L’Espresso
L'Espresso, 06/11/2008
Tra Lucio e Luciano
Ho incrociato "il Tg2PuntoIt", una specie di magazine quotidiano curato da Michele Bovi (dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 11), perché una mattina c'era in studio Leo Turrini, che presentava il suo libro "Lucio Battisti. La vita, le canzoni, il mistero": per la setta dei battistiani come noi un imperdibile e recente libro, che sostituisce interi armadi di archivio e fa risentire un po' di buona musica nella mente (non lo sapete che le canzoni migliori sono quelle che risuonano nella memoria mentre le parole appaiono sulle pagine di un libro?). D'altra parte, anche Bovi è un battistiano accanito, e in questo programma, oltre a numerose rubriche, non fa mancare la parte musicale. Il mercoledì l'argomento è l'arte come investimento, e fra diverse opere originali in studio (De Chirico, Turcato, Schifano, Boetti) il consulente d'eccezione, sorpresa sorpresa, è Johnny Charlton, ex componente dei Rokes, poi allievo di Maccari. Quest'anno c'è un angolo dedicato al melodramma: servizi che illustrano trame di opere liriche e biografie di grandi autori, da Verdi a Leoncavallo, nonché ritratti di interpreti d'eccezione come Caruso, Tamagno, Pavarotti. L'invenzione arriva al temine quando Pasquale Panella recita il testo di un'aria o di una romanza. L'anno scorso recitava le canzoni, per dimostrare che quella piccola poesia pop era poesia vera. Adesso il tentativo consiste nel dimostrare che anche i deprecati libretti sono operine d'arte, e non la spregevole retorica con cui spesso sono stati ridicolizzati. Non sapete chi è Panella? Male, malissimo. È, fra mille altre cose, l'ultimo autore del Battisti "finale". Vedete che tutto si tiene, nella televisione musicale?
L'Espresso, 06/11/2008
L’incredibile Re silvio
Gli effetti del Circo Massimo si faranno sentire per qualche tempo soprattutto in casa del Pd, perché il successo dell'iniziativa sgombra il cielo dai nuvoloni più neri. Almeno per il momento non è più in gioco la sopravvivenza o la disintegrazione del partito. Ma il destino del Pd non dipende soltanto dal 33,1 per cento dei suoi voti, dal risultato delle elezioni provinciali in Trentino e alle regionali in Abruzzo, e infine dalla soglia che otterrà l'anno prossimo alle elezioni europee. Il problema è sempre lo stesso, vale a dire: il Pd ha un potenziale di sviluppo che possa portarlo a essere competitivo con il partito di Berlusconi oppure rischia di essere la «minoranza strutturale» di cui ha parlato Massimo D'Alema? Fino a qualche giorno fa la risposta era virata sul pessimismo. Da una parte si vedeva un Pd mortificato dall'assenza di spinta politica, ancora sotto l'effetto della dura sconfitta elettorale dell'aprile scorso, dall'altra si osservava l'euforia del Pdl, con i sondaggi alle stelle per il premier, che non esitava a gigioneggiare fingendo preoccupazione: «I nostro sondaggi sono perfino imbarazzanti...». È cambiato qualcosa? Certo, è cambiato qualcosa. Il mondo non è fatto soltanto da Renato Brunetta e da Mariastella Gelmini; è fatto anche dagli impiegati pubblici, controparte di Brunetta, e da studenti, genitori, insegnanti, ricercatori, docenti, cioè gli interlocutori della Gelmini. Per esempio, benché il movimento che ha aperto le danze contro il ministro dell'Istruzione sia articolato, e contraddistinto da finalità assai differenziate al suo interno, i contestatori hanno toccato punti che hanno cominciato a sgonfiare i palloncini colorati della Gelmini. I riflessi sul consenso al governo si sono fatti sentire. È troppo presto per dire, come arrischia qualcuno, che la luna di miele è finita: tuttavia i sondaggi cominciano a registrare una prolungata flessione del consenso dell'esecutivo, e una crescita consistente dei giudizi negativi nei suoi confronti. E questo induce a valutare con maggiore attenzione critica i sondaggi su Berlusconi. Era infatti poco credibile che il governo da lui presieduto potesse godere di tanto favore mentre una crisi pesantissima si è abbattuta anche sulla società italiana, e mentre le prospettive per la nostra economia appaiono inquietanti. Probabilmente c'è da distinguere tra il favore verso Berlusconi e il consenso al suo governo. Il premier è un talento mediatico che ripulisce Napoli, si arma di ramazza per strada, risolve i problemi dei "subprime" e fila al Bagaglino, si infila in discoteca fino alle quattro e mezzo di mattina, si intrufola in una sede del Pd e scherza con i militanti, vola in Cina, sistema i cinesi e torna. I suoi ministri invece devono fare i conti con le reazioni concrete alle loro iniziative. E allora, può darsi che il Re Silvio sia vissuto dall'opinione pubblica come una specie di prodigio naturale, una presenza inspiegabile, un miracolo da ammirare o un problema da sopportare come una volta si sopportava la Dc. Ma il suo governo non deve soltanto produrre fenomeni pop, fuochi artificiali, paillette. Dovrebbe anche cercare di gestire un presente e un futuro di impressionante difficoltà, che non può essere addomesticato con gli slogan e le furbizie mediatiche. Anche se il Pdl ha le idee chiare, e punta a crearsi una base elettorale strutturale, cioè un blocco di consenso permanente, la situazione si sta complicando. La modernizzazione restauratrice funziona negli annunci, ma è molto dubbio che abbia successo nella realtà. Negli ultimi giorni Berlusconi si è incattivito, si è stizzito per le critiche, ha denunciato gli attacchi dei «facinorosi». Le cose vanno male. Per un po' Re Silvio si presenterà come l'unico argine contro la tumultuosa forza degli eventi, il sovrano che paternamente protegge i sudditi con il suo impegno straordinario. Ma poi qualcuno comincerà a pensare (anzi, molti hanno già cominciato) che sarà un caso, ma ogni volta che il premier prende il bastone del comando l'economia va in picchiata. Come diceva quella storiella su Napoleone che prediligeva i generali fortunati? Ecco, Berlusconi ha tutte le doti del mondo, ma è un uomo abituato a gestire le fasi di sviluppo e di successo: trovarsi nella tempesta economica e nella crescita sottozero non è il suo mestiere. Quando le cose vanno male si può mentire al popolo oppure promettergli «sangue, sudore, fatica e lacrime». In quest'ultimo ruolo, Re Silvio non è credibile. Le bugie, si sa, hanno le gambe corte. A occhio, la favola bella che ieri illuse l'Italia sta per fare i conti con la realtà.
