L’Espresso
L'Espresso, 01/03/2007
Se Fassino perde pezzi va a pezzi anche il Pd
A mano a mano che ci si avvicina al congresso di aprile, il disagio nei Ds si fa più forte. Perché è vero che il processo che deve portare alla fusione diessina nel partito democratico ha tutto l'aspetto di un treno in corsa, che non si può arrestare e da cui è praticamente impossibile scendere. Ma il catalogo dei segnali di disagio e di sofferenza politica si arricchisce ogni giorno. Vecchi miglioristi come Emanuele Macaluso conducono una battaglia quotidiana nel tentativo di preservare un corredo genetico socialista. Giuseppe Caldarola (che si è autodefinito ironicamente «un vecchio arnese di destra») aderisce alla battaglia per preservare l'ancoraggio alla famiglia del socialismo. A Bologna, un dirigente solido e popolare come Mauro Zani ha cominciato una sua battaglia, accostandosi alle posizioni di Gavino Angius, perché l'approdo al partito democratico non sia un semplice fenomeno inerziale; e un'esponente della sinistra del partito, Katia Zanotti, ha parlato di un clima di intimidazione, se non proprio di "mobbing", da parte dei fassiniani verso chi coltiva dubbi sull'operazione "democratica" ed esita a firmare la mozione del segretario. Tutto questo mentre il leader della minoranza diessina, Fabio Mussi, ha cominciato la sua guerra congressuale, entrando nel vivo e presentando la seconda mozione, con un attacco durissimo al vertice del partito: «Noi oggi siamo qui a celebrare i successi di un segretario che ci ha portato al 17,5 per cento», ricordando che Occhetto «dovette fare le valigie, e anche in fretta, per avere ottenuto il 16,5». L'analisi di Mussi è radicale: i Ds sono diventati un partito marginale, senza più partecipazione autentica, un «partito degli eletti» che ha l'ossessione di restare figlio di un dio minore e perciò va in cerca di un destino imprecisato. Conclusione, secondo Mussi: non c'è spazio politico per il nuovo partito; l'alleanza con il centro dell'Unione, cioè con la Margherita, è importante, ma di fusioni e di abbandono della propria ragione sociale e politica non se ne deve parlare. La posizione degli aderenti alla seconda mozione è chiara, mentre non è affatto chiaro che cosa succederà al congresso. Perché se non ci saranno imprevisti la linea è tracciata, e dal binario non si esce. Toccherà quindi ai dissidenti, a Mussi e Salvi, insieme con tutto il partito degli scontenti, decidere che strada imboccare. Chinare il capo ed entrare nel partito democratico, cercando di mantenere in vita una corrente neosocialista? Oppure scegliere l'alternativa della scissione, con la prospettiva di costruire una complicata unità della sinistra con i Comunisti italiani e Rifondazione? Ma c'è anche un'altra possibilità, piuttosto inquietante in primo luogo per Fassino e D'Alema. Vale a dire che nei due mesi di qui al congresso tutte le insoddisfazioni, le diffidenze, le ostilità allo scioglimento dei Ds e alla confluenza del partito democratico si coagulino, raggiungendo un risultato numerico tale da mettere in crisi il progetto della segreteria. Improbabile? Certo, improbabile. Ma il partito democratico avrebbe avuto strada facile se l'azione di governo si fosse rivelata convincente, sorretta dal favore popolare. Mentre in questi ultimi mesi governo e maggioranza sono divenuti un contenitore di tensioni. Vicenza, l'Afghanistan, il disegno di legge sulle unioni di fatto. In queste condizioni, nessuno può escludere che il cammino possa diventare più accidentato del previsto. Anzi, con l'avvicinarsi alla scadenza congressuale, le posizioni diventeranno più nette. La sensazione che l'ultima transizione postcomunista possa essere l'abbandono di un'identità storica, un taglio delle radici, potrebbe dare al congresso quella carica emotiva che spesso si è manifestata negli appuntamenti più drammatici del partito (o ci siamo dimenticati le lacrime di Pietro Ingrao a Bologna, lo choc per la mancata elezione di Occhetto a Rimini, e la drammatica scissione di Rifondazione comunista?) Non si tratterà soltanto di registrare le dimensioni della vittoria di Fassino, dal momento che, come dice Caldarola, «con una forte vittoria della maggioranza Ds, le strade si divaricheranno inevitabilmente». Occorrerà osservare anche il risultato della mozione Mussi e l'andamento del dibattito congressuale. Perché è vero che, secondo lo slogan del sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, i Ds «devono essere disposti a perdere pezzi». Ma un partito che di pezzi ne perdesse troppi, e la nascita di un nuovo partito monco, sarebbero la negazione dell'obiettivo per cui il partito democratico era stato progettato.
L'Espresso, 08/03/2007
Qui ci fa tutti Neri
Questa rubrica televisiva è debitrice a un noto politologo vicentino di una intuizione. L'intuizione dice: non c'è soltanto Fiorello, capace di fare intrattenimento di alta qualità. Ah no? E chi ci sarebbe allora? Risposta: Neri Marcorè. Un istante di silenzio. E poi sorge immediatamente il dubbio, o chissà, la certezza, che l'intuizione possa essere vera. Perché come talento Neri Marcorè è piuttosto universale. Bravo imitatore, o meglio parodizzatore (il suo Maurizio Gasparri sputazzante e roco, preoccupato solo del proprio minutaggio tv, è definitivo, e anche il suo Pier Ferdinando Casini non scherza, tutto casa, chiesa e gnocca com'è). Ottimo attore, come si è visto nel ruolo difficile di papa Luciani, nella fiction tv per la Rai. Eccellente conduttore, come si può vedere tutte le domeniche su Raitre, nella benemerita trasmissione "Per un pugno di libri", il book game in cui si affrontano classi di ragazzi piuttosto preparati e diligenti (chissà dove li trovano, ci dev'essere una riserva indiana da qualche parte, con bravi insegnanti, tutti pronti per il reality "Il secchione e la secchiona"). Ma dove Marcorè, diplomato interprete parlamentare nelle lingue inglese e tedesco alla Scuola superiore per interpreti e traduttori di Bologna, classe 1966, supera un'asticella altissima, è nell'imitazione di Luciano Ligabue messa a punto ed eseguita nel programma di Serena Dandini "Parla con me" (giunto alla terza edizione, è ripreso da domenica 25 febbraio su Raitre, in seconda serata). Il Ligabue di Marcorè è perfetto dal punto di vista della voce. È oltre la perfezione nella gestualità padana, con ripetute e strategiche manipolazioni del pacco. Si colloca vicino al sublime nel delineare l'universo simbolico del rocker di Correggio, in una costellazione di culatelli, gnocco fritto e gnocche à la carte. Insomma, una parodia che per qualità sfiora quella, indimenticabile, con cui Corrado Guzzanti sfigurò Antonello Venditti con "Tutto Roma", la celebrazione canora del raccordo anulare con tutte le uscite («E se avremo una bambina poi la chiameremo ROOOMA!»). Anzi, fossimo in Ligabue, chiederemmo di poter duettare con il suo doppio. L'autoironia è l'unico modo per esorcizzare il dileggio. E nel frattempo, bisognerebbe trovare produttori, autori e idee per fare un programma alla Fiorello. Sono così rari i talenti, che quando se ne trova uno conviene coltivarlo al meglio.
