L’Espresso
L'Espresso, 18/01/2007
Con lo Zen ho fatto gol
C'è calciatore e calciatore, per quanto ex. L'immagine di Gianluca Vialli non è quella del centravanti sbollito. Gli attaccanti in disarmo non pubblicano libri come "The Italian Job", scritto con il giornalista Gabriele Marcotti (già coautore nel 1999 dell'autobiografia di Paolo Di Canio). Il volume, che non è un'autobiografia di un calciatore bensì una filosofia empirica del calcio, è stato pubblicato in Inghilterra nella primavera scorsa, e proprio in questi giorni, tradotto da Mondadori, è in uscita anche in Italia, con una postfazione che aggiorna la riflessione agli ultimi sei mesi, compresa la vittoria italiana al Mondiale tedesco. D'altronde Vialli è un'eccezione perfino antropologica nel calcio italiano ed europeo. Trovatelo voi un calciatore, allenatore, commentatore che come lui, con il collega Massimo Mauro, abbia messo su una fondazione per la ricerca sul cancro e la sclerosi amiotrofica laterale (il morbo di Lou Gehrig, che sembra infierire con la sua crudele e implacabile lentezza proprio sui calciatori), a cui è devoluta la sua parte di proventi di questo libro; che per sovrammercato cita il maestro cinese Sun Tzu e Niccolò Machiavelli, e che ha il coraggio o l'improntitudine di pubblicare un saggio sul calcio con un indecifrabile titolo inglese. Come si traduce? L'affare italiano? Meglio, e più semplice, all'italiana. Potrebbe tuttavia essere roba di contropiede, di pasta, "macaroni" o di mafia, tutte specialità peninsulari. Fortuna che soccorre il sottotitolo: "Tra Italia e Inghilterra, viaggio al cuore di due grandi culture calcistiche". Libro altamente filosofico, si diceva: perché è chiaro che nessuno legge il testo di un bravo attaccante, e allenatore ancora molto atteso anche se a lungo in stand by, comunque star mediatica e personaggio della "glam community" europea, di casa sulla scena londinese fin da quando, dopo i fasti sampdoriani, juventini e azzurri, era diventato l'allenatore- giocatore del Chelsea, per saper qualcosa di generale sul sistema Moggi o sul circuito milionario intorno al pallone. Chissenefrega, del business calcistico e delle spese pazze del boiardo Abramovic. Si legge eventualmente il "borghese" Vialli, figlio di una buona famiglia cremonese e allenatore in camicia bianca, alla Klinsmann, per avere semmai un'idea del calcio ipermoderno, modellato su prestazioni "playstational", in cui l'abilità nella coordinazione si sposa a una violenza fisica impressionante, e l'individualità va messa al servizio del gruppo. Il titolo allude alla differenza di stile e contenuto fra il calcio inglese e quello latino. Fra «Mary e Veronica», dice Vialli con la personalizzazione femminile di due tradizioni tecnico-tattiche: Mary sarebbe il football all'inglese, quella disciplina per le classi inferiori che a suo tempo veniva giudicata con evidente snobismo dall'aristocrazia britannica dedita al rugby o al cricket. Quindi, la suddetta Mary, un'amante prevedibile, un po' rigida, senza troppe fantasie; mentre Veronica, una latina tutta intuizioni, elusioni, finte e scene madri. Sulla scorta del realismo politico di Machiavelli e degli insegnamenti millenari di Sun Tzu, si va al cuore del problema: campioni si nasce o si diventa? Conta più la tecnica individuale o l'intelligenza tattica? La forza atletica o «le palle», cioè la personalità in campo, nello spogliatoio e nella vita? Di primo acchito Vialli, esponente macho dell'Europa metrosexual, la prende sul sociologico: non sarà che il calcio riesce bene soprattutto alle "underclass", cioè al proletariato o sottoproletariato urbano, e meno alla borghesia? Secondo altri ideologi del "soccer", il successo nella tecnica e nella tattica o nell'interpretazione atletica del calcio dipende invece dal clima: eccellono nell'individualità i paesi con un clima mite o caldo, in cui si sta molto tempo all'aria aperta, con i ragazzini che imparano a fare tutto con il pallone. Sono schemi troppo deterministici? In effetti i brasiliani diventano funamboli sulle spiagge di Rio, i bimbi italiani diventavano imbattibili nei cortili accidentati delle case di ringhiera. Ma alla fine Vialli propende per una spiegazione inedita: a Milano, Roma e Torino piove più che a Londra, quindi non dovrebbero esserci eccessive e decisive diversità climatiche fra un aspirante calciatore italiano e il suo omologo britannico; ciò che fa la differenza è il dio Eolo, figlio di Poseidone: ma sì, il fattore vento. Nei ventosissimi campi inglesi non si riesce a fare nulla di sistematico se non corsette di riscaldamento e partitelle a cinque; gli allenamenti devono essere semplici, bisogna correre sempre altrimenti i muscoli si raffreddano. E così non c'è tempo di «pensare il calcio», secondo il principio metafisico del teoreta calcistico del Chelsea, José Mourinho. In Scozia, nel Galles, in Irlanda non fioriscono geni tattici come Alfredo Di Stéfano o Paulo Roberto Falcão, e forse nemmeno i centromediani neometodisti alla Pirlo; alla lunga il calcio inglese viene messo facilmente in scacco dalle veroniche di "Veronica" e c'è una ragione se il Brasile assolato di Ipanema e Copacabana ha vinto cinque titoli mondiali, e in rappresentanza della zona temperata l'Italietta nevrotica ne ha portati a casa quattro, mentre la fredda, bianca e potente Inghilterra soltanto uno, nel 1966, giocato in casa con il favore degli dei e degli arbitri. E allora qual è il mistero, l'enigma, l'alchimia che fa il grande giocatore? Su se stesso, attaccante universale, Vialli non ha dubbi: la sua forza era il "Delta" bassissimo, un differenziale quasi zero nel rendimento su sforzi ripetuti, vale a dire la potenza costante sull'arco di 15-20 scatti, finché il difensore avversario, magari più veloce, non crollava nel confronto fisico. Mentre per gli altri giocatori occorre una valutazione più complessa, che si raffigura nel "quadrilatero di Vialli", quattro dimensioni che tracciano gli assi della forza atletica, dell'intelligenza tattica, della tecnica di gioco, e dei già citati "attributi". In base a queste nozioni, si capiscono meglio le personalità dei giocatori e lo spirito delle diverse scuole calcistiche. Ma il colpo di genio? Il "numero" che annichilisce gli avversari e un intero stadio, il colpo alla Ronaldinho, le invenzioni stratosferiche di Diego Armando Maradona? C'è posto per il talento assoluto nel calcio spot di Vialli? Ma certo: talvolta anzi il colpo di tacco o il tiro a parabola da 50 metri sono un'esigenza assoluta e superiore, che soltanto il fuoriclasse avverte come necessaria: qualcosa che equivale «alla Gioconda di Leonardo, o all'inno americano di Jimi Hendrix a Woodstock»: opere che si potevano fare diversamente, ma che per passare nel mito dovevano essere portate al rango di eccezioni pure. Come il calcio tutto mentale e tutto fisico di Vialli, modernità assoluta, autorappresentazione Zen, esercizio psicologico totale, che ancora attende di trovare un'applicazione in campo, da parte del suo ideologo. n
