L’Espresso
L'Espresso, 08/05/2008
la caduta dell’impero romano
Il borgataro si stacca dalla festa in Campidoglio per Gianni Alemanno, stappa una birra e ti punta il dito nel costato: «Ahò, lo volevate er nuovo conio, mò beccatevelo». Per il Partito democratico, per Francesco Rutelli, per Walter Veltroni la serata romana di lunedì è il segno di una disfatta spaventosamente incomprensibile. È come se la capitale avesse deciso di sferrare un uppercut micidiale all'idea democratica, al progetto stesso del Pd: già, perché lo sconfitto è Rutelli, ma la batosta romana si ripercuoterà sul partito, sui suoi equilibri, forse sulla sua stessa esistenza. Per il momento c'è lo choc tremendo di uno schianto politico inatteso anche nelle dimensioni, il rovesciamento clamoroso del risultato del primo turno, ma soprattutto un urto che fra molti saluti romani, clacson di tassisti entusiasti, cori di ultras, spazza via 15 anni di egemonia del centrosinistra, cominciati nella dura campagna elettorale del 1993, quella che aveva sdoganato Gianfranco Fini, e fa a pezzi il "modello Roma", l'invenzione di Goffredo Bettini portata all'eccellenza mondana e planetaria da Veltroni, liquidando la Roma piaciona che aveva egemonizzato il gusto e anche il conformismo in società. Il caos non è proprio calmo. La tranvata, sostiene immediatamente l'ala hard del Pd, i dalemiani che non hanno mai creduto ai lustrini, dimostra quanto fosse fragile la struttura del consenso raccolta dal sindaco uscente, quanto volatile la popolarità, quanto effimero il radicamento sociale, e alla fine quanto leggero e alla lunga irrilevante il clima capitolino fatto di attori, scrittori, registi, notti bianche, festival, intrattenimento, morettismi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai in due anni sono evaporati oltre 20 punti di vantaggio, contraddicendo anche la tendenza generale del Pd, che alle politiche si è mostrato più competitivo nelle città e negli aggregati metropolitani. Eppure, per restare al caso romano, la politica «lieve» e colorata di Veltroni era forse l'unico strumento capace di tenere insieme l'establishment e le periferie; non appena si è assistito al ritorno in campo di un candidato come Rutelli, interpretato come un uomo dell'establishment, anzi della "casta" politica, è scattato il cortocircuito. Con distorsioni che devono essere ancora interpretate, e possono portare a vendette e regolamenti di conti, ma che per il momento rappresentano concretamente un attrito ineluttabile della scelta di Veltroni di rompere con la Sinistra Arcobaleno alle politiche: accanto al fallimento di Rutelli, il successo conquistato alla Provincia di Roma dal candidato Zingaretti, con un numero di voti nelle sezioni elettorali della capitale che fanno subito sospettare un paradossale esercizio del voto "disgiunto", Zingaretti alla Provincia e Alemanno al Comune («Ipotesi che fa ribrezzo», scrive "l'Unità", ma tant'è). Una modalità quasi dadaista per praticare la vendetta della sinistra radicale contro la leadership del Pd, responsabile della scelta di "correre da soli" (nei centri sociali l'idea di punire Veltroni votando Alemanno era stata sostenuta ripetutamente). Un colossale "tié", magari con il gesto dell'ombrello, rivolto a "Franciasco", l'uomo dei vescovi, l'amico della Binetti, il cattolico delle alleanze «di nuovo conio». E che esalta la capacità di Alemanno di unire le "due Rome", da un lato la città centrale della borghesia, i Parioli, i circoli tiberini, il generone scettico che si era prestato all'unanimismo veltroniano, e dall'altro le borgate e gli outsider. La destra "sociale" del genero di Pino Rauti promette infatti misure di sicurezza alla borghesia spaventata dai comportamenti irregolari dei clandestini, e offre rappresentanza all'universo marginale nelle periferie (laboratorio sociale e politico tutto da analizzare, che sembra essere stato messo a fuoco soltanto dalla percezione letteraria di Walter Siti, autore di un recente e impressionante libro postpasoliniano, "Il contagio", che esplora l'antropologia degradata e mutante della Roma periferica). Mentre anche dalle borgate salgono slogan che scandiscono «via gli albanesi, via i romeni», Alemanno seleziona utilmente aspettative differenziate anche nella Roma del degrado, prospettando criteri che etichettano i clandestini come il nemico interno da colpire con spettacolari misure di polizia. Ora, è vero che il trionfo capitolino ha un impatto anche sul Pdl e nel rapporto con la Lega, con un politico meridionale che fa il salto di qualità, comincia a oscurare Gianfranco Fini in procinto di sedersi sullo strapuntino della Camera, e in qualche misura riequilibra il successo di Umberto Bossi al Nord. Ma è fuor di dubbio che il crollo a Roma rappresenta un macigno sulla strada del Pd, e in particolare del Pd veltroniano. Finora, dopo il risultato del 13-14 aprile, si poteva sostenere che il 33,1 per cento, pur nella sconfitta, rappresentava la costituzione del "motore riformista", un partito in grado di diventare competitivo nel medio periodo, e che risultava capace di mobilitare le città, i ceti culturalmente più elevati, il lavoro dipendente qualificato, la società italiana più moderna e creativa. Prima del "voto di pancia" e della voglia di discontinuità, prima del sacco di Roma da parte delle "truppe alemanne", Veltroni poteva accampare una serie di giustificazioni credibili. A gravare sul Pd c'era l'impopolarità di Prodi, nel Nord industriale lo sfondamento della Lega nelle fasce operaie, al Sud l'effetto desolante dell'emergenza rifiuti. C'era da mettere a fuoco il progetto berlusconiano di "modernizzazione reazionaria", o anche semplicemente conservatrice, fondato sulla sintesi del secessionismo leghista con il protezionismo tremontiano e il clientelismo dell'Mpa di Raffaele Lombardo. A cui adesso si aggiunge il successo "missino" di Alemanno, prefigurando una destra complessivamente nazionalcorporativa, aggregatrice di interessi parziali. Non conviene naturalmente ai "democrat" cercare pallide rivincite di tipo