L’Espresso
L'Espresso, 26/04/2007
Il profeta dell’Emilia
In questa casa la presenza dei morti è quotidiana e anche estremamente vitale... Era il Venerdì santo, e su "Tv7", il magazine del Tg1, andava in onda un servizio di Giorgio Tonelli dedicato al "reduce", l'ex leader dei Cccp-Fedeli alla linea, e poi dei Csi-Consorzio suonatori indipendenti, e quindi dei Pgr (acronimo che vuol dire "per grazia ricevuta"), il "punk cattolico" Giovanni Lindo Ferretti. Sei minuti essenziali, con la fotografia di Giovanni Veronesi e il montaggio di Roberto Nerozzi. Essenziali perché consentivano di vedere la casa di sasso di Ferretti a Cerreto Alpe, sul crinale dell'Appennino reggiano, cioè il luogo del suo «ritorno». E riuscivano a mostrare il lato ipnotico, infinitamente suggestivo di questo visionario e realistico profeta dell'Emilia più lontana, aspra, povera e sconosciuta. Il ritorno a casa di Ferretti è il culmine simbolico di un viaggio che comincia dal cattolicesimo dell'infanzia, si sviluppa in trent'anni di religione comunista, nell'urlo punk che invoca il Patto di Varsavia, un piano quinquennale e «la stabilità», per poi tornare alla fede tradizionale, con una luce negli occhi che sembra quella dei bambini: «Io non ho paura di nulla», dice Giovanni Lindo, forse riecheggiando il «non abbiate paura» di Karol Wojtyla. E mentre i più volgari fra quelli che gli sono diventati ostili scrivono sui muri «Giovanni Lindo Ferretti, dalle pere a Pera», lui getta il suo sguardo sul mondo, si espone come un monaco predicatore, con la sua faccia bellissima da contadino medievale, un Wiligelmo vivente: e senza fare prediche, semplicemente annunciando una verità. Non ci vuole molto a fare televisione, se c'è un'idea e la voglia di raccontare. Ci fosse stato qualche minuto in più, forse si potevano vedere i cavalli e i cani di Giovanni Lindo, i boschi dell'Appennino, quella natura ancora poco corrotta che lascia uno spiraglio a qualche speranza. Ma in quella casa che forse assomiglia alle case di Silvio D'Arzo, a servizio finito restava sullo schermo l'alone della sincerità assoluta di Giovanni Lindo Ferretti, insieme al suo pudore. Per la prossima Pasqua, qualcuno si inventi un venerdì di Passione in cui Ferretti possa raccontare la sua casa, i suoi animali, i suoi pensieri, i suoi morti così vitali. Niente come il paradosso illumina la verità. E quei sei minuti a Pasqua non erano solo un frammento luminoso di televisione, erano un grano lucente di verità.
L'Espresso, 26/04/2007
Quel lungo applauso per dire addio a Silvio
Con una delle sue battute a effetto, Silvio Berlusconi ha tentato di riprendersi Pier Ferdinando Casini e soci. Accolto da un'ovazione inattesa dal congresso dell'Udc, ha detto, sprizzando soddisfazione: «Ma non avrò mica sbagliato indirizzo? Qui mi sembra di essere a un congresso di Forza Italia». Tutto sembrava confermare ciò che Berlusconi ha sempre sostenuto: le giravolte di Casini sono puro teatrino politico, gli elettori dell'Udc torneranno nella Casa delle libertà, perché «senza di me non vanno da nessuna parte». In realtà Berlusconi, con il suo eterno ritorno, ha mostrato ancora una volta il suo carisma: eppure si è preso la scena, ma non si è preso il congresso. Ha oscurato per qualche ora Pier Ferdinando, ma non ha scalfito la posizione assunta dall'Udc. Bruno Tabacci ha confermato la sua linea di distacco dalla Cdl, nella convinzione che l'area centrista ha tutto da guadagnare da una scomposizione degli schieramenti attuali. Rocco Buttiglione ha detto che il Cavaliere «è il passato». Casini ha chiuso il congresso sottolineando