L'Espresso, 13/11/2008
Ormai Serena parla da sola
È aperto il dibattito sulla crisi della satira televisiva. I comici non fanno più ridere, dice Andrea Scanzi sulla "Stampa", parlando fra gli altri di Sabina Guzzanti a "Annozero": «Una Guzzanti depotenziata, diametralmente opposta a quella feroce di piazza Navona... E così la risata latita». Altri hanno messo in luce la stanchezza di "Parla con me", con la crisi di ascolti di Serena Dandini, oppure l'eccessiva lunghezza del programma di Maurizio Crozza, che pure si sbatte. Le spiegazioni si susseguono, e tendono ad attribuire la situazione soprattutto alla crisi della sinistra, più che alla crisi della satira: «La Dandini non sembra essersi accorta, come i suoi referenti politici, che la "massa" non è esattamente coincidente con la base del Pd» (sempre Scanzi, politologicamente malignetto). Ci sono anche tesi diverse. Una, semplicissima, sostiene quanto segue: è un periodo in cui non c'è niente da ridere. Prendersela con la recessione è troppo difficile, non si sa di chi è la colpa, i responsabili non hanno facce. Le imitazioni del ministro Brunetta lasciano il tempo che trovano, perché già di suo Brunetta satireggia su se stesso: «Io ho una cattedra, gli altri no! Io sono professore ordinario di economia! Io parlo da economista! Io potevo vincere il Nobel!». Ci vorrebbe qualcuno che recuperasse il «Ma mi faccia il piacere» di Totò. Oppure, di fronte al rimpianto per il Nobel mancato, il lamento «A me m'ha rovinato la guera» di Alberto Sordi. Insomma, in realtà altro che ridere. Guardate le facce nei bar la mattina, la fatica di estrarre cinque euro dalle tasche. Siamo più poveri, meschini, impauriti. Non ci resta che piangere.
L'Espresso, 13/11/2008
Il Fido Altan
Il cane potrebbe essere effettivamente un mezzo barbone, ma anche un mezzo dalmata, comunque un meticcio metropolitano con influssi genetici vari, molto à la page in tempi multiculturali. Ha una linguina rossa meravigliosa e ulula con eccezionale professionalità, ma anche con la disperazione dell'abbandono, nella notte dominata dalla luna piena, in cui occhieggiano nell'oscurità estiva le finestre illuminate. Si fa fatica a restare del tutto adulti di fronte all'ultimo libro per ragazzi di Altan, "Virgola", creato per l'editore Gallucci sulle parole di una nota canzone di Bruno Lauzi, scritta nel 1975, che l'anno dopo fu cantata anche da Jocelyn e i Piccoli cantori di Nini Comolli (nel volume di Gallucci, un editore specializzato in libri per l'infanzia insignito con il premio Andersen per il progetto editoriale, è contenuto il cd con l'interpretazione di Lauzi). Non è poi mica facile illustrare una canzone di Lauzi, anche se Altan ha alle spalle per lo stesso editore una produzione di autentici classici (da "L'arca di Noè" e "Ci vuole un fiore" di Sergio Endrigo all'africana immortale "Il leone si è addormentato", e anche l'immancabile e storica "Nella vecchia fattoria", che sembra fatta apposta per ispirare la fantasia creativa di un disegnatore come lui). Il fatto è che Lauzi è stato tutt'altro che un autore banale, anche quando si applicava alle canzoni commerciali: è rimasta celebre la storia di «Piiiiccolo uomo non andare via...», per Mia Martini, con i musicisti La Bionda e Baldan Bembo che lo sfottevano: «Ma no, quel "Piii..." all'inizio del ritornello non sta bene!»; e quando il disco scalò la hit parade fino al primo posto e vinse il Festivalbar, lui, di rimando ai due: «Avete visto, Piii...rla!». Anche nelle canzoni per i più piccoli, sigle di fortunati programmi televisivi, Lauzi non scherza. Aveva alle spalle canzoni per bambini di grande successo come "Johnny Bassotto" e "La Tartaruga", scritte con il musicista di casa Baudo, Pippo Caruso. "Virgola", una canzone voluta dallo "zio" Luciano Rispoli (un dirigente televisivo di quelli antichi, abituati a controllare anche gli aspetti più minuti dei programmi), parla di un dramma, cioè di un cagnolino abbandonato da Roberto, il suo padroncino; si tratta infatti del cane di un bambino di città, viziato come possono essere i bimbi altoborghesi, e anche il cane non scherza: «Virgola, virgola, con le orecchie a sventola... mangiava sedano, fegato, riso con le vongole, ed era abituato come un vero marajà!». E anche «nespole, fragole, torta con le mandorle, era il più viziato dei viziati di pascià!». Le immagini di Altan, formidabile autore della Pimpa, scherzano sulle similitudini orientaleggianti di Lauzi, ma diventano tristi quando la famiglia parte per le vacanze e siccome non c'è posto in auto lo lascia rinchiuso su un terrazzino, a ululare affranto alla luna. Verrà salvato da un bellissimo pompiere che assomiglia a uno dei pompieri di Paul McCartney in "Penny Lane", quelli che arrivavano con uno scampanio, e sono pronti a farsi leccare guance e baffi dal bastardino. Ed ecco fatta la morale, come chiedeva zio Rispoli e come vogliono tutte le storie scritte come Dio comanda. Meglio una vita fra coccole e carezze in una borgata periferica, dove vive la gente qualunque, che i privilegi senza affetto dei quartieri residenziali, dove abita la gente che abbandona i cagnolini. n
L'Espresso, 13/11/2008
Berlusconi bocciato agli esami
L'Onda sarà pure anomala, avrà messo insieme studenti e professori, matricole e baroni, genitori e bambini, suore e mangiapreti. Comunque, «la scuola è il primo vero intoppo nella gioiosa macchina da guerra del governo» (parole del direttore del "Riformista", Antonio Polito, in una nota non firmata, venerdì 31 ottobre). Viene da dire: finalmente. Finalmente si incrina il mito del consenso universale e nordcoreano del "caro leader" Silvio Berlusconi, con i suoi sondaggi autodefiniti «imbarazzanti» per troppo consenso, e i ministri e le ministre della Real Casa proiettati nell'empireo dell'adorazione di massa, come in una versione ultramediatica dell'Argentina di Evita Perón. "Don't cry for me, Italietta...". In realtà, il consenso alle stelle apparteneva alla categoria delle favole belle. O meglio: quando si parla di consenso conviene guardare al domani e al dopodomani, non solo all'istantanea offerta dai sondaggi. Perché il consenso è una materia volatile, shakespeariana, fatta della sostanza