L’Espresso
L'Espresso, 03/07/2008
Tragicronache
Ci perdonino Nesti e Civoli, Dossena e Bagni, Cerqueti e Bizzotto e todos los otros (lo spagnolismo macaronico in onore dei nostri eversori ai quarti di finale) se li accomuniamo in una sola categoria televisiva, quella del Telecronista della Nazionale. Perché non ce l'abbiamo con uno di loro in particolare. Ma non ci sono piaciute le telecronache dagli Europei mitteleuropei. Anzi, diciamola tutta: facevano addirittura rabbia. E quindi vediamo i difetti del Telecronista idealtipico, magari per correggerli con un po' di buona volontà la prossima volta. Punto primo: non si avverte un bisogno di retorica patriottarda. La Nazionale azzurra ha fatto pena anche contro una Francia in dieci e senza il bravo Ribery azzoppato: non era necessario trasformare una vittorietta risicata in un poema epico. Il calcio è nove volte su dieci di una noia letale, e quindi conviene aggiungere un buon tasso di interpretazione tecnica, non ululati nazionalisti. Già è un problema vedere Gattuso e soci che cantano l'inno (tranne l'oriundo Camoranesi e l'aspro Panucci, che tacciono) dicendo «siam pronti alla morte»; non c'è bisogno di aggiungere altro pathos. E poi, modesta proposta: non c'è nessuno alla Rai che faccia il tutor linguistico? Che fatica, sentire pronunciare "accelerare" con due elle, udire la parola "proseguio", l'"abbrivio", e accenti dialettali fastidiosissimi: «La squadra aggiocado... in prima battuda... ha colpido». Che ci vuole a richiedere a cronisti e commentatori un minimo di correttezza? (Per sfuggire a una cronaca particolarmente irritante, chi scrive ha guardato una partita sui canali tedeschi Ard e Zdf: auf wiedersehen, amici cari).
L'Espresso, 03/07/2008
governo alla card
Sarebbe il caso di spiegare al governo ombra e tutto il Pd che per fare un'opposizione decente occorrerebbe prima di tutto capire che cosa sta facendo il governo. Anzi, che cosa ci sta facendo. Invece il commento all'iniziativa dell'esecutivo è stato lasciato finora a sporadici interventi dei ministri ombra, senza che si sia proceduto a una lettura complessiva dell'azione di governo. Questo vale soprattutto per il programma politico-economico di Giulio Tremonti. In primo luogo bisognerebbe avere messo a fuoco, anche a fini polemici, che il governo Berlusconi è un governo che aumenta le tasse. Il suo inventore Tremonti ha avuto l'idea di intitolare la nuova tassa a Robin Hood, e anziché le pernacchie che si prese Romano Prodi nel giugno 1996, quando rispose a Sergio Cofferati dicendo che «per la prima volta Robin Hood agisce nella giusta direzione» (perché la manovra non colpiva i redditi bassi), si è guadagnato applausi e commenti ammirati. «Ganzo», scrive di continuo "Il Foglio"; e la fragilità morale della comunità intellettuale, quella che fino all'altro ieri aveva inneggiato al liberismo, induce al silenzio e alla corrività. Gli ultraliberisti che criticavano aspramente il centrosinistra ora svicolano, occupandosi d'altro. Dopo di che, con i soldi della tassa aggiuntiva inflitta a petrolieri, banche e assicurazioni, dovrebbe venire fuori il sostegno ai redditi più deboli. Purtroppo lo strumento individuato a questo scopo è deprimente, la cosiddetta "social card", una tessera che servirà più che altro a qualificare i poveri come una categoria ufficializzata da una carta annonaria del Terzo millennio. Essa dovrebbe assicurare, in modo per la verità problematico, un volume di sostegno annuale, fra sconti per l'energia e vantaggi ottenibili in centri di vendita convenzionati, di 400 euro. Si può segnalare che l'orrendo Prodi, l'uomo da dimenticare, la causa di tutti i mali del Paese, con una misura destinata ai pensionati al minimo e agli incapienti aveva trasferito circa 500 euro annuali, pronta cassa, senza umiliare nessuno con la tessera del pane. E allora si tratterà di inquadrare bene una serie di misure che tendono a selezionare con precisione gli strati sociali, ripristinando una specie di ancien régime. Non c'è niente di liberale in questi provvedimenti. C'è paternalismo e demagogia, come ha mostrato con i suoi conti Tito Boeri su "la Repubblica", facendo a pezzi la Robin Tax. Eppure Tremonti intimidisce le migliori intelligenze dell'opposizione, che si guardano bene dal dire che cosa significa in realtà la manovra del centrodestra. Quindi sarà meglio che i responsabili del Pd si sveglino e capiscano alla svelta che cosa sta succedendo. Il governo Berlusconi è un governo classista, una compagine corporativa, "arti e mestieri", mascherato da trucchi demagogici. Fa specie, considerando l'alto numero di personalità socialiste al suo interno, ma come si fa a negarlo? Basta prendere in considerazione una misura come l'abolizione della "tracciabilità" dei compensi professionali, un tratto di penna che ha tutto l'aspetto di una misura simbolo, un via libera per il ritorno a pratiche evasive. Vedremo in seguito se i tagli agli enti locali si configureranno come una deprivazione del welfare state, e se è cominciato e fino a che punto eventualmente si spingerà l'attacco alla sanità pubblica. Ma intanto, sembra di capire che Berlusconi e Tremonti si sono premurati di chiudere la bocca alla Commissione europea, accettando l'iter di rientro del deficit approvato dal governo precedente, in modo da avere mani libere all'interno dei confini. Qui in Italia faranno tutto il possibile per premiare il loro elettorato, cioè la vasta tribù del lavoro autonomo, a sfavore del lavoro dipendente pubblico e privato. Tutto questo fra gli applausi dei "laudatores", e mentre le migliori teste del Pd, da Michele Salvati a Nicola Rossi, sostengono che occorre proseguire sulla strada del "dialogo". Ma andiamo, quale dialogo? Anche senza recuperare il tema dei provvedimenti ad personam, l'attacco alla magistratura, la lettera imperiale al meschino presidente del Senato, il nuovo lodo Schifani, anche senza i giochetti su Rete 4 e contro il Tribunale di Milano, il governo Berlusconi è il governo della "card" per i poveri. Basterebbe questo a qualificare la sua politica come una politica peronista. Tanto varrebbe rendersene conto, elaborare l'identità del governo Berlusconi come tema qualificante. Il ritorno alla politica, da parte di un Pd avvilito, coincide anche con la fine delle illusioni.
