L’Espresso
L'Espresso, 04/09/2008
Blackout olimpico
La conclusione delle Olimpiadi induce a un bilancio sulle cronache della Rai. Compito non semplice. Perché seguire un evento complesso come i Giochi è tutt'altro che facile. La Rai, e nella fattispecie Raidue, ha interpretato le Olimpiadi privilegiando l'aspetto spettacolare. Forse non è una scelta sbagliata: nelle settimane olimpiche si assiste a un flusso continuo di avvenimenti sportivi, una specie di show protratto per decine e decine di ore. A parte qualche inevitabile pasticcio, non ci sono state grandi occasioni mancate per decisioni sbagliate. Piuttosto, fra quattro anni a Londra occorrerà ampliare l'offerta. Lo spettacolo piace agli spettatori comuni; ma ci sono anche specialisti e fan, che preferiscono l'approfondimento allo slalom fra le discipline. Nel pomeriggio del 19 agosto, l'autore di questa rubrica stava seguendo una splendida giornata di atletica quando i telecronisti hanno annunciato che la cronaca delle gare sarebbe proseguita sul satellite (o chissà dove), mentre la linea passava alla pallavolo, dove le ragazze italiane si apprestavano ai quarti di finale con la nazionale Usa. Ora, l'atletica non è fatta solo di "highlight". C'è la preparazione delle gare, il lento svolgersi delle eliminatorie, le batterie, le semifinali. Il record e la vittoria sono la conclusione di un processo che gli appassionati amano seguire proprio nel suo graduale sviluppo. È lo sport "filologico" contro lo sport spettacolo. Tanto più che per le Olimpiadi le giornate dell'atletica rappresentano il clou. Non si può spezzare un'emozione, anche se giocano le belle ragazze del volley nazionale. Signori della Rai, pensateci, nei prossimi quattro anni.
L'Espresso, 04/09/2008
Il ministro Lorello
E poi dicono che sono finite le ideologie. È come nella sintesi di Karl Barth: «Quando il cielo si spopola di Dio, la terra si popola di idoli». Finito il socialismo, almeno nella provincia italiana, sono rimasti i socialisti. Anzi, come dice uno dei divi del Pdl, il ministro Renato Brunetta: «Io sono un socialista in Forza Italia». La trovata è talentuosa, e a suo modo plausibile, dal momento che fra i berluscones c'è di tutto, dagli ex socialisti agli ex liberisti, dagli ex dc agli ex fascisti. A quanto pare, Brunetta è il ministro più popolare, grazie alla sua campagna contro i fannulloni del pubblico impiego. Ne è consapevole. Ammesso che nel frattempo non abbia smentito, Brunetta ha dichiarato al settimanale famigliare "Gente": «Io, povero, non bello e non ricco, ho fatto il culo al mondo e sono la Lorella Cuccarini del governo Berlusconi, il più amato dagli italiani». Ma qui cominciano i problemi. Perché il ministro "Lorello Cuccarini" Brunetta ha creato un format infallibile, irresistibile, di eccezionale successo. Secondo il quale l'Italia si divide in due parti precise: da un lato «60 milioni di cittadini che vogliono vedere premiato il merito e puniti i furbi»; dall'altro «un milione di lavativi», «la stima che abbiamo di tutta un'area politico- culturale-amministrativa: al massimo 500 mila statali, e poi politici, sindacati». Da questa prima osservazione (tratta da una rivelatrice intervista a Conchita Sannino de "la Repubblica", apparsa il 21 agosto) sembrerebbe di capire che esistono fannulloni per appartenenza "d'area", culturale e politica. Bah. Ma il cuore della strategia di Brunetta è l'invenzione di una stragrande maggioranza di italiani buoni costretta a fronteggiare un fortilizio di farabutti neghittosi, asserragliati nel privilegio del non lavoro. A parte il simbolismo della cifra tonda, 60 milioni contro 1, è ideologica, e manipolatrice, l'idea che l'inefficienza della pubblica amministrazione, la scarsa produttività degli apparati burocratici, e di conseguenza l'insoddisfazione di cittadini e imprese, dipenda dalla strenua fannullaggine di una minoranza proterva. Il format di Brunetta è infallibile, e suscita un grande successo popolare, perché chiama al tifo i 60 milioni di gentiluomini che scelgono di stare ovviamente dalla