L'Espresso, 08/03/2007
Ci vediamo in Afghanistan
Si trattava di una crisi "cluster", cioè una crisi a grappolo: una crisi a cui è legata un'altra crisi, e poi un'altra ancora, con un possibile effetto finale di implosione potenzialmente fatale. La crisi di governo comportava una crisi di sistema politico, nel senso che la caduta del governo avrebbe portato con ogni probabilità alla fine del modulo bipolare. Sullo sfondo c'era la crisi dell'alleanza politica di centrosinistra, con l'emergere di una implicita crisi di leadership. L'insieme di questi fattori distruttivi metteva a rischio il processo che conduce al Partito democratico, e la collocazione in area governativa di Rifondazione comunista, voluta da Fausto Bertinotti. Un effetto domino più simile a un incubo che a un problema politico. La fiducia equivale al ritorno a una realtà irta di difficoltà ma un passo indietro rispetto all'abisso. Dunque: il governo Prodi rappresenta il sottilissimo diaframma che finora ha impedito che nella politica italiana dilagasse l'ondata di ritorno alla prima Repubblica, mentre incombono altre burrasche. L'Afghanistan, le pensioni, i Dico; e poi la legge elettorale, le liberalizzazioni, la Tav. Un intero programma, selezionato in base alle tavole del dodecalogo di Romano Prodi, da affrontare con la maggioranza "risicata", come si diceva nei primi 281 giorni di governo, e poi con la maggioranza "ipotetica", raccolta dopo il tonfo sulla politica estera. Fossimo all'inizio della legislatura, ancora sotto la spinta, e il sospiro di sollievo, della pur ristrettissima affermazione elettorale, verrebbe buono quanto si diceva dentro lo staff prodiano, tra i fedelissimi del presidente del consiglio, i Santagata, i De Giovanni, i Levi: «Dobbiamo governare così bene da essere sostenuti dal consenso popolare, in modo che il sostegno dell'opinione pubblica supplisca ai numeri deficitari del Senato». Oggi sembrano le ultime parole famose: il governo ha cominciato a giocarsi il favore dell'elettorato con l'inciampo sui tassisti dopo il favore raccolto dalle prime liberalizzazioni di Pier Luigi Bersani; è precipitato sulla farragine della legge finanziaria; ha subito il colpo di grazia quando si è visto che le buste paga di gennaio non portavano grandi tracce della redistribuzione a favore dei ceti più deboli, e mentre raffiche di aumenti di tariffe nei servizi, con annunci quotidiani di addizionali locali sull'Irpef, facevano di tutto per smentire il programma dell'Unione. «Proveremo a rimettere il dentifricio nel tubetto», aveva detto e ripetuto Prodi in campagna elettorale, alludendo al tentativo di restituire potere d'acquisto alle fasce sociali penalizzate dai cinque anni di governo del centrodestra. Nella realtà, il vertiginoso volume della Finanziaria si era risolto in una robusta operazione di risanamento dei conti pubblici, senza però che i cittadini ne traessero un beneficio diretto. «L'idea era di fare subito il lavoraccio sui conti», commenta Enrico Letta, «nella speranza di passare poi alla rimessa in efficienza del paese e a una crescita sostenuta». Un'illusione? Di sicuro, prima dello schianto in Senato, si era avuta la revoca della fiducia da parte dell'opinione pubblica. Sondaggi a precipizio. Rivalutazione postuma del governo Berlusconi, a dispetto di cinque anni di crescita vicina allo zero, e di una quantità di buchi lasciati nell'amministrazione pubblica. Con il paradosso generato da misure "per lo sviluppo" (come il taglio del cuneo fiscale alle imprese) intascate dalla Confindustria come un atto dovuto, senza acquisire il minimo consenso. Quindi dopo nove mesi di governo dell'Unione, il punto centrale della crisi rabberciata sul filo dello psicodramma diventa tutto politico. Il programma, le priorità, le lenzuolate liberalizzatrici sono finite sullo sfondo. Ciò che conta è che il governo e la maggioranza devono tenere. Quindi le prossime settimane saranno allo spasimo. Perché il governo Prodi non ha alternative. O meglio. Tutte le alternative possono rappresentare lo sfaldamento del sistema. Cominciamo dall'alternativa numero uno: il governo tecnico con la missione di realizzare la nuova legge elettorale. È l'ipotesi che piace a tutti coloro, a cominciare da Pier Ferdinando Casini, che non nascondono la volontà di scomporre e ricomporre gli schieramenti, per ristrutturare, come dice l'altro centrista Bruno Tabacci, «un bipolarismo fallimentare». Il governo tecnico o istituzionale ha già da tempo una figura di riferimento, l'attuale presidente del Senato Franco Marini. Ma contiene in sé anche una colonia di germi patogeni. Infatti il ricorso a un governo di emergenza rappresenterebbe il fallimento dell'Unione, e la sua probabile disarticolazione. È improbabile che infatti la sinistra radicale accetti di partecipare a un esecutivo trasversale. Inoltre il governo tecnico contiene altre incognite, perché consegnerebbe a Silvio Berlusconi una specie di diritto di sfascio, con la possibilità di fare saltare il tavolo nel momento per lui più opportuno, trascinando con sé, volenti o nolenti, gli alleati. Ed è chiaro che un governo tecnico rappresenta la premessa per ridisegnare il formato stesso della politica italiana. Già si parla, sulla scia di una formula di proporzionale con sbarramento alla tedesca, della formazione di alcune grandi aree "omogenee": la destra nazionale, il centro, la sinistra riformista, la sinistra radicale. Con il risultato prevedibile di governi negoziati dopo le elezioni, di alleanze e manovre tattiche fra aggregazioni parlamentari fisiologicamente fluide. Oppure con l'occupazione permanente dell'area della governabilità da parte di una coalizione stabile di centro-centrosinistra (con il taglio delle ali). Benché il presidente Napolitano, rinviando Prodi alle Camere, abbia già prospettato il ricorso al governo tecnico-istituzionale nel caso di un collasso parlamentare dell'Unione, è più probabile che in questa fase si assista a lente manovre sotto l'ombrello del governo Prodi. È lo schema su cui si è mosso Marco Follini spostando il suo voto al Senato a favore del governo. Vale a dire: l'allargamento della maggioranza a forze centriste si è dimostrato impossibile. Ma nei prossimi mesi si tratterà di decidere se è necessaria una ristrutturazione profonda dell'alleanza di governo. «Occorre un altro centrosinistra», ha detto Follini durante la crisi di governo. Ciò significa che l'allargamento della maggioranza di centrosinistra è comunque necessario, e non soltanto per una questione numerica. Ma un'ipotesi del genere può essere visto da Rifondazione comunista e dagli altri partiti della sinistra oltranzista come una minaccia. Potrebbe implicare uno spacchettamento di un ampio arco parlamentare, interessando un'area che va da una parte di Forza Italia a una parte dei Ds. Inoltre, chi sarebbero i possibili gestori di questa sostituzione del motore della politica italiana? C'è un indiziato, Massimo D'Alema, dimostratosi aperturista sul modello elettorale tedesco. C'è Francesco Rutelli, che presidia il centro dell'Unione. Ci sono pontieri possibili con l'Udc come Clemente Mastella. C'è uno spirito democristiano sparso qua e là ancora alla ricerca di un'incarnazione. E infine c'è Prodi. È vero che nella sua storia politica è sempre stato fedele alla formula bipolare (come dimostra la sua caduta nel 1998). Ma è altrettanto vero che non può consegnare se stesso a un fallimento totale e irrimediabile. Per questo, nel suo sintetico discorso di martedì pomeriggio al Senato ha equilibrato i toni, rivolgendosi a ogni partito della maggioranza per ricordare i provvedimenti in sintonia con le componenti politiche dell'Unione, ed evitando le polemiche con l'opposizione. Anzi, ha sottolineato la necessità della convergenza sulla legge elettorale e le riforme istituzionali. Prodi sa che ogni allargamento della maggioranza può determinare contraccolpi dentro l'Unione. Ma sa anche che deve cercare di salvare il salvabile. Mentre ricomincia una complicata navigazione a vista, Prodi deve ricordare che non è soltanto il capo del governo, ma anche il coordinatore di uno schieramento politico. Perché per evitare gli scogli non basta il tecnocrate: d'ora in avanti ci vuole il manovratore politico. n