L'Espresso, 10/07/2008
Afflitti dalle fiction
Premessa maggiore. Finalmente! Finalmente abbiamo capito perché la fiction italiana fa pietà e le soap domestiche fanno pena. Non è solo questione di storie miserabili, intrecci stupidini, ambientazioni deprimenti, tanto che molto spesso è sbagliato l'arredamento e fanno schifo anche i mobili. Adesso sappiamo che quando si vede un'attrice cagna, o "cagna spaziale", può dipendere certamente da un casting sbagliato, ma il più delle volte dipenderà da raccomandazioni che vengono dall'alto, insensibili al merito. Ma anche sul piano internazionale le cose non vanno sempre lisce. La nuova sitcom di Fox, "Til Death - Per tutta la vita" (in onda il mercoledì sera alle 21,50) prometteva bene. Due coppie a confronto, i Woodcock e gli Starck: i primi sposati da appena dodici giorni, e quindi dotati di entusiasmi e fervori amorosi, e perfino erotici; gli altri due con lungo matrimonio, 24 anni, alle spalle, e quindi scetticismi, abitudini, stanchezze, allegri o rassegnati cinismi. Le prime due puntate erano ben scritte (quelle successive meno); buone le battute, discrete le storie, ottimamente intercettati i tic. E allora perché il programma non funziona? Con ogni probabilità perché sono sbagliati gli attori. Pazienza per la coppia di sposini Woodcock, un po' troppo prevedibilmente scemi ma accettabilmente carini. Ma i due Starck sono davvero orridi, lui un omone impresentabile e rozzo, lei un botolo di cellulite. Recitazione naturalmente sopra le righe, solite risate registrate, alla fine sensazione di fastidio, e la certezza di un'occasione persa. C'è solo da sperare che non li abbia raccomandati nessuno.
L'Espresso, 17/07/2008
Carmen cult
Nella bassa stagione si riprende l'abitudine a fare zapping in modo compulsivo. Nell'ora del cocomero, quando l'afa notturna si attenua, si può fare il censimento della tv porcellona o boccaccesca: che è molto diversa, si badi bene, dalla macelleria fisica rintracciabile nei canali che mostrano le modelle di "Playboy" o qualche bordello in Arizona dove cowboy panciuti si accoppiano con signore quarantenni che filosofeggiano sul sesso (per punirli, evidentemente). Si trovano invece piuttosto spesso commedie italiane degli anni Settanta, i filmetti di serie B che hanno avuto la loro epoca e i loro protagonisti: Alvaro Vitali, Pippo Franco, Renzo Montagnani, Edwige Fenech e compagnia bella. Si tratta di pellicole spaventosamente brutte, che provocano una sincera pena al pensiero che il popolo potesse divertirsi con quella roba. Mica per moralismo: ma dopo avere visto dodici volte la scena in cui lei, la bonona, fa la doccia mentre il coglione guardone la spia dal buco della serratura, e fa versi da assatanato, che altro aggiungere? Però qualche sera fa, su un canale qualsiasi di Sky, è andato in onda un presunto cult della B- Comedy italiana. Si trattava dell'indimenticato "Ecco lingua d'argento", di Mauro Ivaldi, con Carmen Villani. Il punto che fa scattare l'ammirazione è quando lei, la Villani, arriva all'aeroporto, si siede tutta scosciata e la macchina da presa si abbassa per inquadrarle le mutande: al che, lei fa no con il ditino, «alza, alza, non è ancora il momento, troppa fretta». Siamo in pieno metafilm, in un gioco di ricatti e di risarcimenti al povero spettatore. Quella scena pazzesca vale una serata. Viva Carmen.
L'Espresso, 17/07/2008
Nessuno lo può giudicare
Per dire la verità, la semplice e banale verità, non sarebbero necessari 120 costituzionalisti di chiara fama; non ci vorrebbero moltitudini di studiosi per stabilire accademicamente che il cosiddetto lodo Alfano è la solita puzzonata targata Arcore. Semmai fanno specie gli altri 30 o 31, anche loro sommi specialisti di affari costituzionali, i quali invece dicono che insomma, tutto considerato, valutate le circostanze e le attenuanti, il lodo si può fare. A chiarire e sistemare le cose basterebbero alcuni semplici quesiti, roba infantile. Tanto per dire: per quale motivo dovrebbero essere tutelate le prime quattro cariche dello Stato, e non le prime cinque, sei, sette, otto? Se c'è una minaccia giustizialista e l'assalto dei pm, non sarebbe il caso di mettere al riparo dai tribunali il presidente della Corte costituzionale, carica delicatissima, o il presidente dell'Antitrust, mandato decisivo e vulnerabilissimo nell'economia di un libero mercato assediato da monopolisti? E non sarebbe il caso di valutare con estrema attenzione il fatto che in una democrazia funzionante andrebbe garantito e protetto il capo dell'opposizione, ben più che il capo della maggioranza? Per fare un esempio specioso, ammettiamo che domani il presidente del Consiglio si stizzisca per le punzecchiature di Veltroni, e gli scateni contro i suoi avvocati-deputati come il suo personale ministro ombra, l'infallibile e impagabile "Nick" Ghedini. C'è o ci sarà un qualche lodo Alfano che possa proteggerlo? E infine: è dato di sapere, una buona volta, come si può conciliare l'uguaglianza costituzionale dei cittadini di fronte alla legge e la disuguaglianza "de jure atque de facto", come nelle corti barocche, stabilita lì per lì, attraverso la legge ordinaria redatta da un valvassore? A cui si aggiunge l'ipocrisia suprema, il lodo per le quattro cariche, di cui tre non se ne fanno e faranno nulla, mentre uno ne ricaverà nientemeno che il salvacondotto, al quale il sire ambiva da 14 anni, dai tempi di Tangentopoli e del suo primo sfigatissimo governo. Eccoci qua, al salvacondotto. Al codicillo proposto da Antonio Polito sul "Riformista", giusto in tempo per essere bacchettato da Eugenio Scalfari (attraverso l'icastica figura del «prolasso etico»); ma che è una tentazione ricorrente dell'Italia pragmatica, quella che non vuole restare sequestrata dal dibattito sui guai giudiziari di Berlusconi e sulle misure da lui volute per sistemare la mordacchia ai pubblici ministeri e ai giudici. Quell'Italia che ha sempre pensato: mettiamoci infine una pietra sopra, ai pasticci penali del