L’Espresso
L'Espresso, 18/12/2008
Non sparate su Gifuni
La fiction di Raiuno su Paolo VI, "Papa nella tempesta", non ha suscitato entusiasmi. Pare addirittura che il film di Fabrizio Costa, con protagonista Fabrizio Gifuni, non sia proprio piaciuto a Joseph Ratzinger (ma se fossimo negli autori, nel regista e anche nel produttore non ci preoccuperemmo troppo: a Benedetto XVI è piaciuto a tal punto il saggio di Marcello Pera, "Perché dobbiamo dirci cristiani" che ha voluto mandare all'autore una lettera di plauso, prontamente stampata come prefazione; quindi, come si può arguire, per quanto riguarda film e libri siamo nell'ambito non dell'infallibilità, ma del "de gustibus", e quindi liberi tutti). I critici sono stati assai severi. Ma chissà se sono stati obiettivi. L'autore di questa rubrica ha visto le tre ore del film televisivo notando una certa finezza intellettuale, rara in televisione: quando in una battuta, in un brevissimo dialogo, in due sequenze si deve far capire una colossale riflessione, un'enciclica come la "Populorum Progressio" o la "Humanae Vitae", il rischio della supercazzola è sempre in agguato. E invece gli autori e Gifuni sono riusciti a far comprendere la filosofia e i dubbi di papa Montini. Piuttosto, la fiction aveva altri difetti, caratteristici di certa fiction italiana. Comprimari così così, tempi di recitazione approssimativi. Ma con tante schifezze che circolano sui nostri schermi, prendersela con "Paolo VI" non è giusto. Adesso però i papi vanno all'esaurimento. Suggerimento per la produzione: non sarebbe di qualche interesse passare ai cardinali? (E poi ai vescovi, ai parroci, ai cappellani, ai preti semplici. Magari con fiction di tre minuti, che costano anche meno).
L'Espresso, 18/12/2008
sono il gassman dei poveri
Christian De Sica è il caciarone, il coatto di lusso, e volendo anche il perfetto "cazzone" da film di Natale, con la risata alta come un nitrito; il quale all'improvviso si è trasformato in un ex giovin signore, colto e arguto: in pratica un miracolo. O meglio, il risultato di un libro strepitoso, "Figlio di papà" (Mondadori), che riscatta un'esistenza e una carriera, se c'era bisogno di riscattarle. Perché a conoscerlo, Christian, non sembra proprio il personaggio dei suoi film, un cesellatore del "vaffanculo" che chiude le sequenze. Piuttosto, De Sica gigioneggia con l'età: come perdonargli di avere scritto «Sono un bel vecchio»? Figurarsi, a 57 anni. Civetterie che giocano con i narcisismi venuti giù dai rami della famiglia: «Ma no, il fatto è che io sono figlio di un vecchio; mio padre aveva cinquant'anni quando sono nato. A me non piace affatto invecchiare: i vecchi sono tutti nevrotici, ossessionati da qualcosa. E io quando mi guardo allo specchio, vedo i danni dell'età e rabbrividisco: i peli che diventano bianchi, il sedere schiacciato...». Cielo, il dramma della "culotte de cheval". «Ahi, non mi faccia fare la figura di quello che passa il tempo a contemplarsi il profilo. La vecchiaia mi piace così poco che sono anche convinto che l'esperienza non serva a niente. Serve a diventare disincantati, cioè a perdere entusiasmo. Per dire, mio figlio Brando arriva tutto eccitato e dice: con i miei amici abbiamo trovato a Trastevere un ristorante pazzesco, sembra di essere nella Roma del Medioevo; e io che conosco Meo Patacca da quasi mezzo secolo, rispondo "Fantastico, dimmi dov'è". Perché bisogna lasciarsi meravigliare, altrimenti che gusto c'è?». D'altra parte è un dono di famiglia quello di far convivere l'affetto e l'umanità con il cinismo cinematografaro: «Ma io ho cercato di vivere rispettando me stesso; ho provato a essere il più libero possibile, anche se questo viene visto male, e allora si è costretti a fingere. E invece occorre trovare una sfera di relazioni in cui si è autentici». La famiglia, per esempio, o le famiglie: perché se Vittorio De Sica ha condotto un'esistenza vicina alla schizofrenia, da bigamo perfetto, Christian è un punto di riferimento per una famigliona estesissima. Fratelli, sorelle, amici, amiche. Amanti? Nel libro c'è l'episodio di quando la madre, Maria Mercader, si confida con Cesare Zavattini perché teme che Christian e Isabella Rossellini siano troppo innamorati e abusino della loro vitalità. E il padano e pagano Zavattini, a sorpresa: «Come bestie devono scopare, come bestie!». Lui minimizza: «Ho una moglie che conosco da quando lei aveva 14 anni». Silvia, sorella di Carlo Verdone. «Allora erano tutti preoccupatissimi perché io ero già grandicello, avevo 21 anni, e tutti sapevano che avevo un mio successo con le mignottelle: si sa, il giro dello spettacolo. Ma io ero proprio innamorato, non volevo solo farmi la ragazzina, e allora loro, i Verdone, hanno organizzato quasi un matrimonio, con un prete, a cui ho dovuto dire che l'amavo, per dimostrare le buone intenzioni». Adesso la moglie Silvia è anche il suo agente. «Sì», risata, «ma non è che mi costi di meno». Tutto in famiglia, però. «Il mio sogno, sa qual è? Vorrei una famiglia larghissima, un castello dove abitare tutti quanti, un sacco di soldi, niente preoccupazioni. E vederci la mattina e la sera, per il cazzeggio». Un sogno provinciale? «Da giovane mi piaceva correre a New York, a Londra, per le mostre, gli spettacoli. Adesso invece, ci si trova quando si è in vacanza, a San Giuliano Terme, fra Lucca e Pisa, e lì sperimenti davvero la provincia. Non solo perché hai intorno tutta la famiglia, ma per la gente del luogo, veri e orgogliosi, che se vinci l'Oscar, e ritorni un po' tronfio, ti mandano subito a cagare». Rieccoci con il turpiloquio. «Fuori dal set non parlo così». Ma nei film sì. Ora sta per uscire "Natale a Rio" (il 19 dicembre), l'ennesimo film delle vacanze, la solita storia caciarona. «Non faccia l'intellettuale schifato. Sono stato a vederlo con Aurelio De Laurentiis, il produttore, in uno studio dove presenta sempre il film di Natale, e mi sono stupito io stesso perché Neri Parenti, il regista, ha fatto un capolavoro: ritmo, freschezza, vivacità». Alzo le mani e mi arrendo, De Sica. «Sono due storie che si intrecciano, io e Massimo Ghini siamo i padri, poi ci sono Michelle Hunziker e Fabio De Luigi». Con Ghini, Christian ha già fatto "Natale a Miami" e "Natale a New York". «Un fratello. Siamo quelli del turacciolo, l'ho scritto anche nel libro». Già, il turacciolo bruciato, per annerire la chierica, dove i capelli si diradano. «Ecco, con Massimo stiamo ore a parlare di regia e recitazione, di cinema, metodo Stanislavskij, psicotecnica, e di Lee Strasberg e Actor's Studio, ma poi siamo i compari del turacciolo». Non dica così, De Sica, proprio lei che è l'eroe e la vittima, il protagonista e il martire dei cinepanettoni. «Non dica così lei, per favore. Ci vuole tecnica anche per la farsa. E la tecnica si impara con la pazienza