L'Espresso, 15/03/2007
Dolce Zucchero
Il "Tg2 Dossier" andato in onda nel pomeriggio di domenica 4 marzo, dedicato ai Beatles e ai Rolling Stones, prometteva di essere un altro esempio delle preziosità archivistiche di Michele Bovi, che questa volta è riuscito a mettere le mani sulle immagini a colori "rubate" al concerto dei Rolling Stones (Milano ottobre del 1970). Poi il discorso si è allargato, perché il programma non si è limitato a mostrare queste rarità di Mick Jagger e compagni, ma le ha accompagnate con altre immagini d'epoca (i Beatles al Vigorelli nel 1965, filmati da Peppino Di Capri e dal batterista dei Ribelli Gianni Dall'Aglio). Già visto, diranno i soliti scettici. Be' qualcosa sì. I Rolling Stones dell'epoca a colori per la verità non li aveva visti nessuno, e per i cacciatori di rarità è stato emozionante poter cogliere qualche sequenza di una delle ultime esibizioni in pubblico di Brian Jones. Ma il centro di questo programma offriva anche una delle cose più belle viste di recente in tv: e cioè la partecipazione di Zucchero, che faceva da conduttore. Naturalmente Zucchero oltre a raccontare e commentare, suonava e cantava. Ha cantato, rigorosamente dal vivo, canzoni passate alla storia come "Homburg" dei Procol Harum e "Angie" dei Rolling Stones. A casa sua dalle parti di Pontremoli, rilassato, accompagnato alla chitarra dal suo amico Massimo Marcolini, mentre fuori da quella specie di domestico e incasinato studio di registrazione si vedeva passare la silhouette di un bellissimo pastore tedesco. E c'era da restare ammirati non soltanto per la qualità tecnica delle interpretazioni di Zucchero: lo si sa che dal vivo è impagabile; bensì per avere accettato di esibirsi dentro un programma a basso costo e a basso budget, che vive principalmente sulla passione di Bovi. Evidentemente, il bluesman (ma in fondo musicista versatile e totale) Fornaciari ama la musica, gli piace mettersi in gioco. Lo si vede mentre suona il piano, o imbraccia la chitarra e intona il prossimo pezzo. Dovesse semplicemente parlare, Zucchero non sarebbe proprio impeccabile: una volta, con Vincenzo Mollica, disse: «Io non sono un eclettico di nessuno strumento» (voleva dire un virtuoso). Ma quando canta e suona, lasciamolo stare, non c'è nessuno come lui in queste lande sanremesi. E la sua presenza illuminava la scena, facendo di un programma di repertorio uno spettacolo perfetto. Facciamone ancora, di roba così.
L'Espresso, 22/03/2007
Il comandante Pippo Baudo
Chissà che cosa succede nella personalità di un protagonista televisivo, quando il successo (ma anche l'insuccesso) lo induce al "procomberò sol io". È accaduto a Pippo Baudo, dopo la fortunata edizione 2007 del Festival di Sanremo: prima la lite con Fabrizio Del Noce, e qui aveva ragione Baudo, perché non si mette in discussione l'allenatore mentre sta vincendo il campionato, e non si capisce che cosa darebbe in più Paolo Bonolis a Sanremo; e poi lo scontro totale, la guerra infinita, contro i politici, Prodi, Padoa-Schioppa, l'insensibilità della politica rispetto a ciò che vuole il popolo. Eh già, il popolo: c'è un momento delicatissimo, anzi cruciale, in cui il conduttore o presentatore si convince che dietro di sé non ha soltanto l'audience: ma che anzi l'audience si è trasformata in popolo, in partito, in folla, in "quarto Stato". E quindi Baudo non si rivolge al mondo politico come un prestatore d'opera, ma come un leader più o meno carismatico. Il senso profondo dell'agit prop Baudo, o chi per lui, è il seguente: «Cari i miei signori, voi fate la politichetta, io invece ho con me la gente: la quale è contenta dei miei cachet milionari, gode dei miei compensi stratosferici, perché io assicuro lo spettacolo, i lustrini, le donne, i cantanti, la Hunziker». Discorso chiarissimo. Quando conquista gli indici d'ascolto, sua Pippità non molla lo scettro (e neppure lo share). Prima attacca e poi chiagne, dedica madrigali d'amore alla Rai, si sdegna contro i politici, poi arriva sul proscenio e fa la scena madre: «Sono un democristiano». Chi se ne frega, naturalmente, se gli manca tanto la Dc. Sarebbe come se Michele Santoro, dopo avere litigato con Clemente Mastella, venisse davanti alla telecamera e, fissando il pubblico a casa, confessasse che gli manca tanto Potere operaio o roba del genere. Di solito, i conducator tv invocano il servizio pubblico come servizio al pubblico televisivo. Grazie, ma non abbiamo bisogno di servizi, né pubblici né privati. Ci arrangiamo da soli, con la tv e il telecomando, senza guide spirituali. Anche perché questi simpaticoni dicono che vogliono servire il popolo, ma in realtà si tratta di audience, non di popolo. Non abbiamo bisogno di capipopolo, di Masanielli e Ciceruacchi. Le battaglie civili, se ne abbiamo voglia, le facciamo per conto nostro: quella che fate voi è solo tv, bellezze, la solita marmellata, credete che non l'abbiamo capito?
L'Espresso, 29/03/2007
Il medico ha la sindrome Banfi
La nuova edizione della soap di Raiuno "Un medico in famiglia" ha sbaragliato la concorrenza, sfiorando il 30 per cento di share. Ma i primi episodi sono risultati piuttosto gnocchi. Giunto alla quinta serie, il telefilm accusa necessariamente una varietà di sindromi: la prima malattia potrebbe essere chiamata "caduta tendenziale del saggio d'interesse", e deriva dal fatto che alla lunga, di Lino Banfi e dei suoi duetti con Milena Vukotic (bravissimi) non frega più niente a nessuno. Oltretutto, il medico è scomparso dalla famiglia alcune stagioni fa, nella preistoria dei medici, insieme a Claudia Pandolfi, che aveva dato un po' di peperoncino erotico alla fiction (come diceva Totò, la cognata, eh, la cognata...). Sicché il serial di Raiuno è acefalo, senza testa. E per reagire alla caduta tendenziale del saggio d'interesse, fenomeno per molti versi fisiologico, gli autori sono sempre tentati di infilarci complicazioni, e soprattutto il "sociale". Omosessualità, coppie di fatto, immigrazione: tutti argomenti insignificanti per un telefilm, che i telespettatori incrociano ogni giorno sui giornali: mentre il telespettatore medio non vuole sapere nulla del "sociale", soprattutto se interpretato da Sandokan, cioè il riapparso Kabir Bedi, e dalla di lui nipote, indiana e specializzata in cure omeopatiche. Si tratta infatti della seconda sindrome dei serial: la "proliferazione indiscriminata dei contenuti", tipica delle soap giunte alla maturità del loro ciclo. Funziona così: siccome si sono esaurite tutte le possibilità di girotondo amoroso fra i protagonisti (anche Banfi e la Vukotic si sono sposati qualche serie fa), si proclama che la fiction cambia faccia. Non deve più semplicemente divertire, deve anche istruire, aggiornare, tenere conto della realtà, e infine pedagogizzare gli italiani. Così si crea un "processo di saturazione sociologica", con effetti di noia. Aldo Grasso sostiene che il "Medico" è girato male. E vabbè. Si può aggiungere che la colonna sonora è rudimentale. I ragazzi sono cresciuti e recitano peggio di quando erano bambini. Nonno Libero si carica la famiglia e la soap sulle spalle, e riuscirà anche questa volta a condurla in porto. Ma la stagione è finita, sono apparsi i "nuovi medici" come il dottor House, e la bonomia sembra a questo punto molto provinciale. Forse è il caso di chiudere con questa edizione: oppure ridateci almeno Claudia Pandolfi.