Cavaliere, e proviamo se in questo modo diventiamo un paese normale. Sono le storie impossibili di una singolare e schizofrenica Italia fondamentalmente conservatrice e di destra, quella che secondo Renato Mannheimer manda in alto il consenso a Berlusconi proprio per il suo conflitto con i giudici, e al contrario, secondo Ilvo Diamanti, lo manda giù, guardando alla situazione generale. Un'Italia che comunque è vicina a una risultato praticamente definitivo: quello di vedere eliminata qualsiasi insidia giudiziaria o penale sul cammino del divo Berlusconi (a proposito del "divo": anni fa, Giulio Andreotti scriveva in uno dei suoi aforismi sul potere: «Le sentenze non si discutono, si appellano». Altro stile, altra classe). Mentre dunque si prepara un'Italia di bramini intoccabili, diversa dai semplici cittadini, orwellianamente «più uguale degli altri», sarà opportuno ripensare a ciò che è successo in questo esordio di legislatura. In prima istanza Berlusconi e i suoi avvocati hanno lanciato la proposta insensata e caotica del provvedimento «blocca processi», insieme con un polverone mai visto sulle intercettazioni, per mostrare come Berlusconi fosse vittima del gossip giudiziario. Fra l'altro, stupisce che non ci sia nessuno che si chieda come mai un uomo schiacciato dal lavoro come il Cavaliere trovi il tempo di raccomandare soubrette alla concorrenza, con telefonate lunghissime, defatiganti, e di occuparsi di carriere femminili con un'assiduità che dimostrerebbe più che altro una ingente disponibilità di tempo, e la pazienza di affrontare colloqui telefonici con Saccà e gli altri (d'altra parte, non sembra sia stata smentita la vicenda di re Silvio che compra un set di coltelli a una televendita notturna: la prossima volta che ci racconta la favola delle notti in bianco a lavorare, siamo autorizzati a prenderlo a pernacchie: se ne sta lì con il pollice su telecomando, altroché). Ma per tornare al punto, quando la tensione, anzi, il conflitto fra le istituzioni è diventato insostenibile, con seri rischi di una slabbratura che investiva gravemente il Quirinale e giustificava le manifestazioni di piazza a difesa della Costituzione, i prestigiatori del Pdl sono riusciti nel capolavoro di presentare un'ipotesi odiosa di baratto come una mediazione politicamente civile. Via il fermaprocessi in cambio del lodo Alfano sulle quattro cariche. Una vergogna totale sostituita da una vergogna parziale. Per chi ama il male minore, una mediocre festa del realismo. Per i realisti, una rivincita della politica, rispetto alle usurpazioni del potere giudiziario. E se qualcuno dell'opposizione obietta, gli viene risposto che con i giustizialisti non ci può essere il "dialogo". Ma in realtà anche il "dialogo" appartiene alla categoria dei miti, delle mitologie, delle leggende e delle manipolazioni. Dicono gli intimi che il premier si imbufalisce se qualcuno osa parlare di una sua «mugabizzazione». Eppure il via libera al lodo Alfano in cambio del bloccaprocessi assomiglia molto alle soluzioni precotte per lo Zimbabwe, con la richiesta mediatoria di un governo di unità nazionale dopo che Robert Mugabe ha fatto tutto il possibile e anche l'impossibile per truccare le elezioni. Oltretutto, per una di quelle coincidenze clamorosamente beffarde che la storia talvolta offre, al G8 di Tokyo Berlusconi è riuscito in un altro dei suoi capolavori in politica internazionale, prima opponendosi alle sanzioni contro il dittatore Mugabe e i suoi brogli, e poi approvandole con una tardiva alzata d'ingegno, in seguito alle «considerazioni degli altri paesi»: quando si dice la fermezza. Il Mugabe "de noantri" sta riuscendo nella sua strategia di sottrarsi alla morsa della magistratura, e per completare questo prodigio inaugura una specie di "demokratura", un misto di democrazia e dittatura alla Putin, apparentemente tollerante, che però distorce le regole della democrazia, intanto che tutti i suoi famigli applaudono, o al massimo manifestano obiezioni flessibili, e poi applaudono di nuovo non appena si prefigura il "compromesso", cioè l'imposizione in cambio del male peggiore. Ma non è così, le cose non vanno bene, almeno sotto il profilo di una democrazia decente. A Palazzo Chigi c'è il "Joker" che manipola le regole accusando le solite toghe di voler ribaltare il risultato elettorale; intorno a lui una corte di fantasisti che giocano col fuoco. Già, perché mentre Berlusconi e la sua corte di insigni giuristi stanno stravolgendo le regole per imporre leggi canaglia, i suoi ministri lavorano alacremente per migliorare l'Italia. Non dovrebbe essere sfuggito il flop catastrofico della cosiddetta Robin Tax, che come era prevedibile e previsto finirà in un cassetto senza dare un centesimo di gettito (a parte i 200 milioni di euro messi volonterosamente a disposizione del governo da parte di Paolo Scaroni per conto dell'Eni: una decisione inspiegabile su cui qualche azionista farebbe bene a chiedere chiarimenti). E a questo punto, che ne sarà della "social card" per gli anziani e i poveri, quella che doveva assicurare ai miserabili, ai vecchi, la bellezza di un euro al giorno? Si è capito o no che si è giocato sulla pelle degli ultimi? Qualcuno si sveglierà, finalmente? Non ci vuole molto a comprendere la situazione, semplicemente applicando le categorie della politica più tradizionale. Nonostante tutte le bugie e le dichiarazioni più enfatiche, il governo Berlusconi si appoggia su una maggioranza che non ha una cultura comune di governo. Lo si era detto in campagna elettorale, allorché non si riusciva a capire come potessero stare insieme la Lega che vuole i soldi al Nord e Raffaele Lombardo che pretende aiuti per il Sud. Ma adesso appare in tutta chiarezza che il governo Berlusconi è una compagine di fissati: c'è quello ossessionato sulle impronte digitali, quell'altra che ha la mania dei grembiuli a scuola, il tale che vuole licenziare tutti i fannulloni della pubblica amministrazione. E così via. In questa situazione, andrebbero