culturale, stigmatizzando un modello politico a sfondo peronista. Ma intanto, prima di procedere alle ritorsioni interne inevitabili nelle sconfitte, ci sono da mettere a fuoco alcuni aspetti problematici, che la leadership del Pd dovrà affrontare. In primo luogo, l'esaurirsi empirico della pregiudiziale antifascista e resistenziale, cioè l'esito fisiologico di un processo socioculturale per molti versi inevitabile (ma che toglie valore alle richieste di «lealtà costituzionale» che Veltroni aveva inviato a Berlusconi negli ultimi giorni della campagna elettorale del 13 aprile, ricevendone in cambio un'alzata di spalle). In futuro sarà difficile esibire una sorta di superiorità etico-repubblicana come risorsa politica spendibile, così come sarà inutile puntare sui simboli se in gioco ci sono gli interessi. Insomma se ne va fuori dalla simbologia politica il ditino alzato dell'ideologismo targato Fgci, se è vero che il "capobranco missino" Alemanno sbanca il Campidoglio con una campagna sinceramente populista, in una fragranza tutt'intorno di umori autenticamente fascisti. In secondo luogo, se il Pd riuscirà a sopravvivere al contraccolpo della sconfitta alle politiche e alla caduta di Roma, dovrà uscire dalla sindrome di un partito che per una settimana, aspettando l'apertura del Parlamento, ha discusso esclusivamente della questione epocale di chi dovevano essere i capigruppo alle Camere. Andrebbe tenuta a mente come uno scongiuro la battuta di Giancarlo Pajetta dopo i funerali del "Migliore": «Con la morte di Togliatti nel Pci si chiude una fase e non se ne apre nessun'altra». Per evitare una dinamica dissolutiva, il Pd deve provare a ripartire. Deve avere la consapevolezza che la propria classe dirigente è particolarmente logora e che niente come le sconfitte richiama le sconfitte. Occorre quindi mettere in rete gli amministratori locali più capaci, dal sindaco di Torino Sergio Chiamparino al sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, e individuare una strategia di azione sul territorio. È la fase in cui le posizioni di rendita stanno smottando, e in momenti come questo devono uscire allo scoperto le energie meno consumate. Innanzitutto la coppia composta da Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta, per ricominciare dal territorio. E poi, occorre inquadrare le prossime sfide: ci sono alle viste le elezioni europee del 2009 (un incubo, dato che con la proporzionale non c'è voto utile che tenga) e il referendum elettorale. Ci vuole una strategia. Altrimenti, le spinte alla disintegrazione non le fermerà nessuno, e il tutti a casa sarà inevitabile. n
L'Espresso, 15/05/2008
Insinna insegna
All'insegna di Insinna. Uno getta un'occhiata su "Affari tuoi", il gioco delle scatole che si faceva una volta in tutti i mercati rionali, appassionandosi alla sorte di italiani medi che tentano il colpo della vita ma non si lamentano se l'affare si sgonfia; e poi si dedica, sempre su Raiuno, a "Ho sposato uno sbirro". Serie fortunata, diretta da Carmine Elia. Lui è Flavio, il commissario, lei è Christiane Filangieri, l'agente. Insinna è bravo alla solita maniera degli attori di telefilm italiani, che cantano e portano la croce, e qualche volta si fanno le domande e le risposte; la Filangieri è opportunamente svagata, qua e là appaiono vecchie glorie come Barbara Bouchet e Giovanna Ralli, a rinverdire la serata. Insomma, il telefilm, 12 puntate, funziona, eccome. Al massimo fanno un po' tristezza gli allestimenti, quei mobili da mercatone, e ogni tanto una recitazione che dà sul romanesco, i difetti consueti delle fiction di casa nostra. Tuttavia "Ho sposato uno sbirro" è esemplare per un altro aspetto. Perché testimonia che l'Italia che guarda la televisione è una strana società, che ama la polizia, spasima per i carabinieri, spergiura su tutte le forze dell'ordine compresi i vigili urbani: mentre nel quotidiano non vuole saperne di regole e di ordine. Aspettiamo la prossima serie sulla guardia di finanza, che sicuramente avrà grandi ascolti degli evasori (come diceva la barzelletta raccontata da Silvio Berlusconi? Bussano alla porta. «Chi è?». «I ladri!». «Meno male, credevo che fossero i finanzieri»). Si potrebbe intitolarla "Ho sposato il Visco". Al primo adulterio, allargare le braccia: «Era solo una piccola evasione». Viscale, s'intende.
L'Espresso, 22/05/2008
Barbari molto civili
Il confronto tra Fabio Fazio e Alessandro Baricco a "Che tempo che fa" è stato un punto alto se non altissimo della televisione contemporanea. Purtroppo questo incontro al vertice è stato oscurato in seguito dalle polemiche per le affermazioni di Marco Travaglio nello stesso programma a proposito del pres. del Sen. Schifani. Vesti stracciate, dramma personale di Cappon, scuse di Fazio, campagna del pres. del Sen. contro i feroci calunniatori che non hanno perso il vizio pur avendo perso le elezioni. Prevedonsi tempi cupi, se volete saperlo, nuovi editti, altre epurazioni, naturalmente nel nome della legislatura "costituente". Ma torniamo a Fazio e Baricco. Televisione di alta qualità culturale, con Fazio che chiedeva e Baricco che rispondeva, raccontava il suo prossimo film, tornava sui grandi temi del suo fortunato saggio "I barbari". Fabio lo guardava con intensità e Baricco non si sottraeva, gli scappava un piemontesismo («Solo più»), lo superava e andava meravigliosamente a descrivere la musica della globalizzazione. A occhio, dovrebbe essere questo il destino di Raitre sotto la minaccia dei berluscones: occuparsi di temi alti, e non rompere los cojones con la sporca attualità. Bravissimi Fazio e Baricco, un esempio di finezza e di intensità, con le professoresse democratiche che avranno apprezzato. P. S. Ma l'avete visto com'è invecchiato Baricco? Ingrassato, ingrigito, anche leggermente bleso, così "Vej Piemont"? Cose che succedono ai giovani, invecchiare. P. P. S. Ovvio che nessuno ha detto una parola sulle deliranti accuse di Travaglio al pres. del Sen. Schifani (sono vere? Sono false? Qualcuno querelerà mai per calunnia lo schifoso Trav.?).