di cui sono fatti i sogni. Uno crede di averli afferrati, e quelli si dissolvono, lasciando le mani annaspanti nel vuoto. Ora non è detto che la protesta nelle scuole, nelle università e nei centri di ricerca rappresenti un'inversione di tendenza, anche perché il mondo degli insegnanti è uno dei santuari del voto "democrat", che i ministri del Pdl vogliono pressare (come ha scritto sul "Corriere della Sera" Angelo Panebianco). Ma intanto si è visto che non tutta la società italiana è disposta ad accettare la fiction di regime secondo cui ci sono alcuni eroi, come per l'appunto Brunetta e la Gelmini, Tremonti e Sacconi, a capo dell'Italia buona e per bene, che combattono a colpi di spada contro le infingarde forze del male. Che sono poche e malcerte, così come su un altro fronte sono pochi e irrilevanti i poveri, quelli della "social card": altro che i 15 milioni censiti dalla Caritas sul filo della povertà. Ma le cifre sono sempre oggetto d'arbitrio. I poveri, poi, figurarsi, nell'Italia dell'euforia "de destra" e dell'intrattenimento elettronico: entità irrilevanti. Invece, non appena si è toccato un argomento reale il riformismo del Pdl si è sgonfiato. Si è infranto l'incantesimo. E comincia a venire fuori una verità alternativa: il blocco berlusconiano non ha una cultura per far fronte alla crisi. Aveva un progetto politico chiaro, per chi voleva vederlo: accorpare rapidamente un blocco sociale di interessi costituiti, legati alle imprese, alle professioni, al lavoro autonomo, per costruire una maggioranza permanente, unificata al livello delle élite dal gusto del potere e, su un piano più popolare, cementata dall'ipnosi televisiva. In tempi normali, la formula appariva irresistibile. La tonalità del discorso pubblico del governo era assicurata dai suoi elementi di punta. Contava poco che l'impostazione economica di Tremonti fosse in conflitto con quella del ministro della funzione pubblica Brunetta. Tremonti, l'uomo del «Dio, patria e famiglia» era l'apocalittico suscitatore di paure, l'uomo che con le sue doti divinatorie aveva "profetizzato" la crisi finanziaria mondiale, la «tempesta perfetta», mentre Brunetta, soltanto sette mesi fa, in marzo, sosteneva in un'intervista al "Tempo": «La crisi dei mutui subprime americani è un falso storico. L'Europa non sarà investita...». In sostanza è una crisi gonfiata ad arte?, lo stuzzicava l'intervistatore, Alessandro Usai. E il futuro ministro della Pubblica amministrazione: «C'è sotto qualcosa. Indubbiamente. Una banca non può fallire per i mutui subprime». Conclusione: «Tremonti filosofeggia». Ottimo, forse converrebbe dirlo, oltre che a Tremonti, alla Lehman Brothers. Ma ciò che contava era che, non avendo una cultura coerente alle spalle, il Pdl si affidava tutto alle fissazioni dei suoi attaccanti più abili. A cominciare da Tremonti per la gestione dell'economia, con un programma fatto praticamente soltanto di tagli, in una condizione economica già depressiva. Grandi strilli, e trilli, di soddisfazione, anche fra i cosiddetti poteri forti, a cominciare dalla Confindustria per avere approvato la legge finanziaria in nove minuti e mezzo; nessun giudizio sul merito, cioè su una manovra che rischia di peggiorare in misura significativa le condizioni del Paese, spingendo all'ingiù l'economia durante un ciclo economico gravemente negativo. «Può darsi che Tremonti sia un genio visionario», dice l'ex ministro prodiano Giulio Santagata, «e che davvero abbia visto nei minimi dettagli la crisi in arrivo. Ma allora avrebbe dovuto fare una manovra diversa, o mi sbaglio? E adesso che la tempesta è qui fra di noi, magari cambiarla, la Finanziaria, o no?». In casa Pd sono restati a lungo ammutoliti, quasi storditi di fronte al crescere spettacolare del consenso per il governo. Soltanto adesso ci si rende conto che qualcosa sta cambiando. Perché fino a qualche settimana fa l'azione quotidiana di annunci del governo non aveva contrasti. Funzionava l'effetto "format", che come in un reality televisivo vedeva da una parte i solerti ministri berlusconiani, scatenati contro le ingiustizie e gli sprechi, e dall'altra le caste, le nicchie di neghittosità e pigrizia, i fannulloni, i sabotatori: non c'era partita. Vittime inconsapevoli di questo schema manicheo, gli italiani si identificavano con i buoni contro i cattivi. Tutto questo ha retto finché è rimasto sul piano delle parole. Ma non appena sono seguiti i fatti, la situazione è cambiata, prima insensibilmente, poi in misura più visibile. Il favore popolare si è fatto leggero, parente stretto del «consenso senza fiducia» identificato da Ilvo Diamanti per descrivere i successi virtuali di Silvio Berlusconi. Allorché intere categorie sociali si sono sentite toccate direttamente dalle azioni, o dalle minacce, del governo, l'indice di gradimento si è afflosciato. «È accaduto qualcosa che in realtà assomiglia molto a ciò che avvenne con la prima Finanziaria del governo Prodi, quando si cominciarono a vedere i contorni e gli effetti del risanamento di Padoa-Schioppa», commenta il pd Enrico Letta: «Quindi oggi non si protesta contro la riforma della scuola, perché non esiste nessuna riforma; si protesta contro i tagli di spesa, che il governo ha coperto con la propaganda». Cioè con i grembiulini, il voto in condotta, il maestro unico, e le più enfatiche e sospette dichiarazioni sul mantenimento del tempo pieno. Non è un caso che di fronte alla sollevazione delle scuole Berlusconi abbia giocato subito la carta della politica, puntando il dito contro i «facinorosi» che strumentalizzerebbero e manipolerebbero i poveri studenti desiderosi solo di imparare: è la classica mossa che serve per mobilitare le maggioranze silenziose, consegnando la protesta a un settore caratterizzato da una preconcetta ostilità antigovernativa, cioè alla sinistra. Tuttavia questa volta il contropiede non è riuscito. Soprattutto per ciò che agli studenti e ai genitori, ai docenti e ai ricercatori è sembrato chiarissimo, e cioè che il governo dice in pubblico cose che sono smentite o non esistono nei documenti, cioè nei dispositivi di legge. Ma ciò che conta di più è che progressivamente interi ceti hanno avvertito una pressione e