ribadite alcune piccole realtà che sfuggono a chi si occupa di massimi sistemi costituzionali e che parla di "guerra civile" in atto. In primo luogo: la presunta guerra civile non è stata innescata dall'opposizione, bensì da provocatorie iniziative del governo. Non è il caso di chiamare con il titolo di guerra civile una normale e democratica reazione alle distorsioni di re Silvio. Secondo: entriamo nei particolari e vedremo che le fantasmagoriche iniziative del governissimo di Berlusconi aumentano tendenzialmente il peso fiscale (proprio così, gli ex liberisti fautori della curva di Laffer hanno abbandonato qualsiasi velleità di tagliare le tasse), anche se lavorano alacremente per ricostituire i margini di evasione delle corporazioni che possono ricorrere al nero, e al ricatto dell'Iva sui clienti. Date queste condizioni, è difficile pensare a ostruzionismi o peggio all'Aventino. Il governo Berlusconi scenderà sulla terra soltanto dopo l'estate, quando gli italiani, di ritorno dalle ferie, si renderanno conto che sono stati imbrogliati. Al primo temporale di settembre, andremo a controllare gli indici di consenso. Nel frattempo, allacciamo le cinture.
L'Espresso, 31/07/2008
Strada infinita
Chi volesse guardare la puntata dedicata a "La Salerno-Reggio Calabria. L'autostrada che non c'è", andata in onda su Rai 2 il 16 luglio, può trovarla facilmente nel sito di "La storia siamo noi". Il programma, voluto da Giovanni Minoli, è stato realizzato da Emilia Brandi, e rappresenta uno di quegli approfondimenti, fra storia e cronaca, che raccontano un pezzo d'Italia che non riesce a diventare moderna. Sono passati praticamente cinquant'anni da quando fu annunciato il progetto dell'A3, e ancora oggi l'autostrada Salerno-Reggio rappresenta un'infrastruttura essenziale che non riesce a diventare completa. Un tramite e nello stesso tempo una frattura. Uno scandalo, se si vuole, ma nel senso di uno scandalo storico, che si protrae nel tempo e ripercuote il proprio fallimento sull'intero Sud. Il programma della Brandi espone un ampio materiale d'archivio, che racconta la storia tormentata dell'autostrada "che non c'è", o non c'è ancora. Ma oltre alla denuncia di un disfunzionamento impensabile per un paese europeo, si sente la sensibilità dell'autrice nel raccontare lo sfondo sociale su cui si iscrive quella vicenda. Esemplare, ad esempio, il racconto di una donna che allegramente spiega come l'arrivo sul teatro delle operazioni dei lavoratori delle varie aziende portò a una serie infinita di matrimoni. «Si sposarono tutte, non ne rimase nessuna, anche le orbe e le zoppe, e pure una che era zoppa e orba insieme». Un piccolo trattato di storia sociale che illumina il Meridione di allora, un paese arcaico che cerca di progredire, ci riesce in parte, si ferma, e si trova continuamente di fronte al bivio fra il passato e un futuro possibile e continuamente negato.
L'Espresso, 31/07/2008
che palla il campionato
Benvenuti, bentornati. Il pallone è di nuovo tra noi, i giocatori pure. Ah, che piacere. Fra poco si avvia il campionato d'agosto, quello delle illusioni; scenderanno in campo le squadre per i preliminari di Champions League, e ripartirà anche il campionato di serie A vero e proprio, il più bello del mondo... Sì, buonanotte: il torneo calcistico italiano era già stato declassato da tempo a "più difficile". Adesso tira un venticello maligno, che sussurra come il campionato domestico sia precipitato giù, dietro quello inglese, più sotto di quello spagnolo. Basta guardare la composizione delle squadre, dove abbondano i contratti con giocatori matusalemme, bravi vecchioni che avrebbero buone opportunità di spendere le ultime energie nelle serie minori, atleti logori e rabberciati che invece s'impegnano allo spasimo per lucrare l'ultimo contratto nella massima divisione. È questo il grande spettacolo offerto dal calcio italiano? Innanzitutto sarà il caso di intendersi. Il calcio nazionale è stato miracolato dalla vittoria nel mondiale a Berlino due anni fa. La spedizione guidata da Marcello Lippi usciva da Calciopoli, si temprò nella bufera, divenne un gruppo inscalfibile e riuscì a battere squadre teoricamente più quotate, fino alla vittoria ai rigori contro la Francia, nella partita passata alla storia per la testata di Zidane a Materazzi (la signora Betancourt faceva meglio a stare zitta, invece di dire l'eterea sciocchezza secondo cui aveva «adorato» quel colpo di testa). Invece, la verifica dei campionati europei è stata particolarmente impietosa. Una squadra vecchia, piena di bamboccioni tatuati, capace di far giocare male tutti gli avversari, anche gli spagnoli che avrebbero meritatamente vinto il torneo continentale, ma incapace di giocare bene, di concludere, di segnare. Un allenatore probabilmente bravo ma vicino alla sfera dell'incomunicabilità, come Roberto Donadoni, comunque non portato a suscitare entusiasmi dentro e fuori la squadra, anzi, a portarla dentro un film di Antonioni, «mister, mi fanno male i capelli». Una compagnia di assi e fuoriclasse giudicati tali nelle squadre di appartenenza ma non in grado di confermarsi sul piano internazionale, fino al punto di suscitare discussioni metafisiche: sono scarsi loro o è scarso il campionato in cui eccellono? Vabbè che il calcio non è quasi mai una cosa seria, e in quanto tale lo si può prendere sul serio solo scherzandoci sopra. Perché o si è tifosi accaniti, vicini al lessico e all'immaginario degli ultras; oppure si ama il calcio come oggetto di accademia "discutidora", senza integralismi. E senza fissazioni manualistiche o documentarie: per esempio, si può sostenere che nella rosa delle quattro semifinaliste agli Europei non c'era un solo atleta che giocasse nel campionato italiano. Vero o falso? Ma intanto è un'ottimo punto di partenza per sostenere la tesi che il campionato italiano è al disarmo: squadre decotte, stadi vecchi e brutti, diritti televisivi che hanno oscurato la serie B, riducendola a un campionato provinciale e