nuovamente le differenze dalla Cdl («Abbiamo salvato l'onore dell'opposizione votando la missione in Afghanistan»). Lo confortano i sondaggi, che sembrano favorevoli per il suo partito, nonostante la sua posizione, né fuori dal centrodestra né con la Casa delle libertà, costituisca uno schema politico non chiarissimo. In ogni caso la manovra a mani libere di Casini assicura all'Udc una centralità e un potere di interdizione che sulla base dei voti e delle percentuali non avrebbe affatto. Sono le gioie della proporzionale, e di tutti i sistemi che tengono in vita le forze minori. Ma è anche un segno politico consistente, perché alla fin dei conti il congresso dell'Udc ha mandato in giro alcune notizie tutt'altro che insignificanti. Come nelle barzellette, la prima notizia è, per Berlusconi, quella buona: la sua figura è ancora quella di riferimento, è il federatore dei moderati, l'uomo della provvidenza con l'alone della storia. Attraverso l'ovazione congressuale, il corpo dell'Udc gli ha trasmesso il proprio amore viscerale, la gratitudine per il passato, quando Forza Italia ospitò diversi naufraghi della Dc (e non soltanto della parte dorotea), tenendoli in vita alle elezioni del 1994. Ma poi come in tutte le barzellette viene la notizia cattiva. Vale a dire che dopo avere riconosciuto al Cavaliere la dimensione dell'icona politica, la sua appartenenza al Pantheon del partito dei moderati, l'Udc gli ha anche spiegato con aperte parole che il centrodestra può, e anzi dovrebbe e deve, fare a meno di lui. Quindi, al caloroso riconoscimento sentimentale si affianca una profonda distanza politica. Perché naturalmente l'Udc sta guardando avanti. Come sempre sono i democristiani a fiutare meglio, con l'olfatto sopraffino dei segugi, le tracce nell'ambiente politico: si tratta di scovare nel centrodestra una leadership diversa. Di far cominciare, finalmente, l'età postberlusconiana. Per dare un'opportunità alle generazioni politiche successive, prima che la vitalità, senile ma vitaminica ed energizzata, del Cavaliere conduca tutti i suoi possibili successori a un triste viale d'autunno, nel cadere delle "feuilles mortes". È per questo motivo che al congresso dell'Udc è stato accolto con notevoli applausi anche Gianfranco Fini. Perché il popolo dell'Udc sa che l'eredità di Berlusconi si disputerà proprio tra l'ex democristiano Casini e l'ex «fascista del 2000» Fini (e naturalmente gli udicini non nascondono la convinzione che Pier Ferdinando sia favorito nella corsa alla poltrona più alta, proprio perché Fini è gravato da troppe zavorre culturali e ha tentato strappi, modernismi ed eclettismi fin troppo estemporanei). Se viene fuori un messaggio è che l'Udc è intenzionata a tenere aperta la fase di disimpegno per il tempo necessario a dare corso alla fisiologia della politica, e cioè a individuare il successore di re Silvio. E come si può capire, la linea di Casini è complementare agli interessi di diversi settori del centrosinistra. Anche nell'Unione c'è bisogno di tempo per fare emergere una leadership nuova. In particolare nel partito democratico occorre il tempo sufficiente a designare il capo del partito e il futuro candidato alla competizione elettorale (che possono anche coincidere, ma non necessariamente). Quando gli interessi convergono, il terzo può anche godere. Significa che Romano Prodi può guardare con maggiore tranquillità alla durata del suo governo. Mentre per ciò che riguarda il centrodestra, il messaggio di Casini dice che è inutile cercare spallate contro Prodi: è arrivato invece il momento di passare alla politica.