e il tempo, lavorando. Vede, io ho fatto una quantità di film insieme a facce proletarie, come Massimo Boldi o Jerry Calà. Mentre io ero il figlio dell'autore di "Umberto D.", il rampollo di De Sica, un Gassman dei poveri, con la voce impostata e la pronuncia da attore. Per essere credibile nei miei ruoli ho dovuto lavorarci molto, perché per essere un parolacciaro devi diventare autentico». E quindi si sente, o meglio si sentiva, incompreso: «Eh sì, perché il film di Natale fa tanti soldi, ma tanti, mi creda, e allora provoca il rifiuto dell'intellighentia. Senza che nessuno degli intelligenti si accorga che come l'abbiamo descritta noi, i Vanzina e io, per esempio, la borghesia italiana, non l'ha fatto nessun autore pregiato, di quelli che la critica adora. La scena nel primo film di Natale, con i filippini che guardano i padroni, increduli di quanto sono volgari, dice degli anni Ottanta più di molte analisi sociologiche». Queste sono le giustificazioni alte del trash, De Sica. E togliere il mestiere ai sociologi è concorrenza sleale. «No, è che non si vogliono vedere le cose. Quando ho fatto la pubblicità col vigile Persichetti, su un giornale mi hanno dato del fascista. Solo perché ho fatto il vigile, vestito dai panni dell'autorità. Del fascista: a me, che sono sempre stato di sinistra, con un padre di sinistra, il maestro del neorealismo, culo e camicia con Zavattini». Nel libro c'è una storia memorabile. Qualcosa di simile a una "Schindler's List" autarchica, in cui dopo l'8 settembre 1943 Vittorio De Sica salva una folla di ebrei e candidati alla deportazione girando un film senza pellicola in una chiesa romana, grazie alla complicità di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. «Ecco. E quelli mi danno del fascista». Fascista di certo no, De Sica, ma se si guarda indietro, lei che sa fare tutto, recitare-ballare-cantare, non le viene qualche rimpianto? In parole vanziniane, non si dà talvolta del coglione? Forse poteva essere un fuoriclasse, un re dello spettacolo, una star a Broadway. «Non ci voglio neppure pensare. L'importante è buttarsi dentro la realtà e il mestiere. Poi qualcosa succede. Pupi Avati mi ha offerto un ruolo nel suo prossimo film. L'idea mi piace, vorrei farlo. Paolo Sorrentino, l'autore del "Divo", ha sempre l'idea di affidarmi una parte in un film comico. Chissà. Intanto verso febbraio esce il dvd del mio spettacolo teatrale, realizzato da mio figlio Brando, "Parlami di me": il teatro l'ho fatto soprattutto per non cristallizzarmi». Insomma per uscire dalla trappola del cinema natalizio. «Non ricominci. Un critico famoso, una volta mi ha detto: "Io parlo male di tutti quelli che fanno i soldi"». Era Goffredo Fofi. «Lo ha detto lei. Io voglio stare in pace con tutti. Ho un'idea romantica dello spettacolo. L'idea di una comunità. Com'era negli anni Cinquanta in via Veneto, quando Totò incontrava Ercole Patti alla libreria Rossetti, e Sergio Corbucci parlava con Federico Fellini...». Volemose bene. Tutti d'amore e d'accordo. A proposito d'amore, c'era anche Zavattini, naturalmente. Sale alto un nitrito, ed è il miglior De Sica: «Come bestie, devono scopare, come bestie!». n
L'Espresso, 18/12/2008
Commissario per il PD
Il marasma in cui è precipitato il Pd è dovuto a varie ragioni, e la più seria deriva dalle ondate di sofferenza politica provenienti dalla sconfitta del 13-14 aprile, nonché dall'andamento schizofrenico del "dialogo" con Silvio Berlusconi, che prima ha attirato Walter Veltroni in campo aperto, e poi lo ha colpito a freddo. Ma è anche chiaro che nel Pd le linee di contrasto interno sono numerose. Innanzitutto c'è un'incertezza sulla strategia generale del partito: la problematica alleanza con il partito giustizialista di Antonio Di Pietro è stata data per sciolta un giorno sì e l'altro pure, ma agli annunci non sono seguiti i fatti, e l'ex pm trova continue occasioni per esercitare una concorrenza vistosa verso il Pd. Nel quale in prospettiva si profilano almeno due ipotesi, se non proprio due progetti. Da un lato si vede la scia del progetto veltroniano fondato sulla «vocazione maggioritaria», che vede nel partito un potenziale di consenso ancora inesplorato, e quindi lo considera in grado di candidarsi a governare la nuova modernizzazione del paese, alleandosi eventualmente soltanto «con chi ci sta», cioè condivide il programma generale del Pd. Questa sarebbe la direttrice ufficiale. Ma su un altro lato, quasi mai dichiarato ufficialmente, serpeggia l'idea che il Pd è, crocianamente, un "ircocervo", cioè una chimera, un ibrido; e dunque occorre favorire la nascita di un'alleanza al centro, con l'Udc, e di un'altra a sinistra, con i partiti residui della Sinistra Arcobaleno. Se poi questa strategia dovesse portare alla disgregazione del Pd, con i centristi da una parte e gli ex comunisti dall'altra, niente paura: si riesuma il politicissimo "centro-sinistra con il trattino", con tanti saluti al partito nuovo e il ritorno alla rassicurante coalizione tra realtà diverse, senza ubbíe uliviste o "democrat". Quest'ultima scelta, modellata su schemi di realismo politico assoluto, sarebbe il riconoscimento che contro la destra attuale il Pd non ha chance, e quindi deve cambiare schema di gioco. Se poi si aggiunge che negli ultimi giorni si sono susseguite dichiarazioni di esponenti "nordisti" come Sergio Chiamparino, Filippo Penati e Massimo Cacciari, i quali hanno riaperto la questione territoriale, rilanciando l'ipotesi del Partito del Nord (il sindaco di Torino alludendo anche a possibili evoluzioni nel rapporto con la Lega), ci si accorge che il Pd in questo momento è un partito davvero ipotetico: si alimenta di ipotesi conflittuali, senza che risulti chiara, e sottoscritta dagli organi dirigenti, un'idea complessiva. Mettiamoci sopra, come suggello terminale, la crisi territoriale, con l'emergere di una questione di legalità che coinvolge diverse amministrazioni locali (vedi il numero scorso de "L'espresso"), e non manca nulla alla constatazione di una piena emergenza. Con l'aggravante che l'emergenza non è riconosciuta; anzi, lo sforzo principale dei dirigenti consiste nel negare, ridimensionare, sottacere: insomma, il troncare e sopire di manzoniana memoria, che tuttavia non può occultare la profonda sfiducia che si è impadronita del partito, e il senso di delusione negli eletti, di frustrazione nella base e di disarmo morale nell'opinione pubblica vicina al riformismo del centrosinistra. Basta sommare tutti gli elementi appena ricordati, e l'incapacità di svolgere un'opposizione convincente al governo di Silvio Berlusconi, modestissimo e gravemente insufficiente rispetto alla crisi, per rendersi conto che il Pd è in emergenza: anzi, oltre l'emergenza. E allora, se ci si trova in una condizione eccezionale, non serve a nulla far finta di niente, e pensare di risolvere i problemi con negoziati e accordicchi interni. A condizione eccezionale, soluzioni eccezionali. Non i coordinamenti, le riunioni burocratiche, le procedure standard. Ci vuole qualcosa di solenne, che mostri alla società italiana la percezione esatta di un problema straordinario. Occorre la mobilitazione di tutte le risorse personali, parlamentari e locali, per procedere a un esame della situazione fuori dai criteri ordinari e a uno "stringiamci a coorte", proprio in senso patriottico, dei principali dirigenti. Ci sono severe opposizioni a un'ipotesi del genere. Il rischio evocato è quello di un sostanziale commissariamento del Pd. Ma che dire? Meglio un commissariamento di fatto che una unità formale e fittizia, il retorico "nessuno tocchi Veltroni", il patteggiamento fra le correnti alle spalle del segretario. Il Pd rischia l'asfissia da consenso domestico. Ma se la piaga rischia di essere cancrenosa, meglio, molto meglio allora il medico impietoso.