senza pubblico, dirigenti pasticcioni, bufale e bidoni in andata e ritorno, partite arrangiate come sempre, con torte e biscotti qua e là. Bellissimo clima, si potrebbe obiettare, molto simile agli anni Sessanta, quando governavano, con rotoli di banconote, i "ricchi scemi". Un tuffo negli anni Sessanta, un revival. Per un Mourinho che viene, un Adriano che torna. Il tecnico portoghese, «the special one» per autodefinizione, professionista assoluto ed euclideo, promette di dare un contributo fantastico alle discussioni: sotto il profilo politico perché dicono che sia un uomo di destra, anzi qualcuno sostiene che sia un salazarista convinto, cioè un perfetto reazionario; sul piano tecnico perché ha tutta l'aria di essere un teoreta sublime, uno di quegli astratti filosofi del gioco schematizzato che tendono a considerare il pallone, sotto sotto, come un fastidioso inconveniente rispetto alla perfezione dei moduli e dei movimenti, e chissà come godrebbero a eliminarlo del tutto, o almeno a sostituirlo con una palla quadrata. Per questo non si sa come Mourinho inquadrerà il neoacquisto Amantino Mancini, brasiliano "de Roma", che non solo ha il cognome del suo predecessore sulla panchina dell'Inter, ma ha anche l'abitudine alla finta e al dribbling, anzi alla "pedalada", un gesto che probabilmente il tecnico portoghese detesta dal profondo del cuore (ammesso che Mourinho un cuore ce l'abbia). Quanto all'interista Adriano, il centravanti brasilero che doveva sfondare il mondo e a un certo punto era divenuto più noto per il numero di lattine di birra mediamente seccate in una nottata che non per il numero dei gol realizzati, è la punta di diamante, si fa per dire, di una delegazione brasiliana che sembra destinata a rinverdire patetismi carioca, promesse di impegno e saudade senza rimedio. Al di là di Kakà, campione assoluto del Milan, richiestissimo dalle migliori società europee con offerte praticamente folli, dei brasiliani non se ne può praticamente più. Il decantatissimo Pato, l'adolescente "papero" del Milan con l'apparecchio per i denti, è stato precocemente ridimensionato da star globale a discreta promessa: figura nelle formazioni base come punta centrale del Milan berlusconiano (ma se le cose si mettessero male, per il ragazzino che fa con le dita il simbolo del cuore, poverino, quando segna, c'è sempre pronto l'irriducibile vecchiaccio Pippo Inzaghi); alle spalle, il sullodato Kakà e il neoarrivato Ronaldinho, altra scommessa su un campione esausto, che il Milan Lab dovrà rimettere in sesto e Carletto Ancelotti proverà a rimettere in forma anche mentale, in modo che possa ritornare a essere il cartone animato imprendibile, il "Bip Bip" dei primi tempi al Barcellona. Ma il calcio contemporaneo è insieme mediocre e spietato. Lo si è visto per esempio con Ronaldo, controfigura di se stesso, divenuto un ex mentre era ancora sul campo, per poi finire in storie di viados e di vacanze. Sicché si tratterà di vedere se le tante chiacchiere spese per presentare con i colori dei fuoriclasse i nostri attaccanti, dal reduce Cassano al sempre vivo Del Piero, servono davvero a descrivere la realtà o un sogno (sia l'uno sia l'altro, agli europei, hanno giocato sul filo della mediocrità). In ogni caso è già scritto che il campionato è una partita a quattro: Inter, Milan, Juventus e Roma. E questo è già un motivo intrinseco di noia. Sarebbe divertente se almeno nel girone d'andata venisse fuori una sorpresina, una Fiorentina: perché Cesare Prandelli è un allenatore capace di valorizzare i suoi uomini, e anche di rigenerare il povero Gilardino, che in pochi anni al Milan è passato dalla categoria di grande goleador a quella di attaccante nevrotizzato: se Prandelli riesce a far tornare in spolvero l'ex milanista, se Mutu si farà ancora sentire, la Fiorentina farà male a tutti, con grande gioia di chi ama gli outsider. Altrimenti prepariamoci a un campionato noiosissimo e scadente, con pochi spettatori sugli spalti e le televisioni che intanto inneggiano, "et pour cause", a un gioco straordinario. C'è una distanza siderale, insomma, fra le idee e la realtà. Forse, anche per il calcio italiano è il caso di lasciare le presunte stelle nel loro cielo, e di tornare con i piedi per terra. n
L'Espresso, 13/08/2008
Little Rai
A quanti programmi di revival sugli anni Sessanta e sulle "migliori canzoni della nostra vita" abbiamo potuto assistere negli ultimi dieci o vent'anni? Non appena le temperature si fanno più dolci, di solito su Raiuno, e poi replicati mille volte sul satellite, sotto la conduzione di soubrette piuttosto minori, e sotto l'entusiasta piglio presentatorio di Carlo Conti, riappaiono i cari mostri della nostra fanciullezza e adolescenza. Possono essere Little Tony o i Camaleonti o i Dik Dik (più precisamente i "Dikki Dikki", come ha sempre pronunciato Pippo Baudo), oppure uno qualsiasi dei divi popolari dell'età del mito, dell'innocenza, dell'incoscienza. Però ogni volta è la stessa solfa, al di là del fatto che si premi la canzone, il cantante, il mezzo dilettante o semiprofessionista che reinterpreta alla meglio i successi di quarant'anni fa, o il video girato ex novo che esplora i significati reconditi di quell'antico brano. C'è una legge infallibile, che dice: ogni riproposizione di una canzone vecchia e recuperata dal passato è peggiore dell'originale. I cantanti invecchiano, i nuovi fanno discreta pietà. E quindi anche i programmi, di volta in volta, peggiorano insensibilmente, fino a sfiorare abissi di peggioramento. Ragion per cui sarebbe il caso di smettere. Forse l'unico modo serio per vedere e riascoltare i protagonisti di un'altra epoca è filologico, facendo ripassare i filmati di repertorio. Allora ci si può anche commuovere, a vedere com'eravamo provinciali (ma miracolosamente connessi al mondo, in sintonia con la rivoluzione del costume). Mentre rivisti adesso, i nostri cari vecchioni inducono solo alla ripetizione della gag di Gene Gnocchi: «Ma com'è diventato veeecchio!».