L'Espresso, 29/03/2007
Prodi al bivio della legge elettorale
Secondo la logica aristotelica, non ci sono grandi possibilità di approvare una legge elettorale efficace. Quando Romano Prodi sostiene che occorrerà trovare un accordo con l'opposizione, e ribadisce il suo «mai più» alle leggi di sistema unilaterali, come avvenne con il Porcellum, tocca soltanto metà della questione. D'accordo, una riforma strutturale come la legge elettorale deve essere bipartisan. Ma anche l'opposizione, come la maggioranza, è composta da partiti che sul tema elettorale hanno idee, preferenze e soprattutto interessi diversi. E allora? C'è una via d'uscita a quella che fino a questo momento ha tutto l'aspetto di una grande melina, fatta di passaggi laterali, di avanzate e ritirate, mosse e contromosse, soglie che si alzano e si abbassano secondo le convenienze? Se si accetta il punto di vista del massimo scienziato della politica italiano, Giovanni Sartori, non appena si procede alle consultazioni delle sette chiese, come ha provato a fare il ministro Chiti, si cade nella "regola dei nanetti": vale a dire che si subisce il veto dei partiti minori, che vedono in qualsiasi formula elettorale seria una minaccia alla propria esistenza. Dunque, una buona legge risulta impraticabile; e produrre un'altra riforma inefficace sarebbe aggiungere disastro a disastro. Conclusione: tertium non datur. E allora, a che cosa serve l'attivismo di Romano Prodi? La risposta è che il premier si è assunto il compito di esploratore sul terreno elettorale perché dopo la crisi di governo era necessario individuare un ambito negoziale con l'opposizione. Nel momento in cui Prodi ha assunto il compito di trattare la nuova legge elettorale, ha anche accettato di ridimensionare la portata del suo governo. Ha prospettato implicitamente un orizzonte temporale che non va oltre le elezioni europee del 2009. L'esperienza dell'Unione non appare più un progetto di legislatura, bensì un incarico a tempo; ciò che qualifica il governo non è la realizzazione del programma, quanto il conseguimento della correzione della legge elettorale. Naturalmente, nel centrodestra si guarda con diffidenza a quella che Silvio Berlusconi considera una manovra dilatoria. E nel centrosinistra ci sono varie entità politiche, al centro e a sinistra, che osservano con altrettanto sospetto le ipotesi di razionalizzazione politica praticata attraverso una nuova legge elettorale. Applicando lo "schema Sartori", l'unica possibilità di procedere a una riforma funzionale implicherebbe una accordo diretto fra i partiti maggiori, del centrodestra e del centrosinistra. Ma è altrettanto ovvio che Prodi sia diffidente verso tutto ciò che ha il sapore di intese più o meno larghe: nel senso che fin dalla crisi in Senato sulla politica estera lo spauracchio principale per il premier è stata l'eventualità di un governo tecnico o istituzionale, in quanto premessa della scomposizione degli schieramenti attuali (e quindi sconfessione integrale dello schema su cui Prodi ha operato dal 1996 in avanti). La grande melina elettorale rischia quindi di non produrre niente. Tanto più che alcune riforme implicherebbero la necessità di conseguenti modificazioni costituzionali, con il rischio aggiuntivo di riforme a stralcio, estemporanee, non inserite in un disegno istituzionale complessivo. È per questo che una figura vicina a Prodi come Arturo Parisi ha continuato a puntare sul referendum. Sulla base di una riflessione politica stringente e a suo modo anche drammatica: ci siamo avvicinati all'implosione della politica italiana, con il fallimento finale del bipolarismo e il possibile ritorno a un'occupazione permanente dell'area di governo da parte di un blocco centrale di partiti. Il referendum, pur con l'effetto prevedibile di una torsione fortissima della struttura politica, e con effetti vistosi sui partiti e le alleanze, è nello stesso tempo una pistola puntata sul Parlamento e una fortissima garanzia sul mantenimento del formato bipolare e dell'alternanza. Una volta esaurite le liturgie, il dialogo, l'ascolto delle forze politiche maggiori e minori, occorrerà procedere a una sintesi. E Prodi si troverà di fronte alla necessità di scegliere se cercare un compromesso al minimo, oppure se tentare la strada della fantasia politica. Per ora la melina a centrocampo continua. Ma fra qualche settimana si tratterà di vedere se Prodi ha voglia di sacrificarsi come l'ostetrico del nuovo sistema politico, oppure se impegnerà la propria funzione alla ricerca di un compromesso. Nel momento in cui dovrà decidere qual è la sua funzione, sarebbe auspicabile che la sua scelta fosse congruente con la sua storia politica.
L'Espresso, 05/04/2007
Onore al cronista
Una laurea honoris causa in giornalismo a Sergio Zavoli assomiglia a una tautologia. Laureare in giornalismo il più noto giornalista televisivo italiano: laurea e giornalismo al quadrato. Ma il fatto che lunedì scorso l'Università di Roma Tor Vergata abbia assegnato questa onorificenza a Zavoli consente non soltanto di ripercorrere una carriera ricchissima. Perché è vero che il curriculum di Zavoli, oggi senatore della Repubblica, è impressionante. Si potrebbero citare programmi come "La notte della Repubblica" o "Nascita di una dittatura", ma anche una foltissima serie di pubblicazioni, da cronista, da narratore e anche da poeta. Eppure alla fine, di Sergio Zavoli, nato a Ravenna nel 1923 ma riminese di fatto come il suo amico Federico Fellini, rimane soprattutto il cronista. Cioè il giornalista che ha reinventato il ciclismo con il "Processo alla tappa", e che ha raccontato il Vietnam, l'Algeria, la Somalia; che ha incontrato i grandi della terra, da Schweitzer a Von Braun. Ma soprattutto che ha sempre iscritto la cronaca in un contesto: storico, naturalmente, ma anche politico e in fondo morale. Sicché a ripensare ai suoi grandi reportage viene da chiedersi se esista ancora una traccia di questa forma di giornalismo: vale a dire se il lungo viaggio di Zavoli abbia lasciato il solco di una tradizione, oppure se il suo lavoro appartenga ormai a un'altra epoca, a un'altra televisione. O a un'altra cultura. Se lo è chiesto anche lo stesso Zavoli, nella sua "lectio magistralis": «Come trasmettere anche il senso delle cose comunicate se, per garantirsi il consenso del pubblico, si è fatto largo il costume di privilegiare l'effimero e l'inusuale, il suggestivo e il violento, strumentalizzando e banalizzando persino la sacralità della vita e della morte? Di questo passo, dovremo arrenderci alla spettacolarità del reale con la discolpa del disordine che lo governa?». Si tratta di una domanda a suo modo decisiva. Che presuppone un'etica del giornalismo in un'epoca che sembra rifiutare codici e sistemi di riferimento. La potenza della televisione contemporanea implica proprio la possibilità di esaltare il frammentario, lo scandaloso, il mutevole capriccio della realtà. Ritrovare nella principesca (come diceva Indro Montanelli) lezione di Zavoli i principi di un giornalismo di livello altissimo può essere anche l'occasione per domandarsi se un'altra televisione sia ancora possibile.