parte del bene e della modernità, contro il milione di fautori del male e dell'arcaismo. E allora, come definire l'azione del ministro? Su una base manichea, si innesta un'iniziativa populista; si agitano fantasmi, nemici immmaginari, indicando un generico capro espiatorio. Ma questa è demagogia in quintessenza. A suo tempo il populismo socialista provocò l'irritazione di Nino Andreatta, che nella famosa «lite fra comari» con Rino Formica accusò il Psi di «nazional socialismo» (il compianto economista bolognese traduceva mentalmente dall'inglese, anteponendo in modo meccanico l'aggettivo al sostantivo e combinando così qualche pasticcio lessicale e politico: ma chi voleva intendere intendeva). L'azione di Brunetta è intimidatoria. Colpire i sintomi di una malattia, cioè l'inefficienza, ossia bastonare le conseguenze senza toccare le cause, è un peccato intellettuale. Riformare la pubblica amministrazione è un compito essenziale, ma per uscire dal cerchio dei rimedi medievali (la gogna per i peccatori, i vagabondi, i nullafacenti), occorre una diagnosi adeguata, che valuti le differenti realtà territoriali e gli standard di rendimento, magari con qualche confronto europeo, nonché alla fine i danni provocati dalle intromissioni della politica (perché quanto a clientelismo, lottizzazioni e assunzioni di favore nemmeno i socialisti amici di Brunetta scherzavano). E poi occorre una terapia davvero moderna e riformista, che consiste nel procedere al ripristino di una catena di comando, cioè alla responsabilizzazione di tutti gli snodi dell'apparato pubblico. Altrimenti siamo sempre alle "gride" manzoniane, che produrranno nuovi Azzeccagarbugli, e frustrazioni supplementari nei cittadini. Resteremo al cinque in condotta (non bastava il sette), ai grembiuli a scuola, alle critiche più o meno rimangiate ai professori «meridionali», all'idea che con un colpo di inventiva si risolve un problema storico, e che una battuta esorcizzi questioni secolari come le condizioni civili ed economiche del Mezzogiorno. Sempre a "la Repubblica", a fronte della constatazione che in Campania i redditi calano dell'8 per cento nell'arco di nove anni, Brunetta, con un «sorriso freddo», propone la sua ricetta: «La soluzione? Deportare i napoletani. Scherzo». Già, forse stiamo scherzando. È tutto uno scherzo, cattivo, anche se finora sembra che stiamo vincendo 60 a 1.
L'Espresso, 11/09/2008
Politica ai Ferri
Per quasi tutto il mese d'agosto gli intossicati di politica, e di talk show politici, coloro che non sanno vivere senza Vespa, Mentana, Floris, Mannoni, Annunziata, Piroso, Telese, Parenzo, Formigli eccetera, avrebbero dovuto accusare forti sintomi di crisi d'astinenza. Per forza, diranno gli attentissimi lettori: in agosto la politica va in vacanza. E i relativi talk show anche. Errore: un'isola di salvezza per gli "addict" c'è anche durante le ferie. È il programma de La7 "Omnibus estate", condotto da Manuela Ferri. Talk show per tossici veri: uno si sveglia al mattino, accende la tv, e vede nel teleschermo il ministro La Russa, detto a suo tempo dai camerati milanesi "il volto demoniaco del fascismo". Ci vogliono nervi saldi. Oppure Piero Sansonetti, il volto combattente del comunismo. O Mario Ajello, il volto ironico del commento. E anche Franco Grillini, il volto bolognese dell'orgoglio gay. Ammetteranno lorsignori che, alla vista di tali protagonisti, personalità deboli e meno scafate scatterebbero immediatamente con il pollice sui tasti del telecomando, alla ricerca di un documentario sui bruchi, sulle rane gibbose, sui bramiti d'amore di certi ungulati. E invece no: il tossicodipendente segue affascinato il dibattito, chiedendosi se ci sarà Cicchitto in collegamento. E così osserva la conduttrice Ferri, che ha l'aria di una che potendo sarebbe a 10 mila chilometri di distanza dove il mare è più blu; tuttavia, già che c'è, sfoggia la bravura che l'aveva già fatta notare a Telelombardia. Sempre preparata, calma, con l'aria di dire: ma guarda con chi mi tocca parlare la mattina presto. E noi, lì, allocchiti.