L'Espresso, 22/05/2008
Nacque lì l’Italia dei compromessi
Per chi ha vissuto la storia emiliana, sotto il tallone morbido dei municipi rossi e della Legcoop, viene facile chiedersi come abbia potuto prodursi la riconciliazione fra comunisti e non comunisti, nel mezzo secolo seguito agli «inverni in cui nevicava sangue» di cui parla Giampaolo Pansa nel suo ultimo libro. Anzi, come sia stato possibile, dopo il funerale del comunismo internazionale e la metamorfosi mondana, socialista, liberale, verde e amazzonica del Pci, che una parte consistente del mondo cattolico, in Emilia, abbia scelto il "centrosinistra", qualunque cosa significasse questo termine, ben sapendo che dietro quella sigla e dietro il nuovo Partito democratico allignavano i comunisti vecchi e giovani, sempre loro. Bastava transitare in un seggio delle primarie sette mesi fa, quando il popolo scelse Walter Veltroni, per rendersi conto che sotto l'etichetta del nuovo partito "liberale" c'erano sempre l'apparato e la struttura del consenso pilotati dal vecchio Pci. E allora? Si perdoni qualcosa di personale. Ogni volta che capita l'occasione di incontrare qualche esponente del Pci, democratizzato dalle verità della Bolognina e della storia europea, mi torna in mente l'avventura di mio padre, cattolico e degasperiano, che non appena tornò al suo paese a due passi da Modena dalla prigionia in Inghilterra (era il febbraio del 1946), non ebbe esitazioni nel comprare una rivoltella Bernardelli calibro 6.75. Tanto per dire la dialettica politica di allora, piuttosto ruvida. Già, ma il problema è oggi. Una volta che Palmiro Togliatti, come racconta Pansa, ebbe normalizzata la federazione di Reggio Emilia,e quindi ridotto alla ragione anche il Pci delle province vicine, cominciò il lungo processo che avrebbe realizzato il "compromesso socialdemocratico". Ovvero: ortodossia ideologica, pragmatismo politico e amministrazioni che assecondavano lo sviluppo industriale, urbanizzando le periferie e facendo qualche infrastruttura per le nuove fabbriche. Ma intanto, i miei genitori non andavano a far spesa alla Coop, nel timore che i soldi versati alla cassa potessero finire a Mosca (per la verità, era Mosca che spediva dollari qui da noi a sostegno del movimento proletario, ma il popolo non conosceva queste sottigliezze). Mia madre ogni volta che parlava dei partigiani rabbrividiva: storiacce di paese, amplificate dall'incertezza e annebbiate dal tempo. Ragazze violentate, fidanzati collaborazionisti massacrati e sepolti sul greto del fiume Secchia, un fratello che se l'era cavata per un pelo, dopo l'8 settembre. I tedeschi se n'erano andati il 25 aprile, senza tragedie né ritorsioni perché da queste parti «si erano comportati bene». Ecco: racconti da accennare senza approfondire i particolari, che sono sempre irritanti e fanno venire in superficie roba che è meglio dimenticare. Insomma, la costruzione del centrosinistra è avvenuta col tempo, e senza cambiare di una virgola il giudizio sui comunisti. L'idea esposta da Togliatti proprio a Reggio in quel 1946, "Ceti medi ed Emilia rossa", prendeva le mosse da una concezione egemonica. A lungo si ebbe la sfortuna di subire il decalogo comunista, con la superiorità della consapevolezza culturale "di sinistra". Poi venne il 1974, con la vittoria al referendum sul divorzio, quando la Dc cessò di essere il partito unico dei cattolici. Al che, liberi tutti. Si trattava di trovare una sintesi non contraddittoria fra la politica nazionale, dove il Pci risultava un partito ancora nominalmente antisistema, fra centralismo democratico e lotte di classe, e la politica locale, dove il Pci era "il" sistema. Con il paradosso che nella terra dove il partigiano bianco Ermanno Gorrieri, ovverosia "Claudio", il comandante della Repubblica liberata di Montefiorino, aveva fatto tutto il possibile per essere competitivo nei confronti dei comunisti (altro che consociativismo, altro che inciuci), alla fine furono i comunisti decomunistizzati a cercare una cultura, una serie coerente di principi, dall'altra parte, fra i vecchi avversari. Senza che nessuno dicesse mai loro nulla, senza infliggere recriminazioni. In parte, a far pendere a sinistra anche i moderati era l'insofferenza per i "nuovi", i berlusconiani, gli ex neofascisti, i leghisti. Ma in parte perché si era trovato un criterio di convivenza. Offerto gratuitamente, a 360 gradi, dagli anticomunisti di tutti i colori, specialmente dai cattolici. (Eppure, di tanto in tanto, viene voglia di dargli uno scossone, a quei vecchi comunisti e ai loro discendenti, di prenderli a spallate: dai, adesso ditelo, che eravate ciò che eravate, e che avete sbagliato tutto, ideologicamente: fate uno sforzo, una confessione, un atto di dolore, per piacere, dite la verità, e vedrete che resteremo amici).