L'Espresso, 05/04/2007
Onorevoli e pin up il circo è lo stesso
Alla fine resterà sempre il dubbio che l'inchiesta del pubblico ministero Henry John Woodcock sia solo un frammento di una realtà assai più ampia. Che siano emersi solo episodi parziali. E dunque che Vallettopoli sia la versione "postpolitica" di Tangentopoli. Allora, anno 1992, lo scandalo politico e affaristico scoperchiato da Mani pulite investiva la classe politica della prima Repubblica, facendo emergere una colossale sindrome distorsiva. Oggi, in un paese più ilare e disincantato, la sequenza di pratiche estorsive, mezzi ricatti o ricatti interi, fotografie e filmati che passano di mano, depositi bancari in nero e soldi che passano di mano per ottenere il silenzio sembra illustrare un'Italia profondamente inquinata. Non è il caso di proporre concezioni ispirate al moralismo. I comportamenti descritti dalle intercettazioni, dai giornali di gossip, dalle istantanee rubate dai paparazzi di Fabrizio Corona, appartengono all'universo effettuale e simbolico dell'Italia contemporanea. Non ci voleva una capacità sociologica straordinaria per capire che dietro l'affresco quotidiano, futile e divertente, di Dagospia, poteva esserci una caduta dei codici comportamentali collettivi. E dunque non desta nessuno stupore il fatto che le vicende private dei protagonisti del caravanserraglio di Vallettopoli lambiscano la politica. Basta frequentare un paio di ristoranti romani e due location dell'intrattenimento mondano milanese per riscontrare che il mondo delle show girl e del potere si sfiorano, si toccano, ammiccano l'uno all'altro. Una passeggiata nei corridoi televisivi consente di raccogliere una ricchissima messe di pettegolezzi, tale da far sfigurare le disavventure della Gregoraci di turno: una raccolta di aneddoti e voci che dimostra come piacere e potere si sono intrecciati in una sorta di via sudamericana alla politica. Sicché non ha sorpreso nessuno che l'uomo più potente d'Italia, Silvio Berlusconi, abbia accettato di ritirare dal mercato le foto della figlia Barbara, sorpresa in pose esteticamente ineleganti all'uscita di una discoteca. Qualcuno ha chiesto spiegazioni? Qualcuno ha criticato pubblicamente il fatto che l'ex capo del governo abbia accettato la richiesta di un pagamento per salvaguardare il carisma di famiglia? No, mezze parole, sorrisi e sorrisetti, il solito tritacarne dei rumour e dei commenti, con l'esito scontatissimo della pubblicazione di alcune immagini evidentemente innocue su un settimanale di proprietà. Il messaggio che è stato diffuso in queste ultime settimane alla fine risulta piuttosto semplice. Tutti sono sotto osservazione, per tutti c'è un teleobiettivo e una galleria di foto sgranate. Di conseguenza tutti sono in varia misura ricattabili. Anche se non si sa qual è il prezzo autentico del ricatto. Lo scatto che fissa per sempre la Volkswagen Touran di Silvio Sircana, portavoce del governo secondo il penultimo dei dodici punti «irrinunciabili» di Romano Prodi, provoca un vistoso caso politico: qualcuno immagina dietrologie, congiure, macchinazioni, strumentalizzazioni degli avversari. Anche la costruzione di dossier sul modello dei Tavaroli boys. Ma qual è il risultato concreto dello scoop, ammesso che si possa definire tale? Semplicemente un ulteriore indebolimento della credibilità della politica. Ci vuole poco a intuire che se era stato sufficiente l'avere colto con le mani nel sacco il «mariuolo» Mario Chiesa per fare esplodere la crisi della Repubblica dei partiti, oggi il dilagare del pettegolezzo sessuale provoca comunque, attraverso continui choc mediatici, una crisi di fiducia. Legge elettorale, modificazioni costituzionali, politica economica, partito democratico, tutto passa in secondo piano. Ciò che conta nella sfera pubblica è soltanto la mondanità erotica, in tutta la sua varietà. Tanto più che ormai il gossip non ha nemmeno più bisogno delle prove, o degli indizi, provenienti dai verbali degli interrogatori o dalle testimonianze: è sufficiente, come nel caso di Clemente Mastella, il "flatus vocis" che parla di festini su uno yacht, nel clima del "sex and drugs", con l'allusione a «un politico di primo piano», per liberare la caccia al protagonista. Con il risultato che il panorama politico tende a confondersi con la scena dell'intrattenimento. Presunte show girl, sedicenti soubrette, cioè vallette, veline, letterine, schedine, abituate al modesto cachet dell'ospitata televisiva, diventano la fauna di una mondanità in cui un calciatore vale quanto un esponente politico, almeno al fine di uno scatto galeotto. Con il complemento che non troppo di rado il calciatore, nella sua psicologia vecchio stampo, sposa la velina, la finalista di Miss Italia, la ragazza immagine da salotto televisivo; oppure, come nel caso di un idolo delle serate milanesi come il centravanti Bobo Vieri, succede che l'attaccante rifiuta le pratiche estorsive dicendo: sono single, faccio la vita che mi va, delle fotografie fate quello che vi pare. Mentre per la politica non ci sono troppi rimedi: se si diffonde la convinzione che i rappresentanti del popolo si dedicano soprattutto alle notti brave, la sovrapposizione fra l'universo delle istituzioni e quello dell'intrattenimento sfrontato rischia di essere distruttiva. Vallettopoli insomma sarebbe un caso minimale se non si collocasse in uno sfaldamento dei comportamenti, e in cui ciò che dovrebbe restare privato o almeno ufficioso diventa ufficiale e pubblico. Sotto questa luce, la sensazione che l'ambiente della politica possa godere di una specie di extraterritorialità, se non di impunità, da considerare comunque con indulgenza, sancisce una distanza antropologica fra due società. C'è la comunità del glamour, a cui tutto è consentito, dal livello minimo delle feste sull'isola, soubrette e vulcani compresi, fino alle bravate in un ambiente privato che non è più vigilato da nessuna privacy, e quindi diventa pubblico, in una clamorosa e irridente parodia del principio degli anni Settanta (il personale è politico). E sull'altro versante c'è una audience di spettatori passivi, coinvolti nel piacere vicario del gossip. Insomma, non siamo più nel contesto più o meno blandamente ricattatorio del favore sessuale in cambio della scalata professionale. Non si tratta solo di pratiche che coinvolgono favori, concessioni, prestazioni, molestie respinte o accettate. C'è un'Italia guardona che assiste stranita al crollo degli standard, con un effetto di normale, fisiologica, inevitabile decadenza. Nonostante i tentativi anche goffi di circoscrivere la malattia, come i provvedimenti emanati dal garante della privacy Franco Pizzetti, l'esito sarà un'identificazione perfetta tra la classe politica e la società civile. Tra gli spiati e gli spioni. Tra i fotografi e i fotografati. Sono i nuovi fratelli d'Italia, divisi soltanto fra chi offre lo spettacolo, chi lo mette in scena, e una immensa platea che osserva la commedia. Senza applaudire e senza scandalizzarsi, ma in una condizione di atrofia del giudizio che sembra più grave di un verdetto collettivo di condanna. n
L'Espresso, 12/04/2007
Com’è bello stare al centro