L'Espresso, 18/01/2007
A Sanremo canta il Viagra
Diabolico, Pippo Baudo, nella sua immensità. O apostolico, se si preferisce. Ecumenico, se vi va. Si sa che Sanremo è in crisi, ogni anno dopo Fabio Fazio e Piero Chiambretti gli indici di share sono un attentato alle coronarie dei dirigenti Rai a cominciare dal capo di RaiUno Fabrizio Del Noce, e alla tranquillità psicopolitica del conduttore, si chiami Simona Ventura o Giorgio Panariello. Perché il presentatore del Festival non è professionista dell'intrattenimento come tutti gli altri, un Celentano o un Morandi, un Fiorello o un Teocoli: è l'eletto, quindi il depositario, il grande, anzi l'immenso sacerdote, a cui il Comune di Sanremo, la Rai e una quantità di altri istituti e organismi affidano volta per volta quel patrimonio preziosissimo e delicato che è il Festival, deposito di storia e di audience, specchio dell'italianità, risorsa televisiva e pubblicitaria, gran baraccone di svippati (secondo i malevoli), vetrina di quella reliquia suprema che è la canzone italiana. Chiamato a compiere il miracolo dopo anni declinanti, ovviamente Superpippo non si è chiesto se la canzone italiana esiste, se esiste ancora, e quale sia eventualmente il suo stato di salute. Sarebbe come chiedersi se esiste la Prima repubblica. Oppure se esiste la famiglia, la mamma, la sposa, la cognata. Sono dubbi metafisici immensi che Baudo non si pone. Certo che la Prima repubblica esiste: forse non nelle procedure, nelle maggioranze e nelle minoranze, ma è viva e presente nella memoria, nella nostalgia, nel rimpianto: non dice sempre Sua Baudità che gli manca tanto la Dc? E qual era, lo schema risolutivo della Prima repubblica? Ma la lottizzazione, ça va sans dire. E allora un professionista sommo della spartizione si applica al problema del target di pubblico, delle fasce di audience, delle nicchie generazionali e scodella la sua ricetta. Forma una bella commissione, composta da Paolo Buonvino, Patrizia Ricci e Dario Salvadori, e via con il musica maestro. Non diciamo però che lo spirito del Festival nell'interpretazione baudista è nazionalpopolare. Parola detestata da Baudo al punto, lo si ricorderà, da farlo erompere a suo tempo in un drammatico j'accuse contro l'allora presidente della Rai Enrico Manca. Postuliamo però, senza accanimento, che Pippo ricorda bene il compromesso storico: e allora, volete la solidarietà nazionale? La solidarietà generazionale? Eccovi Francesco con Roby Facchinetti, padre Pooh e figlio Dj («Dio delle cittààà, e delle immensitàààà...»). Uomini soli, come diceva la vecchia canzone con cui proprio i Pooh vinsero a Sanremo. Oppure, se volete un pronunciamento esplicito a destra, ecco i fratelli uniti, cioè Gianni e Marcella Bella: una coppia di cui almeno lei, nel ricordo del coniglio dal muso infallibilmente nero, sottolineato nero, di "Montagne verdi", è di destra destra (si era anche candidata alle europee con An, la destra che canta con la destra che conta). Come dice il primo comandamento, anzi il decalogo intero di Pippo, Sanremo non è solo Sanremo, è l'arco più che costituzionale, senza nessuna conventio ad excludendum che non sia stabilita dal volere del pubblico. Quindi, dentro tutti: profumi di destra per Al Bano, forse non politici ma canori; sentori di centro e di centrismo per Johnny Dorelli, di cui si ricorda un verso piuttosto democristiano che diceva: «Per me che son nullità... nell'immeeeensità!»: l'immensità va sempre forte, Pooh o non Pooh, Dorelli o non Dorelli. Ma va da sé, come riconosce il manuale Cencelli di Pippo, che il pubblico voglia anche una spruzzata di sinistra. Non c'è che da chiederla ed è qui, à la carte: per esempio con il ritorno della rossa, strehleriana e brechtiana, ma all'occorrenza anche battiatiana, Milva (che ha presentato una canzone dal titolo provvisorio "The show must go on", come in un celebre pezzo dei Queen: ma noi suggeriamo "Alexanderplatz", segnale topografico della riunificazione postcomunista, un messaggio geopolitico e strategico prevedibilmente gradito ai dalemiani). Oppure Paolo Rossi, che tuttavia presenterà una canzone di Rino Gaetano con la mediazione politica di Claudia Mori in Celentano: e qui potrebbero nascere problemi bicamerali, perché ci si ricorda che il povero Rino Gaetano è stato il geniale ma trasversale autore di "Nun te reggae più", in cui sillabava versi oltraggiosi come "Pci Psi Pri Pli Dc Dc Dc... Nun te reggae più". Un cantautore radicaloide, forse pannelliano, che oltretutto in quella canzone d'annata, dannata e condannabile citava tutti, da Agnelli, Pirelli, Cazzaniga a Bearzot, Raffa, Villaggio, da Causio a Thoeni, ma non Pippo Baudo, ohibò. Praticamente tutti di sinistra erano i parolieri rifiutati, gli esclusi di lusso, Edoardo Sanguineti, Alda Merini, Margherita Hack, Rita Levi Montalcini: sarà che la commissione ha un pregiudizio verso i senatori a vita? Verso i poeti? Verso la Hack? Sono bei dilemmi politici, che potrebbero essere mitigati solo dal pensiero che tuttavia è passata Nada, con un brano intitolato "Luna in piena": Nada è diventata una cantautrice sperimentale, oltre la canzone e presumibilmente oltre la politica, ma il suo vecchio amore per l'anarchico Piero Ciampi la colloca a sinistra della sinistra. E Fabio Concato, non è uno che ha una faccia da centri sociali? Oltretutto, si presenta con una canzone che si chiama "Oltre il giardino", con sentori di mirto ma soprattutto di Peter Sellers, quindi politicamente eretica. A questo punto Baudo si dev'essere preoccupato, troppi sinistri, troppa Unione, ancorché di fatto: e ha chiamato Antonella Ruggiero. Ci siamo capiti: voce angelica. Intonazione celestiale, e acuti sublimi. Con un pezzo pacifista, "Canzone fra le guerre". Ma anche, la signora, una devota abitudine a interpretare con grande o immensa intensità, o con intensa immensità, chiedete a Don Backy, la grande musica del repertorio religioso, preferibilmente nelle cattedrali: è o non è una brillante strizzata d'occhio al cardinale presidente