L'Espresso, 18/09/2008
Sbadigliando con Chiabotto
Dopo la prima giornata dell'ex campionato più bello del mondo, in seguito ridotto prudentemente a più difficile, e ora dai giornali inglesi a più babbione, è aperto il sondaggio su che cosa convenga al vero tifoso. D'accordo che il vero tifoso, se è veramente vero, non ha scelta. Si piazza davanti al televisore, alle 15 della domenica, e guarda "Diretta Gol" su Sky (del digitale terrestre non vogliamo sapere niente perché nessuno di noi ha spazio nei mobili per un altro decoder). Durante il primo tempo è permesso dormire, a patto che il sonno postprandiale non sia troppo profondo: è obbligatorio infatti svegliarsi di soprassalto per vedere il replay dei gol, non appena si avverte il clamore della folla sugli spalti, ironizzando con altri componenti della famiglia che eventualmente non possedessero la facoltà medianica di svegliarsi al momento giusto. Nel secondo tempo si sta perfettamente svegli, in modo da poter seguire le discussioni della serata calcistica. Eccoci qua al sondaggio. Preferite la "Domenica sportiva" o "Controcampo"? La conduzione sobria e tecnicamente ineccepibile di Massimo De Luca, esegeta del più infinitesimale gesto in campo, o il teatrino di Alberto Brandi, con il suo parterre di vecchie zie e cari mostri, ma anche con la presenza della miss Cristina Chiabotto, che recita sfolgoranti parole di verità (e quando la interpellano di nuovo le ripete pari pari)? Con la mente si sta dalla parte di De Luca e della sua ermeneutica così sofisticata. Con il cuore invece si parteggia per Giampiero Mughini. Votate voi, votate, votate. E mi raccomando, non dimenticate che, se vi va, è consentito anche rispondere: «Chi se ne frega».
L'Espresso, 25/09/2008
cambio casa o cambio canale?
Ci dev'essere un legame non proprio oscuro fra la crisi dei mutui subprime, lo sgonfiarsi della bolla edilizia negli Stati Uniti e in vari paesi europei, e il diffondersi di programmi sulla casa. Mentre le banche crollano e le case si deprezzano, fra ipoteche e mancati rimborsi delle rate del mutuo, si capisce che la casa per molti diventi oggetto di desiderio o di incubo. Ecco allora programmi come "Extreme Makeover: Home edition" su Sky Vivo (una trasmissione vagamente inquietante, dove una squadra di fenomeni ti rifà l'abitazione nello spazio di un weekend). Ma basta scorrere i canali di Sky per una sera per accorgersi che i programmi dedicati all'abitare sono frequenti. Sul canale Leonardo, tutto dedicato allo stile e alle tendenze, passano programmi dedicati a come si struttura un loft (ma è ancora di moda il loft dopo il risultato del 13-14 aprile?). E si vedono anche vere e proprie avventure domestiche, come la famiglia inglese che decide di vendere la propria casa di Londra, il cui valore è esploso negli ultimi anni, e acquistare per la metà del prezzo lucrato una villona nel sud della Francia, con piscina e grande giardino. Cambio di vita, non solo trasloco. I programmi dedicati alle case sono irresistibili per chiunque abbia alle spalle una vicenda di acquisto e ristrutturazione, con relativo sfondamento di budget e tremende discussioni con gli impiantisti. Ma soprattutto conduce a visioni globalizzanti il pensiero che se la crisi dovesse evolvere verso uno scenario da 1929, che c'importa, cartolarizziamo l'abitazione di famiglia, la quotiamo a Hong Kong, e diamo nel nostro piccolo, e con euforia irresponsabile, un contributo alla crisi finanziaria totale.