Non è soltanto una categoria della politica. Richiama geometrie euclidee, un'occulta razionalità scientifica; evoca sentimenti del passato e li sublima in un uno sfumato progetto politico per il futuro. È il centro. L'ectoplasma che turba da sempre Romano Prodi; che Massimo D'Alema ha evocato come una macchinazione contro il governo. Quel centro che solleva nostalgie tali da far vibrare l'animo di chi ha ricominciato a guardare senza complessi alla prima Repubblica. Per Ciriaco De Mita, massimo esegeta della "vieille cuisine" politica, il centro non è un partito, e neppure uno schieramento: «È lo spazio della politica possibile». Lasciando intendere che per un dc di lungo corso la politica praticabile non si incarna necessariamente in soggetti prefissati. Si realizza con una serie di spinte e controspinte, fra alleanze continuamente modificabili, con quella dote manovriera che rese l'Italia un sudoku ante litteram. Era uno dei calembour preferiti dal compianto Nino Andreatta, quando il «dilettante» Silvio Berlusconi esecrava propagandisticamente l'instabilità dei governi: «Ma quale instabilità. Il governo rimaneva sempre lo stesso. Quelli che cambiavano erano soltanto i ministri». Già, ma adesso? Dov'è il centro dopo quasi un quindicennio di bipolarismo, dopo le formule maggioritarie inesorabili, "si vota di qua o di là", dopo il faccia a faccia tra due antropologie incomunicabili? Nelle nostalgie democristiane di Pippo Baudo e di Katia Ricciarelli, di cui non si dimenticano i trascorsi a favore della sfortunata esperienza di Sergio D'Antoni, quel partito denominato Democrazia europea che nasceva proprio per scomporre i poli? Oppure, guardando a ritroso, nell'insofferenza per le formule politiciste che riuniva l'establishment dietro i sublimi cinismi di Gianni Agnelli? Nel pragmatismo così disincantato di Guido Carli, testardo sostenitore di risanamenti da perseguire come ministro di Giulio Andreotti? Il centro viene da lontano. È la formula risolutiva e imprendibile che potrebbe, con il condizionale di rigore, sistemare tutti i tasselli del puzzle italiano. Con il Cavaliere bianco che appare come in un film epico, el Cid Campeador contemplante un panorama di macerie, partiti frammentati, politiche farraginose, conflitti esplosivi e striscianti, e con un colpo di spada taglia le ali, fa fuori i fondamentalisti, i comunisti, i secessionisti, gli irriducibili di qualsiasi parte e chiama i volonterosi a occupare lo spazio, per l'appunto, dell'unica politica possibile. Un'idea sovrana: ci sono riforme irrinunciabili e non rinviabili che accomunano le persone di buon senso e buona volontà, alloggiate a destra come a sinistra, nella Cdl come nell'Unione. Soltanto una fissazione culturale, un ideologismo sviluppatosi in astrazioni, impedisce che questi italiani si raccolgano nel governo delle cose possibili. Un'idea neodemocristiana? Non solo. A esporla in pubblico, per la verità, è stato uno dei grandi tecnici, l'economista Mario Monti, una figura di profilo europeo, proprio mentre destra e sinistra si apprestavano al duello fatale delle elezioni del 2006, quelle dell'Italia "spezzata". Per prenderla sul serio, occorre considerare due premesse. La prima dice: il bipolarismo è fallito. Come aveva detto una volta l'udc più a destra, l'anticasiniano Carlo Giovanardi, conversando con il teorizzatore del Partito democratico, il liberal Michele Salvati: «In questo paese è sempre stato difficile scremare una classe dirigente; e voi vorreste trovarne addirittura due, una di destra e una di sinistra...». Non troppo diverso, si parva licet, dalle boutade ironiche di Alberto Arbasino nelle sue letterine ai giornali, dai suoi esercizi di scetticismo, dai suoi raffinati esorcismi su pensieri nuovi che si rivelano vecchissimi e su idee «epocali» dettate da convenienze del momento. Come seconda premessa va preso il paradosso di Bruno Tabacci: «Non riesco a capire per quale motivo io e Enrico Letta, che la pensiamo allo stesso modo praticamente su tutto, dovremmo scontrarci in Parlamento per astratte questioni di dislocazione politica». Ora, che esista un'area omogenea al centro dell'arco politico è fuori dubbio. Si è formato una specie di pensiero unico secondo cui occorrono quote via via più ampie di mercato, presidiate ovviamente da regole snelle e condivise; ci vuole una iniezione di concorrenza per moderare i prezzi; è necessario ristrutturare selettivamente lo Stato sociale per adeguarlo alle esigenze di una società liberalizzata e a un sistema di imprese che deve misurarsi con la competizione globale, e che quindi ha bisogno di elasticità nelle procedure e di flessibilità nel mercato del lavoro. Poste queste condizioni, mancherebbe soltanto un protagonista in grado di proporsi credibilmente come la figura di riferimento dell'Italia di centro. Non tanto un politico-intellettuale come Marco Follini, e neanche i politici centristi da Pier Ferdinando Casini a Clemente Mastella (anche se gli ultimi sondaggi proiettano l'Udc e Follini verso il 7 per cento, cioè alla dimensione di terza forza, con tutte le chance di manovra che ciò comporta). Per essere decisivo il centro politico passa attraverso una scomposizione secca del sistema politico, il superamento del format bipolare, uno spettacolare "spacchettamento" dei poli. Tutto prematuro, quindi. Eppure le suggestioni sono importanti, e anche di richiamo europeo: la grande coalizione in Germania, e soprattutto l'emergere di una figura come quella di François Bayrou, che ha chiamato a raccolta una Francia profonda, insofferente della radicalizzazione fra i poteri forti di Sarkozy e l'immaginazione postpolitica di Ségolène, proponendosi come elemento condizionante di qualsiasi politica, ce la faccia o no a inserirsi nella partita Sarkozy- Royal e a giungere al ballottaggio nelle presidenziali. La convinzione che esista un'Italia volonterosa, pragmatica e indifferente alle ultime ragioni ideologiche, è forse l'invenzione più antipolitica dell'ultimo quindicennio. Nel senso che contesta la divaricazione determinata dalla formula elettorale, e giudica forzosa la separazione in due campi distinti dei riformisti. Appartiene a una cultura che accomuna personalità diverse, unite dalla nozione che il discrimine novecentesco fra destra e sinistra sia un residuo passatista. E che quindi guarda più alle figure carismatiche che non alle divisioni politiche. Per questo i riflettori si erano puntati sul convegno confindustriale di Genova, durante il fine settimana scorso, nell'attesa che il discorso di Luca Cordero di Montezemolo gettasse luce su un sentiero praticabile. È lui, Luca, il Cavaliere bianco, credibile per quasi sette italiani su dieci a destra come a sinistra? Ma il capo del movimento, non importa se virtuale o inesistente, Italia futura, ha scelto il profilo basso, limitandosi a intervenire sulla politica fiscale, auspicando che il "tesoretto" dei maggiori introiti tributari non venga distribuito con obiettivi elettoralistici. Certo che il "piano Montezemolo" risulta affascinante, glamour puro, e non solo per i sostenitori come Diego Della Valle e il network del presidente della Confindustria. L'unico problema è che l'eventuale centro montezemoliano presuppone uno sfaldamento catastrofico della struttura politica, con la spaccatura del centrodestra, il fallimento sul campo del Partito democratico, e l'implosione generale delle alleanze attuali. Ma il punto focale di qualsiasi ipotesi o progetto neocentrista (che in passato è stato attribuito anche a figure come Francesco Rutelli e all'attuale presidente del Senato Franco Marini), è soprattutto culturale. Al