L'Espresso, 22/05/2008
Sapere dove si va
Piccolo manuale di sopravvivenza democratica (nel senso del Partito democratico, s'intende). Ah, se solo si riuscisse a sottrarre la discussione sul futuro del Pd all'eterna questione bizantina della rivalità fra Veltroni e D'Alema! Perché altrimenti si ha la sensazione tristissima di essere tornati ai tempi della Fgci, o del popolo dei fax contro l'élite del partito, di quella volta che dal basso scelsero Walter e dall'alto invece Massimo... Il pensiero che il Pd debba ancora soffrire degli effetti di un dualismo nato ai tempi del Pci è particolarmente deprimente: soprattutto se si pensa a quali problemi politici reali il Pd dovrebbe invece dedicarsi. Punto primo. Dalle infinite e approfonditissime, e anche intrise di molto realismo, analisi sui risultati elettorali, che sempre vengono promesse e poco realizzate, bisognerebbe che qualcuno traesse qualche conclusione e soprattutto qualche indicazione di prospettiva sulla politica da seguire. Converrebbe infatti definire che cosa è oggi e che cosa sarà domani l'"entità Pd". Se continua ad avere la celebre vocazione maggioritaria; se si organizzerà per tentare di vincere le elezioni, una volta o l'altra; ovvero se ha intenzione di aprire una nuova strategia di alleanze, ed eventualmente con chi, dove e perché. Non è proprio facilissimo, si capisce. Ci vuole il buon senso casalingo di riconoscere che il 13-14 aprile 2008 il Pd ha subito una brutale sconfitta, anche senza calcolare le speranze suscitate dai sondaggi e andate deluse nella realtà. C'è una sconfitta in sé. Una sconfitta "noumeno". Ma le sconfitte possono essere un punto di partenza o un'occasione di frana. Vale a dire: oggi il Pd è una galassia in espansione, oppure una stella che collassa dentro se stessa? Davanti all'Italia riformista c'è un universo nuovo o un buco nero vecchio? L'alternativa non è soltanto teorica. Implica un orientamento della sua classe dirigente, cioè quella che una volta si chiamava "la linea". Bene, a quanto si vede la linea del Pd non è chiara. Una proiezione ottimistica nel futuro delineerebbe un partito in crescita, capace egemonicamente di rappresentare un'amplissima fascia di sfumature politiche, dal centro alla sinistra. Mentre una concezione più cauta porterebbe a ragionare nel modo seguente: il Pd è un grosso residuo politico, figlio della sinistra democristiana e nipote del Pci riformista. Le culture che rappresenta non hanno grande fortuna nell'Italia di oggi. Dunque è più conveniente pensare ad allargare l'alleanza, trattare con i cattolici dell'Udc, guardare ai socialisti, parlare con la sinistra radicale. Ovviamente non è soltanto una questione teorica. A quanto si capisce, anche la classe dirigente del Pd è divisa. Deve ancora metabolizzare la batosta e quindi non è pronta a guardare al futuro. La stessa infinita querelle Veltroni-D'Alema in fondo rispecchia questa divaricazione del pensiero politico possibile. Ma ciò che è da evitare riguarda i modi con cui affrontare il problema: se si resta nelle fumosità, tipo «sia chiaro che la vocazione maggioritaria non significa l'autosufficienza», e roba simile, si può anche chiudere bottega. Se qualcuno se lo fosse dimenticato, ci sono alle viste alcuni appuntamenti di rilievo. Uno, le elezioni europee, è un salto nel buio, perché con la proporzionale pura non c'è appello possibile al "voto utile" (e neanche la ragionevole possibilità di introdurre soglie di sbarramento, come aveva proposto Dario Franceschini), e si tratterà di vedere come si rimetteranno in pista i partiti della defunta Sinistra Arcobaleno. L'altro appuntamento riguarda il referendum elettorale, che comporta una posizione netta: vale a dire, se si crede ancora nella vocazione maggioritaria del Pd, si dovrebbe puntare sul referendum Segni-Guzzetta (che se approvato porterebbe all'assegnazione del premio di maggioranza al partito, e non alla coalizione vincente). Mentre qualora dovesse prevalere una concezione non espansiva del Pd, sarebbe meglio abbandonare le illusioni egemoniche e giocare con le carte, e le alleanze, disponibili. Sono discorsi di troppo lungo periodo? Mica tanto. Le ore passano in fretta, i mesi corrono, "tempus irreparabile fugit". Si può aspettare fiduciosamente la crisi del governicolo Berlusconi IV, quell'esecutivo formato famiglia, di fronte a processi socioeconomici più grandi di lui (lui governo e lui Berlusconi). Ma nel frattempo si potrebbe cercare una strada, un'idea, un partito. Non c'importa nulla sapere chi siamo e da dove veniamo: ma almeno sapere dove andiamo, questo sì, sarebbe utile.
L'Espresso, 29/05/2008
Troppo Boris
La seconda serie di "Boris" (in onda il lunedì alle 23 su Fox, canale 110 di Sky) si qualifica per almeno due ragioni importanti: 1. La partecipazione di Corrado Guzzanti, che interpreta Mariano, attore psicologicamente instabile, dentro un cast di buon livello; e 2. Il fatto che si tratta per l'appunto di una seconda serie: se l'hanno realizzata, vuol dire che tanto male la prima non dev'essere andata. Ma a parte questo, e nonostante i dati d'ascolto che saranno di nicchia, "Boris" merita due annotazioni "sociologiche". Prima considerazione: il titolo non solleva nessuna emotività, quindi è sbagliato. Seconda: "Boris" è scritto, anzi, è ben scritto. Risulta molto autoreferenziale, dato che tutta la storia ruota intorno al set di una fiction intitolata "Gli occhi del cuore 2" (ottimo titolo, invece), fra attrici «cagne», stagisti maltrattati, divi frustrati, registi incattiviti, risultati di audience da raggiungere a tutti i costi, e sullo sfondo il "dottor Cane", dirigente televisivo che iperbolizza il dirigente televisivo anche nel lessico e nella cultura, confusissimi entrambi. Piace, "Boris"? Mah. Ha quasi tutto per piacere, ma è anche una commedia cattiva, che mostra la televisione per quello che è: un vituperio di cinismo, un groviglio di meschinità e di furbizie, un regno di scaltrezze perpetrate ai danni del telespettatore. Forse il realismo di "Boris" è il suo limite. Dovrebbe fare dell'intrattenimento, e invece sfiora l'allegoria sociale, mostrando che cosa non si fa per lo share. Insomma, un altro esempio di meta-televisione. Uno dei migliori, per la verità. Ma quando lo si vede, viene voglia di spegnerla, la tv.