L'Espresso, 13/08/2008
veltroni al bivio di settembre
Certo è difficile inventarsi strategie politiche in agosto: e allora per il Pd conviene proiettarsi sulla riapertura dopo le ferie. Settembre può diventare una stanca parata di numeri due e di dibattiti frustranti alle ex feste dell'Unità, ora in molti casi Feste democratiche, in cui si continuerà a dire stancamente che Silvio Berlusconi con il suo governo non fa niente per i ceti poveri e il reddito fisso. Oppure si può cominciare a fare opposizione in modo convinto e convincente: se lo si fosse dimenticato, ci sono davanti a noi quasi cinque anni di governo di destra; ergo il mestiere dell'opposizione va imparato e praticato (è il mestiere che gli elettori hanno assegnato al Partito democratico). Prima premessa: fuori i conti. Pierluigi Bersani insiste che il deficit stimato dal ministro dell'economia Giulio Tremonti è sovrastimato, e lascia intendere che il guru no global dell'antimercatismo sta costituendo una provvista per i costi delle riforme future, forse per superare indenne gli shock di spesa del federalismo fiscale. Non conviene avere un'idea chiara e passare a una battaglia manovriera sui conti del superministro? Seconda premessa. Con una delle sue più spettacolari giravolte acrobatiche, Berlusconi ha annunciato che si taglia la spesa pubblica per non aumentare le tasse. Ma la riduzione del carico fiscale è sempre stata la stella polare del capo del Pdl; mentre adesso sostiene che ci dobbiamo accontentare che le tasse restino come sono, se non dovranno addirittura aumentare. Una presa in giro colossale, pronunciata con la faccia tosta dello statista preoccupato, mentre si ha la sensazione, come ha intuito Enrico Letta, che la flessione dell'Iva sia dovuta non solo e non tanto alla crisi dei consumi, bensì alla ripresa dell'evasione. Quindi è il caso di mettere a fuoco in primo luogo il tema politicamente più rilevante di questa stagione. A dispetto delle storielle di un'azione sedicente "di sinistra", per autocertificazione berlusconiana, il governo in carica e la sua maggioranza hanno tutto l'aspetto di un esecutivo esplicitamente classista. Hanno diviso in due la società italiana, corporando gli interessi delle imprese e del lavoro autonomo, premurandosi di aggiungere qualche lustrino e le fatuità come la "social card" per illudere la componente più inconsapevole di lavoro dipendente, pensionati e marginalità sociale. In questo modo, il governo sta consolidando il blocco sociale di riferimento, a cui concederà di arricchirsi sfruttando l'inflazione (cioè manovrando i prezzi ai danni di coloro che non possono rivalersi). Si tratta di un'analisi rozzamente materialista, come no; ma come talvolta succede, la rozzezza individua un problema; sarebbe dunque un errore per il Pd occuparsi soltanto dell'eleganza astratta dei diritti e delle costuzioni giuridico-costituzionali mentre la destra comincia a spolpare concretamente il lavoro dipendente a ogni livello professionale. E allora Walter Veltroni e tutti i ministri del governo ombra dovrebbero fare il piacere di uscire dall'estemporaneità e dalle dichiarazioni a stralcio sui singoli provvedimenti. Basta guardare gli attacchi al welfare, alla scuola, a tutte le strutture pubbliche, per rendersi conto che il governo Berlusconi sta preparando un colossale trasferimento di richezza da una parte all'altra della società. Qualcosa di simile a ciò che avvenne con l'adozione dell'euro, quando a interi settori e categorie fu concessa mano libera ai danni del reddito fisso. Se lo schema non fosse ancora chiaro, ripetiamolo: il Pdl sta preparando le condizioni per diventare una maggioranza permanente, e lo fa con i soldi degli altri. Poiché la situazione è drammatica, e la prospettiva scoraggiante, ci vuole uno scatto di iniziativa. Una ricognizione minuziosa sugli andamenti economici, sul contenuto delle misure del governo, e una campagna d'autunno razionale e corale. Per capirci: il discorso sulle riforme (federalismo, Costituzione, giustizia) non sono in questo momento la vera priorità per il Pd. La priorità effettiva è contrastare l'azione di una maggioranza politica che potrebbe costringere il Pd a diventare effettivamente, come ha detto Massimo D'Alema, un «minoranza strutturale» nel Paese e ad «aggregarsi» alla maggioranza, secondo il lessico del Cavaliere. Se non si coglie questa drammaticità, Veltroni continuerà a essere un capo politico ininfluente, il Pd un partito ipotetico, l'opposizione un esercizio fumoso. È ora di svegliarsi. Altrimenti, quando ci si sveglierà davvero, sarà il risveglio da un incubo a portare il Pd e i suoi elettori nella realtà più nera.