hanno cominciato a strillare. Una volta è il caso dei "tornelli" per l'ordine giudiziario, un'altra è la dichiarazione di Brunetta per cui gli insegnanti guadagnano troppo, gettando lunghe ombre sulle aspettative di un eventuale miglioramento economico. Ma soprattutto, e più in generale, comincia a farsi strada la sensazione che il governo non sia in grado di fronteggiare con sicurezza l'incubo, cioè la recessione. Su questo punto si giocano molte partite, non tutte chiarissime. Il Pdl si porta dietro i sorrisi berlusconiani, l'ottimismo della ricchezza per tutti. Ma al momento, non è chiaro quale sia la strategia economica del centrodestra. Non si vede un complesso di misure per dare impulso ai consumi, colpiti da una flessione che, come rivelano i dati della Confcommercio, si fa sentire soprattutto sui piccoli esercizi commerciali, tradizionale riserva elettorale conservatrice. È per questo che, in modo piuttosto singolare, ora con una dichiarazione di striscio, ora con una critica di sbieco, è cominciata a entrare in tensione nel centrodestra la figura del suo principale ideologo, Giulio Tremonti. Qualcuno nel Pd assapora già il disastro, ricordando la caduta del ministro dell'Economia nella legislatura berlusconiana, allorché Tremonti, messo alle corde dal "subgoverno", cioè An e Udc, fu costretto alle dimissioni e sostituito per 15 mesi da Domenico Siniscalco. «Questa volta non possono permetterselo», dice Letta, «Tremonti è la figura garante della politica economica rispetto all'Unione europea». Ma nello stesso tempo, aggiunge Matteo Colaninno, ministro ombra del Pd, non si riesce a capire la ragione di certi atteggiamenti del premier e del ministro per l'Economia verso l'opposizione: «Non appena dal nostro campo viene una proposta, per esempio orientata a sostenere i consumi in questa fase difficile per le imprese e le famiglie, Tremonti e soprattutto Berlusconi non perdono occasione per infilare le dita negli occhi al Pd. A me sembra un atteggiamento irrazionale. Non si vede quale sia la convenienza nell'assumere su di sé tutte le responsabilità. Io parlo con gli imprenditori, e so che gli ordini sono calati, la recessione si sente: per quale motivo il capo del governo rifiuta il confronto?». Già, chissà. La supermaggioranza in Parlamento consente al premier anche di fare a meno del consenso. Certo, è troppo presto per dare per concluso il legame affettuoso fra la società italiana e Berlusconi. Ma forse ci avviciniamo alla fase della sopportazione reciproca. Senza entusiasmi. Con gli uomini di An che mugugnano. Con Scajola che cerca di differenziarsi dai rigori di Tremonti. Insomma, come se ci trovassimo di fronte a una democristianizzazione del Pdl. Chissà se siamo condannati a morire berlusconiani. n
L'Espresso, 20/11/2008
Tradimento e Luxuria
L'accusa che piomba sull'"Isola dei famosi" è grave: denunciando i baci del supertruzzo e della stragnocca fidanzata del centravanti a digiuno, Vladimir Luxuria si è comportata come una sciurétta che scrive le lettere anonime. Proprio lei, che dovrebbe essere quella emancipata, aliena dai pregiudizi e dai convenzionalismi. Vorrei spezzare una lancia (o come dicono certi studenti universitari agli esami, «un'arancia») a favore di Vladimir. Luxuria infatti ha capito molto. Ha capito che l'Isola è un laboratorio di veleni e di tradimenti, e che la gente a casa non aspetta altro che venefici, pugnalate e delazioni. E quindi si è comportata secondo il format, adeguandosi a ciò che era necessario fare. Denunciare, moraleggiare. Fare la smorfiosa e scrollare le spalle quando quella là le ha dato dell'invidiosa, indicando anche fra le gambe l'oggetto dell'invidia di Vladimir (colonna sonora per l'eventuale remix a "Blob": «Patatì, patatà, patatina come te»). D'altra parte, bisognerebbe prendere partito: è peggio guardare l'Isola o partecipare all'Isola? Dal momento che uno accetta di andare tra i Famosi, ogni bassezza è permessa. L'Isola è un catalogo lombrosiano: le abbronzature, i dimagrimenti, i capelli aggrovigliati, la tetta cadente o svettante: forse per mettere in risalto, invece, il colore meraviglioso, in studio, e le bocce disegnate con il compasso, oltre che spettacolarmente esibite, di Simona Ventura. La sinistra sta con Luxuria. La destra con Belen Rodriguez. Gli incerti con Borriello. Pochissimi con Rossano Rubicondi, il baciatore presunto e quarto marito di Ivana Trump; e anche quei pochi si chiedono: ma quel nome, Rubicondi è vero o no?
L'Espresso, 27/11/2008
Mondo Cortellesi
Paola Cortellesi è brava. Ha talento. Sa imitare, cantare, muoversi. È anche graziosa, anche se non proprio sexy (ma siamo sicuri che, volendo, sexy diventerebbe). E allora perché il suo nuovo varietà, "Non perdiamoci di vista", produzione impegnativa che doveva sollevare gli ascolti di Raitre, ha riscosso più che altro critiche? Prima risposta, facile. Un intrattenitore, qualcuno o qualcuna che faccia satira, funziona quando amministra una nicchia dentro un programma. Oppure se fa il conduttore o la conduttrice, come Serena Dandini. Se invece conduce il programma intero, sono problemi e problemini, vedi il caso di Maurizio Crozza, che è un talento ma la trascina troppo per le lunghe. A meno di non essere Fiorello. Ma si sa che Fiorello è un fuoriclasse, che potrebbe essere eguagliato o perfino superato solo da Christian De Sica. (A proposito: finora non se ne sono accorti in moltissimi, ma il libro di quest'ultimo, "Figlio di papà" è il migliore libro dell'anno. Quando De Sica junior racconta di suo padre, di Zavattini, di Rossellini e Fellini, le pagine squillano di risate, e talvolta si bagnano di commozione). Seconda risposta, difficile. Per motivi misteriosi, la Cortellesi è lievemente ansiogena. Urge un trattamento rilassante, che la dispieghi e la distenda. Non mi dite che non c'è uno psicologo a disposizione, negli studi della Rai: un Crepet è per sempre. Ma poi ci vuole anche un trattamento culturale, perché il suo universo è troppo televisivo. Questo è un vizio di quasi tutti coloro che fanno televisione, e via via si convincono che nulla esiste al di fuori della tv. E invece, fuori, c'è un mondo. Cortellesi, faccia un piacere: ne tenga conto.