L'Espresso, 05/06/2008
Senza pudore
Dopo quattro anni di programmazione e la bellezza di 300 puntate, "Markette" ha chiuso bottega. Il programma de La7, condotto da Piero Chiambretti, nasceva da un'intuizione legata a una specie di ecologia della televisione: si trattava di mostrare esplicitamente ciò che di solito veniva lasciato intendere per allusioni: la marchetta, appunto. L'ospite con il libro in mano, il regista con il film in uscita, il cantautore con il disco in promozione e l'ugola pronta a intonare il prossimo hit: prima di "Markette" era tutto un mamì e mamù, un finto pudore, una dissimulazione disonesta ma colorata di verecondia: vedi caso abbiamo qui il famoso giornalista televisivo che ha pubblicato il libro annuale sulla politica e il rock'n'roll. Lui si vergogna a farlo vedere, ma noi no, noi no! E gli facciamo una pubblicità sfacciata! E lui arrossisce! Un vero professionista! Invece, "Markette" ha messo la marchetta in primo piano, con i maxischermi che inquadravano le copertine e i manifesti del prodotto da piazzare, e il marchettista sul trono. Le barriere sono cadute, i veli si sono dissolti. L'anima vera e l'anima nera della tv sono state esibite al popolo. Tanto è vero che la "lezione" di "Markette" ha fatto rapidamente proseliti, facendo evaporare le ultime finzioni. Anche il programma di Fabio Fazio, tanto per dire, esempio di televisione che ambisce alla cultura, si è divertito a mettere in primissimo piano gli ospiti, sottoponendo agli spettatori il dubbio supremo: la marchetta a fini culturali è moralmente superiore alla marchetta a fini commerciali? Se lo si chiedesse a Chiambretti, la risposta sarebbe classica: la tv è la tv, bellezze.
L'Espresso, 12/06/2008
zeno esagerato
Le storie di preti, santi e papi vanno alla grande in tv, e la fiction di Raiuno dedicata a don Zeno Saltini, fondatore della comunità cristiana di Nomadelfia, non ha fatto eccezione (26 per cento di share). Ora, per seguire la solita storia del prete solo contro tutti ci vuole determinazione (per un modenese di più, visto che le pie donne della comunità di Fossoli parlavano ora qualcosa di simile al romagnolo ora una parodia della pronuncia emiliana come nell'avanspettacolo). La vicenda di don Zeno, rivoluzionario del comunismo cristiano, è perfetta per esemplificare la lotta dell'individuo solitario contro le istituzioni inaccessibili e le convenzioni immutabili. Sarà per questo che in tutto il film il protagonista Giulio Scarpati sembra un ossesso, grida continuamente, prende a male parole contesse e vescovi, guida proteste contro la questura di Modena (ambientata in municipio, e vabbé), fuma Toscani da vero e anticonformista prete di campagna. Un po' esagerato. E poi: il questore di Modena sembra un fascistone alla Gastone Moschin; vengono invece bene, come sempre, vescovi e porporati, ottimi i papi. Si vede che gli attori italiani sono nati per interpretare la gerarchia vaticana. P. S. Però, adesso, mentre Sandro Bondi vuole sottrarre don Milani alla sinistra, invochiamo una moratoria sui preti in tv. Si teme l'arrivo di una fiction su don Giussani. Intanto, come antidoto al clericalismo televisivo, i nostalgici di "cloro al clero" vadano a caccia della striscia in cui Stefano Disegni mostra papa Ratzinger mentre detta l'enciclica "Contra ricchiones", in "Emme", supplemento satirico de "l'Unità", 26 maggio 2008.