L'Espresso, 03/05/2007
Simona che sventura
Regola numero uno, se si parla di televisione: non maramaldeggiare. Per cui meglio non prendersela con "Colpo di genio", il programma con Simona Ventura e Teo Teocoli, colpito e affondato da un pollice verso universale. Parce sepulto. Qui si fa un po' di analisi sul perché la Ventura ha fallito. Ma come, la grande materialona della nostra tivù, l'energetica e vitaminica "Mona", la donna che non conosce fallimenti, che ha salvato un Sanremo, che furoreggia con il suo vigore televisivo. E il fuoriclasse Teocoli, che gli è successo? E insomma, che cosa è andato storto? Come si sa, i disastri non hanno una sola causa. Come spiegherebbe in questi casi il maestro dei modelli matematici "catastrofici", René Thom, occorre una serie di coincidenze drammaticamente sfavorevoli perché la continuità si interrompa, il pack cominci a rompersi, e i grandi personaggi della tv generalista rivelino improvvisamente crepe che partono dalla testa e si diramano, come nei migliori cartoni animati, tipo Gatto Silvestro. Quindi l'elenco delle cause avverse sarebbe lungo. Programma spaventosamente brutto, e vabbé. Gli inventori portavano le loro povere cose. Teo Teocoli non sembrava molto ispirato, anzi: quando si va in prima serata a fare l'imitazione di Tony Dallara, anche il pubblico tradizionale di Raiuno, comprese le pensionate e gli anziani sonnecchianti, dice: uffa, la so già. "Bambina Bambiiiina...". E anche "Come prima, più di prima...". Mutatis mutandis, sarebbe come se Neri Marcorè, per imitare un uomo politico, facesse l'imitazione di Amintore Fanfani: le nonne si chiedono, ma è vivo o è morto? Eppure il fallimento investe prima di tutto lei, Simona. Perché come dicono i tecnici, sulla base dei dati di audience, non è riuscito il "trapianto" della Ventura dal pubblico "giovane" di Raidue al pubblico "anziano" di Raiuno. Non è certo che il pubblico di Raiuno sia fatto solo da vecchi e babbione, ma di sicuro la Ventura non dovrebbe ignorare l'effetto disastroso che hanno i tatuaggi sulla fascia anziana. Secondo un'interpretazione molto borghese, vanno sulla principale rete pubblica solo persone borghesemente accettabili, di standard medio, senza bizzarrie. Quindi, se vorrà ritentare l'avventura, Simona sa che ha una sola alternativa. Farli sparire, i tatuaggi. Con il laser, possibilmente; oppure, se è affezionata a quelle schifezze, dicono le nonne, almeno si copra, si copra.
L'Espresso, 03/05/2007
Gentiloni? No, grazie
I liberali veri non guardano in faccia nessuno. E Franco Debenedetti, ex senatore diessino, ma soprattutto spirito libero di quella sinistra che ha fiducia nel mercato, non ha l'abitudine di mandarle a dire. Il suo ultimo libro, "Quarantacinque per cento. Una critica liberale al progetto Gentiloni sulla tv" (editore Rubbettino), è un attacco totale a una delle leggi totem dell'Unione, vale a dire il ddl presentato dal ministro delle Comunicazioni del governo Prodi il 16 ottobre 2006, intitolato: "Disposizioni per la disciplina del settore televisivo nella fase di transizione alla tecnologia digitale". Un progetto di riordino del sistema televisivo che viene dopo la legge Gasparri, quella che aveva inventato il Sic, cioè il "Sistema integrato delle comunicazioni", per stemperare in un insieme indefinibile la posizione dominante di Mediaset; e che si propone come un importante strumento di modernizzazione dell'offerta televisiva nel nostro Paese. Fin dalla sua presentazione, il ddl Gentiloni ha raccolto diverse obiezioni, non solo da destra. Alessandro Penati ha scritto che si tratta di una riforma che «guarda nello specchietto retrovisore». Secondo Debenedetti, il cuore malato del progetto legislativo del centrosinistra è proprio nel tetto che si vuole imporre alla raccolta pubblicitaria da parte di ogni soggetto televisivo. Una misura illiberale e contraria alla logica del mercato, per un verso; e per l'altro la dimostrazione fattuale che il centrosinistra non ha capito l'essenza del sistema tv e della sua evoluzione. Secondo l'ex parlamentare ds, tutta la produzione legislativa sul settore televisivo è percorsa da un unico filo conduttore: «Il desiderio di modificare uno stato di cose considerato non accettabile. Anziché indirizzare il futuro, ripristinare il passato per cambiare il presente». Lo schema esposto nel libro (suffragato da contributi specialistici di Paolo Buccirossi, Emilio Pucci e Vincenzo Zeno-Zencovich) è presto detto: il sistema della comunicazione è da tempo in perenne turbolenza, determinata dal crescere delle opportunità offerte dalla tecnologia. Pretendere di ordinarlo predeterminandone le caratteristiche significa rincorrere una realtà che si trasforma in continuazione, e quindi mettere briglie indebite al mercato. Lo stesso duopolio è una «anomalia presunta», dal momento che la concentrazione nel mercato televisivo «è un fenomeno naturale, ovunque nel mondo». In realtà la critica più ovvia all'analisi di Debenedetti riguarda il fatto che l'anomalia di sistema sarà pure presunta, ma quella che coinvolge il politico Berlusconi proprietario di metà del duopolio è evidente. Ma secondo l'autore questo problema non si risolve con una legge ad personam, confondendo il conflitto d'interessi con il funzionamento del mercato. La legge Gentiloni è una legge «ideologica». Per assecondare nel modo più adeguato a una democrazia moderna la trasformazione del sistema televisivo, occorre rinunciare alle ipotesi «costruttiviste», e favorire in ogni modo l'articolazione dell'offerta, in modo che sia la concorrenza a garantire la libertà di espressione.