L'Espresso, 23/12/2008
A scuola da Bertolino
La domenica sera, sul tardi, chi intercetta su Raitre "Glob - L'osceno del villaggio", potrebbe avere qualche sorpresa. In primo luogo perché il programma è piuttosto indefinibile: non si capisce bene se è un talk show o semplicemente uno show. Ma ultimamente gli ospiti sono azzeccati, di solito non sono quelli stravisti in tv, e offrono l'occasione di qualche curiosità. Che so, Massimo Fini che divulga il suo pensiero antimoderno. Ma "Glob" offre anche l'opportunità di una valutazione complessiva sul conduttore, Enrico Bertolino. Ebbene, Bertolino è un bravo intrattenitore. Aveva alcuni vizietti, come abusare del parolacciarismo, un metodo che consente di risolvere comunque una sequenza umoristica quando non viene la battuta buona. Ma adesso sta affinando il mestiere. Ha sempre quell'aspetto più da funzionario o da manager milanese che non da comico, tuttavia introduce nella televisione italiana una tonalità rassicurante: vale a dire l'idea che la tv non è soltanto un dominio del romanesco. Bertolino è settentrionale, di nascita e formazione milanese, e insieme a Claudio Bisio, Aldo Giovanni e Giacomo e a non troppi altri è uno degli ultimi eredi di quella cultura che a Milano riuscì fra gli anni Cinquanta e i Sessanta a intrecciare lo spirito della capitale del Nord con un sentimento nazionale. Lo si vede nei dialoghi (ad esempio con Lucia Vasini, dove mima un maschilismo di notevole efficacia). Infila sempre qualche parola hard di troppo, ma adesso la qualifica come slang di ambienti e "culture" precise, depotenziando l'eventuale volgarità. Non sarà mai un "prodotto" di massa, Bertolino; ma un buon intrattenitore, accidenti, sì.
L'Espresso, 23/12/2008
Silvio in stile Perón
Bisognerà pur cercare di capire il misterioso progetto di Silvio Berlusconi per l'Italia. Dunque: da una parte si registra un comportamento mediocre rispetto alla crisi economica, senza misure significative. Anzi, si ha l'impressione che per diverso tempo il capo del Pdl non abbia messo a fuoco la gravità della recessione, forse contando che la provincia italiana potesse essere risparmiata dai disastri del capitalismo americano. E già questo potrebbe essere il segnale notevole di una cultura invecchiata, che non sa a registrare la complessità dell'economia contemporanea, nella quale è vero, come nelle teorie matematiche del caos, che un battito d'ali di farfalla a Los Angeles può provocare un uragano a Miami, e uno shock bancario a New York può investire anche Unicredit e altre banche italiane. Sta di fatto che i provvedimenti assunti dal governo appaiono modesti, spesso più di facciata che di sostanza (come l'orrenda social card), e comunque gravemente inadeguati se, come sembra, la crisi dovesse inasprirsi nella primavera prossima. Non dimentichiamo che il governo ha esordito con la misura epocale della detassazione parziale degli straordinari, mentre già si profilava, a saper guardare la realtà, l'esplosione della cassa integrazione: formidabile capacità di previsione, come accade sempre con la destra. Invece, nello stesso tempo, Berlusconi appare lanciatissimo nella sua specialità preferita, ossia l'attacco alla Costituzione, in particolare per ciò che attiene alla giustizia. Ora, la giustizia nel nostro paese è un sistema sfasciato. Per rimetterla in sesto occorrerebbero probabilmente non tanto campagne contro l'obbligatorietà dell'azione penale e per la separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri, che contengono sempre il sospetto della volontà di vincolare i procuratori all'autorità politica, bensì riforme di funzionamento, tali da restituire efficacia alle procure e ai tribunali. È sempre il solito discorso: le riforme e le misure predisposte da qualsiasi governo resteranno lettera morta se non si innesteranno sulla ricostruzione di una linea di comando e di responsabilità. Ma evidentemente Berlusconi e i suoi ministri sono poco preoccupati dei funzionamenti reali. Altrimenti, mentre si festeggia l'esordio dell'alta velocità fra Milano e Bologna, si accorgerebbero delle enormi possibilità di miglioramento (diciamo così) del traffico ferroviario fuori dal binario futuribile dei supertreni. Dunque, Berlusconi è il capo di un governo ideologico, dove alcuni ministri inseguono le loro ubbie, altri evocano ogni due per tre le loro posizioni accademiche, e fra poco si assisterà a nuove invenzioni: dopo le solite brillantissime trovate sull'età pensionabile di uomini e donne, a quando il grande ritorno sul tema dell'articolo 18? Gli astratti furori del governo sembrano ignorare che anche nelle regioni più ricche e produttive nelle aziende si sta procedendo al taglio dei precari e degli interinali, mentre la cassa integrazione raggiunge volumi impressionanti. Mentre lo scenario diventa allarmante, Berlusconi sembra quindi in bilico fra il minimalismo andreottiano e una vocazione peronista. Ma quale sia il suo disegno vero, nessuno lo sa. Non c'è più il catalogo con «le nostre ricette», il liberismo dei primordi, l'adorazione di Reagan e della Thatcher, il "meno tasse per tutti". A guardare le cose con freddezza, si sa che le crisi possono essere utilizzate per intervenire sulla struttura di un sistema-paese: l'allarme sociale e l'inquietudine economica rendono possibili quelle riforme che in tempi normali sono rese impervie dalla mediazione politica. Niente di tutto questo. Nonostante il lodo Alfano, Berlusconi espone le reliquie del programma che fu, per ridimensionare i giudici, e su un altro piano per dividere il sindacato. Altro che governo "pro labour", come dicono i ministri "socialisti" del Pdl. Siamo davanti all'unione mistica fra la mediocrità governativa e la violenza antistituzionale. Ma allora, se vi piace, que viva Silvio Giulio Perón Berlusconi!
