiva per decifrare in un programma di intrattenimento per famiglie il contenuto di trasgressione estrema che lo permea, di violenza, di oltraggio, di profanazione. La televisione è il male: solo che questo male è il nostro mondo, l'unico in cui siamo inseriti. Possiamo frantumarlo e consumarlo per detriti, per esempio su YouTube, oppure possiamo sperimentarlo selettivamente, individuando aree di interesse specifiche ("programmi", o "trasmissioni", avremmo detto una volta), con un uso parossistico del telecomando, in un processo di decostruzione continua e proliferante: tuttavia l'ultrarealtà televisiva tracima dallo schermo, e si spande nella vita quotidiana come dato reale. Tutti noi ci misuriamo ormai con il look di chi compare in video, paragoniamo noi stessi al carisma sessuale di un conduttore o valutiamo con ferocia il potenziale sessuale di una soubrette scocciata su una poltrona. Per questa ragione, l'eccessivo romanzo di Parente non va letto come un esercizio narrativo: piuttosto è una prova di sociologia ultrà, un attentato dadaista alle scienze empiriche. Si definisce un'oltranza di realtà, e la si descrive in tutte le sue dimensioni, apparentemente vere o del tutto immaginarie che siano. È un mondo che sostituisce il mondo. Con la complicazione fastidiosissima che neppure cambiando canale si cambia la realtà, come credeva l'idiota di Peter Sellers in "Oltre il giardino", impugnando il telecomando contro i suoi aggressori; e neppure spegnendo la tv cessa il sortilegio televisivo, perché dalle antenne e dai satelliti, dai cavi, da Internet e dalla banda larga, dall'analogico e dal digitale, l'esito che proviene è uno solo, e cioè che la televisione siamo noi, e noi siamo la televisione. n
L'Espresso, 30/04/2008
qui si è perso il territorio
A mano a mano che si approfondiscono le analisi del voto, le elezioni del 13 e 14 aprile rivelano sfumature nuove. Uno degli aspetti più interessanti è la differente prestazione del Partito democratico nelle aree metropolitane e nella provincia. Si tratta di una situazione "americana": come i democratici negli Stati Uniti, il Pd è il partito delle città, anche nel Nord leghista. Il suo messaggio raggiunge i ceti qualificati, penetra nell'universo della popolazione a elevato livello di istruzione, mobilita settori rilevanti del lavoro dipendente qualificato e ad alto reddito. Il che complica l'analisi. Vale a dire che non esiste soltanto una frattura sociale, politica ed economica sull'asse Nord-Sud, che prossimamente potrebbe far sentire i sui effetti nelle relazioni interne all'alleanza berlusconiana (come farà il Cavaliere a tenere insieme il federalismo fiscale nordista di Umberto Bossi e le clientele meridionali del siciliano trionfante Raffaele Lombardo?). Esiste anche una classica frattura fra città e non-città, fra assetti metropolitani e provincia. I nostri democratici, a cominciare da Walter Veltroni, riescono a farsi intendere nei centri maggiori, dove l'apertura delle classi sociali più dinamiche trova il modo di reagire agli esiti contemporanei della globalizzazione con creatività e ricerca di competitività. Invece la provincia è terreno di conquista del centrodestra; nelle regioni settentrionali ha successo il proselitismo leghista, con il lavoro davanti alle fabbriche, con i gazebo vicini alle polisportive e nei bar delle bocciofile. Questa distinzione è inevitabilmente approssimativa, ma chiarisce almeno una delle ragioni dell'affermazione della macchina berlusconiana. Anche se in modo incerto, il Pd ha cercato di accreditarsi come un partito modernizzante, capace di intercettare la spinta di un'Italia che non accetta di restare ai margini dell'Europa. Nello spirito del partito di Veltroni c'è l'accettazione del mercato e della concorrenza come contesti in cui si esprime il merito, cioè una forma attualizzata di perseguimento dell'eguaglianza. Ma se nella metropoli diffusa e anche nella «megalopoli padana» appena descritta da Giuseppe Berta nel suo libro "Nord" questo messaggio è stato raccolto, c'è tutta una fascia territoriale in cui