L'Espresso, 10/05/2007
Televisione È tutto poco serial
La fiction sulla fiction. Ovvero la meta-fiction. Un "effetto notte" sui teleromanzi trash. Dopo le prime puntate di "Boris" (diretto da Luca Vendruscolo, che è anche lo sceneggiatore con Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre, da un'idea di Luca Manzi e Carlo Mazzotta; in onda il lunedì alle 23 su Fox) non è facile dire se questo serial colpisce nel segno. Certo, almeno per ciò che riguarda l'ambientazione e i personaggi si avverte un sapore di verità: un misto di cialtroneria e di mediocre ferocia, il cinismo tipico dell'ambiente, l'approssimazione come metro e il pressappoco come metodo dell'agire televisivo, sia nei comportamenti professionali sia nei rapporti personali. Ciò che va chiarito è se la balordaggine della tv abbia una possibilità di attrarre il pubblico e farlo diventare partecipe. Perché "Boris" presenta caratterizzazioni estreme, personaggi ossessivi, "tipi" stressatissimi sul piano stilistico e comportamentale: parodie più che figure reali o realistiche, iperboli anziché ritratti, tic e soprattutto nevrosi al posto dei giochi di personalità. Può essere una scelta plausibile anche questa. Una via italiana alla fiction dove il grottesco e il sarcastico fanno aggio sull'obiettività. E di sicuro è divertente registrare il candore crudele con cui Caterina Guzzanti sevizia una delle figure chiave, lo stagista (vittima televisiva a suo modo socialmente esemplare del mondo della precarietà trasportata nell'universo dell'effimero: una precarietà al quadrato). Ma può anche trattarsi di una soluzione domestica per ovviare alla carenza di mezzi. Mentre gli americani possono permettersi investimenti monstre, gli italiani devono buttarla sull'inventiva, sullo scarto laterale. In passato ci sono esempi gloriosi di successi realizzati per questa via. Alcuni capolavori della commedia di costume, come "Il sorpasso" e "I mostri" (i due film di Dino Risi, appena restaurati, sono stati presentati in questi giorni su Sky Classic), appartengono proprio al genere dell'artigianato che diventa opera assoluta. Tuttavia la fortuna di prodotti come "Boris" dipende dall'immedesimazione del pubblico. Cioè da una conoscenza diffusa, dalla nascita del tormentone, dal passaparola. E quindi dai grandi numeri. Mentre con un prodotto di nicchia si rischia di restare alla fase sperimentale. In attesa che qualcuno capisca l'esperimento e lo traduca in sitcom per il pubblico generalista.
L'Espresso, 10/05/2007
Anche i compagni divorziano
C'è stato un momento speciale al congresso dei Ds, in cui l'emotività ha preso il sopravvento sulla politica. E in quell'istante molti hanno avuto la sensazione che la decisione di Fabio Mussi, e dei sottoscrittori della seconda mozione, di non confluire nel futuro Partito democratico fosse un eccesso di razionalità, quasi il frutto di uno schematismo. Poi, a congresso concluso, si è avuta la notizia dell'uscita dai Ds anche di Gavino Angius, che aveva lasciato il Forum Mandela di Firenze in posizione problematica rispetto alla segreteria e al processo di fusione con la Margherita, ma che sembrava orientato a non autoescludersi dal partito. Viene da chiedersi quali sono le ragioni che hanno impedito a dirigenti come Mussi e Angius di restare nell'alveo del Partito democratico. In tutte le esperienze della sinistra europea, accanto a posizioni moderate si sono espresse sovente anche linee più radicali. Quindi può destare un certo stupore che un gruppo di dirigenti, di parlamentari, di eletti nelle istituzioni territoriali abbandoni un partito come i Ds, cioè un partito strutturato, nel quale da tempo convivono orientamenti di differente ispirazione politica. Perché se ne vanno, allora, Mussi, Angius e tutti gli altri (fra i quali spicca simbolicamente la figura di Olga D'Antona)? In questi casi è facile cedere all'interpretazione più scettica, secondo cui con la nascita del Pd si apriranno a sinistra opportunità insperate, e la professionalità tecnico-politica dei dirigenti ex diessini li porterà a un ruolo estremamente significativo nei processi di ricomposizione della "sinistra-sinistra", in particolare rispetto alla galassia di Rifondazione comunista (che dopo l'ascesa di Fausto Bertinotti alla presidenza della Camera ha un deficit di visibilità sul piano della leadership). Ma nella realtà le cose non sembrano stare proprio così. Con l'abbandono dei Ds, i fuorusciti si troveranno nel mare magnum di una sinistra in rifacimento. Probabilmente privi di una vera struttura organizzativa, dotati di risorse economiche incerte, dovranno combattere a mani nude ogni giorno per conquistarsi uno spazio nel dibattito politico. Dunque le ragioni dell'esodo non appaiono affatto legate a una cifra opportunistica. È più probabile invece che al congresso di Firenze si sia