L'Espresso, 25/09/2008
Paradigma mariastella
Più di Brunetta, e più di Tremonti, il ministro Mariastella Gelmini impersona lo spirito autentico del governo Berlusconi. La trentacinquenne Gelmini campeggia su copertine e fotografie agghindata in abiti colorati, in uno stile che ricorda gli anni Cinquanta, a cui gli occhiali da vicepreside aggiungono un tocco "vintage". Ma ciò che più interessa, e la rende un emblema della nuova ideologia di destra, è la sua azione e le idee che la ispirano. Il ministro Gelmini infatti è la portatrice dell'autentico pensiero che anima il governo, già identificato come portatore di una modernizzazione reazionaria (o se si preferisce di una restaurazione modernizzatrice: sempre di ircocervo si tratta). Per questo la Gelmini va presa alla lettera. E alla lettera vanno presi i pilastri della sua opera. Per dire, il recupero del grembiule e del voto in condotta non sono semplici proclami demagogici: costituiscono gli indizi di un metodo, secondo il quale problemi complessi si risolvono con operazioni semplici, fra gli applausi di una società vecchia e stanca, che rimpiange la propria modesta gioventù. Chi scrive ha avuto la ventura di frequentare la scuola materna e le elementari in una provincia bianca degli anni Cinquanta, dove i maestri comandavano "mani in prima" e "mani in seconda" ("in prima" dovevano essere appoggiate sul banco; "in seconda" portate dietro la schiena). All'asilo, le suore punivano i bambini cattivi con castighi graduali che cominciavano con la pacca della riga da sessanta centimetri sul palmo della mano, potevano passare al cerotto sulla bocca e giungere a legare i troppo vivaci alla sedia con una fune grossa due centimetri. Perché non recuperare queste usanze? Solo perché non lo consente il buonsenso? Ma il buonsenso non è una categoria politica, l'importante è reagire al «nullismo», come lo chiama Tremonti, del Sessantotto, ripristinare il principio di autorità, recuperare una società ordinata. E se questo non basta, sarà bene applicare integralmente tutte le soluzioni o le fissazioni del ministro Gelmini: a cominciare dall'eccellente idea di tornare al maestro unico (o per meglio dire alla maestra unica, vista la composizione del corpo insegnante alle elementari). La polemica contro il "modulo", cioè contro la riforma che portò alle équipe coordinate di insegnanti è un vecchio tema di destra, che si è sempre nutrito di considerazioni in parte economiche e in parte filosofiche. Certo, tre insegnanti al posto di uno costano di più, anche se non tre volte di più, e possono apparire una soluzione corporativa alla crisi demografica, secondo lo slogan "meno bambini, più maestri". Le critiche filosofiche invece hanno sempre preso di mira il fatto che il "modulo" rappresenterebbe un attentato alla libertà d'insegnamento e un attacco gravissimo alla psicologia degli alunni, disorientati dalla varietà delle figure di riferimento. Nessuno dei fautori del ritorno all'insegnante unico, in politica, ha mai chiesto che si procedesse a valutazioni empiriche sui risultati della scuola elementare, e a confronti con la scuola primaria almeno europea, sui metodi, sulle peculiarità delle pedagogie nazionali. Magari si scoprirebbe che il "modulo" è una schifezza, ma finora ha funzionato. Magari l'Europa è più avanti, è più indietro, è più di lato, ma l'insegnante multiplo non l'abbiamo inventato noi. Invece no. Ciò che importa è trasmettere l'idea di un proficuo ritorno al passato, all'ordine, al merito (si fa per dire, naturalmente: sappiamo che la meritocrazia, come la concorrenza, si applica agli altri). È la restaurazione selettiva, rivolta preferibilmente verso i nemici di classe, che per il momento potrà piacere a un paese vecchio mentalmente e provinciale culturalmente, che crede di poter riassaporare i metodi di una tradizione già da un pezzo in frantumi. Illusioni. Illusionismi. Il tentativo di far credere che i problemi si risolvono a partire dalla coda, guardando a un tempo che non esiste più, quando si faceva la buona azione quotidiana e i dodicenni non compravano la cocaina all'angolo di strada. E allora avanti, c'è modo di fare di più e meglio: abolire la sciagura famigliare del divorzio, tornare all'adulterio punito con il carcere. E quanto alla scuola, ridateci i meravigliosi professori di "Amarcord" con i loro tic, quello là che vuol tenere intatta la cenere della sigaretta, quella lì che scandisce «la pro-spet-ti-va!». Tutto stupendo, anche secondo il sessanta per cento degli italiani che nei sondaggi mostrano di gradire: ma noi, noi anime prave, che cosa abbiamo fatto di male, per meritarci tutto questo?