L'Espresso, 30/12/2008
I pornoscemi
Mentre il ciglio comincia a pesare, in certe ore della tarda serata, può capitare che il pollice si fermi su programmi come "Sos Patata" o "69 cose sexy da fare prima di morire". E allora io sarò stato colto da un attacco di bacchettonismo, ma devo dire che quando sento le voci di quelle di "Sos Patata", doppiate come deficienti, che strillano e squittiscono, ho la tentazione di rinunciare al sesso, anche quello immaginario, per le prossime stagioni. Quanto alle 69 cose che sarebbero da fare prima di morire, a parte l'esprit de finesse del titolo, e facendo i dovuti scongiuri, l'imbarazzo aumenta. Perché con "Sos Patata" la faccenda si risolve semplicemente con un tocco sul telecomando, mentre le patate squittiscono. Ma se vi capita di restare qualche istante sulle 69 cose, qui l'affare si complica, perché cominciano a passare scene dove dei belloni fanno grugniti con delle bellone, simulano quelle cose lì, oppure le più light le fanno davvero, boh. E allora, noi dovremmo sapere che la pornografia è una cosa onesta: uno vuole vedere sesso, e lo guarda. Fatti suoi. Ma il sesso contingentato della tv satellitare è una ciofeca di quelle burine, un soft porno piuttosto deprimente. E ci si chiede: ma li guarderà qualcuno, questi programmi? E perché? Insomma, perché ci dovrebbero essere telespettatori che invece di spararsi un dvd porno di quelli tosti, o almeno accedere alla parte "hot" di Sky, dovrebbero guardarsi queste versioni edulcorate e sceme? La risposta, naturalmente, non c'è. Personalmente, quando incrocio questi programmi, all'improvviso mi viene voglia di una fiction sui papi.
L'Espresso, 04/01/2007
Perduti nella fiction
Se si vuole capire che cos'è un'occasione perduta va vista la fiction "Raccontami" che intende raccontare la nascita di una modernizzazione (in onda su Raduno la domenica e il lunedì, prima serata, per 13 puntate; story editor Stefano Rulli, sceneggiatura di Gloria Malatesta e Claudia Sbarigia, regia di Riccardo Donna e Tiziana Aristarco; la serie è l'adattamento di un format spagnolo, perché adesso esistono i format anche per la fiction). Anno 1960, Olimpiadi di Roma, famiglia romana di un ceto popolare. Voce fuori campo (che in una fiction andrebbe proibita per legge), una citazione d'epoca dietro l'altra, Vespe, Lambrette, elettrodomestici. Tutto questo per provocare l'effetto nostalgia, che in effetti si verifica, dato che la fiction raggiunge il 25 per cento di share. Piace riassaporare gli anni di Abebe Bikila, il maratoneta scalzo, rivedere i 200 metri dorati di Livio Berruti, provare la piccola emozione di quando si può verificare l'esattezza di una ricostruzione in cui siamo passati tutti. E da questo punto di vista il gioco funziona, a parte alcune sviste sociologiche; le trame sono abbastanza ben intrecciate, con gli opportuni colpi bassi come quando il bambino incontra l'uomo senza scarpe, Bikila, e poi lo vede vincere in tv (ma i poveri, bisognerebbe saperlo, non avevano ancora la tv). Il modello centrale, quello nobile, è "Heimat"; il corrispondente politico-ideologico è "La meglio gioventù". La recitazione ha qualcosa da invidiare al "Medico in famiglia". Dov'è dunque l'occasione perduta? Ma nel solito flop dell'interpretazione, tipico di larghissima parte della fiction italiana. Massimo Ghini, il capofamiglia, incombe in ogni scena facendo le battute e il commento, il davanti e il didietro, la botta e la risposta. Ci sono figurine talmente stereotipate da apparire insopportabili, o irrealistiche. Sicché si è costretti ad apprezzare Lunetta Savino, che è una caratterista ma sa il suo mestiere. Non si può pretendere che un format racconti la storia di una nazione. Ma un minimo di precisione e anche di crudezza in più, di convenzionalità in meno, avrebbe dato al film l'aspetto della realtà: così invece sembra un sogno della realtà. Fino ad apparire poco credibile, troppo programmatico, borghese quando dovrebbe essere operaio. Si fa guardare, per carità: ma alla fine lascia il senso di un travisamento, non di una ricostruzione e di una memoria.