della Cei, in chiave teodem? Non è un bell'esempio di equilibrio, di equilibrismo, un gesto di riguardo quasi margheritico? Il resto è intrattenimento spartitorio. Un po' di giovani, un po' di sconosciuti come il grande Piero Mazzocchetti, che ha spopolato in Germania, come Paolo Meneguzzi che ha spopolato in America Latina, e altri che hanno spopolato in posti spopolati; un po' di spirito jazz con Amalia Grè, un po' di Battisti con Leda, un po' di tutto, compresi Daniele Silvestri, Simone Cristicchi, Stadio, Velvet, Zero Assoluto, Tosca. Tosca? Problema politico aggiuntivo, perché porta una canzone dal titolo "Il terzo fuochista": non sarà una rivendicazione sindacale, contro l'abolizione efficientista e neoliberista dei fuochisti, come è già accaduto in ferrovia con il secondo macchinista? Vabbé, è andata. La Prima repubblica della canzone sopporterà anche i sindacati, già adeguatamente fronteggiati da Sua Immensità Baudo qualche decennio fa. Al massimo, se il conflitto diventa troppo caldo, si manderà in scena Mango, con la sua canzone intitolata interrogativamente "Chissà se nevica": evocazione di Bernacca, di previsioni del tempo ineluttabilmente fallaci. Ma come si fa, a chiedere se nevica: ma è chiaro che non nevica, non è nevicato, non nevicherà. Sta cambiando il clima, chiedere a Pecoraro Scanio. Potrebbe arrivare la Seconda repubblica. Abbiamo male alle ossa, c'è un'umidità insolita anche per la Riviera dei fiori, in quel mare d'inverno che è come un film in bianco e nero visto alla tivù. Già, ha da passà l'inverno. Ha da passà Sanremo. Tutto passerà, ma non l'immensità. n
L'Espresso, 18/01/2007
Ma quanto è di sinistra l’aumento dei prezzi?
Gli intellettuali più prestigiosi e gli economisti più accreditati sono convinti che la legge finanziaria sia criticabile perché non ha affrontato con fermezza e fantasia l'entità della spesa pubblica. E che dunque l'azione di governo nasca da un vizio culturale, o perlomeno da un'impostazione fin troppo tradizionale e prevedibile. Ma come si può intuire il consenso dell'opinione pubblica non dipende dal consenso degli intellettuali. Se si vuole davvero capire il perché della caduta di popolarità del governo, sarà il caso di guardare anche a qual è stata la percezione generale dell'azione dell'esecutivo. E su questo punto ci sono pochi dubbi: basta scorrere a ritroso i giornali durante le ultime settimane per trovare una raffica clamorosa e fastidiosa di aumenti di prezzi, tariffe, bolli, ticket. Non male per un governo che era nato con l'intenzione, più volte espressa da Romano Prodi, di «rimettere il dentifricio nel tubetto», cioè di restituire il potere d'acquisto perso negli ultimi anni. Gli effetti redistributivi della manovra, prevedibilmente modesti, dovranno fronteggiare anche sul piano delle attese una quantità di annunci di adeguamenti di prezzi; le associazioni dei consumatori (nel caso, l'Adusbef) hanno individuato 56 nuove tasse, con un aggravio per ogni famiglia stimato in 440 euro l'anno, mentre ogni giorno si sono susseguite notizie o proclami di variazione al rialzo delle tariffe. Ancor più che la pioggia di tributi più o meno pesanti (sulla casa, sull'auto, sui rifiuti), e il prevedibile ricorso degli enti locali alle maggiorazioni dell'Irpef per compensare i tagli nei trasferimenti, ciò che risulta incomprensibile è l'aumento delle tariffe su servizi pubblici come le ferrovie, dove l'aumento medio è del 9 per cento, con punte del 15 per gli Eurostar, come ha già riscontrato chi ha acquistato un biglietto nei primi giorni del nuovo anno. Ogni volta gli enti che alzano le tariffe, che siano autostrade o ferrovie, i loro uffici stampa raccontano che i prezzi erano bloccati da anni (per Trenitalia, in realtà, c'era stato uno stillicidio di micro o macro aumenti, con l'invenzione lunare degli Intercity "Plus", più o meno uguali agli altri ma con prezzo maggiorato, e incrementi al limite dell'incomprensibilità delle esazioni a bordo). Il che rende logico il ragionamento immediato, e "populista", poco raffinato o semplicemente inquieto, dei clienti: nei servizi pubblici hanno assunto alcuni manager col buco, che hanno lasciato situazioni catastrofiche sia dal lato dei bilanci sia dal lato della funzionalità, i quali se ne vanno con liquidazioni milionarie lasciandosi alle spalle le macerie e un conto che paga Pantalone. Si sa che il popolo, la gente, i cittadini, l'elettorato, non sono troppo sofisticati, e quindi passano rapidamente a conclusioni impolitiche. Sicché non risulta molto facile a Tommaso Padoa-Schioppa o a Pier Luigi Bersani spiegare che occorrerà produrre riforme per eliminare le rendite ovvero liberalizzare i settori protetti, "nell'interesse del consumatore" e per rimettere in efficienza le amministrazioni. Sembra di assistere a una vistosa insensibilità dei ministri e del governo nel suo insieme rispetto alla pioggia di gabelle e di aumenti tariffari, come se si trattasse di un evento atmosferico, inevitabile come la pioggia o la nebbia. Per la verità, dopo avere strillato per cinque anni contro il populismo berlusconiano, occorreva un ragionevole populismo di centrosinistra. Non è una contraddizione. Di fronte a ogni incremento praticamente automatico dei prezzi pubblici, ci voleva una reazione di questo genere: prima di qualsiasi aumento delle tariffe, dateci un programma di risanamento, un piano di bonifica, di ristrutturazione, e solo in seguito parleremo delle tariffe. Altrimenti non si comprende quale sia il vantaggio di avere al governo tanti bravi tecnici della macroeconomia e tanti conoscitori delle tabelle e delle curve delle entrate e delle uscite. Romano Prodi ha parlato del ritorno alla crescita come della nuova "missione euro". Ma prima ancora della crescita, concetto inafferrabile dalle famiglie, occorreva evitare la sensazione del salasso ineluttabile, e di conseguenza le aspettative di una serie incontrollabile, nonché depressiva, di aumenti che toccano la vita di tutti. Controllare con rigore le grandezze macroeconomiche non implica ignorare le condizioni effettive di vita dei cittadini. Il consenso si costruisce dal basso, e il rigore sulle grandezze finanziarie non esclude il controllo sulla microeconomia. L'avere perso di vista questo aspetto non è un errore di comunicazione, bensì un deficit di consapevolezza politica. E agli occhi dei cittadini, suggerisce domande, giuste o sbagliate che siano, su che cosa ci sia di progressista e di solidale, insomma di sinistra, nell'aumento dei prezzi.