L'Espresso, 12/06/2008
la casta democratica
Il pasticciaccio brutto di Genova, con il durissimo colpo subito dall'amministrazione di Marta Vincenzi, "SuperMarta" per i titoli dei giornali, ha un rilievo importante e rischioso nel panorama politico italiano; e naturalmente getta ombre inquietanti sul Partito democratico. Questo per una serie di ragioni che conviene cominciare a districare prima che i problemi aumentino fino a diventare incontrollabili. Per chi non l'avesse ancora capito, il Pd è in una condizione difficile. Ha una leadership indebolita dalla sconfitta elettorale; nutre un'incertezza strategica sul terreno delle alleanze, testimoniata dall'eterno duello fra Massimo D'Alema e Walter Veltroni; prova un'attrazione letale per la sfera del governo e per il Berlusconi seduttivo e presidenziabile di questi tempi; ha rinunciato nei fatti a difendere i risultati dei due anni del governo Prodi, consegnandolo al silenzio; non sa se il 33,1 per cento del 13-14 aprile potrà essere confermato alle elezioni europee del prossimo anno. E via elencando cose sotto gli occhi di tutti. Come ha detto il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, sulla sicurezza la sinistra è preda di «sociologismi e inconcludenze». Sulla questione istituzionale, e in particolare sul federalismo fiscale, il Pd naviga a vista, facendo sentire voci diverse a seconda di chi parla al momento. Le sue risorse di credibilità principali, invece, sono elementi poco spettacolari, che si possono riscontrare soltanto sul campo. Ad esempio, la buona amministrazione nelle regioni "rosse", frutto di sintesi storiche, di pragmatismo e di contiguità con il mondo della piccola e media impresa, consolidatisi sulla scorta di un rigore e un'onestà strutturali nelle procedure burocratiche e nelle decisioni politiche. Ma il caso Genova, con le sue mance miserabili, la sua Tangentopoli stracciona, è lì a dimostrare che la superiorità morale della sinistra è qualcosa che non appartiene ontologicamente al Dna dei suoi esponenti, non è una virtù antropologica innata. Quindi il Pd queste doti qualitative deve conquistarsele, mantenerle o riconquistarle ogni giorno (non dovremmo trascurare che ci sarà pure un motivo se "La casta" di Stella e Rizzo è apparso come un atto d'accusa al centrosinistra, ben più che alla destra). Ed è sotto gli occhi di tutti che il potere non appartiene alla sinistra per diritto naturale o divino, neanche nei suoi territori tradizionali. A suo tempo, il cerchio magico fu spezzato a Parma da Elvio Ubaldi, e da Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999. Oggi, sotto le due Torri bolognesi, Sergio Cofferati ha deciso di ricandidarsi a Palazzo d'Accursio, ma è evidente che dovrà darsi da fare per andare a caccia dei voti di una città divenuta politicamente scettica. In sostanza: il diritto ereditario si è esaurito anche in quell'Italia che era orgogliosa dei suoi sindaci e dei suoi amministratori. La Lega in Emilia-Romagna ha raddoppiato i voti, e nella zona appenninica ha spuntato percentuali da record (è il vecchio voto "bianco" ancora alla ricerca di una rappresentanza). Analisti come Carlo Trigilia e Francesco Ramella hanno già individuato sintomi di degrado politico-amministrativo nelle regioni rosse, anche se le percentuali spuntate dal Pd alle elezioni politiche appaiono ancora confortanti. In queste condizioni, il pericolo di un'erosione del consenso anche nelle aree di questa Italia "centrale", un tempo fiore all'occhiello della capacità amministrativa del Pci, non è affatto un'ipotesi remota. È vero che fa fatica ad affacciarsi sulla scena una plausibile classe dirigente di destra, ma non è il caso di contare sulle insufficienze altrui. Se è vero che il Pd deve ripartire dal territorio, o «avvicinarsi al Paese» (come ripete Enrico Letta), deve mettere a frutto le personalità più convincenti che nel territorio agiscono. A quanto si capisce dai dati elettorali, il Pd è un'entità politica maggiormente competitiva nelle grandi città e fra le classi più scolarizzate: contiene in sé un elemento di dinamismo culturale e un contenuto di modernizzazione. Per valorizzare questi aspetti ci vuole un lavoro intenso e capillare, non un partito virtuale. Occorre saper ascoltare i cittadini, e non mostrare la sovrana indifferenza assicurata dalla propria indiscutibile superiorità. Infine, se occorre, ci vuole anche la capacità di farsi da parte, tempestivamente, quando le cose si mettono male, per distrazione o per incapacità. Altrimenti, in ogni roccaforte presunta può essere al lavoro la sindrome Bassolino.
L'Espresso, 19/06/2008
Sanremo Idol
Riparliamo di "X Factor", come promesso, non tanto per ridiscutere Simona Ventura e soci, ma perché la formula del programma, sperimentatissima in Italia e all'estero (vedi "American Idol") è irresistibile. Non contano tanto i cantanti quanto la gara. Cioè: conta fino a un certo punto se i protagonisti della competizione, tipo i Sei Ottavi o gli Aram Quartet, sono adatti a immettersi nel circuito della musica commerciale; l'importante è che funzioni il torneo. Tanto per ripescare la notte dei tempi, funzionava con lo stesso schema, seppure con squadre di autentici campioni, "Canzonissima". E sarebbe utile prendere in considerazione questa formula competitiva, con le eliminatorie e i duelli, anche per rivitalizzare Sanremo. In modo da trasformare il Festival in una kermesse di tre o quattro mesi, con tanti saluti e baci a tutti quelli che si lamentavano perché una settimana era troppo. Altrimenti, non sarà un Bonolis a salvare la rassegna sanremese. Dice: ma i cantanti di fama non parteciperebbero a una gara con vinti e vincitori, morti e feriti. Mah, è da vedere. Con i chiari di luna attuali, i cantanti devono darsi da fare. E poi, adesso i famosi big ci vengono, al Festival? Neanche per sogno. E allora, se serve un'idea, eccola. Si unifica Sanremo con la lotteria di Capodanno. Si comincia la gara a novembre, il 6 gennaio si fanno le estrazioni per il montepremi, a febbraio gran finale di tre giorni sulla Riviera. Presentatore, chi vi pare (a me piace anche Morgan, purché cambi l'acconciatura). Altrimenti, se credete che i miracoli sono possibili, tenetevi Bonolis, o chi per lui: e poi la prossima volta riprenderemo il dibattito sulla crisi finale di Sanremo.