L'Espresso, 27/11/2008
Il nemico perfetto
Ad applicare schemi tradizionali, non si capirebbe granché della strategia del governo. Dunque, ci troviamo dentro una crisi economica dai contorni indefiniti, dall'evoluzione imprecisabile, che potrebbe avere conseguenze inquietanti sulla nostra economia e richiedere interventi molto più pesanti di quelli predisposti a tentoni dal governo Berlusconi. In circostanze simili, un minimo di cautela, se non di preveggenza, dovrebbe indurre le forze politiche di maggioranza e i loro leader più esposti pubblicamente a moderare i toni e a valorizzare un rapporto decente con l'opposizione. Potrebbe capitare infatti, non si sa mai, di dover accettare o chiedere un contributo di coesione, per fronteggiare con ragionevolezza civile gli eventuali picchi della crisi. E invece no. Come ha spiegato Matteo Colaninno, Berlusconi e i suoi gregari non perdono l'occasione per «mettere le dita negli occhi» all'opposizione. Il ministro Brunetta continua ad attaccare «i santuari della sinistra», mentre Maurizio Gasparri insulta pesantemente il leader del Pd («stupido, arrogante e incapace» nel caso dell'elezione del presidente dalla Commissione di vigilanza Rai). Ma l'attacco più forte, e a suo modo ideologico, è quello in atto contro il sindacato. Anzi, non contro il sindacato in generale, perché Cisl e Uil stanno intensificando le loro caratteristiche di sindacato «cooperativo» (il segretario della Uil Angeletti ha lasciato intendere che la base della sua confederazione lo orienta verso posizioni non antagoniste rispetto al governo). L'offensiva è invece esplicitamente contro la Cgil. Quale sia la razionalità di questa scelta strategica non è ben chiaro. La caotica vertenza della Cai ha dimostrato, e continua a dimostrare, che quando i sindacati ufficiali sono in minoranza, le componenti autonome possono condurre al caos un settore intero. Vale a dire che se il governo riuscisse effettivamente a umiliare la Cgil, stringendo accordi con le altre due confederazioni, dovrebbe poi fronteggiare gli esiti di un conflitto sindacale conclusosi con la mortificazione di un interlocutore, e le possibili azioni ricattatorie, nonché le agitazioni selvagge, dei sindacati minori. Conviene quindi cercare uno sfondamento? Conviene davvero trattare con sufficienza e astuzia malandrina Guglielmo Epifani, considerandolo e mostrandolo pubblicamente come un intruso da evitare? Soltanto un paio di stagioni fa questo appariva uno schema razionale ed efficiente per la destra. Dividere il sindacato, sconfiggere e marginalizzarne una componente, procedere con rapidità verso pacchetti di riforme "liberiste". Ma in questo momento il governo Berlusconi non ha in programma riforme liberalizzatrici. Anzi, la sua azione si sta sviluppando in termini corporativi, cercando di aggregare in un blocco coerente i ceti sociali che esprimono consenso verso il Popolo della libertà. E allora? A che cosa serve in definitiva l'offensiva contro la Cgil? A niente. O meglio, serve più che altro a introdurre quote di conflittualità nella politica e nelle relazioni industriali. Il Pdl è una coalizione eterogenea, e il centrodestra un'alleanza in fondo caotica. Può essere tenuta insieme più agevolmente, durante una crisi grave come l'attuale, se viene continuamente mobilitata contro avversari, nemici, sabotatori, fannulloni. Da questo punto di vista la Cgil è il nemico perfetto. Ha una chiara origine di sinistra, è "collaterale" al Partito democratico, raccoglie una rappresentanza di ceti (in particolare operai e pensionati) in via di emarginazione nei processi sociali contemporanei. È il nemico ideale, che ha come sola arma di rivalsa l'indizione dello sciopero generale, con tutti i rischi che ne possono conseguire. Si può dire quel che si vuole, che il governo non ha una concezione chiara di come fronteggiare la crisi finanziaria ed economica, ma non che non abbia idea di dove colpire. Come si è visto, la principale capacità del Pdl consiste nel selezionare i propri avversari, valorizzandoli quando si differenziano dal mainstream del centrosinistra e attaccandoli quando rappresentano il bersaglio ideale. Il governo Berlusconi è una compagine dotata di "cattiveria" agonistica, che ha individuato le zone deboli della sinistra e prova ad affondare i colpi. Una ragione in più per provare a difendersi con ordine, e a contrattaccare con lucidità: sullo stesso terreno, e non sul piano delle belle idee.
L'Espresso, 04/12/2008
Zavoli amarissimi
Sono tempi duri, che inducono a riflettere sulla vita e il futuro della tv pubblica. Come ha scritto su "Tuttolibri" l'arguto Luciano Genta, è passata una settimana di «Zavoli amari», e il solo pensiero che un uomo della qualità di Sergio Zavoli sia stato messo in gioco per finire in croce fa male alla coratella e zone circostanti. Nel frattempo tutti se la sono presa con l'uomo della sceneggiata, la scheggia impazzita del Pd Riccardo Villari. Ma fosse solo Villari, il problema. Il problema è che ci sono quelli che. Quelli che lo hanno eletto, Villari, con una bellissima soluzione dadaista: ah sì, il presidente della Commissione di vigilanza spetta all'opposizione? E allora noi della maggioranza eleggiamo uno che piace a noi. Poi ecco quelli che hanno continuato a votare per Leoluca Orlando per più di 40 volte, forse sperando di prendere il Pdl per fame. E anche quelli che adesso dicono: tanto, la Commissione non serve a niente. Quelli che rispondono: se non serve a niente, perché questo casino? E così via. Fosse ancora qui con noi l'inventore di Telekabul, il compianto Sandro Curzi, potrebbe fare uno dei suoi discorsi preferiti: «Compagni, attenti a non commettere altri errori» (nei suoi discorsi in pubblico, Curzi aveva l'abitudine di chiamare "errori" i crimini del comunismo). Insomma. Ancora non si capisce quale sia la ragione per cui quando qualcuno dice: ma dai, la Rai va privatizzata (naturalmente smantellando anche l'oligopolio Mediaset), salgono voci addolorate, che evocano il servizio pubblico e altre favole belle. Su, compagni, su fratelli, fatevene una ragione. Sennò, sempre più amari saranno gli Zavoli.