L'Espresso, 21/08/2008
Indovina chi viene a cena
Tra le infinite evoluzioni della televisione, non sono state ancora messe bene a fuoco quelle della tv digitale mobile, cioè quella che si vede sul telefono cellulare. Basta guardare ai pacchetti gratuiti e a pagamento di 3 Italia, e in particolare il canale guida La3, per intuire sviluppi ancora imprevedibili. Informazione, intrattenimento, film, musica, sport (comprese le Olimpiadi), accedendo ai programmi della Rai, di Mediaset e di Sky. Senza contare che adesso con tre cavetti colorati si può collegare il cellulare al televisore, e vedere i programmi in grande formato. Ma quali programmi fornisce il canale La3? Molta tv "on the field", fatela da voi: invenzioni di televisione anche sperimentale e perfino estemporanea per misurare la flessibilità produttiva del mezzo televisivo. Ad esempio, in "3Cut" gli studenti del Dams di Bologna riducono a 30 minuti un film della library della rete. Il programma "3Stage" è un reality sulla messa in scena di uno spettacolo teatrale. Poi altri programmi di musica, cinema e nuove tecnologie. Il più divertente tuttavia è un reality show tradizionalista, "Mangio a scrocco", che va in onda (naturalmente all'ora di pranzo) dal lunedì al venerdì. È un format culinario: un critico gastronomico recensisce un ristorante; se il giudizio è positivo scrocca il pranzo, intervista lo chef e presenta la ricetta del piatto da celebrare; se invece il pranzo non è di suo gradimento, paga il conto e procede alla stroncatura. P.S. La3 è ottima da ufficio; attenzione, nel pubblico impiego, a non farsi beccare da Brunetta, che licenzierebbe subito i fannulloni televedenti, istituendo una nuova causa di conflitto sindacale.
L'Espresso, 28/08/2008
Botola sadica
Basta la sigla del programma condotto da Frabrizio Frizzi "La botola" (su Raiuno dopo il tg delle 20) per capirne la perfezione. La botola è una botola reale, che riporta con il pensiero a torture ed esecuzioni capitali. Qui a farsi torturare benevolmente da Frizzi e a subire la pena della botola che si spalanca sotto il perdente, e lo fa cadere in un sotterraneo pieno d'acqua, sono i soliti italiani medi, quelli sempre pronti a candidarsi alla "Corrida". Sono tutti simili: sanno fare una cosa, un numeretto, un piccolo show, cantare una canzone stonando il giusto, suonare brani orchestrali tamburellando sui denti (un vero classico degli artisti dilettanti), esibirsi in spettacolini di danza. Sono in genere mediocri, ma Frizzi è un maestro a cogliere nelle esibizioni di ognuno un tratto personale apprezzabile: se stona ammira l'energia, se non va a tempo sottolinea la personalità. Ma il clou è l'acme di sadismo che si registra nel momento in cui due contendenti vengono piazzati su due botole affiancate, in attesa della decisione del voto del pubblico che condanna l'uno o l'altro a precipitare nel vuoto e nell'acqua. Vale la pena di rischiare uno shock acquatico per puntare a una somma modesta? Il fatto è che i concorrenti non puntano al denaro. Desiderano andare in scena, mostrare in tv la specialità che ha fatto divertire parenti e amici. Siamo sempre dentro il familismo amorale più il "Grande fratello", frullati in un solo show serale. A ogni botola che si apre, non si sa bene se prevale il divertimento per la piccola suspense o la vergogna per vedere maltratti dei virtuali vicini di casa. Alla lunga, prevale l'insofferenza.
L'Espresso, 28/08/2008
CAVALIER RECESSIONE
I primi cento giorni del Caimano, del Cavaliere, dello "statista", dello stratega di affari geopolitici sono una sfida micidiale al Pd e a tutte le opposizioni. Anzi, un attacco putiniano in pieno assetto di guerra. Peccato non essersene accorti. Come ha detto Giulio Tremonti presentando la manovra: «L'Italia possiede un punto di forza: la stabilità politica; che resterà per cinque, dieci, forse quindici anni». Se il Pd fosse meno impegnato nelle sue beghe, a creare fondazioni, a demolire Sergio Chiamparino, a proiettare nel cielo dell'estate vaghe astrazioni fra il letterario e lo sciamanico, un lunghissimo brivido scenderebbe nella schiena dei suoi dirigenti, primo fra tutti Walter Veltroni. Come aveva detto Massimo D'Alema? Rischiamo di diventare una «minoranza strutturale». Infatti, per la prima volta si assiste in Italia al profilarsi di una nuova specie di guerra di classe. Berlusconi e Tremonti hanno in mente il progetto perfetto per diventare eterni. Per capirlo, bisogna uscire dal coacervo dei singoli provvedimenti: l'abrogazione dell'Ici era un atto dovuto dopo la campagna elettorale, la detassazione (parzialissima) degli straordinari è una misura irrilevante nella quantità, la campagna su immigrazione e sicurezza ha un valore simbolico fortissimo, con l'esercito in strada e le vecchiette che dicono «vi vogliamo bene» ai soldati, ma i suoi contenuti saranno da valutare più avanti. Ma è il lavoro dietro le linee quello che viene condotto dal governo, e nasce da una concezione darwiniana della politica. Di destra vera e cattiva, senza inibizioni e remore culturali. Il Popolo della libertà vede con chiarezza una perdita di peso del lavoro dipendente e di tutti i ceti riconducibili nel perimetro del reddito fisso, e quindi la possibilità di creare un blocco sociale di maggioranza che possa confermarsi, come ha ripetuto Tremonti, «a tempo indeterminato». Un settore politico che copre la metà della società, "la società del 50 per cento" (diversamente dalla «società dei due terzi» descritta a suo tempo dal socialdemocratico tedesco Peter Glotz), che governa agevolmente contro tutti gli altri ceti dispersi e perdenti. Per ottenere questo scopo, a suo modo "storico", Berlusconi si è premunito garantendosi l'immunità, con la cinica operazione del provvedimento bloccaprocessi, che è servito a introdurre la "mediazione" del lodo Alfano: prima si minaccia l'atomica e poi si negozia da posizioni di forza. Un capolavoro di violenza sulle istituzioni. A questo punto, sereni e tranquilli, si può passare alla Fase 2, la fabbricazione di una maggioranza sociale e politica non aggredibile