L'Espresso, 04/01/2007
La politica sarà un reality
Televisione al bivio, dicono. Da una parte più trash e intrattenimento al ribasso, dall'altra più cultura, impegno, attualità, cronaca, approfondimento, come chiedono gli spettatori più pensosi. Ma è un'alternativa reale? Perché è vero che a guardare i dati di ascolto del 2006 la "forma trash" per eccellenza, cioè i reality show, sembra soffrire di una crisi potenzialmente terminale. Crisi di assuefazione, crisi di saturazione. Si direbbe in sostanza che il reality abbia dato quasi tutto ciò che poteva dare: ha fatto il suo lavoro, dato che doveva rendere permeabile il diaframma tra pubblico e protagonisti televisivi. "Grande Fratello" o "L'isola dei famosi", insieme con tutti i loro epigoni, avevano un compito sociologicamente importante. Si trattava di portare lo spettacolo televisivo a contatto diretto con gli spettatori, riducendo al minimo la distanza fra lo show e le platee tv. Nel reality classico lo spettatore partecipa, almeno in quanto voyeur. Per questo, anche la scelta dei protagonisti risponde a criteri di efficacia nell'identificazione: soprattutto nei reality basati su storie concentrazionarie, in un contesto totalizzante ed esclusivo, isola o appartamento Ikea, ciò che conta è mettere a disposizione dell'audience figure semiriconoscibili, quasi star di cui il pubblico può individuare facilmente la caratura, giungendo a considerarle dopo qualche tempo come figure non lontane dal proprio vissuto. Con l'andar del tempo, questa essenza dei reality è divenuta fin troppo rintracciabile. Anche gli spettatori meno disincantati se ne sono accorti. Se all'inizio è divertente identificare la normalità di Carmen Russo o Al Bano rispetto all'"Isola" o l'eccezionalità di Loredana Berté in "Music Farm", e se per qualche tempo ci si poteva vagamente interessare a una love story fra due cantanti segregati, alla lunga la ripetitività e la prevedibilità portano a decodificare il reality show nel segno della totale normalità. È per questo che ha avuto successo improvviso e clamoroso l'iper-reality "La pupa e il secchione", portato dalla coppia diabolica Fabrizio Rondolino e Simona Ercolani a effetti volutamente parodistici, con l'aggiunta di risate registrate a sottolineare le performance culturali "incredibili" delle pupe. Come si intuisce, se il reality diventa un reality al cubo, si esaurisce l'illusione del realismo. Lo show diventa a tutti gli effetti televisione pura, intrattenimento autoreferenziale, senza nessun intento mimetico o di rivelazione sociologica. Nel carnevale delle pupe e dei secchioni, ogni eccesso di ignoranza civile o di deficit culturale diventa plausibile in quanto funzionale al divertimento collettivo. Il pubblico finge di credere al vuoto mentale delle ragazze e in qualche misura lo trova ben presto rassicurante: siamo tornati nella sfera dello spettacolo, in una dimensione decifrabile, "scritta", pensata in funzione della risata liberatrice. La tv torna a essere se stessa, ripristinando una distanza effettiva fra realtà e fiction, tra la vita e la soap opera. Da questa parte, ovvero dalla parte dello spettatore, c'è la densità dell'esistenza; di là, oltre lo schermo, c'è una finzione scritta e di nuovo identificabile. Eppure, consegnato il reality alla sua sorte, è piuttosto dubbio il ritorno alla tv pensante e pesante. Anzi, la tendenza ipotizzabile potrebbe essere piuttosto quella di proiettare all'estremo la tv attuale. Sappiamo già da tempo che l'identità televisiva tende ineluttabilmente a privilegiare la maschera sul volto. E certo non da oggi: la maschera di Aldo Biscardi con il "Progiesso" ha segnato quasi un trentennio di Bar Sport televisivo. Mentre Marco Giusti ha raccolto di recente in un libro e dvd "Il meglio di 90° minuto", in cui il teatrino condotto da Paolo Valenti, Tonino Carino, Giampiero Galeazzi, Luigi Necco e Giorgio Bubba assurge al rango di commedia dell'arte. Adesso i protagonisti della tv generalista sono quasi sempre estremizzazioni di una identità. Vittorio Sgarbi, prima degli impegni governativi o assessorili, era l'incarnazione freak dell'insofferenza litigiosa; Aldo Busi non era il bravo scrittore ma l'interprete di un'omosessualità spettacolarizzata; e d'altronde soltanto gli ingenui pensano che ci sia da una parte la televisione "di qualità", quella di Piero Angela e dei documentari, e dall'altra l'intrattenimento basso-popolare, quello di "Buona domenica" e di "Domenica In". Una volta che si è capito che la tv è la tv, un flusso continuo di immagini e suoni, resta soltanto il problema di come intensificare l'irrealtà televisiva portandola a una specie di irresistibile superfetazione, a una metastasi incontrollabile dei significati. Dev'essere per questo che anche lo spettacolo tradizionale è andato in crisi. Perché la tv normale ed estrema del nostro tempo fa diventare noioso lo show classico, quello con Gianni Morandi che canta l'ultima canzone e duetta poi con Catherine Deneuve. In modo analogo, quasi tutti i programmi "di genere", da "Zelig" a "Crozza Italia", hanno mostrato i loro limiti. Perché sono prevedibili, accertabili, poco sorprendenti. Se la tv ha bisogno di mostri, allora un possibile programma-paradigma, o programma-manifesto, è il "Rockpolitik" di Adriano Celentano, in quanto promette sempre uno choc percettivo, la promessa dell'inafferrabilità ideologica e narrativa. Ecco allora che il binomio programmatico della scelta fra "rock" e "lento" si rivela un criterio personale proposto agli spettatori con un tono di piccola quanto evidente provocazione: soggettività assoluta che si offre al pubblico come se avesse fondamenti oggettivi (mentre il "ce l'ho" e "mi manca" inventato da Diego Cugia per Morandi contiene ancora una parte consistente di realtà, non di reality, dato che richiama elementi storici, morali o nostalgici, scelte di campo affettive o culturali anziché più esplicitamente di gusto e di arbitrio). In sostanza, lo schema che si sta affermando è quello della forzatura dei format. Come l'irruzione campale di Fiorello, annunciata da grandi titoli sui quotidiani, che scompagina anche i palinsesti e talora addirittura l'agenda politica della giornata e della settimana. Ma anche "Che tempo che fa" di Fabio Fazio è cresciuto in modo forse imprevedibile dalla struttura del talk show a quella della trasmissione evento, in cui gli elementi spettacolari si mescolano con quelli di attualità, con la Littizzetto anti-Ruini che vale, sul piano del messaggio politico, la testimonianza di Enzo Biagi post-Berlusconi. Stando così le cose, sarebbe curioso immaginare come possono trasformarsi i programmi di approfondimento quotidiano o settimanale come "Porta a Porta", "Ballarò", "Matrix", "Annozero". Anzi, è probabile che il grado successivo di evoluzione delle trasmissioni fondate sul talk show politico sia la possibile esplosione della loro struttura. Altro che approfondimento: si tratta di trovare un Freccero, un Ghezzi, un Ricci che trovino il modo di introdurre una carica di esplosivo nel format, facendolo deflagrare