L'Espresso, 25/01/2007
Cuore di Petra di Rita Cirio
Il sentimento - e persino la sua deriva più ovvia e spudorata, il sentimentalismo - può essere arma politica e destabilizzante di un ordine sociale che non lo contempla. Per risolvere il suo complesso edipico nei confronti di papà Bertolt Brecht, Rainer Werner Fassbinder scelse di rifondare il teatro e il cinema politico con una dose consistente di sentimenti esibiti "hard core" e scelse come punto di riferimento alternativo al teatro epico il mélo dei film hollywoodiani anni Cinquanta di Douglas Sirk, l'autore di "Magnifica ossessione", "Lo specchio della vita", "Il trapezio della vita", "Come le foglie al vento". "Le lacrime amare di Petra von Kant", nato per il teatro e poi diventato un film, è forse l'esempio più rilevante di questa poetica: la vicenda di una stilista di successo che s'innamora perdutamente e fino all'autodistruzione di una ragazza, Karin, ennesima variante della Albertine proustiana, oggetto indegno, ma tant'è, di un grande sentimento amoroso. «Nella tragedia», teorizzava Douglas Sirk, «la vita finisce sempre e, morendo, l'eroe è sollevato dai problemi dell'esistenza. Nel melodramma l'eroe invece sopravvive in un triste lieto fine». Come parecchi registi Antonio Latella sembra non amare fino in fondo alcuni testi che mette in scena e la sua versione di "Petra von Kant", pur nella elegante confezione, sceglie di essere algida - e perfino brechtiana - invece di abbracciare e abbandonarsi al mélo, come voleva Fassbinder. Domina questa versione una sesquipedale statua iperrealista con le sembianze nude di Silvia Ajelli che interpreta Karin, un feticcio destinato a essere smontato nel finale dalle altre attrici, tra cui Laura Marinoni (Petra) che s'impegna nel mélo credendoci più del regista.
L'Espresso, 01/02/2007
Bene bravi sette più
A meno che non sia Totò, il comico che diventa vecchio genera immediata tristezza. Ma Totò non era un comico, era un disegno astratto, un profilo cubista, un'invenzione dell'avanguardia novecentesca. E quindi c'erano motivi ragionevoli per temere che il ritorno di Cochi e Renato in un programma televisivo si risolvesse in una cosa straziante. E invece "Stiamo lavorando per noi" (quattro puntate il mercoledì su Raidue, prima serata) regge la botta, con buoni ospiti come Enzo Jannacci e Massimo Boldi: anche se è difficile per comici dell'assurdo trasformarsi in critici del costume e dell'attualità. Tutti noi infatti ricordiamo Cochi e Renato, «il poeta e il contadino», gli eroi di «siamo su a milletré» e di «bravo, sette più». Niente era più esilarante di Pozzetto che interrompeva Cochi Ponzoni intimandogli «dammi indietro gli orecchini di mia suocera». Intere scolaresche hanno cantato «La gallina non è un animale intelligente, lo si capisce da come guarda la gente» o «E la vita, la vita, e la vita l'è bela, l'è bela, basta avere un'ombrela che ripara la testa». Ma trasformare questi due comici in critici e satiristi dell'attualità, era un'impresa rognosa: oggi infatti occorre applicare la satira a protagonisti come l'agente Scaramella, roba dura. Oppure sui membri di centrodestra del cda della Rai, quelli che hanno nominato Meocci direttore generale quando anche un bambino, o una gallina, avrebbe capito che era incompatibile, rischiando così di pagare di tasca propria la multa di 14 milioni di euro. Va da sé che nemmeno un genio della comicità, neanche un fratello Marx, ci riuscirebbe. Così come sarebbe stato difficile, perché la realtà supera la satira, immaginare che l'intero cda avrebbe trovato l'ingegnosa soluzione di liberarsi del problema Meocci nominandolo al vertice di Rai Corporation, con uno stipendiuccio di 800 mila euro, per cui adesso rischiano altri 14 milioni di multa. Noi eravamo dell'idea che i primi 14 milioni dovevano pagarli di tasca loro i consiglieri di centrodestra; ora pensiamo che gli altri 14 devono pagarli i consiglieri tutti, destra o sinistra chi se ne frega, presidente compreso. Abbiamo chiesto un parere ai rinati Cochi e Renato; ci hanno risposto: «La gallina non è un animale intelligente», e a quel punto non siamo stati capaci di evitare di pensare: la vita l'è bela, basta avere un'ombrela.
L'Espresso, 08/02/2007
Salvate il soldato Garibaldi
Garibaldi è stato ferito? Ricorda Antonio Scurati in un articolo sulla "Stampa" che oggi le fiction televisive fungono da «pratiche interpretative» in senso antropologico, «sono cioè forme di creazione simbolica e narrativa mediante le quali in ogni epoca gli esseri umani hanno espresso la propria visione del mondo e dato un senso alla vita quotidiana». Scurati si riferisce alla «grande serialità americana degli ultimi decenni», che ha prodotto "Twin Peaks", "Band of Brothers", "C.S.I.". L'intervento nasceva dalle polemiche suscitate dalla fiction risorgimentale "Eravamo solo Mille", ma può essere accostato agli ulteriori dibattiti che hanno accolto "Exodus", che narra la vicenda di Ada e Enzo Sereni, ebrei italiani che emigrarono in Palestina nel 1927. Nel primo caso, Scurati sosteneva che la fiction garibaldina, nel nome di un intrattenimento «sciatto, dozzinale, impreciso e infedele», non era riuscita a evocare nessun elemento mitico, o epico, facendo così del Risorgimento un fumettino senza pretese; mentre verso "Exodus" vale la critica tutta politica di avere oscurato, o «appena sfiorato» (come accusa su "l'Unità" Alon Confino, nipote in linea diretta di Enzo e Ada) il fatto che «uno dei moventi fondamentali delle azioni dei Sereni era l'antifascismo». Gli autori si difendono, la discussione si approfondisce. Il regista di "Eravamo solo Mille", Stefano Reali, contesta con puntiglio le critiche di Stefano Malatesta su "la Repubblica": «Quello che si chiede a una fiction è intrattenere, grazie ai suoi strumenti narrativi, e magari dare delle informazioni che altrimenti molto difficilmente arriverebbero al cosiddetto "pubblico di prima serata"». Malatesta replica che non tutto può essere telenovela. Premesso che una persona di normale qualità intellettuale e civile guarda una fiction soltanto se non ha niente, ma proprio niente di meglio da fare, noi siamo piuttosto perplessi. Perché condividiamo l'idea di fondo di Scurati, ma non dimentichiamo che "Twin Peaks" era una creatura di David Lynch, e la straordinaria "Band of Brothers", che a suo modo serializzava "Salvate il soldato Ryan", reca il marchio di fabbrica di Steven Spielberg. Con il che, il discorso è chiuso. La buona fiction è fatta dai buoni fiction maker. Quanto alla fiction normale, o a quella delle fasi di stanca, c'è sempre la soluzione di usare il telecomando e cambiare canale. Viva Garibaldi.