consumata l'ultima tra le rotture che hanno afflitto la sinistra nel corso di un secolo. Ed è notevole, per certi aspetti, che la frattura sul Partito democratico avvenga nel nome di una visione "socialista", cioè su una concezione largamente ancorata al Novecento. Evidentemente, e sia detto come un riconoscimento, negli esponenti della sinistra italiana esiste ancora una serie di complessi simbolici che risultano determinanti nelle scelte politiche. Un legame, una fedeltà, l'ancoraggio a una tradizione e a una cultura. Tutto questo attesta non soltanto la consapevolezza, bensì anche la nobiltà e la perfetta buona fede delle scelte. Soprattutto se si pensa alla centralità pubblica che assumerà nei prossimi mesi l'evoluzione del Partito democratico, alle discussioni che ne seguiranno, alle opportunità di conquistare cariche di rilievo. Mussi e i suoi compagni di avventura entrano invece in un orizzonte dominato dall'incertezza. Ci sono a sinistra una serie di cantieri aperti, ma i cui lavori non sono ancora effettivamente cominciati, e che non si sa a quali risultati condurranno. Si parla già ora di due sinistre (il Partito democratico più vicino al centro e l'arcipelago della sinistra "non-moderata"), ma per la verità al di là del Partito democratico le sinistre sono più d'una. Infatti a fianco di Rifondazione, che sta attraversando un periodo di profondo riallineamento ideologico, rinunciando di fatto al suo codice genetico comunista, c'è il cantiere della possibile ricomposizione socialista, imperniata sullo Sdi di Enrico Boselli e sulla partecipazione di esponenti di lungo corso riformista come Lanfranco Turci, mentre rimane da osservare quale sarà l'evoluzione dei Verdi e dei Comunisti italiani. Per ora quindi prevale la sensazione di una notevole precarietà. Mussi, Angius e gli altri se ne sono andati per mantenere un legame fra le proprie scelte e un assetto politico di riferimento. È improbabile che possano avere successo, e la loro scelta complica e complicherà la vita a tutto il centrosinistra. Ma è una scelta dettata da una volontà di coerenza, dal riferimento a un codice politico. Di fronte ai trasformismi della postpolitica, tanto vale riconoscere la bontà delle intenzioni, con l'augurio che la strada lastricata in modo così ammirevolmente "vintage" non porti come nelle peggiori tradizioni in una direzione infernale.
L'Espresso, 24/05/2007
Ma che colpa hanno i Vanzina
I Vanzina sono gente chirurgica: ancora adesso a rivedere certe sequenze di "Sapore di mare", anno 1982, ci si compiace per la precisione con cui infilano le debite canzoni nella trama. Poi vabbé, c'erano attori un po' così, a parte quella Virna Lisi diveggiante sul profilo eccelso della sua parte: se uno ci mette Jerry Calà, sa che Jerry Calà sa fare Jerry Calà, non l'attore classico. C'era in ogni caso una certa attesa per la produzione di Canale 5 intitolata "Piper", il "mitico" (come dicono le veline) locale di Alberico Crocetta inaugurato nel febbraio 1965, 42 anni fa. Storia canonica. La ragazza veneziana viene a Roma a cercare il successo come cantante. Acconciatura simile a Patty Pravo, anche se «tutti i personaggi ecc. ecc.». Prima le frustrazioni e poi il successo sulle note di "Che colpa abbiamo noi". Clou in cui dovrebbe scattare la tempesta sentimentale, il brivido atteso. Scatta? È scattato? Diciamo così: l'ambientazione era buona, il materiale d'epoca conmprendeva anche la Bianchina, l'irripetibile minuscola rivale della Cinquecento prodotta dall'Autobianchi (discutibili invece certi anacronismi lessicali: davvero si diceva "bucare lo schermo" nel '65? Controlleremo). Quello che invece non funzionava era la caratterizzazione dei personaggi. Perché i Vanzina hanno avuto paura dell'effetto lacrima, del rischio revival, del lato nostalgia, e quindi hanno tenuto la recitazione su un tono fra l'ironico e il macchiettistico. Massimo Ghini, giornalista di sinistra con occhiali scuri da rimorchiatore, assomiglia effettivamente almeno a un direttore di grande settimanale. Anna Falchi parlava con l'accento romagnolo che non hanno più neanche le romagnole. Il clima era quanto di più romanesco si potesse creare, grazie anche al più romanesco di tutti, il "tassinaro" Maurizio Mattioli. Consapevoli di avere messo insieme un feuilleton generazionale, i Vanzina ci hanno infilato dentro citazioni cinefile come la Falchi che imita lo spogliarello della Loren davanti a Mastroianni in "Ieri, oggi e domani" (la Falchi, comunque, mica male, a parte l'accento iperbolico: rispetto a Martina Stella sembra un'attrice, e la ripescata Carol Alt una grande interprete). Sono prese di distanza, ammiccamenti ai critici. Ma senza i Rokes e l'Equipe 84, il Piper non dice granché. Aspettiamo un altro capitolo, e qualcuno che rifaccia come si deve Shel Shapiro e Maurizio Vandelli.