di là delle condizioni di fatto della politica di casa nostra, si diffonde come luogo comune la persuasione che la separazione fra destra e sinistra è un residuo novecentesco. Quasi come echeggiasse una dichiarazione d'intenti alla Celentano, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra...». O in un rifiuto estremo della cultura come nell'ultimo film di Ermanno Olmi, "Centochiodi", con il protagonista Raz Degan che si immerge in una comunità infima alla ricerca di un'autenticità preclusa dal pensiero formalizzato. Ed è anche possibile che la società contemporanea sia esausta per la guerra che da quasi un quindicennio divide gli italiani in due fazioni contrapposte, senza che si possa assistere a sintesi ragionevoli. Ecco perché funzionano le figure mediane, i terapeuti della rassicurazione, i "Doctor House" della ragionevolezza. In questo senso, dopo i Santoro e i Floris, il conduttore televisivo di sinistra veltroniana Fabio Fazio, abile a smussare angoli e contrasti, a dialogare elegantemente ora con il destro Beppe Pisanu e ora con il sinistrissimo Fausto Bertinotti, non sarà un centrista, ma è un possibile interlocutore del centro. Centro. In fondo assomiglia a una categoria dello spirito. Se non un'identità, un sentimento nazionale. Ragionevole. Anzi, ragionevolissimo, se non fosse che i più elevati ragionamenti centristi devono fare i conti con il rischio implicito in tutte le ricomposizioni. E cioè con il possibile commissariamento dall'alto della politica. Centro come consiglio d'amministrazione della borghesia, come direbbe un vecchio marxista. Senza aggiungere, per carità di patria, che a metterla anche peggio potrebbe esserci la riscossa, dolce e implacabile, dell'Italia dorotea. n
L'Espresso, 19/04/2007
Come sparla bene
C 'è una prova infallibile per verificare se un comico è veramente comico: basta leggerlo. Di solito il comico che è comico sulla scena o in televisione non è molto comico sulla pagina scritta. Dario Vergassola forse è un'eccezione. Lo conoscete, no? È quello che fa le domande, anzi, che infierisce con le domande, sugli ospiti di "Parla con me", il programma di Serena Dandini. Vergassola è un comico, o un umorista, che non ha praticamente niente di comico. È brutto, ma non bruttissimo. È una persona qualunque, ma non qualunque qualunque. Parla troppo in fretta, ma non più in fretta di Daniele Luttazzi quando è in scena, o di Fabio Fazio quando viene preso dalla frenesia. Adesso le sue domande impossibili, i suoi cortocircuiti, le sue tragedie individuali e sociali in due secondi sono state raccolte in un libro, "Sparla con me", scritto con Massimo Dimunno e Giovanni Tamborrino, prefazione di Serena Dandini (insomma, si fa per dire, 23 righe), editore Mondadori. Si tratta di un catalogo ossessivo, fatto tutto di domande retoriche, perché come dice la Dandini, «le domande di Dario Vergassola sono come i semafori collegati ai pannelli solari: sono autosufficienti, non hanno bisogno della risposta». Ogni domanda dedicata a un personaggio, secondo il modulo seguente: «Lei si occupa del degrado delle periferie. Precisamente: quante è riuscito a degradarne?». Rivolto a Martina Stella: «Lei ha frequentato un liceo sperimentale. Non trova che l'esperimento sia fallito?». Domanda a Pupo: «Ammesso e non concesso che Pupo sia un nome d'arte... di che cacchio di arte si tratterebbe?». A er Piotta: «Una curiosità: qual è il suo segreto per mantenersi sempre così fuori forma?». A Alena Seredova: «Parliamo del provino con Panariello. È vero che seppe subito che era andata bene, prima ancora di rimettersi il perizoma?» (battutaccia che spiega Vallettopoli più di molte sociologie e moralità). Naturalmente il libro non va letto in sequenza, altrimenti ci si perde in un flusso indistinto. Lo si tiene sul comodino e lo si apre a caso andando a caccia di qualche definizione su vip e svippati, e poi ci si addormenta contenti di avere trovato qualche canagliata nuova. Difetti: qualche volgarità di troppo, che invece andrebbe centellinata. Pregi: vabbé, l'abbiamo già detto che è bravo, si era già capito. In fondo è uno che l'ha rovinato la televisione, perché sarebbe stato un ottimo scrittore.
L'Espresso, 19/04/2007
Vizi privati e pubblici reality
Primissimi anni Novanta: arrivano i serial che hanno cambiato la televisione e la rappresentazione della realtà americana. Bastava lasciarsi prendere dalla saga familiare e di gruppo di "Beverly Hills 90210" per intuire che quel "teen drama" era più di un buon telefilm, costituiva una rottura di paradigma: già, come nel modello delle rivoluzioni scientifiche di Thomas Kuhn, le soap opera avevano saturato il loro ambiente semantico; il paesaggio archetipico, fisico e umano, di "Twin Peaks" di David Lynch stava sconvolgendo i canoni della narrazione televisiva, descrivendo un'America popolata di freak e imperniata su strutture narrative largamente pervase da un elemento mitico-magico. Sfidata sul suo campo, nei suoi stili e nelle sue modalità di racconto, la fiction tentava strade diverse. "Beverly Hills", un rondò di amori fra adolescenti di una ricca zona residenziale di Los Angeles, esponeva una società in bilico fra conservazione, valori tradizionali, lealtà classiche della società statunitense e innovazione estrema nei comportamenti individuali. Era uno choc, perché in quel lontano telefilm, puntata dopo puntata, venivano tematizzati i problemi centrali della gioventù americana. Droga, sesso, rapporti fra le generazioni, il sistema scolastico, la competizione, il rapporto fra individuo e collettività. Nello stesso tempo, una soap come "Melrose Place", rivolta a un target generazionale di venti-trentenni, provvedeva a mostrare tutti i tic e le idiosincrasie dell'America contemporanea. Il protagonista entrava in casa, e con una scansione inesorabile apriva il frigorifero. Per rappresentare il dogma igienista e il rifiuto dell'oralità tabagista, non si faceva che bere, mangiare, vuotare bidoni di caffè e di gelato. Una bottiglia di superalcolico si associava alla devianza. Puritani in cucina e liberal in camera da letto, gli americani. Può essere allora che sia definitiva la tesi di Aldo Grasso nel suo ultimo libro, dichiaratamente antipopperiano ("Buona maestra", sottotitolo "Perché i telefilm sono diventati più importanti del cinema e dei libri", Mondadori), secondo cui la fiction tv possiede un potere sociologico impressionante, e che l'unica, o almeno la principale, descrizione plausibile degli assetti sociali e degli stili contemporanei vada cercata nelle grandi narrazioni seriali: «Il telefilm si propone come uno specchio ideale nel quale gli autori riflettono la loro stessa immagine, innanzitutto mentale, e attraverso il quale emergono le loro pulsioni nascoste e le derive dell'immaginario». Qualcosa che sembra un frullato di Proust, Musil e Joyce, proiettati in una "imago" post-storica, per «metaforizzare al meglio le molteplici spinte, contrastanti e spesso irrazionali, dei nostri giorni». Sotto questa luce, diverrebbe ragionevole individuare nella saga concentrazionaria e medicale di "E.R" l'equivalenza del principio narrativo adottato da Philip Roth nel suo bestseller "Everyman", storia di un autunno umano dominato dai crolli corporei, da una fisicità che si infrange nella malattia. Vale a dire: la vita è un fluire accidentato che si snoda fra carotidi squarciate e emogas deficitari. Di