L'Espresso, 08/02/2007
Perché il dopo Silvio si chiama Gianfranco
Sono passati più di 13 anni da quando Silvio Berlusconi sdoganò Gianfranco Fini, in lizza contro Francesco Rutelli per il Campidoglio. Era la fine di novembre 1993, la "location" un ipermercato a Casalecchio di Reno, appena fuori Bologna, e il Cavaliere dichiarò fra lo sconcerto di molti che se avesse dovuto votare per le comunali di Roma avrebbe scelto il capo missino, perché «le sue idee sono le mie». Non c'era ancora stato il lavacro di Fiuggi, e agli occhi di molti il giovane Fini rappresentava una destra non potabile. Ma il progetto di Berlusconi era già chiarissimo. Non c'erano più confini o esclusioni, nel centrodestra prossimo venturo. Dentro tutti. I fascisti erano già postfascisti, almeno nella sua visione politica e nella sua concezione del sistema maggioritario. Con gli anni, Fini si è guadagnato i galloni dell'alleato più fedele. Tanto da meritarsi la designazione a successore di Berlusconi in un altro luogo eccentrico, la premiazione dei Telegatti. A cui sono seguite precisazioni, smentite, proteste, in particolare della Lega e dell'Udc; mentre sono risultati piuttosto smorzati i commenti dentro Forza Italia, in cui c'è almeno una figura politica, Giulio Tremonti, che per cultura e come uomo di cerniera tra forzisti e Lega potrebbe ragionevolmente ambire alla successione. In ogni caso l'indicazione c'è stata, un autentico "dedazo" alla messicana (quando il presidente uscente, capo del Partito rivoluzionario istituzionale, indicava teatralmente con il dito il suo erede alla presidenza). Ed è possibile che le discussioni in proposito siano più figurative che reali. Perché Berlusconi ha bisogno di Fini, se vuole effettivamente realizzare il "partito unico dei moderati", il rassemblement che dovrebbe riunire il centrodestra futuro, deideologizzato e privo di quelle articolazioni partitiche così fastidiose per la compattezza di uno schieramento. Berlusconi ha bisogno di Fini perché il partito unico dei moderati richiede un leader riconoscibile sul piano mediatico e nello stesso tempo così duttile culturalmente da risultare attraente per l'intero elettorato di centrodestra. Sotto questo profilo, Fini è perfetto: tradizionalista e innovatore, cattolico ma favorevole alla fecondazione assistita, legato a una concezione classica della famiglia ma senza fissazioni contro le unioni di fatto, il capo di An rappresenta una carta ottima sul mercato politico dei prossimi anni. Ha perso praticamente tutte le connotazioni fasciste e di destra sbrigativa, ha denunciato le leggi razziali mussoliniane come «male assoluto», è stato ricevuto in Israele, ha collaborato con Giuliano Amato nella convenzione europea, si è spinto fin quasi al confine con i popolari europei; a cui si aggiunge come dote personale insostituibile una particolare predisposizione a risultare convincente in televisione. Non ci sono altri candidati alla successione del capo carismatico. O perlomeno non ce ne sono altri in grado di tenere unito il centrodestra fin tanto che le condizioni e le modalità dello scontro bipolare rimangono quelle attuali. In uno scenario proporzionale, che consentisse la formazione di estese aree centriste, Pier Ferdinando Casini avrebbe ancora delle possibilità. Ma è difficile prevedere in questo momento quelle scomposizioni e ricomposizioni del sistema politico che potrebbero rimettere in gioco il leader dell'Udc. Salvo incidenti, dunque, la prospettiva di evoluzione della ex Casa delle libertà è stata delineata. Dovrà nascere un aggregato largo, non stressato sul piano culturale, capace di raccogliere partite Iva e ceti medi, pubblico impiego e imprenditori, cattolici e laici, moderati e radicali. Se il progetto funziona, nessuno meglio di Fini può assumerne la guida. Resta da vedere come si muoveranno allora i non moderati, in primis la Lega di Bossi. È presumibile che il gruppo dirigente del Carroccio apra un conflitto interno, una fase manovriera, la più spregiudicata possibile. Per il futuro del Pum, sono allora più importanti, e anzi decisive, le prossime guerre interne al centrodestra che non il confronto elettorale e parlamentare con l'Unione. Indicato dal dito di Berlusconi, per qualche tempo Gianfranco Fini può stare a guardare: ma ha già capito che il "dedazo" del Cavaliere riguarda lui e lui solo, non il suo partito. Per la successione a Berlusconi serve Fini, non An. E quindi aspettiamoci rapide mosse per anestetizzare il partito, per convincerlo a un'eutanasia utile, alla confluenza nel grande partito del centrodestra. Fini è già pronto, bisogna vedere se sono pronti anche i suoi ufficiali e le sue truppe.
L'Espresso, 15/02/2007
Telegaffe ai Telegatti
Non ci sono molte ragioni valide per guardare in tv alla serata dei Telegatti. Ragioni serie, ancora meno. Vaghe reminiscenze di anni passati potrebbero indurre qualche telespettatore volonteroso e amante dei felini a cullare l'aspettativa che Rosario Fiorello faccia uno dei suoi show improvvisati e epocali. Ma poi arriva Fiorello davvero e non fa praticamente niente, salvo entrare nel clima dei Telegatti, e uno è costretto ad ammettere: ben mi sta. Così impariamo a dedicare una serata ai Telegatti. Ma, dico: con tanti argomenti interessanti che ci sono in circolazione, e con tanti bei libri da leggere, come il fantastico, esatto e micidiale insieme, "L'Italia spensierata" di Francesco Piccolo (ha firmato come sceneggiatore il "Caimano" di Nanni Moretti, mentre l'editore è Laterza), che oltretutto contiene anche la descrizione di una puntata di "Domenica In" vista dalla parte del pubblico nello studio televisivo della Dear; insomma, con tante belle cose da vedere o da fare, quale sarà il motivo per sprofondare su un divano e sintonizzarsi colpevolmente sui Telegatti? Boh. Sarà il nostro masochismo. Sarà che i giornali ne hanno parlato per giorni, sfracellando l'apparato. Sarà che i Telegatti sono televisione al cubo, televisione di televisione fatta da televisionari, e quindi tutti i "tv addict" si sentono costretti moralmente ad assolvere l'obbligo. Oppure sarà l'oscura sensazione che ai Telegatti succede sempre qualcosa, una lite, una rissa, magari con il coinvolgimento di Cecchi Paone, o magari la rivelazione medianica che questa volta l'evento sarà enorme, magari un fuori onda di Veronica rivolto sadicamente a Silvio. Poi naturalmente l'evento immane è accaduto davvero, e Veronica ha scritto la sua letterona, scatenando gatti e cani, "cats and dogs", provocando un acquazzone, un temporale, pioggia a catinelle. Sicché non ci si è pentiti di avere assistito per qualche decina di minuti alla parata di astri nascenti e di stelle cadenti dei Telegatti. Era la solita solfa, la televisione che premia se stessa. Ma a posteriori noi sapevamo che alla cena di gala Supersilvio aveva pronunciato le parole incriminate, era "inyespicato", si era "incarfagnito", e quindi la sora Berluscona si era incacchiata e aveva dato sfogo alla sua grafomania, citando anche una scrittrice irlandese. E insomma, una volta tanto, Telegatti o Telecani, noi avevamo potuto dire: c'ero anch'io.