L'Espresso, 04/12/2008
Vangelo Celentano
Adriano, chi è l'Animale? «Perché, non si capisce?». Era una domanda retorica, tanto per cominciare. «Ah, per rompere il ghiaccio. Insomma, l'Animale sarei io». Ha una sua logica. «Dai, è tutto chiaro, volendo. Due facce della stessa figura, l'istinto e la ragione, il corpo e l'anima, l'amore e la guerra...». Adriano e Celentano, anche. Una specie di vitale e felice schizofrenia. «Ecco». Così originale e irrisolta da attrarre sempre lo sguardo, del pubblico e degli intellettuali, del popolo e della politica. Il fatto è che oggi, venerdì 28 novembre, esce un nuovo album di Adriano e di Celentano, intitolato appunto "L'Animale", che comprende due dischi, due facce della medaglia. Il primo con le canzoni d'amore di tutta una carriera, il secondo con i brani che hanno fatto di lui una specie di oracolo dell'Apocalisse, un leader della denuncia, un vessillifero della protesta. Nella sua casa in Brianza, Celentano dà l'impressione di trascorrere la sua vita cercando di rallentarla. Gli orologi da riparare, il tornio, gli attrezzi. «Il tempo dedicato alla musica? Non molto, per la verità». Eppure non si direbbe. Sembra invece di avvertire un'applicazione minuziosa. Il primo disco si apre con un inedito, "La cura", e può dare anche un colpo al cuore ascoltare l'ex Molleggiato al suo meglio, perché forse non ha mai cantato così, con quella voce irripetibile che alla fine è diventata capace di interpretare in tutte le sue sfumature un classico moderno come la canzone di Franco Battiato e Manlio Sgalambro: facendone sentire i riverberi quasi misterici, soprattutto nel momento in cui il coro canta le parole aggiunte da Battiato a questa preghiera d'amore, «Dona eis requiem», e la voce si spinge in alto, "in excelsis", partendo dalla gola per sfiorare qualche strano cielo, lassù. Poi scivolano via tutte le altre canzoni, gli standard come "Acqua e sale" con Mina, "Una carezza in un pugno", "L'emozione non ha voce", gli hit antichi come l'epocale e teatrale "Storia d'amore". Ma per cambiare scena e registro basta infilare nel lettore il disco numero due, quello ambiental-protestatario, ed ecco che l'Animale scatena la sua forza muscolare e visionaria. Già, l'Animale. Com'è venuta fuori questa definizione? «Mah, Lorenzo mi aveva mandato un testo bellissimo...». Lorenzo chi? «Lorenzo lui, Cherubini». Cioè Jovanotti. «Proprio. Poi non abbiamo composto la musica, forse lo faremo più avanti, insieme, e Claudia allora dice: intanto facciamone il titolo dell'album nuovo. Urca, dico, idea forte, se Lorenzo ci sta...». Ci sta, figurarsi. Chi direbbe di no a quella bestia dell'Animale? E allora uno dovrebbe mettersi comodo in poltrona e ascoltare il nuovo inno politico-ecologico, ma qui arriva lo choc. Fin dal titolo, "Sognando Chernobyl". Ma come, Animale, Chernobyl appartiene al cielo grigio di vent'anni fa. Un'altra epoca, quando c'erano ancora i sovietici, e le centrali nucleari andavano a segatura. Adesso Claudio Scajola ci nuclearizza tutti con le centrali di nuova generazione, allegri. «Lascia perdere Scajola. Noi con Chernobyl abbiamo assaggiato per la prima volta il sapore della catastrofe. Anche allora avevano cominciato a dire che non era successo niente, poi abbiamo visto questa immane nube rossa che avanzava verso l'Europa. Il fatto è che non ti dicono la verità, ieri come oggi. Anche adesso non sappiamo che cosa è successo in Francia, con gli incidenti nelle centrali. Tutti zitti, muti come le tre scimmiette». L'Animale invece parla. Tragicamente euforico come quando si aggira nei dintorni dell'abisso, esattamente come quando all'epoca del referendum sul nucleare disse a "Fantastico": «Votate no al referendum e vi troverete la bomba atomica in cucina». Oppure la Bestia prega. È una strana canzone, Adriano. Pochi accordi ossessivi, una lunghezza spropositata, dieci minuti e dieci secondi, una specie di riedizione del "Mondo in Mi 7a", ma più da Terzo millennio che da Novecento, senza il finale consolatorio di allora, anno 1966: «E se noi tutti insieme in un clan ci uniremo cambierà questo mondo». La canzone nuova sembra infatti una preghiera: «Oh mio Signore, dimmi come possiamo fare per evitare che il mondo salti in aria». Un canto gregoriano apocalittico, il Vangelo modulato secondo Adriano: «Quella sera quando tu arrivasti ci dicesti di non fare agli altri ciò che tu non vuoi che gli altri facciano a te, ma nessuno di noi ti ascoltò». È il tuo modo di pregare, Animale? «Nella canzone ci sono due voci: le persone, cioè il coro, che si rivolgono a Dio dicendo "noi"; e un giullare che si agita sull'orlo del baratro, "Tutti quanti salteremo in aria bum"». È credibile questo pessimismo da Rockpolitick, pronto per un videoclip infinito, fatto di immagini che si rincorrono, di nuvole che aprono squarci lividi nel presente? Tanto più che poi a metà del disco si trovano pezzi come "Prisencolinensinainciusol", un rap dell'assurdo, in cui non c'è una sola parola comprensibile. «Ma anche quella è un'altra canzone di protesta. Era tutta legata al concetto di incomunicabilità. Mi ero detto: la gente non comunica più e allora voglio usare la lingua di Babele». Credi che la gente abbia capito? O ha visto soltanto il giullare? «Non so. Io canto la stessa canzone