L'Espresso, 24/05/2007
La Rai è morta ma non lo sa
A raccontarlo non ci si crede. Soltanto in un non-mercato come quello del sistema televisivo italiano poteva accadere che uno dei due rami dell'oligopolio, Mediaset, acquisisse dagli spagnoli di Telefonica la struttura creativa e produttiva, Endemol, che fornisce i programmi di massimo ascolto della Rai. Regala anche alcune patacche, per la verità, tipo "Colpo di genio": ma in qualsiasi arena di mercato, in altri settori economici, una qualche autorità antitrust avrebbe acceso fari e faretti sulla transazione, a causa di un intreccio anticoncorrenziale fin troppo evidente. Invece il settore televisivo assiste con stupore ammirato e comunque senza troppo scandalizzarsi a un'operazione che non si sa come definire: endogamia televisiva, intreccio incestuoso fra soggetti che dovrebbero essere in concorrenza, proliferazione di conflitti d'interessi che nessuna norma e nessuna agenzia di controllo sembrano ormai in grado di correggere, a dispetto dei progetti di ridisegno del sistema tv e delle norme sul conflitto d'interessi. A cui si aggiungono veli di ipocrisia, e aria di superiorità internazionale rispetto ai ragionamenti da cortile di casa, quelli che chiamano in causa la politica nostrana. Perfino il direttore generale della Rai, Claudio Cappon, che minimizza, per prudenza: «Basta con questa impostazione tutta domestica, l'Italia è solo uno dei 25 paesi dove opera Endemol». Ora, che il mercato televisivo sia una finzione giuridica e politica dovrebbe essere fuori discussione. Ma registrare le parole di Piersilvio Berlusconi e Fedele Confalonieri che garantiscono che Endemol resterà un'entità autonoma, attiva e florida grazie alla propria creatività, completamente libera nell'azione e rispettosa del rapporto con la Rai, provoca un'impressione singolare: non dissimile, in fondo, dall'effetto che hanno sempre provocato gli spergiuri con cui Silvio Berlusconi è abituato a garantire che le reti Mediaset operano liberamente, in modo perfettamente autonomo dalla politica e dalla sua volontà. Anzi, talvolta premurandosi di aggiungere, con un tocco da fuoriclasse, che l'informazione Mediaset, i telegiornali, le rubriche e i talk show sono covi della sinistra. Tuttavia si può anche prescindere per qualche momento dal timore che Mediaset diventi padrona di spazi e quote di ascolto, nonché di pubblicità qualificata, della Rai. È vero che la libertà creativa e l'autonomia della futura e mediasettizzata Endemol dipendono esclusivamente da un atteggiamento discrezionale di Mediaset; ma non è il caso di sottilizzare, dicono le parti più interessate, e neppure di nutrire sospetti preventivi. Sarà per questo che il capo del governo di centrosinistra, Romano Prodi, ha assunto una posizione di serenità sovrana, caratterizzata dall'ottimismo sulle sorti dell'emittente pubblica e da un atteggiamento politicamente generoso verso l'altro ramo del duopolio: «Vedo con favore il rafforzamento di un'azienda italiana, che in questo modo incrementa anche un certo tipo di esperienza e di conoscenza». Mentre il ministro delle Comunicazioni, Paolo Gentiloni, ha parlato dell'acquisizione di Endemol come di un successo, «la spinta verso la diversificazione di un settore, che noi dobbiamo incoraggiare». A sua volta, Pier Luigi Bersani non si è mostrato preoccupato per il rafforzamento di Mediaset, che potrebbe diventare il maggiore fornitore della Rai, in quanto «l'azienda Rai farà autonomamente le sue scelte». Ottimo. Da quanto si capisce, i vertici di Mediaset e Fininvest si preoccupano di certificare con belle dichiarazioni pubbliche che Endemol resterà un soggetto autonomo, che non ci sarà nessun contrasto con la Rai per ciò che riguarda programmi popolari come "Affari tuoi" e di successo cult come "Che tempo che fa" di Fabio Fazio, e che "La prova del cuoco" e programmi affini resteranno un