verso un genere inedito. D'altronde, era stato proprio Bruno Vespa a innescare la trasformazione del dibattito politico immettendo nell'ufficialità schegge devianti (il risotto di Massimo D'Alema con Vissani, il diritto e rovescio di Giuliano Amato in un improvvisato scambio a tennis con Panatta). Occorre un talento televisivo che si applichi alle trasmissioni "politiche", curvandole verso esiti esclusivamente spettacolari. A quel punto, il dibattito potrebbe essere confinato in un set a parte, con un collegamento di tanto in tanto ed eventualmente una cronaca riassuntiva, mentre in primo piano andrebbe una discussione sul campionato o un approfondimento su Lele Mora. Oppure ancora: trasformare la discussione ideologica in una sceneggiatura, in cui Giulio Tremonti e Pier Luigi Bersani recitano la loro parte, come in una commedia. Ma si potrebbe anche applicare la tecnica del reality all'approfondimento politico: niente tema del giorno, niente intervista, zero domande. Una telecamera che segue gli ospiti, un prosecchino e due olive, e poi chiacchiera libera, per vedere se e come i protagonisti del conflitto politico trovano un terreno di dialogo. E a sua volta la fiction potrebbe essere trasferita al livello di massima contemporaneità: si è già visto che fra i tv movie di maggiore successo figurano quelli che riportano in scena papa Wojtyla e Padre Pio, cioè figure prossime all'attualità; e allora non ci vorrebbe molto a sceneggiare la notte delle elezioni del 10 aprile 2006, con belle interpretazioni di Fassino, Pisanu, Berlusconi, come pure l'elezione di Giorgio Napolitano o la formazione del governo Prodi. Altro che approfondimento: si tratta di sovrapporre in modo simultaneo gli eventi alla narrazione facendoli diventare capitoli di una story televisiva che non si interrompe mai, e che si affianca al presente senza soluzione di continuità. Perché il destino della televisione non consiste nel tornare alla realtà, o nell'approfondirla, ma nel prendere la cronaca e la politica facendole diventare coerente racconto televisivo, pura realtà elettronica. Se nulla esiste, infatti, fuori dalla televisione, allora tanto vale assumere la realtà esclusivamente come un materiale trattabile, sostanza grezza che l'occhio della tv provvederà a rendere vero. O più vero del vero, magari. n
L'Espresso, 04/01/2007
Chissene frega di Lele Mora
Si è già registrato il crollo piuttosto improvviso dei reality show; se tanto ci dà tanto adesso dovremmo essere giunti alla crisi del mondo velinaro, cioè pupe e calciatori, madame e salotti televisivi. Si dà il caso che le inchieste del pubblico ministero Woodcock fossero succulente, ma che non abbiano bucato definitivamente la cronaca. Per cui è opportuno chiedersi: e se dopo avere liquidato grandi fratelli e isole dei famosi lasciandoli alla fascia premoderna del pubblico, o ai nostri vizi sporadici, quelli a cui ci si concede nei momenti di noia, fosse venuta la voglia di abbandonare anche il mondo briatoreo di Porto Cervo e Poltu Quatu, dei tatuaggi e dei party, degli happy hour e degli incontri al sushi bar che preludono a una follia in discoteca? Sia detto tutto questo senza moralismi, naturalmente: ma soltanto perché un certo effetto di saturazione è ormai incombente da tempo, percepibile nello spirito del tempo. Succede allorché sulle pagine dei rotocalchi specializzati campeggiano facce e nomi sempre più difficili da ricordare, perché ascrivibili a programmi televisivi mai visti o a reality non decollati. Sicché alla lunga risulta insignificante leggere l'ultima intervista dell'"esterno" Coco, che sarebbe poi un terzino che ha cambiato diverse squadre senza imprimere svolte tattiche epocali, o l'ultima dichiarazione della Gregoraci, pupa che non sembra avere lasciato troppe tracce artistiche nella contemporaneità. Bisognerebbe per di più mettere agli atti che se anche il maestro e capostipite del gossip come genere mediatico e letterario, Roberto D'Agostino, si dedica sempre più volentieri alla ricostruzione di trame economiche, editoriali, bancarie e politiche, anziché concedere spazio su Dagospia ai mignottoni e alle mignottine, per questo vistoso spostamento d'interesse una ragione ci sarà. Non è la dimostrazione effettuale di un salto di qualità del paese, il passaggio dal trash a un nuovo impegno: si tratta più verosimilmente di una saturazione. Rotocalchi specializzati, palinsesti delle tv, programmi contenitore, ma anche la stampa d'informazione, hanno contribuito all'inflazione debordante del genere "spettegulèss". Alla fine, viene naturale il più immediato dei chissenefrega. Chissenefrega di Lele Mora in versione antico romano che si fa massaggiare i piedi dai giovanottoni, chissenefrega del calciatore beccato all'uscita della discoteca con l'altra, chissenefrega dell'orgia gay di una riserva della nazionale sullo yacht in Costa Smeralda. Anche perché non sarà questa la decadenza del paese, non sarà paragonabile al declino e alla caduta dell'impero romano: ma sembra piuttosto vero che l'opinione pubblica si è data al veliname e al mondo gossiparo come per prendersi una vacanza. Boys, è una dozzina d'anni che siamo schiacciati dal confronto su Silvio Berlusconi, oberati dal problema del risanamento, incalzati dai parametri, premuti dalla questione dell'avanzo primario e dalla riconversione dell'apparato industriale, per tacere dello sradicamento culturale e ideale indotto dal crollo delle ideologie e dei partiti. E quindi s'era detto, con un novecentismo adeguato ai tempi nuovi: lasciateci divertire. Va da sé che quel divertimento era un peccatuccio, e conteneva il proprio rimorso, la coscienza che si doleva: mentre si seguivano le vicende matrimoniali di Ventura e Bettarini o i fidanzamenti marinari e navali di Briatore, così come il contrastato amore fra Bobo ed Elisabetta, e le feste monstre del Cavaliere a Villa Certosa, comprese le eruzioni vulcaniche in offerta speciale, una vocina sussurrava infatti che sarebbe stato il caso di approfondire, che so, la faccenda della costituzione europea e la strategia per il Medio Oriente, e magari la ricostruzione del partito socialista in Francia e la rinascita dei democratici negli Stati Uniti. Adesso sembra venuto il tempo di tornare a sprovincializzarsi. Perché la ricreazione gossipara e velinara è stata divertente, ma ha significato anche un cercare riparo nelle pieghe tiepide della società nazionale, in una comunità che aveva deciso di preferire l'intrattenimento all'approfondimento. Non poteva durare. Il gossip può essere una parentesi, ma non contribuisce alla cultura diffusa, non aumenta il Pil, non incrementa la produttività e quindi la capacità competitiva sui mercati. Nel momento in cui le veline hanno stufato, si può soltanto pensare che hanno avuto un ruolo in una fase di passaggio, nella solita transizione, e che probabilmente in futuro ne avranno uno molto minore. Ce ne faremo ben presto una ragione. E forse, fra qualche stagione, qualcuno rimpiangerà, con la solita nostalgia, il tempo magico delle veline, cioè del nostro divertente disimpegno.