L'Espresso, 22/02/2007
Non sparate sul Pirata
Secondo Aldo Grasso, il film di Claudio Bonivento dedicato a Marco Pantani ("Il Pirata", da un'idea di Nicola Carraro e Claudio Bonivento, scritto da Nicola Lusardi e Roberto Jannone con lo stesso regista Bonivento, produzione Ballandi per Raiuno) è risultato semplicemente «trasandato», e «l'operazione stilistica è stata una sola: la verosimiglianza». Vale a dire la trovata di un attore, Rolando Ravello, particolarmente simile al modello piratesco originale. Per "il Riformista", nel commento di Remo De Vincenzo, «questo Pirata versione B&B (Ballandi e Bonivento) è un ulteriore esempio della cronica incapacità di narrare le gesta sportive da parte della nostra fiction». Subito dopo il massacro continua con Bonivento indicato come «già regista della grigia fiction Rai sul Grande Torino», colpevole di «avere imbastito un prodotto povero di idee e di pathos, recitato male e scritto peggio». Mah. A dargli un'occhiata con un tocco in più di indulgenza, "Il Pirata" non era peggio della fiction che circola normalmente. Quindi Bonivento non dev'essere proprio peggio degli altri registi. La fiction su Pantani aveva tutti i difetti delle storie troppo contemporanee, in cui non c'è filtro della memoria, alone del mito e suggestione del racconto. Assomigliava più alla cronaca che non a una narrazione. Per girare un film sullo sport può essere utile una certa distanza di tempo dagli avvenimenti. Per esempio è bellissima la vicenda di Matthias Sindelar, "il campione che non si piegò a Hitler" raccontata da Nello Governato (noto ex calciatore e manager calcistico) nel romanzo "La partita dell'addio" (Mondadori). Per chi non lo sapesse, il divino Sindelar era uno dei più forti calciatori del mondo, e morì con la sua donna, l'ebrea Camilla Castagnola, nel 1939, dopo l'Anschluss: furono trovati morti dalla Gestapo nel loro appartamento di Vienna, e il decesso fu attribuito ufficialmente al malfunzionamento di una stufa a gas. Oppure si potrebbe leggere utilmente la strepitosa storia scritta da Matteo Marani ("Dallo scudetto ad Auschwitz. Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo", pubblicata da Aliberti), che ricostruisce la parabola tragica di un trainer del Bologna che finisce nel nulla dello sterminio nazista. Insomma, le fiction "simultanee" possono essere traditrici (ma anche la storia di Pantani era di clamorosa intensità, e quindi irresistibile la tentazione di raccontarla).
L'Espresso, 01/03/2007
decamerone in corsia
Ci sono gli idolatri del dottor House, che però vedendo la campagna di lancio di "Grey's Anatomy" hanno pensato: saremo mica arretrati, noi housiani, o housisti, rispetto alla nuova serie del nuovo serial medico? E quindi si sono messi a guardare le prime puntate di "Grey's Anatomy", cercando di districare nella trama i punti nodali. Ma non è facile. "Doctor House" appartiene infatti alla categoria dei serial medici in cui si parla di medicina: ogni puntata è incentrata su un caso clinico (tutti pensano che il candidato alla presidenza abbia l'Aids, ma House dopo avere insultato i collaboratori e il paziente scopre che si tratta di una malattia che conosce solo lui e risolve tutto con una sua ricetta: «Magnesia bisurata!», con il paziente che rinasce e tutto che ritorna all'ordine, compreso il candidato che se ne va saltellando). Invece "Grey's Anatomy" è un serial basato sulla formula "Sex and the Medicine", dove la parte predominante è il Sex. Quanto alla medicina, infatti, e alla chirurgia, ogni tanto si vede qualche caso clamoroso, tipo un ragazzo con un tronco d'albero piantato nella pancia; ma si ha sempre la sensazione che le équipe mediche trattino i casi anche più interessanti e gravi come una tremenda rottura di scatole tra un flirt, una scopatina, un tradimento, un minuetto erotico. Anche i pazienti, in genere, considerano un cancro come una fregatura che impedisce di andare al pub a rimorchiare. Se "Doctor House" è la Divina commedia dei serial americani, "Grey's Anatomy" dovrebbe essere il Decamerone. Ma se si interviene a puntata già cominciata è critica: è scoppiato un casino, tutti sono affannati, c'è gente in crisi di nervi; e qui tutti si aspettano un "cross over" assurdo ma risolutivo, adesso arriva il dottor House e li sistema tutti. E invece niente. "Grey's Anatomy" resta un disordine voluto e totale; "Doctor House" il regno della perfezione. "Grey's" è corale, nevrotizzato dalla regia, continuamente in fibrillazione; House è un uomo solo in cima alla diagnosi, un Omero dell'eziologia, un Dante della terapia. Insomma, non c'è paragone. Ma può anche darsi che "Grey's Anatomy" soffra della legge sul degrado progressivo dei serial (che recita: a ogni nuova serie il serial peggiora, e il pubblico si stufa; vedi il disastro di "Lost"). Degrado che per ora ha lasciato intatto House (anche se, per i pessimisti, non si tratta che di dare tempo al tempo).