le conseguenze della globalizzazione vengono osservate con inquietudine. Per questo nelle aree non metropolitane ha successo il modello costruito empiricamente da Silvio Berlusconi, con l'ausilio intellettuale di Giulio Tremonti. Il Pdl e la Lega si caratterizzano come il soggetto di una "modernizzazione reazionaria", che tende a marginalizzarsi rispetto ai grandi flussi della globalizzazione, ma offre una rassicurazione ai ceti intimoriti dalla violenza del cambiamento. Forza lavoro operaia messa in crisi dalle ristrutturazioni aziendali, piccole imprese sballottate dal mercato, pensionati intimoriti dalle tendenze inflazionistiche e dal problema della sicurezza quotidiana, ceti medi insofferenti del degrado urbano, tutti trovano una risposta alla propria condizione di "uomini spaventati" (secondo una definizione di Ilvo Diamanti). Per certi versi, questo rende ancora più difficile il ruolo del Pd. Perché fare breccia nelle frange modernizzanti della società italiana è tutto sommato agevole. Ma per contendere il consenso alla Lega e al Pdl sul territorio occorre qualcosa che al momento il Pd non ha. Cioè una presenza quotidiana sui luoghi, nella vita delle persone, nelle realtà di incontro sociale. Le elezioni hanno mostrato che non sembra possibile né condurre una campagna tutta basata sull'idea e la struttura del partito leggero, cioè mediatico e quindi volatile, né il ritorno volontaristico al lavoro politico capillare come faceva il vecchio Pci. Ma se oggi la politica risulta modellata, plasmata in profondità dal territorio, cioè dalla dimensione geografica e spaziale, occorre agire presto per "territorializzare" l'iniziativa politica. Questo può essere realizzato mobilitando le risorse migliori e più efficienti, dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e chiedendo alla rete istituzionale un coordinamento, una rete nuova di competenze messe in comune. Ma forse è venuto anche il momento di pensare a un partito federalizzato, il Pd del Nord, del Centro e del Sud, con strutture innovative e leadership territoriali che affianchino e sostengano il leader centrale. Pier Luigi Bersani a Milano, Enrico Letta a Firenze, Massimo D'Alema per le regioni meridionali. Che sarebbe anche una buona idea per ridimensionare, mettendole sotto controllo, la questione settentrionale, la questione romana e la questione meridionale.
L'Espresso, 08/05/2008
Bravi ma niente bis
Si potrebbe formulare una legge dell'entropia dei telefilm. Che sostiene pressappoco quanto segue: a mano a mano che una fiction di successo va avanti, e magari raggiunge la seconda o la terza serie, il suo livello qualitativo cade, talvolta crolla, e comunque decresce il gradimento del pubblico (vedi lo spettacolare caso di "ER"). Qualcuno sosterrà che questa legge entropica è una legge col buco, dal momento che "Lost" è giunto alla quarta serie senza accusare la minima défaillance. E vabbé, ogni regola ha le sue eccezioni, e oltretutto all'autore di questa rubrica "Lost" non piace tanto, a dispetto dei flashback e dei decantati flashforward. Ma questi sono fatti privati, e quindi chissenefrega. Ma, tanto per dire, anche "Dr House" è peggiorato, ed è un caso da manuale. Peggiora perché per dare risalto al genio del medico più pazzo e cinico del mondo i casi diventano talmente complicati che spesso non lo capiscono del tutto neanche i medici (qualcuno scrive alle rubriche di salute dei quotidiani per avere delucidazioni). E poi c'è un degrado implicito in quanto aumenta l'attenzione verso i personaggi minori, che magari guadagnano spazio, ma talvolta non sono all'altezza: per esempio, l'oncologo Wilson a guardarlo bene ha lo sguardo fisso di uno che s'è bruciato il cervello con troppe birre. Sicché converrebbe non fare le seconde serie. Vediamo su Cult le meravigliose puntate di "Mad Men", telefilm dell'anno, quegli anni Sessanta americani così inquietanti e anticipatori del nostro Duemila, e speriamo che non sia già in cantiere il prosieguo. D'accordo che il marketing è il marketing: ma poi non lamentatevi se il pubblico non segue.