L'Espresso, 26/06/2008
Arbore in fiore
Senza fare chiasso, Raisat Extra ha mandato in onda un'antologia del programma di Renzo Arbore "L'altra domenica". Sotto il profilo mediatico, il programma è stato schiacciato dalla messa in onda del "Pap'occhio", film goliardico della premiata "arboristeria", mai passato in tv dopo qualche stupida grana giudiziaria. E invece l'appuntamento meritava. In studio, con Arbore, il critico del "Corriere della Sera" Aldo Grasso, attento a storicizzare, contestualizzare e puntualizzare. Quindi occasione chic. Arbore ha imperversato, grazie alla sua prodigiosa e aneddotica memoria. Quel programma, alternativo al pomeriggio domenicale della prima rete nazionale, è rimasto nella memoria di molti, con i suoi protagonisti, dal "critico cinematografico" Roberto Benigni all'inviata Isabella Rossellini, da Andy Luotto a Michel Pergolani, Silvia Annichiarico, Dario Salvatori, più tutto il solito clan di Arbore, compreso Mario Marenco con le sue poesie surreali. Dice qualcosa, oggi, "L'altra domenica"? Ossia, dicono qualcosa le piccole trasgressioni parigine dal Crazy Horse e le strofette volgarucce di Benigni nell'"Inno del corpo sciolto"? A rivedere i filmati, sembra di capire che il segreto del programma era una sintonia immediata con una società ancora pre-televisiva, che era contenta di apparire timidamente in queste nuove forme di tv popolare. Si vedeva un'Italia un po' dimessa, graziosamente impaurita dal mezzo televisivo. Insomma, nostalgia canaglia del bel tempo che fu, con tutti i suoi provincialismi ma anche con la sua disponibilità e la sua tolleranza. Consiglio al direttore di Rse Marco Giudici: facciamo il bis.
L'Espresso, 26/06/2008
Il ritorno del caimano
E adesso, pover'uomo? Dalle parti di Walter Veltroni e del Partito democratico comincia a farsi largo il sospetto tremendo: e cioè di essere caduti come gonzi nella supertrappola di Silvio Berlusconi. Altro che lo "statista", tutto sorrisi e nuova dignità istituzionale. Piuttosto l'autore di un trappolone pazzesco, una supercazzola storica, e un amo ingoiato dal Pd con tutta la lenza fino alla canna. Un tranello magistrale che inizia con la strategia del sorriso, qualche mese prima delle elezioni, allorché il Cavaliere comincia ad attrarre Veltroni verso una partita uno contro uno, contando sull'orgoglio dei veltroniani, e sulla loro fiducia che la grande novità rappresentata dal Pd potesse modificare strutturalmente il contesto competitivo, far dimenticare l'abisso di consenso in cui era precipitato il governo Prodi e consentire al nuovo centrosinistra di sfondare al centro, grazie al modernismo della sua proposta politica. Come in tutte le trame perfette, il trucco era lì sul tavolo, in piena evidenza, e aveva le corna vichinghe e le fattezze della Lega, accolta nell'alleanza elettorale della destra come un partito "regionale", e quindi marginale rispetto allo schema del faccia a faccia epocale Berlusconi- Veltroni; e rivelatasi invece decisiva, con il quasi raddoppio dei suoi voti al Nord, nella contabilità dei rapporti di forza elettorali e nel quantificare nella sua pesantezza la sconfitta del Pd. Ma il piatto presentato da Berlusconi era effettivamente appetitoso: comunque fossero andate le elezioni, il testa a testa fra il vecchio capopopolo di Forza Italia e il nuovo segretario del Pd avrebbe finalmente legittimato e normalizzato la politica italiana, attribuendo ai due leader un'allure "costituente" e lasciando il campo libero per l'edificazione della terza Repubblica. È per questo che fino a pochi giorni fa l'atteggiamento di Veltroni è sembrato giustificare l'attacco spazientito di Arturo Parisi, che con una secca intervista a "la Repubblica" ha dettato il primo compito: «Ammettere la sconfitta». Altrimenti il Pd si sarebbe ancora trastullato, come dicono negli ambienti vicini all'ex ministro della Difesa, con la confortante, per quanto strampalata, idea di avere vinto o quasi le elezioni e di essere al governo con Berlusconi. Per uscire da questa rosea nuvola, era necessario che il Cavaliere rivelasse il suo vero volto, che poi è il suo volto solito, con i 44 denti spianati del Caimano, l'animosità interessata contro la giustizia delle toghe rosse, quelle che vorrebbero appiccicargli addosso sei anni di condanna in primo grado per l'affare Mills, ossia per una presunta colossale evasione fiscale, e che hanno indotto Berlusconi a modificare il decreto sulla sicurezza per introdurvi le sue solite e costituzionalmente micidiali leggine "ad personam". Ma in realtà, che sotto la maschera dello statista ci fosse sempre il solito Berlusconi, il demagogo insofferente dei controlli legali e istituzionali, era molto più di un sospetto dei malevoli. La strategia berlusconiana nel cammino verso Palazzo Chigi si era dispiegata con tutte le accortezze del caso. Il malfido Pier Ferdinando Casini era stato tenuto fuori dai confini del Pdl e dell'alleanza. Sopravvissuto elettoralmente, si era ritrovato in una posizione scomodissima, schiacciato fra Pdl e Pd, ignorato dai media, praticamente ridotto al silenzio; mentre l'altro dei dioscuri, Gianfranco Fini, che qualche mese fa aveva osato aprire una rissa a suon di insulti con il Cavaliere, era stato fatto accomodare sullo strapuntino della presidenza della Camera, terza carica dello Stato (in teoria), ma convogliato di fatto in un binario morto. Ma il vero capolavoro di Berlusconi era stato fatto con la formazione del governo. Con Palazzo Chigi sotto la flautata regia di Gianni Letta, punto di incontro e di gestione di relazioni politiche, civili, militari e clericali, Berlusconi ha messo i suoi tasselli nelle posizioni critiche del governo. Accanto al disarmante Angelino Alfano, come vero ministro ombra della Giustizia ha piazzato il suo penalista Niccolò Ghedini, l'Azzeccagarbugli di cui sono note le sottigliezze giuridiche. Con un gioco di pesi e contrappesi ha messo un ex fascista, Ignazio La