L'Espresso, 11/01/2007
Lo choc è nostro gli affari loro
Lo spettatore non abituale può anche restare scioccato se gli capita di rimanere sintonizzato su Raiuno dopo il Riotta-tg delle 20 e si imbatte nella nuova edizione di "Affari tuoi". Per capirci, l'aggettivo "nuova" si riferisce al fatto che il conduttore è un attore, Flavio Insinna, sicché tutti gli inesperti di tv, ritrovatisi insieme nelle riunioni famigliari postnatalizie, si chiedono: ma dov'è finito coso, Pupo?, e sospettano immediatamente oscure trame e macchinazioni contro l'omino che aveva sostituito Bonolis. Già, Pupo. Conclusione generale, mentre Insinna comincia il suo personalissimo show: Pupo? Boh. Lo choc dipende dal fatto che nei primi minuti di "Affari tuoi" non si capisce assolutamente niente. È la più convenzionale televisione caciarona, indifferente se il cda è della Casa o dell'Unione, se direttore è Tizio o Caio, Meocci o Cappon (a proposito: sarebbe di qualche moralità pubblica se i 14 milioni e rotti di multa alla Rai per l'assurda nomina a direttore generale dell'incompatibile Meocci fossero accollati ai brillanti consiglieri d'amministrazione che diedero il via libera, così almeno c'è qualcuno che paga e la prossima volta i responsabili ci pensano, prima di fare monate). Comunque, per tornare a "Affari tuoi", si tratta di un programma connettivo, quel genere di tv che può funzionare soltanto per telespettatori intossicati, che se ne stanno ipnotizzati davanti al teleschermo a bocca semiaperta: non appena parte il giochetto dei pacchi, non si capisce praticamente niente, fra urla belluine, applausi, trilli del telefono, ancora grida e nessun sussurro. Quando si riesce a ricostruire la trama del gioco, che è sempre il solito, viene in mente all'improvviso che la televisione è davvero razzista: per il pubblico brutto sporco e cattivo, quello che si limita talvolta a pagare il canone, ci sono quintalate di marmellata cattiva; gli altri, che hanno due soldi in più da spendere, possono andare alla ricerca della qualità, sul satellite o nel digitale. Disarmante, "Affari tuoi", e sia detto senza altezzosità: per dire, un popolare come Gerry Scotti non è mai precipitato così. E poi dicono che Raiuno sarebbe l'ammiraglia. Se fosse davvero così, ci sarebbe almeno il gusto di affondarla. Mentre allo stato attuale, forse l'unica possibilità è di mandare in miseria quei suddetti membri del cda. Così, senza cattiveria, soltanto uno sfizio: "affari nostri".
L'Espresso, 11/01/2007
Se Fabio diventa Bruno
Chissà dov'è il segreto di Fabio Fazio, si chiedono i più sospettosi. Forse nel binomio di nome e cognome, direbbero gli enigmisti alla Bartezzaghi: cambio di consonante, cinque lettere, un presagio di abilità combinatoria fin dal battesimo. Ma prima di consultare gli oroscopi, vale la pena di identificare il clamoroso e ormai inarrestabile successo di "Che tempo che fa", titolo opportunamente a metà strada fra un interrogativo e una constatazione. Programma cominciato in sordina qualche stagione fa, programma programmatico, prima minimalista e via via cresciuto ad autentico cult, anzi must, isola felice fuori dalla televisione trash, perla assoluta di Raitre. Un delirio. Tanto che non conviene tornare di nuovo sul cosiddetto e da lui detestato "fazismo", cioè la tipica capacità di Fabio di situarsi ogni volta al confine massimo della trasgressione consentita senza superare il limite dello sgarro quasi vietato (per quello c'è la Littizzetto, quella che sta facendo impazzire la top ten con il suo nuovo e un po' vecchio libro, "Rivergination", che viene dopo i successi della gamba di sedano e altre questioni ortofrutticole). Quello lo si sapeva: Fazio è l'equivalente televisivo di Walter Veltroni. L'attuale sindaco d'Italia con "l'Unità" aveva riciclato gli album delle figurine Panini e i Vangeli; Fazio con "Anima mia" aveva dettato il codice del gusto nazionale e della generazione dei baby boomer, ossia un tanto di nostalgia, un po' di atteggioneria, una parte di commozion picciola, mimetismi, giochi mnemonici, un nonsoché di ironia, uno spruzzo di Claudio Baglioni e una scorza di Cugini di campagna: tanto che Baglioni c'è rimasto intrappolato e dopo Heidi e le caprette che fanno ciao si è autoimposto di clonare anche i "Cinque minuti e poi" di Maurizio ex New Dada (ma non gli viene troppo bene il «Bugie!... Bugie!...» finale in cui il biondo Maurizio eccelleva e faceva singhiozzare le girls). Quindi per provare a capire Fazio e la sua fenomenologia, sarà il caso di liquidare senza rimpianti tutto il lessico che designa la sinistra à la page, a cominciare dai termini "piacioneria", "buonismo", forse anche "concertazione" e "partito democratico". Non conviene neppure mettersi ad analizzare le convenzioni postideologiche e postmaterialiste, proprio nel senso dei politologi Crouch e Inglehart, che fanno da pilastro culturale al mondo della "Fazio's Version". Diamolo per scontato: quella di "Che tempo che fa" è la sinistra che piace (e piacere non è mica un peccato), aperta al nuovo, ai Pacs, opportunamente riflessiva sull'eutanasia, esplicitamente pacifista, terzomondista ma anche consumista, ecologista ma non indifferente alle comodità del Suv, proiettata nella modernità e anche oltre, ma affettivamente legata ai ricordi evocati da Enzo Biagi. Sicché conviene piuttosto prendere alla lettera il paradigma che ormai dilaga, secondo cui "Che tempo che fa" è il vero "Porta a Porta" dei tempi nuovi unionisti, e Fazio ha sostituito Vespa nella centralità repubblicana, come terza camera o salotto tv decisivo per l'evoluzione non solo politica del paese. Con una differenza, tuttavia: in quanto "Porta a Porta" è ufficiale, "politicienne", convenzionale, rivolta