da quarant'anni, che conduce sempre alla medesima conclusione: non pensare solo a te stesso». «Pensa anche un po' per me», come in "Svalutation". «Già. Ma è anche vero che qualche volta sento un po' di stanchezza. Mi sto stancando un po' di me stesso. Di ripetere sempre le stesse cose senza che niente cambi, e anzi con il sospetto di alcuni, i diffidenti, gli increduli, che la protesta e la denuncia servano più che altro a farci sopra dei soldi». Intanto non si è ancora capito del tutto se l'Animale è un conservatore o un progressista. Ma si può essere conservatori, oggi? «Ci sono delle cose da conservare come base per un giusto cambiamento, e altre da buttare. Ma è giusto cambiare, come tutto cambia. Cambiano le cellule, il cuore, la faccia che è diversa da quella che avevi una volta. Per cui l'Animale è senz'altro un progressista, che guarda al futuro però tenendo per mano il passato. Quel passato che la stoltezza dei sindaci hanno disdegnato in nome di un falso progresso». Non diamo tutta la colpa a Letizia Moratti, l'ultima arrivata. «No di certo, ma riconosciamo che la speculazione adesso sta distruggendo anche chi la pratica. Ci sono in giro soprattutto facce da morti. Mentre una volta non era così, io ero allegro anche quando c'era la nebbia». Non ci sono più le nebbie d'una volta, Adriano. Le città cambiano troppo in fretta per il cuore di un uomo, lo diceva già Baudelaire. «Ecco appunto, Parigi. Guarda la piramide del Louvre, bellissima. Perché ha spazio intorno, aria e luce. Qui da noi l'avrebbero schiacciata togliendole il respiro». Eccoci, siamo di nuovo al Celentano disastrista. «A volte mi sento stanco di parlare sempre delle preoccupazioni della gente, ma avverto quasi un dovere: se smettessi mi sentirei egoista: sarebbe brutto rinchiudersi in se stessi, sarebbe la fine di una voce, e per qualcuno di una speranza». Resta sempre la possibilità di cantare canzoni d'amore. Non fa un po' ridere, a settant'anni? «No, perché? Guai a smettere di essere innamorati. Si deve essere sempre pronti a innamorarsi anche se ami tua moglie. Ma soprattutto bisogna essere innamorati dell'amore. A ogni età. Lo sai che ho un fratello, Alessandro, che sta a Viareggio e ha 88 anni? Ragazzi, che roba il tempo». Già, era solo ieri che si cantava "Il ragazzo della via Gluck", la storia autobiografica di un cantante di enorme successo a neanche trent'anni: una canzone popolare e immensa, la periferia su cui incombeva «catrame e cemento», il nodo alla gola, adesso quasi la commozione da cacciare via. Quasi passa la voglia di mangiare, Animale, con queste storie. «Ma sai, io sono un po' inappetente. Claudia mi fa preparare quattro o cinque piatti ogni volta, per invogliarmi, ma senza troppo successo». Eppure la natura dovrebbe aiutare. Che bellezza, questa vita appartata, fra il verde, gli alberi. Chissà come viene fuori, da questo luogo idilliaco, lo spirito della tragedia, l'incubo della fine del mondo. «Che cosa devo dire, la fantasia non si ferma. Né la mia né quella del pubblico». Si sente dire che l'Animale ha preparato un video scioccante per "Sognando Chernobyl". «Il video è bellissimo, lunghissimo, dura come la canzone, ma sono un po' incerto se mandarlo o no: perché temo che limiti la fantasia di chi ascolta. Temo che la gente non si spaventi abbastanza». E allora, lo si vedrà o no? Un guizzo negli occhi: «Alla fine, forse è meglio che ognuno si immagini la catastrofe che vuole». Quindi che cosa fai, non lo mandi? «Adesso me lo riguardo tutto per bene. E se mi fa abbastanza paura, lo mando».
L'Espresso, 11/12/2008
Viva Pippo re dell’abbiocco
Si sono lette numerose interpretazioni su Pippo Baudo duramente battuto il sabato sera da Maria De Filippi. Le spiegazioni sono tutte convincenti. Lo show di Baudo è tradizionale. Visto, per esempio, a "Serata d'onore" un ottimo esempio di televisione d'antan, con una bella conversazione del Superpippo con Mariangela Melato. Ma la tv in smoking può combattere ad armi pari contro la tv da condominio? Ma no. L'audience del sabato sera è quella di sempre, anziana e prossima all'abbiocco. Va tenuta sveglia con storie rassicuranti: se è il caso, alcuni telegiornali provano perfino a oscurare l'attacco terrorista di Mumbai, tanto per non disturbare la tranquillità delle nonne. Quindi, coperte sulle ginocchia, camomilla, tisane. Per certi versi Baudo rappresenta la mondanità, i lustrini, il salon, suoni e luci. Tutta roba troppo distante dalla vita reale di questi tempi. Molto meglio le storie domestiche di "C'è posta per te". Sono vicende che potrebbero accadere in qualsiasi casa popolare, che suscitano la curiosità degli inquilini. La palpebra si solleva, l'occhio si muove. C'è posta per te! Invece, Baudo, poveretto, si sbatte nel nome di una tv in cui c'erano i balletti e l'orchestra, il presentatore in abiti ufficiali, gli ospiti, la presentazione di un prestigioso o caciarone film natalizio, l'ultimo successo del cantante Pincopalla. No, troppo internazionale, troppo patinato, troppo scintillante. L'Italia vuole spettegolare, guardare dal buco della serratura. Anzi, a pensarci bene le storie della De Filippi sono un po' troppo sofisticate. A quando un format con la lite del portiere e l'assemblea di condominio per cambiare l'amministratore?