dalle opposizioni. Con un esemplare ragionamento da economista, Francesco Giavazzi sul "Corriere della Sera" del 17 agosto ha scritto che Tremonti, che pure ha evocato spesso lo spettro del Ventinove, «rischia di ripetere gli errori di Herbert Hoover, il presidente che, nel tentativo di raggiungere il pareggio di bilancio nel mezzo di una recessione, creò le premesse per la grande depressione». Tremonti, dice Giavazzi, tiene la pressione fiscale invariata per un triennio, «al livello elevatissimo al quale l'aveva lasciata Prodi». Strano, per gente che aveva sempre puntato sul "meno tasse per tutti". Tanto più, aggiunge l'editorialista del "Corriere", che «come ha spiegato con grande chiarezza Guido Tabellini (...), ciò che servirebbe è un'energica riduzione delle tasse sul lavoro». Ora, consideriamo che Giavazzi è uno dei più celebri economisti italiani, e che Guido Tabellini è un quasi premio Nobel. Si può immaginare allora che Tremonti sia uno sprovveduto che durante una fase di stagnazione e inflazione approva riduzioni di spesa con effetti, direbbero i suddetti economisti, "pro-ciclici", cioè con una seria probabilità di aggravare la recessione? Non è possibile. Una interpretazione più realistica è quella di Pier Luigi Bersani: il governo sta facendo provvista per affrontare i costi inevitabili della struttura federalista. Ma c'è anche un'interpretazione più inquietante. La recessione può essere un fenomeno preoccupante sotto l'aspetto economico, ma funzionale invece al disegno politico del Pdl. Basta dividere in due la società: da una parte il già citato reddito fisso, lavoro dipendente e pensionati; dall'altra imprese e lavoro autonomo (professioni, commercio, artigiani ecc.). Per queste categorie sociali, né l'inflazione né la stagnazione rappresentano un'inquietudine. Alle imprese è stato lanciato il messaggio sulla contrattazione da flessibilizzare, sul lavoro precario e perfino su aspetti premoderni del rapporto fra imprenditori e lavoratori, come la cancellazione della legge che impediva la pratica delle dimissioni firmate in bianco. Alle categorie del lavoro autonomo, che Bersani aveva tentato con qualche limitato successo di sottoporre alla concorrenza, viene assegnata di fatto la possibilità di manovrare prezzi e tariffe. Non che il mercato si possa comprimere con i calmieri; ma la scomparsa del contenimento dell'inflazione dalle priorità vere del governo mette allo scoperto la pesante sfasatura, per il reddito fisso e per i contratti, fra l'inflazione programmata, del tutto irrealistica, e l'inflazione reale. In ogni caso i pilastri dell'azione del governo sono da un lato l'attacco a tutti gli apparati pubblici; dall'altro il tendenziale smantellamento del contrasto all'evasione. Il primo aspetto è spettacolare (così come è uno show quotidiano l'azione intimidatoria di Brunetta sul pubblico impiego): i trenta miliardi in tre anni di tagli alla macchina pubblica incidono su scuola, università, sanità, sicurezza, e su tutti gli enti locali, in maggioranza di centrosinistra, che avranno difficoltà pesanti nell'assicurare i servizi. L'altro, il ritiro dalla lotta all'evasione, è più strisciante. Si compone di provvedimenti invisibili, che non fanno titoli sui giornali, e che non accendono la fantasia dei commentatori. Tanto per dire, sul "Sole 24 ore" Stefano Micossi riconosce al governo di avere avviato per il paese un percorso di «riforme strutturali, capaci di liberarne il potenziale di crescita e modernizzarne le istituzioni obsolete». Converrebbe allora capire se fra queste riforme va compresa anche l'istituzionalizzazione politica dell'evasione, che l'ex viceministro dell'Economia, l'odiatissimo ma efficiente Vincenzo Visco ha riassunto in questo modo: «Ormai si è convinti che le tasse le debbano pagare solo i lavoratori dipendenti». Per chi volesse avere un'idea delle misure "anti-antievasione", secondo Visco non c'è che l'imbarazzo della scelta: abolizione della tracciabilità dei compensi, indebolimento delle norme sugli assegni bancari, eliminazione dell'elenco dei fornitori, con l'aggiunta dello smantellamento dello staff ministeriale che aveva lavorato con il governo precedente. Via libera al sommerso, quindi, sotto la coltre fumogena di operazioni come la "social card" e un esproprio patrimoniale con strizzata d'occhio come la "Robin Tax": tanto che nessuno nell'opposizione sembra in grado di cogliere la portata dello choc sociale che è stato innescato. Vale a dire un trasferimento di ricchezza potenzialmente colossale, mascherato dietro le filosofie di Tremonti sull'economia sociale di mercato, sul federalismo fiscale, sulla resistenza "di comunità" alla globalizzazione. Ci sono insomma due linee di confronto, e di scontro, dell'opposizione con la maggioranza: una corre su questa redistribuzione regressiva, di tipo castale. L'altra sull'operazione "istituzionale" di tipo federalista. Entrambe le iniziative di fondo del governo possono innescare tensioni fortissime nel tessuto sociale e nazionale. Con la prima, l'attacco al reddito fisso, il Pdl ha cominciato a costruirsi il suo blocco politico, e lo fa "con i nostri soldi", cioè con i soldi dell'opposizione. Con la seconda, aprirà un tiro alla fune spaventoso fra Centro-nord e Sud, che potrà essere gestito soltanto aprendo i rubinetti delle casse pubbliche, cioè a spese del bilancio dello Stato. Con rischi fortissimi o dell'aumento della tentazione separatista, oppure di un attentato materiale alla crescita (ma non importa, si è già visto che nella recessione la maggioranza e i suoi elettori ci sguazzano). È per questo che il Pd, e tutte le opposizioni residue dovrebbero dedicare l'autunno a un'azione di duro contrasto al progetto generale berlusconian-tremontiano. Il "dialogo", le "commissioni à la Attali" e altre finzioni collaboranti vanno lasciate a momenti migliori. Il punto centrale è: attrezzarsi a fare opposizione sulle questioni reali. Per il dialogo sulle questioni immaginarie verranno tempi migliori, forse, chissà, un giorno, se nel frattempo non ci avranno spolpati. n