Russa, alla Difesa e un secessionista, Roberto Maroni, agli Interni. E il capolavoro autentico è riuscito nell'assemblaggio del pacchetto di mischia del governo, in cui spiccano gli ultimi eredi del Psi e del craxismo (Renato Brunetta, Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi, Franco Frattini, per non citare Stefania Craxi). Ora, vecchi e giovani craxiani, come Berlusconi sapeva bene, una dote ce l'hanno: sono capaci di fare politica. Hanno, storicamente, pochi tabù. Come cultura, sono eclettici. E posti di fronte alla necessità di governare un paese in stagnazione economica, in cui sarà difficile rispondere alle aspettative suscitate fra i cittadini, soprattutto per ciò che concerne i redditi, specialmente Brunetta e Tremonti si sono detti che non era il caso di andare sul classico e sul prevedibile. Occorrevano invenzioni da «socialismo nazionale» (come disse Nino Andreatta nella polemica da "comari" con Rino Formica: anche se va ricordato che spesso Andreatta pensava in inglese, e la formula "national socialism", tradotta rigidamente in italiano, non suonava bene). Brunetta ha attaccato sul fronte del pubblico impiego, aprendo il fronte della trasparenza e passando alle minacce contro i «fannulloni». Tremonti ha provato ad applicare sul campo i postulati del suo pamphlet "La paura e la speranza", inventandosi la "Robin Hood Tax", diventata rapidamente "Robin Tax", in assonanza con la Tobin Tax dei no global acculturati, e che dovrebbe mettere le mani nelle tasche dei petrolieri e delle banche, tassando i profitti congiunturali. Ora, non ci vuole molto a capire che questa tassa è un taglieggiamento illiberale, e un'operazione di colossale demagogia (chi decide che i profitti sono eccessivi? Il ministro dell'Economia?). Altro che tassa «etica». Una gabella discrezionale, con verniciatura populista: un esercizio di cinismo politico a fini di consenso di stampo putiniano. Eppure, in un ambiente culturale moralmente deprivato come quello italiano pochissime voci si sono sollevate contro il disegno neostatalista di Tremonti. Vecchi e giovani liberisti, che fino a mezz'ora fa tenevano lezioni ultraliberali con il ditino alzato e le labbra a culo di gallina, si sono adeguati senza battere ciglio ai diktat di Tremonti. Il povero ministro ombra Pier Luigi Bersani ha provato a spiegare che l'aggravio fiscale verrà immediatamente scaricato sui consumatori, «alla pompa», ma la sua voce, così come le tenui critiche della Confindustria, è stata soffocata dagli applausi delle platee osannanti. Solo quando Berlusconi ha portato il colpo sulla giustizia qualcuno si è svegliato. E ha proceduto a un primo e provvisorio bilancio. Alla voce Alitalia, è probabile un mezzo disastro, dopo che il Cavaliere ha deliberatamente provocato il fallimento della trattativa con Air France; potrebbe risultarne uno spezzatino e una significativa perdita di posti di lavoro. Sui rifiuti a Napoli, il premier si è buttato a corpo morto, sempre sulla base dell'idea che i problemi si risolvono soltanto se lui si arrotola le maniche (ma ci vorranno tre anni, la militarizzazione delle discariche, e qualche prodigio nei tempi nella realizzazione dei termovalorizzatori). Il nucleare è stato rilanciato dall'esperto dell'uranio Scajola, senza nessuna discussione e senza nessun approfondimento, con l'annuncio che partirà nel 2013 ma ovviamente senza spiegare dove (dire quando si avvierà un programma nucleare è facile, dire i luoghi in cui si metteranno le centrali, invece, meno). Sul piano interno, dopo avere costruito un clima demenziale verso immigrati e zingari, e combinato qualche casino con il reato o l'aggravante legati alla clandestinità, il governo ha lanciato la pazza iniziativa della militarizzazione delle città, un segnale deprimente che moltiplica l'allarme per la sicurezza. In politica estera Berlusconi e Frattini hanno già offerto a George W. Bush, sull'impegno in Afghanistan, più di ciò che il presidente americano poteva e voleva offrire in cambio. In Europa, il governo ha annunciato che terrà fede ai programmi prodiani sul rientro del deficit e, a parte qualche volgarità leghista sul referendum irlandese, per ora non sembra coltivare vere vocazioni euroscettiche. Il resto, sfoltimento delle province e tagli pesanti agli enti locali, appartiene al Dna del centrodestra. Abolizione dell'Ici e detassazione parziale degli straordinari erano due misure simboliche, poco utili e forse dannose. Ma adesso che Berlusconi si è sentito obbligato a riaprire il cantiere del conflitto con la giustizia, che potrebbe avere riflessi distruttivi sul piano costituzionale (in particolare con il presidente della Repubblica), tutti gli infingimenti sono caduti. Per ciò che riguarda il Cavaliere, essendo lui naturalmente disinibito, si arrangerà: avanzerà o arretrerà in base ai suoi interessi, al timore delle condanne, alla prospettiva di farsi eleggere a maggioranza sul Colle più alto. L'attacco alla libertà d'informazione con il disegno di legge sulle intercettazioni prepara comunque un clima da "demokratura", con gli intellettuali sedicenti liberali che plaudono alla stretta sui media. In ogni caso, il problema riguarda soprattutto Veltroni: il Pd è diviso fra correnti, fondazioni, centri culturali, e l'intera sinistra appare talmente abbattuta (vedi i catastrofici risultati amministrativi in Sicilia) da rischiare l'evaporazione. Con ogni probabilità il disegno strutturale del leader del Pd, pacificazione politica e riforme, è abortito. Il risultato elettorale è stato fallimentare, il programma istituzionale sta per arenarsi di fronte alla protervia di Berlusconi. In questa situazione, non c'è congresso che possa rianimare il Pd. Ma se si tratta di inventare qualcosa per salvare il salvabile, per i "democrat" è venuto il momento di pensare a qualcosa di eccezionale, di emergenziale: forse perfino di eroico, anche se sappiamo che è sfortunato quel partito che ha bisogno di eroi.