L'Espresso, 02/10/2008
Fiction in pensione
Chi ha visto qualche sequenza della serie boom di Raiuno, "Fidati di me" si sarà chiesto le ragioni del suo successo. Non che sia un prodotto di cattiva qualità. Anzi: è un prodotto di fiction ottimamente realizzato per il pubblico televisivo standardizzato. Ormai è questo il destino dei programmi tv. Si isola il pubblico di riferimento, lo si analizza al microscopio e gli si scrive addosso la trasmissione. Qualcuno ha avanzato per il target la definizione di "nonne di Torre del Greco": pensionate meridionali, con scolarizzazione bassa, attività casalinga, fortissima esposizione ai programmi televisivi. Una volta le «anziane signore del Centro-sud con licenza elementare», come le ha definite sul "Riformista" Remo De Vincenzo, erano un problema per le reti generaliste: non erano un target attraente per la pubblicità; adesso, nella totale disgregazione dell'audience, rappresentano invece un blocco d'ascolto pregiato. "Fidati di me", che ha raggiunto gli stessi numeri (intorno al 25 per cento di share) dell'altro programma simbolo della Rai, "Carràmba che fortuna", è costruito sapientemente proprio per questa fascia di pubblico. Il personaggio dell'ex magistrato Elena Donati che torna in campo per ritrovare una figlia e ritrovarsi con lei, è perfetto anche dal punto di vista dell'immagine. Merito degli autori, e di Virna Lisi, sempre convincente a qualsiasi età (anche ovviamente se il pubblico maschile, settentrionale e laureato guarda i gol della domenica, altro che le fiction).
L'Espresso, 09/10/2008
Per chi Striscia la risata
Il trionfale ritorno di "Striscia la notizia" non sarebbe una notizia. Ma diventa interessante se ci si pone il problema del successo perdurante del programma firmato da Antonio Ricci. Trascuriamo pure il ruolo della premiata ditta Greggio & Iacchetti, perché qui si intende fare una analisi strutturale. Ovvero. Si ribadisce continuamente che il pubblico delle reti generaliste è fatto ormai dal blocco storico delle "nonne di Torre del Greco", ovvero le pensionate ultrasessantacinquenni meridionali con licenza elementare. E allora che cos'ha "Striscia" per riuscire a catturare l'attenzione anche di questo pubblico? Può essere benissimo in realtà che il programma di Ricci peschi stocasticamente nell'audience, secondo una formula e un format che dice "'ndo cojo cojo". E allora occorrerà porsi il problema se funzioni meglio una televisione tematizzata e con target circoscritti oppure una tv a dispersione. Perfino Santoro ha formattizzato "Annozero", con Travaglio in apertura e Vauro in chiusura, e in mezzo modalità espressive che tendono all'intrattenimento, all'effetto choc, all'effetto chic e all'effetto "czz!". Se le cose stanno così, forse si può dire che "Striscia" a suo tempo ha creato il modello, trattando l'attualità con gli strumenti dell'ironia, o dell'irrisione, e deformando la cronaca portandola dentro l'entertainment. Quindi la vera informazione, l'unica possibile, non la fanno i tg. La fanno invece i programmi come "Striscia" (e come "Ballarò", "Porta a Porta", "Matrix" ecc.). Perché oltre ai fatti contengono il commento. Qualcuno dei commenti dei programmi normali fa ridere, ogni tanto. Quelli di "Striscia", invece, quasi sempre.
L'Espresso, 16/10/2008
E la domenica Gnocchi
L'idea di Gene Gnocchi è ovvia, e si sa che secondo Goethe il genio è la capacità di vedere l'ovvio: quindi un talk show sulla giornata calcistica è geniale. Si tratta di due mezze ore domenicali di dibattito, pomeriggio e tarda sera, su Sky Sport 1, e il metodo del comico emiliano consiste nella smitizzazione dell'oggetto trattato. Comico un corno, potrebbe dire lui, scrittore e "Kulturkritiker" di vaglia. Comunque Gene, indimenticato autore della storica locuzione sul "cul de Sac", ovvero il "culo di Sacchi", ha sviluppato uno schema secondo cui si finge di prendere sul serio il tema trattato, per poi mostrarne la demenza interna. L'ha fatto a suo tempo con "Perepè", divertente programma di scarso successo, tutto dedicato a sfottere il mondo della musica pop; lo fa con "Artù", altro talk show parodico; e adesso con il "Gnok Calcio Show". Il bello è che Gene dissacra fenomeni ed entità che gli piacciono. Gli piace la musica, e lui la smitizza. Gli piace il pallone, ed è reduce da anni a "Quelli che il calcio", ma non rinuncia alla discussione sarcastica. Lo "Gnok style" consiste nel prendere drammaticamente sul serio l'oggetto del dibattito, per poi mostrarne la plateale fragilità, se non la penosa inconsistenza. Purtroppo non sempre i suoi "ospiti" sono all'altezza (spesso i calciatori coinvolti si limitano a ridacchiare). Gene fa il clown bianco, il "discussant" stralunato, fissato su alcune fenomenologie astruse, mettendole in attrito con la retorica calcistica imperante. Gnocchi ha ragione. Non è colpa sua se, dopo tutte le dissacrazioni possibili, il lunedì tutti si buttano sull'ultima esternazione di Mourinho.