a un pubblico di settore oppure destinato alla fisiologia del dormiveglia da terza serata, quando la politica non riesce a guardare oltre la fase due ma si sporge coraggiosamente al di là della mezzanotte. Invece "Che tempo che fa" è un programma da scegliere, mimetizzato com'è nel palinsesto, con un pubblico fidelizzato, che nel tempo ha imparato a conoscere Ilary Blasi, "Silvio" Cornacchione, e poi via via tutti i protagonisti e gli ospiti di Fazio, dal "shakespeariano" Paolo Rossi al talento lunatico di Maurizio Milani, tutti scelti comunque con spirito abbastanza bipartisan per non essere attribuito alla "faziosità", e soprattutto con quella commistione di sacro e profano, «Eminenz! Pandoro o panettone, ci dia una linea», e poi con il sincretismo onnivoro di pubblico e privato, alto e basso, kitsch e cultura, che è la cifra definitiva della sigla "Fabiofazio". C'entrerà il tocco di Michele Serra, il glam intellettuale di Giovanna Zucconi, la presenza di star letterarie internazionali come David Grossman e di autori di bestseller come Corrado Augias con l'"Inchiesta su Gesù", ma il successo di Fazio dipende soprattutto dall'integrazione esatta, senza residui, fra il programma e il suo pubblico. Ecco che questo pubblico medio e riflessivo applaude l'ex ministro Beppe Pisanu, che parla dei possibili o impossibili brogli, e lo applaude con chirurgica precisione in quanto ex dc di sinistra, ancorché forzitaliota, membro a suo tempo della zaccagniniana Banda dei quattro, e quindi politico "serio", erede di una tradizione non più deprecabile (dal canto suo, Fazio non cade, come i suoi nemici gli rimproverano per sentito dire, nell'elusività più ovvia, e difatti alla fine porta la domanda fatale: ministro, perché la sera dello scrutinio è andato a casa di Berlusconi? E si ritira soltanto davanti alla comica spiegazione di Pisanu, sono andato a illustrargli la regolarità della giornata elettorale, senza incalzarlo: caro ex ministro, non bastava una telefonatina?). Oppure, altro momento clou e rivelatore, quando Pietro Ingrao viene a presentare la sua autobiografia "Volevo la luna", e con un lapsus formidabile dichiara che il Pci aveva preso aspre distanze dall'invasione dell'Ungheria (si trattava in realtà della Cecoslovacchia, più di vent'anni dopo): tutto il pubblico e lo stesso Fazio non obiettano nulla, neanche con un mormorio, un colpo di tosse, un'occhiata di sbieco, perché in quel momento si sta celebrando l'apoteosi senescente ma non senile di un comunismo impossibile, l'utopia, il grande sogno, l'assalto al cielo, e quindi tanto peggio per i fatti, se i fatti interrompono un'emozione. Ed è anche per questa identificazione totale fra programma, conduttore e pubblico che la factory di Fazio è diventata un'autentica galleria dei maestri più venerati e venerabili della scena italiana postrema: Eco, Magris, e poi Fruttero e Rigoni Stern: questi ultimi spediti immediatamente ai vertici delle classifiche dei libri, dopo anni commercialmente non significativi: perché evidentemente la sinistra consapevole ama i maestri, e più sono vecchi più li ama, e vuol far vedere in ogni modo che li ama; e Fazio, il capo dei ceti medi riflessivi, lo ha capito, lo ha sempre capito, forse in realtà lo ha sempre saputo. n
L'Espresso, 18/01/2007
Piccola katy batte Figaro
Gli austriacanti non sono ancora riusciti a convincersi che il concerto di Capodanno da Vienna con tutti i valzer canonici e la direzione di Zubin Mehta, mica un pinco qualsiasi, venga mandato in differita nel primo pomeriggio, e piuttosto che seguire la rassegna canora e musicale dalla Fenice, dove immancabilmente professionisti volonterosi eseguono "Figaro qua e Figaro là" e "Va' pensiero", ossia i brani più ovvi della tradizione lirica italiana, emigrano nel satellite, come poveri esuli, per assistere al concertone in diretta e respirare aria di Mitteleuropa. Naturalmente agli austriacanti viene voglia di ricorrere spiritualmente all'immortale paradigma della roveretana Isabella Bossi Fedrigotti, cioè «amore mio, uccidi Garibaldi»; ma prima di attuare propositi terroristici sarà il caso di ricordare che quest'anno il vero concerto di Capodanno è andato in onda su Italia 1, ed era uno stratosferico concertone dei Pooh davanti a un pubblico adorante. Vabbè: sappiamo tutti che a voi intellettuali i Pooh non piacciono. Siete snob, siete aristocratici. Ma se invece siete molto più chic, avrete già ammesso che comunque sono professionisti di livello assoluto (non vale dire che in quarant'anni di carriera avreste imparato a suonare anche voi). E ciò che allora non stupisce è che il larghissimo pubblico che si ritrova a ogni esibizione di Roby, Dodi, Red e Stef è davvero entusiasta, e conosce le parole delle canzoni più sconosciute. Ovvero: voi siete di quei ciniconi che hanno apprezzato la battuta concessa da Giorgio Faletti al grande critico Antonio D'Orrico: «I Pooh hanno fatto tanti di quei lifting che con la pelle rimasta hanno fabbricato un bambino di sei anni»; ma qui il cinismo non serve a niente, perché se i Pooh sono ancora lì che si sbattono vuol dire che riescono ancora a farcela. Insomma, voi sarete di quelli che ricordano tutt'al più "Piccola Katy" e "Pensiero", ma non crediate per questo di essere à la page. Mentre voi seguite musica fastidiosissima, massimalista o minimalista, i Pooh fanno il loro duro lavoro e portano a casa la serata. Tanto varrebbe ufficializzare la loro presenza il primo dell'anno, fargli eseguire l'inno nazionale, e subito dopo "Tanta voglia di lei", per finire con la "Marcia" di Radetzky. Se dev'essere una cosa italiana, il concerto di Capodanno sia un trionfo dell'italianità: e in questo senso, chi è più fratello d'Italia dei Pooh?