patrimonio di audience della tv pubblica. Anzi, per ciò che riguarda proprio il programma di Fazio, Berlusconi junior ha dichiarato ad Antonio Dipollina de "la Repubblica": «Per Fabio non cambierà nulla. Il produttore non sarà Berlusconi Silvio, ma sempre Endemol guidata solo da logiche di mercato. Mi piacerebbe chiamarlo al telefono, sento che ci faremmo due risate cordiali. Non solo: ne approfitto per dire a Fazio che se ha qualche idea per i contenuti mi piacerebbe poterne parlare». Uno spirito polemico potrebbe concentrarsi su queste affermazioni e rilevare semplicemente che esse prescindono da qualsiasi logica fattuale. Sono parole. Peggio, sono il riconoscimento a priori che in futuro l'azione di Endemol, cioè in ultima istanza di Mediaset, dipendono esclusivamente da un'intenzione benevola della dirigenza berlusconiana. Il che non sembra deporre a favore del funzionamento razionale del mercato. Anzi, si configura una specie di privatizzazione ermafrodita, in cui tutto appare affidato a decisioni discrezionali, alla buona disposizione di spirito delle reti Mediaset. A una visione oggettiva, o anche solo banalmente empirica, del mercato televisivo, si tratta a prima vista di una mostruosità funzionale; in secondo luogo, che le autorità di garanzia non siano in grado di intervenire né di spendere una parola su un caso così plateale di ulteriore distorsione della concorrenza costituisce un nuovo straordinario capitolo del pasticcio televisivo all'italiana. D'accordo, siamo nella terra e nell'epoca del capitalismo matrioska. Ma che Mediaset si ritrovi felicemente incinta di spazi, programmi e contenuti della sua concorrente Rai bisognava ancora vederlo. Anche perché, come ha rilevato Marco Mele su "Il Sole-24 Ore" all'indomani della transazione con Telefonica, «quest'accordo, piuttosto, mostra un servizio pubblico più debole, a parte i flop di ascolto e il pasticciaccio brutto della governance. Mediaset si diversifica e s'internazionalizza a un passo ben diverso dalla immobilità della Rai». Sono considerazioni che trasferiscono l'attenzione dal caso Endemol al deficit strutturale della Rai. Deficit di iniziativa, di ascolti, di rinnovamento tecnologico, di strategie di mercato. Sempre secondo "Il Sole-24 Ore", Mediaset «digitalizza più frequenze, entra nella pay per view - e da fine anno forse anche nella pay tv - e in nuove nicchie di mercato (l'home shopping, i canali per bambini) con il digitale terrestre, realizza una rete mobile in Dvb-h» (cioè basati sulla tecnologia che consente di spedire pacchetti di tv via Internet sulla telefonia cellulare). Di fronte all'attivismo di Mediaset, l'immobilismo della Rai «ingessata» si staglia quindi come un problema nazionale. Mentre Berlusconi corre, l'emittente pubblica arranca, sfiancandosi in diatribe di bassa macelleria politica. Dice Pier Luigi Celli, storico ex direttore generale della Rai, ora a capo della Luiss: «Mentre alla Rai si sono rosolati per mesi per trovare il modo di sostituire il direttore di RaiDue Antonio Marano, Mediaset ha comprato il colosso mondiale dei contenuti. Lo squilibrio è tutto qui». Già: un consiglio d'amministrazione indebolito dal rinvio a giudizio dei membri di centrodestra in seguito al caso Meocci (l'ex direttore generale dichiarato incompatibile, con il codicillo della multa di 14,3 milioni alla Rai); un consigliere, Angelo Maria Petroni, sfiduciato dal ministro dell'economia Tommaso Padoa-Schioppa ma sostenuto a lame roventi dai berluscones; il direttore Cappon alle prese con le nomine bloccate, le strategie frenate, gli ascolti calanti, una serie di flop da rasentare l'assurdo, dalla Ventura a Funari. E ora il blitz clamoroso di Mediaset. Ce n'è abbastanza per sollecitare misure della massima urgenza. «Macché urgenza, qui siamo al dramma», replica Celli: «Se circolasse un po' di buonsenso, si approfitterebbe dell'affare Endemol