L'Espresso, 01/03/2007
Un calcio alla riforma
Fa una strana impressione in questi giorni leggere le pagine sportive: ci si trova davanti a uno sforzo epico per riportare tutto a una specie di normalità. Già, ma di calcio giocato è difficile parlare, di questi tempi. Dopo la guerriglia di Catania, in cui è morto l'ispettore di polizia Filippo Raciti, gli stadi sono vuoti. Qualcuno perché non è in regola con il decreto governativo, privo dei "tornelli" e di adeguate misure di sicurezza; gli altri perché evidentemente non deve circolare una gran voglia di correre in tribuna. Mettiamoci anche la semplice ragione che il campionato di serie A è stato sepolto dalla supremazia dell'Inter di Massimo Moratti, tornata a vincere proprio nel momento in cui tutti gli altri perdono, assegnando così al torneo l'interesse zero. Quindi l'ambiente del calcio, dopo la sospensione dei campionati disposta dal commissario straordinario della Figc, Luca Pancalli, prova a trovare argomenti laterali per far finta di essere sano. Ecco le polemiche a distanza fra Capello e Ronaldo, la crisi balorda dell'allenatore del Real Madrid sotto il tiro dei tifosi, i programmi sempre stratosferici del Chelsea di Abramovich, l'autobiografia di Alessandro Del Piero, il quarantesimo compleanno di Roberto Baggio, il possibile arrivo in Italia di Ronaldinho e dell'altro Ronaldo, il ventiduenne divo portoghese Cristiano. Si capisce, il sistema calcio attraversa una tempesta cosmica; se il giocattolo dovesse rompersi sarebbero problemi per molti. Già uscire da Calciopoli era stata una missione impossibile. Era stato necessario ammorbidire, troncare, sopire, aggiustare, trovare compromessi, amministrare arbitrati, ridurre penalizzazioni. Alla fine tra i club più grandi se l'erano cavata tutti tranne la Juventus; in compenso il recupero di credibilità era diventato dubbio. Da quello choc era uscito il paradosso di un sistema malato ma capace di esprimere la Nazionale vincitrice del Mondiale in Germania. Tuttavia in seguito si era fatta strada anche la convinzione che né il commissario straordinario Guido Rossi né il supermagistrato Francesco Saverio Borrelli erano riusciti a rimettere nella legalità il mondo del pallone. Un muro di gomma, avevano detto Rossi e Borrelli. Resistenze, attriti, pressioni, giustificazionismi. Ciò che contava era tenere in piedi il carrozzone. Quindi, repulisti sommario, grandi condanne in prima istanza via via ridotte nei gradi successivi, e tentativo di seppellire il passato sotto una lapide di belle intenzioni risanatrici. Tutto questo senza che nessuno dicesse una parola sulle aggravanti accessorie e sugli sviluppi possibili. Ad esempio una conduzione amministrativa che non mancherà di provocare altri disastri, a cominciare dalle invenzioni contabili delle società, come le famigerate plusvalenze che hanno permesso di presentare bilanci altamente retorici (perché nel calcio la partita doppia è effettivamente doppia). Oppure un ulteriore scandalino-scandaletto di scommesse già emerso e che riaffiorerà da un momento all'altro, gettando altro discredito sui calciatori e sui campionati. Le varie storielle di doping, qualcuna gustosa come quella giustificata dalla fidanzata volonterosa con l'uso di una crema vaginale. Giri di cocaina e di sesso a casaccio qua e là. Anche il pettegolezzo ambientale su episodi da tre tavolette, come il dirigente che vende alla propria società per 80 mila euro le quattro cartelline del suo fantomatico "piano industriale" che aveva suscitato l'entusiasmo anche dell'ingenua Confindustria locale. E naturalmente esercitando ogni sforzo per eliminare ogni sospetto di collusione delle società con il tifo violento organizzato, accreditando per l'ennesima volta la favola secondo cui sono solo pochi teppisti a rovinare il campionato che fu il più bello del mondo: mentre in realtà tutti sanno, vedi il caso Lazio, che il tifo ricatta i presidenti e organizza cordate proprietarie alternative, oltre a defenestrare come al solito gli allenatori e intimidire i giocatori. Intanto, il 27 gennaio in provincia di Cosenza era stato ucciso Ermanno Licursi, dirigente della società dilettantistica Sammartinese; nei disordini di Catania c'era stata la tragedia di Raciti, colpito a morte durante gli scontri. Il presidente della Lega, Antonio Matarrese, si era distinto per una frase come minimo molto sfortunata, ma che esprimeva l'inconscio collettivo dell'ambiente, secondo cui i morti fanno parte del gioco e comunque lo show deve andare avanti, come in ogni Barnum. Detto fatto: lo spettacolo è ripreso, nella precarietà e in un clima raggelante, dopo che le autorità calcistiche europee avevano ampiamente stigmatizzato le condizioni degli stadi italiani. Ma il calcio naturalmente non può fermarsi: la rivoluzione è rinviata per impraticabilità del campo. Alla vedova del povero Licursi il bel gesto di un assegno di 480 mila euro, raccolti con una sottoscrizione fra i professionisti e i dilettanti (provvedimento analogo della Lega anche per la vedova del povero Raciti). Non basta? Non è la dimostrazione che il pallone in fondo è pulito? Lo spettacolo prosegue, dunque, con i giornalisti che riprendono a chiedere «potete davvero puntare al quarto posto?» e gli allenatori che rispondono secondo il Bignami: «Noi andiamo in campo ogni volta per fare la nostra partita, senza fare programmi». Quando la tensione si sarà attenuata, si comincerà a pensare al calcio mercato, alla stagione ventura, alle qualificazioni per i campionati europei. Si intensificheranno le diplomazie per avere in Italia gli Europei del 2012. Si celebrerà la resurrezione. A chi dirà che il gattopardo ha avuto ragione ancora una volta, e che si tratta solo di aspettare la prossima tragedia o il prossimo scandalo, si risponderà di non fare l'avvoltoio. n
L'Espresso, 01/03/2007
Centrosinistra crack
Qualcuno a Palazzo Madama ci scherza sopra, cercando corsi e ricorsi storici: ci sono ancora da qualche parte gli straccioni di Valmy? I «quattro gatti» di Francesco Cossiga? Tira davvero aria di ribaltino come nell'ottobre nero di Romano Prodi nel 1998, di allargamento della maggioranza, di governo istituzionale, di qualsiasi ipotesi che possa tenere in vita questa legislatura ormai a brandelli? Il grande pasticcio dell'Unione era nell'aria. Bastava frequentare anche solo di sfuggita il Senato per sapere che tutti aspettavano soltanto il momento in cui qualcuno avrebbe staccato la spina. Eppure, sul Falcon che mercoledì a mezzogiorno riportava a Roma i ministri Arturo Parisi e Giulio Santagata dopo l'incontro a Bologna con il presidente Napolitano, niente lasciava prevedere il dramma del governo. Attesa del risultato del voto al Senato, ma sostanziale serenità. Adesso che invece il momento infernale è arrivato, facce impietrite, sguardi attoniti, occhiate sperdute. E una singolare atmosfera da prima Repubblica, ipotizzando che il Quirinale potesse rimandare