L'Espresso, 16/10/2008
il paese disgregato
Non abbiamo un'altra parola, al di là di "razzismo", per definire gli episodi di intolleranza e di violenza contro gli stranieri che si manifestano ormai ripetutamente in Italia. Ma anche se talvolta gli eventi appaiono degradanti, non è detto che si tratti della parola giusta. Ilvo Diamanti ha mostrato che in effetti si agita nella nostra società un atteggiamento nuovo rispetto agli immigrati. Un insieme di insicurezza e di inquietudine che talvolta può sfociare in atti di insofferenza e di ripulsa, e perfino di aggressività violenta. Ma se si guarda a un episodio come la strage dei ghanesi a Castel Volturno, ci si accorge che l'espressione "razzismo" non esaurisce affatto il potenziale drammatico di quell'avvenimento. L'uccisione camorristica di sei africani sembra avere un contenuto terroristico: occorreva far capire con un gesto micidiale chi comanda sul territorio. In una realtà estrema come quella di Gomorra, ciò che una volta si sarebbe concretato in un raid punitivo è diventato un eccidio spaventoso. Da destra si continua a dire che non c'è razzismo nel nostro paese, che ci troviamo davanti episodi isolati, e il ministro Roberto Maroni fa il possibile per trattare gli avvenimenti più gravi con metodi di polizia. Ma da sinistra viene facile rispondere che l'ostilità verso gli stranieri è stata favorita dal clima generato dai provvedimenti del governo, dalle "gride" contro il reato di immigrazione clandestina, dall'aver favorito l'allarme dei cittadini angosciati dalla criminalità venuta da fuori. Ora, che la destra abbia puntato molte carte politiche sulla sicurezza e sulla paura è indubbio. Ma difficilmente le soluzioni del Pdl e della Lega condurranno a risultati significativi. Perché noi, noi cittadini italiani, in questo momento e in futuro non dovremo fare i conti soltanto con il fenomeno dell'immigrazione, regolare e clandestina. La realtà più preoccupante è che stiamo assistendo a una sostanziale disgregazione della collettività nazionale. Ci sono territori non controllati dallo Stato, enclave urbane gestite dalla criminalità, entro un perimetro, quello del Mezzogiorno, in cui tutti gli indici, economici ma anche sociali, sono in terreno negativo. Esistono periferie come quelle romane in cui la promiscuità antropologica prolifera in un ambiente dominato dal commercio della cocaina e del sesso (a questo proposito resta un documento letterario e sociologico impressionante il recente e iperrealistico romanzo di Walter Siti "Il contagio"). Come ha scritto Zygmunt Bauman, si ricorre all'identità quando la comunità crolla. Al Nord il successo della Lega, oltre che sull'allarme anti-immigrazione, si fonda sul tentativo di ricreare una serie di "comunità reattive", i cosiddetti "popoli" del Nord, che si qualificano per un grado di autoprotezione che verso l'esterno diventa atteggiamento ostile. Una volta, nella propaganda informale dei leghisti, si chiamava secessione. Adesso, si qualifica per l'insofferenza verso tutte le altre comunità, comprese quelle nazionali, con l'esito tendenziale di accentuare i processi disgregativi. Anche il federalismo fiscale e istituzionale servirà per accentuare le separatezze (altrimenti, in versione blanda e "cooperativa", non serve politicamente a nulla). Dunque la destra non ha soluzioni, se non le solite: l'esercito nelle strade, costruzione di carceri, autosegregazione di parti della popolazione rispetto ai barbari, con telecamere e vigilantes di guardia. Toccherebbe alla sinistra, a questo punto, non limitarsi a gridare contro il fantasma del razzismo, ma proporre un progetto per il paese. Perché non si risolve il problema xenofobo isolandolo dal contesto generale. Non si riesce credibili semplicemente lanciando allarmi e accusando la destra, e neppure rivendicando i diritti e il nuovo illuminismo. La convivenza con gli stranieri, con i neri, i cinesi, i maghrebini, i romeni, i polacchi, i moldavi, i bielorussi, implica la ricostruzione di un'Italia capace di sfuggire al "bellum omnium contra omnes" delle bande contrapposte, delle mille secessioni che si agitano sotto la superficie del paese ricco e si manifestano esplosivamente sopra la superficie del paese povero. Significa fare i conti con la realtà: la realtà vera, non quella presunta. Il Pd deve fare una cura di realismo, osservare la stridente fenomenologia italiana e offrire una risposta che non sia l'appello retorico. In sostanza che non sia, di fronte a un problema serio, grave e più vasto di come appare, una risposta immaginaria.