L'Espresso, 11/12/2008
Così parlò Cesare
Vedi Cesare Cremonini, agile ed elastico, che si aggira scivolando come un pesce nell'acqua nel centro storico di Bologna, oltrepassando via Santo Stefano e il Pavaglione, per raggiungere un locale più che etnico, regionale e pugliese, a un passo dalla storica via Riva di Reno, e ti chiedi chi sia, e che cosa sia, questo ragazzo di ventott'anni, circondato da una setta adorante, non estesissima ma piuttosto convinta, che lo ha eletto a massimo musicista italiano sotto la trentina e sembra disposta a passarci insieme almeno i prossimi vent'anni. Lui lo sa, naturalmente, che ha l'obbligo di comportarsi come un caposcuola, perché altrimenti si guarderebbe bene dall'aprire il suo ultimo disco con un preludio solo strumentale collocato culturalmente fra il Settecento e il vaudeville, senza decidersi se convenga virare verso i cicisbei e il minuetto o verso i drammi multietnici della globalizzazione, eventualmente temperati da un sound molto melodico e dai dovuti profumi di spezie esotiche. Il nuovo tour è già partito, "absolutely sold out", mentre l'ultimo album, "Il primo bacio sulla luna", è schizzato ai vertici delle classifiche, mentre i critici parlano con una certa soddisfazione di echi beatlesiani e di sonorità tutte italiane, una miscela difficile e comunque, quando riesce, infallibile, anche se le canzoni non sono canzoni-canzoni, come ai tempi dei Lùnapop, di "50 Special" e degli echi delle escursioni sui colli bolognesi, quando il giovanissimo Cremonini, figlio musicale dei Queen e di Freddie Mercury, poteva essere assimilato a ultima, estrema e ultramoderna incarnazione dell'Equipe 84. Sono passati, molto inconsapevolmente e molto alla svelta, quasi dieci anni, e l'adolescente scatenato e allegramente incosciente è diventato un protagonista controllato, quasi un "young urban professional" qualche decennio dopo gli anni Ottanta. Il figlio di un dietologo più che ottantenne e di una più giovane brava professoressa con vent'anni di meno, dopo il liceo e una figurativa iscrizione a Scienze politiche, sfiora infatti insidiosamente l'età adulta, e cerca con razionalità il proprio stile e un modo di essere. «Mi telefona tutte le sere mio padre, e mi dice che ha paura di morire, e allora m'incazzo, più o meno, e gli dico che non può deludermi, che deve affrontare il futuro e il destino con la dignità che mi ha insegnato». Ah, la saggezza del giovane Cremonini. Intanto non ha ancora maturato quella particolare attitudine burocratica, per cui si lavora alla musica dalle nove alle cinque: il piccolo Cesare ha ancora qualche vezzo da rockstar giovane, scrive canzoni all'alba, si fa venire in mente una soluzione chopiniana o beatlesiana alle "sei e ventisei" della mattina, come da canzone omonima, dopo notti che hanno l'aria di essere state seriamente impegnative; e si sveglia allora piuttosto spettinato, da figlio veritiero di una scapigliatura che appare molto bolognese ma potrebbe pure essere molto londinese: chi se ne frega, la location in fondo non importa, conta il mood. E il mood tende a mitologizzare, come si fa alla sua età per dare una cornice al quadro: «Tutte le mie canzoni sono frammenti di un'autobiografia». Viene voglia di rispondere bruscamente: e chi se ne frega, Cremonini, dell'autobiografia. Saranno le solite storie e storielle, le ragazze, le fidanzate, gli amori, i cassetti con i memorabilia e le reliquie delle ultime passioni, i pacchetti di sigarette ciancicati e «le tue calze rotte la notte in cui ti sei ubriacata». Ma lui ha bisogno di sintetizzare, di concettualizzare, di organizzare mentalmente tutte le "stories" personali, mentre tutt'intorno i piccini e le piccine che lo hanno riconosciuto implorano muti uno sguardo o un autografo. L'avevo incontrato qualche epoca fa, al premio per i testi delle canzoni organizzato ad Aulla, quando era in carica il facinoroso sindaco Barani, quello del monumento ai martiri di Tangentopoli, e quando l'imberbe Cremonini insieme con i vecchi Lùnapop spopolava in allegria fra le ragazze (con esiti perfino pubblicamente imbarazzanti, dati gli assalti e gli agguati); mentre adesso sembra passato alla fase riflessiva degli amori saggi. Poi l'avevo visto in qualche concerto tecnicamente precario, quando sembrava che la perfezione della sala d'incisione fosse tradita dall'esecuzione "on the field", e invece irrompere alla grande in un programma televisivo del mostro sacro Celentano, quando si era messo a rivaleggiare a zompi e a balzi con Adriano, senza pudori né complessi, proprio come un predestinato, uno baciato dalla stella del narcisismo. Adesso, dopo alcuni dischi "en solitaire" come "Bagus" e "Maggese", sembra uno dei pochi artisti italiani convogliati a quella particolare professione che è l'idolo delle sbarbine: eppure con un patrimonio raro di tecnica, con il gusto di classicheggiare negli arrangiamenti, di introdurre strumentazioni vintage, di provare soluzioni canore e musicali inventive, spessissimo sofisticate, e comunque tutt'altro che ovvie. Sicché: il ragazzo Cremonini si trova in una singolare e paradossale condizione, modellata in primo luogo dalla consapevolezza di una cultura musicale, che lo induce a sperimentare, e a non accontentarsi degli stereotipi; ma poi anche da una certa coscienza dell'età, che lo porta a nascondersi, a mettersi addosso una maniera di ex adolescente, di giovane adulto, di un "professional" che prova a mediare acrobaticamente fra la deontologia e il cazzeggio, senza mai scegliere, ma senza rinunciare a un che di pragmaticamente bolognese, che impedisce le fughe troppo romantiche, e quindi modera in maniera molto opportuna i patetismi post-giovanili. Resta poi, l'ultimo disco, quello del bacio sulla luna, più lo ascolti e più ti piace. In certe canzoni come "Louise", per esempio avverti echi degli anni Sessanta che in certi momenti sembrano degli arcaici Monkees, e addirittura della nostra Caterina Caselli, sicché dopo un riff di chitarra elettrica d'antan non ti stupiresti di sentir partire le note di "I'm a believer", o perfino di "Sono bugiarda", per cantarlo all'italiana. Ed è curioso allora vedere questo costruttore di "hit song", di pezzi da cantare e da classifica, che si muove come perfetto essere sociale, senza nascondere i manierismi, gestendo le movenze, attento ai modi di dire, forse più preoccupato di nascondere che di mostrare. Tanto che viene voglia di dirgli: Cesare, non nasconderti, lasciati guardare, fatti sentire, mettiti alla prova. E lui allora guarda di sottecchi il suo manager e scopritore, il leggendario Walter Mameli, e cerca quasi di ribellarsi. Dice le solite cose, che non vuole essere un divo, e che va a caccia di una sua autenticità. Ma in fondo, con pochi altri italiani giovani, con Tiziano Ferro e lo zio più anziano Jovanotti, Cesare Cremonini sa che fra poco dovrà scegliere. Scegliere se essere "soltanto" un artista, un cantautore, un talentuoso giovane uomo di spettacolo, oppure qualcosa di diverso. Per adesso lui crede di essere ancora e soltanto un musicista. Ma nella crisi generale del mercato discografico, "cantare" non significa nulla, comporre canzoni ancora meno, arrangiarle e produrle idem come sopra. Il giovane Cesare può diventare definitivamente un piccolo eroe dello show system; ma forse c'è un traguardo che consentirebbe di rendere il suo ruolo più significativo, «per dimostrare al pubblico che nella vita è vero il vero, ma pure il suo contrario...» ("La ricetta... Per curare un uomo solo", dall'ultimo album). Ecco, se c'è un destino possibile e augurabile per il bravo musicista e cantante Cremonini è quello di fare il possibile per diventare vero, qualcosa di simile a un leader generazionale, insomma: un esempio. n