il governo davanti alle Camere, per accertare se ha una maggioranza. Il ragionamento, nel pomeriggio dopo la caduta diceva: calma e gesso. Un passo alla volta. Raffreddare la situazione. Ma la strada sembrava troppo tortuosa. Inutile tentare di ricompattare l'Unione con un voto di fiducia, come volevano nella sinistra radicale Diliberto, Pecoraro Scanio e Giordano, per poi dover affrontare una nuova lotteria su uno dei temi caldi, a cominciare dal rifinanziamento della missione in Afghanistan. Vero che, secondo i dettami del passato, è meglio tirare a campare che tirare le cuoia, secondo la classica espressione di Giulio Andreotti: proprio lui, la vecchia volpe democristiana e cattolica che insieme al senatore a vita Pininfarina ha sotterrato il governo di centrosinistra, con una vendetta freddamente cerebrale (che alcuni senatori di vecchia scuola fanno risalire alla mortificante trombatura subita nell'elezione alla presidenza del Senato). Mettiamola così: in astratto, secondo i manuali di diritto costituzionale, da un punto di vista strettamente tecnico, la caduta del governo sulla politica estera sarebbe stata forse recuperabile. Non si capisce infatti chi nell'Unione abbia davvero un interesse razionale a fare cadere la legislatura, o peggio ad aprire una fase di larghe intese, che implicherebbe il taglio chirurgico della sinistra oltranzista. Anche perché oggi a sinistra il radicalismo non è consegnato esclusivamente a un solo partito, e quindi è impossibile pensare a una legislatura-trapianto, con l'Udc a sostituire dal centro il taglio dell'estrema. Il fatto è che l'Unione era nata con un accordo complesso, formalizzato dettagliatamente dal programma, e quindi senza prevedere eccezioni possibili alle decisioni del governo. Si potevano ipotizzare contrasti da superare attraverso mediazioni defatiganti, ma non lo choc della dissidenza assoluta, tale da fare mancare i numeri al Senato. Adesso, dopo il patatrac del fatale 21 febbraio, tutto entra nuovamente in discussione. Vale a dire: ammesso che sia possibile ricucire per via parlamentare lo strappo, esiste una possibilità, che sia una, di assicurare la continuità dell'esperienza di governo del centrosinistra? Sotto questo profilo, le valutazioni tendono al pessimismo. È venuta alla luce tutta la fragilità di una coalizione debole e di una maggioranza strettissima, che nei mesi di durata del governo Prodi non è riuscita a guadagnare un solo voto di consenso dalle frange non berlusconiane del centrodestra. La maggioranza sarà anche stata «sexy», secondo l'ottimismo di Prodi, ma non ha retto alla prova dei fatti. Il centrosinistra paga così, e a prezzo carissimo, l'illusione dell'autosufficienza. Quel senso di sicurezza che aveva indotto l'Unione a non cercare accordi durante l'elezione delle principali cariche istituzionali. La convinzione che oltre il governo dell'Unione c'era soltanto il salto nel buio, cioè il Paese consegnato di nuovo a Silvio Berlusconi. Quella sensazione riassumibile nell'alternativa "dopo di noi il diluvio" che aveva indotto anche Massimo D'Alema alla forzatura: «Se sulla politica estera non c'è la maggioranza si va a casa». Accontentato, la maggioranza non c'è. E in aggiunta si tratta di vedere se c'è ancora la coalizione di centrosinistra. Perché non è affatto detto che la nuvola nera addensatasi sull'Unione si esaurisca in un acquazzone: il rischio è che l'incidente frontale sulla politica estera abbia recitato il de profundis sull'alleanza di centrosinistra, sul suo formato, sulle premesse politiche su cui si era formata. Ammettiamo pure che il contraccolpo della caduta al Senato possa essere ammorbidito da un processo di ricomposizione e dal tentativo di un modesto allargamento della maggioranza. Si possono immaginare consultazioni del Quirinale, contatti con cani sciolti del centrodestra, trattative, forse un Prodi bis che tenti di governare la crisi mantenendo intatta il più possibile la maggioranza uscita dal confronto elettorale del 2006. Ma se questo non fosse possibile, prima di arrivare alle elezioni sarebbe ipotizzabile soltanto un governo tecnico-istituzionale. E in questo caso per la politica italiana si aprirebbero scenari potenzialmente sconvolgenti. Il fallimento strutturale dell'esperienza di centrosinistra, perché di questo si tratta, la fine eventuale dell'"alleanza larga" voluta da Prodi, estesa dal centro all'estrema sinistra come strumento per il confronto bipolare con la Casa delle libertà, innescherebbe infatti una specie di Big bang, tale da modificare in profondità tutto il sistema politico. Il partito democratico, su cui in aprile si aprirà un confronto fra i Ds dagli esiti non del tutto scontati, potrebbe apparire fra poche settimane un'ipotesi irrealistica rispetto alla fase politica in atto. La dimostrazione sul campo che non c'è una possibilità di convivenza con la sinistra radicale può indurre i centristi dell'Unione, dall'Udeur di Clemente Mastella alla Margherita, ad allargare la partita delle alleanze. Mani libere, quindi. Per tutti. Con effetti virtualmente distruttivi sul sistema bipolare. Massimo D'Alema lo aveva detto: è in atto una manovra neocentrista. Con ciò che si può immaginare alle spalle delle larghe intese: i poteri forti, settori confindustriali, il mondo dell'economia ostile alla sinistra, ambienti cattolici. Ma nella realtà non c'era nessuna manovra effettiva. C'era semmai la volatilità della maggioranza al Senato e il masochismo, o più precisamente l'impossibilità ad assumersi l'onere del governo, di elementi sparsi nella sinistra. Per il centrosinistra, creato sull'opposizione alla destra, c'è anche la frustrazione aggiuntiva di osservare che Berlusconi ha vinto una battaglia campale senza averla nemmeno combattuta. Sono mesi che i leader dell'Unione, in caduta libera nei sondaggi dopo il varo della legge finanziaria, sostengono che alla lunga la qualità del governo avrebbe consentito un recupero significativo di consenso. Ma nel frattempo il centrosinistra era un rodeo, con liti, conflitti, strappi, risse. La guerra interna sulle unioni di fatto, Vicenza, l'Afghanistan. E, accanto al buon andamento dell'economia reale, il pasticcio della redistribuzione mancata (con le addizionali delle regioni e dei comuni che hanno spesso annullato il ridisegno delle aliquote a favore dei ceti meno abbienti). Il crollo al Senato non ha fatto che mettere allo scoperto la fragilità di un'alleanza che invece avrebbe avuto bisogno di linearità, compattezza e consenso su cui galleggiare. Tutto questo porta verosimilmente in una sola direzione: verso un periodo di grande confusione. Quel tanto di razionalità anche forzosa introdotta dalle regole ferree del confronto bipolare, pur con tutti i suoi difetti e le sue approssimazioni, può lasciare spazio a una terra di nessuno in cui gli approdi sono indefiniti. E in cui l'unica certezza è che tutte le manovre sono praticabili. n