fronte al Moloch sanitario l'individuo esibisce tutta la sua solitudine disarmata. La competenza chirurgica permette di trattare gli individui come semplici corpi, come in un transfert erotico da laboratorio, o da camera operatoria, sublimando il sadismo e l'aggressività in tecniche di intervento, salvataggi in extremis, rianimazioni furibonde. Ciò relativizza anche la morte. Il medico che deve parlare con i parenti in ansia segnala infatti che l'operazione è stata complicata, gli sforzi sono stati tecnicamente prodigiosi, mentre le ferite o i danni organici erano indicibili: e soltanto dopo una catena di elencazioni cliniche si giunge all'annuncio che il paziente non ce l'ha fatta, insomma è morto. Come se si trattasse di una subordinata incontrollabile, un inconveniente, il segno della debolezza e della fragilità del corpo nonostante la rassicurante qualità medica delle terapie e la forza della chirurgia. Ragion per cui sarebbe di qualche interesse, prima ancora di osservare come noi guardiamo la società attraverso la televisione, prendere atto di come la televisione ci guarda. Ossia come esercita la sua funzione e la sua influenza sociale, rafforzando le tendenze presenti nel costume, rendendole emblemi, intensificando orientamenti condivisi. Sotto questo profilo, è chiaro che la soap risolutiva nel volgere del secolo è stata "Sex and the City". Molto più di "Desperate Housewifes", che mantiene una traccia di inquietudine proveniente dai sogni cattivi e patinati di Lynch (e per non parlare di "Lost", serializzazione di totem e tormentoni simbolici, virtualmente inspiegabili, macchinazioni del senso, congiure della realtà ai danni dei naufraghi nello spazio del mito). "Sex and the City" era il modulo irresistibile di ciò che le donne non dovrebbero dire, secondo l'educazione classica, e che dovrebbero fare solo di nascosto. Ma lo sfondo della metropoli, della New York dei loft e dei party, dei gay e delle glamour story, dei drink e dei preservativi, proiettava i comportamenti privati su uno schermo metropolitano totale, facendo di ogni innamoramento un potenziale evento d'epoca, e del "making sex" il suo coronamento fattuale, magari faticoso o deludente quanto ineluttabile, una prova o un'ordalia del "clash" di personalità, se non proprio di civiltà: ossia la trasposizione metropolitana dei modelli geopolitici di Huntington, applicati alla relazione fra il genere femminile trionfante e gli uomini-fuchi. In ogni caso, la tv americana, i grandi serial di Fox, le migliori soap formano la propria visione delle cose mentre la espongono. La differenza con il panorama televisivo italiano è abissale, proprio in quanto invece la televisione domestica risponde ancora a modelli di conferma e rassicurazione, che di solito fanno riferimento alla memoria (come nell'esemplare e fortunato "Raccontami"). È quindi per un chiaro riflesso paternalista che la fiction italiana tende a ribadire il passato più che a raffigurare il presente. Non si spiegherebbe altrimenti l'affollamento di pontefici, da papa Giovanni a Luciani a Wojtyla, e l'inflazione di Padre Pio, a suffragio di una religiosità descritta come stereotipo collettivo, non impegnativo moralmente ma coinvolgente in via sentimentale: un cattolicesimo del cuore funzionale sia alla propaganda di Forza Italia sia alla tradizione rappresentata dall'Udc e dalla sensibilità della sinistra "postsecolare". Si tratta di un codice mélo che può investire tanto la vicenda di Edda Ciano o Maria José quanto la tragedia delle foibe, in cui si accenna al revisionismo senza implicazioni politiche stringenti, ma comunque ammiccando a destra. Quindi per cercare tratti di realtà collettiva, "modelli" di valore (o di disvalore) risulta più agevole rivolgersi ai grandi reality: in special modo al "Grande Fratello", dove la trasposizione dalla strada allo show è immediata. Gli italiani dei reality parlano male, con forti accenti regionali, esibiscono tatuaggi, praticano attività erotiche senza lacci né lacciuoli, e soprattutto complottano sottovoce tutti contro tutti, a testimonianza di una società afasica e attenta più che altro ai rapporti di potere e di consorteria, a qualsiasi livello. Mentre "L'isola dei famosi" dovrebbe dire qualcosa dell'inclinazione nazionale al sadismo, cioè al gusto infantile di deridere vip e semi-vip, con una sorta di risarcimento risentito, una cattiveria che provoca continui piaceri succedanei. Oppure, sempre per andare a caccia di realismo, o almeno di "realiticità", è ancora conveniente l'immersione nel format del talk show. Perché nei salotti serali si allestisce il vecchio dibattito, ma praticato tutto in chiave "post", di solito come contrapposizione senza scampo, fra alternative e inimicizie politiche ultimative, incomunicabili, uno scontro di antropologie all'ultimo sangue. Nel flusso ininterrotto della seconda o terza serata, nella "reality fiction" della discussione, Bruno Vespa pratica il suo ruolo semi-istituzionale, Giovanni Floris con "Ballarò" dà un contorno di razionalità politica al centrosinistra, mentre Michele Santoro esplora le alternative radicali e Enrico Mentana alterna con una sua sapienza giocolieristica l'informazione e l'intrattenimento. Ma forse per trovare nella televisione "discutidora" il sentimento dominante o più in voga vale la pena di seguire i programmi "laterali" e di nicchia: la coppia Ferrara e Armeni a "Otto e mezzo", incarnazione di un ossimoro politico, specializzata nel proporre su ogni argomento rotture di fase, scarti dalla convenzione, punti di vista eccentrici. Le interviste di Daria Bignardi, con il loro andamento ipnotico, con il loro ritmo inesorabile. E anche le invenzioni di Antonello Piroso, con il suo sforzo di unire cronaca leggera e approfondimento pesante; o la conduzione calcistica, competente anche se "di gola", di Ilaria D'Amico, un cult della domenica in cui passa la visione del calcio come fenomeno insieme importantissimo e inessenziale. E non è certamente un caso il successo via via più incontrastabile del pool di Fabio Fazio, forse l'incarnazione tv più credibile del partito democratico in veste veltronica, un infotainment che crea consenso, anzi, che somma consenso a consenso, riuscendo perfino a proporre al pubblico in prima serata scrittori come Mario Rigoni Stern e Luigi Menghello. Eppure, per andare alla ricerca di come la televisione ci guarda, è tutto dire che il test più credibile sia ancora "Un medico in famiglia", la storica fiction di RaiUno giunta ormai alla quinta edizione. In cui la casa color salmone si è spalancata ai fenomeni sociali, e dove Lino Banfi padroneggia sempre più a fatica la sfasatura tra la domesticità dialettale, con i suoi proverbi problematici, e l'irruzione multiculturale. Tutt'al più si potrà notare ancora la deprimente sfasatura di qualità, salvo pochissime eccezioni, fra i serial italiani e quelli americani. E consolarsi con la constatazione di Aldo Grasso: «Spesso si fa fatica a trovare un romanzo moderno o un film che sia più interessante di un buon telefilm. C'è in giro, per esempio, un'opera che rappresenti un viaggio metafisico fra i segreti del Male più avvincente di "I segreti di "Twin Peaks"?». Con la conclusione implicita che per cercare l'arte, e l'interpretazione della società, ci vuole la meta-industria del simbolico. Perché sembra proprio che siano le storie, o meglio le "story", a fare la storia. n