L'Espresso, 23/10/2008
Isola di Sventura
Sarebbe il caso di lanciare un referendum, oltre che sul lodo Alfano, sulla tesi del critico Aldo Grasso a proposito dell'"Isola dei famosi". La tesi è radicale, e conviene citare le parole dell'autore: «Il paravento dietro cui non ci si può più nascondere, e che l'isola della Sventura ci ricorda senza pietà, è questo: la tv generalista riflette l'Italia generalista, che è ancora la stragrande maggioranza». Per poi affondare la lama fino al manico: «La stupidità infatti è sì connessa al mondo del pensiero ma lo è ancora di più a quello della tv». Non si poteva essere più espliciti. E allora il referendum, cari lettori, chiede: siete d'accordo sì o no con l'idea che l'Isola siamo noi? Che noi tutti, nel nostro grande, replichiamo ciò che avviene in piccolo fra Luxuria, Cabrini, Michi Gioia, Ciavarro e compagnia bella? Le conseguenze del referendum sono impegnative: perché se esiste una coincidenza fra società e televisione, non ci sono santi: occorre prendere atto che tv e società sono quello che sono, e adattarsi alla situazione, Berlusconi compreso. Votate, votate, votate. Magari a voi l'Isola fa ribrezzo, avete un nonno che fu candidato nel Partito d'azione, vostro zio frequentava l'ambiente del "Mondo" di Pannunzio, e siete tentati di abbandonare questo disgraziato paese e rifugiarvi a Innsbruck (o almeno di cambiare velocemente canale non appena appare quella che Grasso chiama la «Sventura», probabilmente nel senso della Simona, «una conduttrice che urla come una pescivendola e minaccia di farli sparire dalla faccia delle tv»). Oppure l'Isola vi piace, e in questo caso, chissà, avete ragione voi, paese reale che non siete altro.
L'Espresso, 30/10/2008
Non ridete di report
I critici più alla moda pensano che la televisione sia il nulla: un baluginare di suoni e luci, di exploit, di sketch, scene madri e cavolate assortite. Questa prospettiva analitica è affascinante, e conduce a considerare i programmi sotto unico metro di giudizio: piace, non mi piace, mi fa orrore, fa ribrezzo, sono raccapricciato. Tanto sempre di tv si tratta: marmellata elettronica. Questa concezione realistica, che porta a guardare con altri occhi anche ai programmi cosiddetti di approfondimento, è messa a dura prova dalle performance di Milena Gabanelli con "Report". Chi ha seguito la puntata sull'Alitalia potrebbe essersi chiesto: ma anche questo sarebbe allora puro infotainment, incrocio di generi, televisione quintessenziale al di là dello spessore e della qualità dell'inchiesta? La domanda è complicata, quindi è una buona domanda. Dato alla Gabanelli tutto quello che c'è da darle, vale a dire che dopo una sintesi come la sua, in un paese occidentale moderno qualcuno si prenderebbe la briga di chiudere i protagonisti dell'affare Alitalia-Cai in un carcere tipo Guantanamo, con la pena accessoria di ascoltare tutto il giorno le note di "Guantanamera", ecco, detto questo, la risposta resta tutt'altro che semplice. Il punto centrale dell'inchiesta è quando la Gabanelli, con la sua telecamerina d'assalto, mostra lo statuto della Cai al presidente Roberto Colaninno, dicendogli: si potrebbe mica cambiare l'oggetto dell'attività d'impresa, che a tutt'oggi è "passamanerie". Colaninno scoppia in una spettacolare risata. Stacco. Siamo dentro un reality? Una fiction? Uno show? Alla Gabanelli, ma anche a tutti i gabbati, l'ardua risposta.