per cambiare marcia. Fare piazza pulita e impostare una strategia seria dal punto di vista societario, aziendale e industriale. Vale a dire che risulta ormai indispensabile differenziare funzionalmente la Rai, separando il cosiddetto servizio pubblico, affidato al canone, da una Rai commerciale, in grado di stare sul mercato. Da una parte una tv "minolizzata", per capirci, e dall'altra una entità televisiva finanziata dalla pubblicità. Altrimenti, continuare a far gestire la Rai da ex politici significa consegnarla al fallimento». Sono le linee tradizionalmente care a Celli e che ora vengono riprese concettualmente nel complesso edificio giuridico preparato dal ministro Gentiloni, che intende ridisegnare la struttura, le funzioni gli obiettivi editoriali e la governance della Rai. Resta da vedere se i tempi della politica sono compatibili con l'urgenza impellente della riforma. Se è vero che la tv pubblica è sempre stata lo specchio del potere, capace di anticipare conflitti, compromessi, passaggi e scambi, il caso Endemol sembra dimostrare che gli affari stanno battendo la politica. E che un ramo del duopolio sta occupando spazi che la tv pubblica lascia scoperti. Avanti di questo passo e la Rai diventerà una parte residuale del sistema. Appesantita, senza progetti, senza prospettive di competitività. E con una sola missione autentica e riconoscibile: quella di permettere ai partiti e ai leader di continuare a specchiarsi nel teleschermo. Si diceva che Dio acceca coloro che vuole indurre alla rovina: questa volta l'accecamento televisivo assomiglia molto all'oscuramento. n
L'Espresso, 31/05/2007
Il salottino batte il talk show
Il programma "Confronti" va in onda su Raidue il venerdì alle 23.35. Ne sono autori Gigi Moncalvo e Daniele Renzoni. Moncalvo è anche il conduttore in studio; la regia è di Lorena Sardi. Ci voleva poco a capire che il format del confronto a due è tornato a essere competitivo, e per una ragione molto semplice. Vale a dire che il talk show, politico o no, risulta ormai impervio e ostico per il pubblico, a causa del grande casino, le voci che si sovrappongono, i temi che si replicano, le liti che si riproducono, le facce che si incacchiano, i ditini che si alzano. Mentre il confronto semplificato, ridotto all'osso, con solo due contendenti su un tema, può risultare ancora attraente. Nelle ultime puntate, si sono visti i "confronti" tra Vittorio Sgarbi e Gianni Vattimo, Piero Sansonetti e Pietrangelo Buttafuoco, Marco Travaglio e Filippo Facci, Vittorio Feltri e Ferruccio de Bortoli. Da qualche settimana è stata introdotta una rubrica fissa, l'editoriale doppio ancora di Sgarbi e Vattimo. Nella sedicesima puntata della serie, andata in onda il 18 maggio, i protagonisti erano la scrittrice Barbara Alberti e il direttore di "Libero" Vittorio Feltri. L'argomento della settimana era un'offerta veramente speciale, perché riguardava gli sviluppi recenti della vicenda legata a Fabrizio Corona e Lapo Elkann, quest'ultimo intervistato in una improbabile mise con occhialoni che devono essere quelli disegnati da lui, perché nessun altro li disegnerebbe così (comunque il caso in questione riguardava una storia di video, ricatti veri o presunti, alla Fiat o agli Elkann, roba da niente, insomma, pura normalità italiano contemporanea). La scrittrice Alberti, che una volta sembrava percorsa dai furori, con gli anni è diventata una donna di grandissimo buon senso, nascosto dietro una parlantina a raffica e apparenti concessioni all'iperbole. Feltri invece, come si sa, riesce sempre a trovare la visione più realistica anche di fronte ai complotti più fantasiosi: «Un complotto contro Lapo Elkann? Chi, quando, come, dove? E perché? A chi conveniva?». Nel frattempo Moncalvo conduceva con moderazione e competenza, come uno zio di quelli di una volta davanti al caminetto, come in una buona chiacchierata serale. Vabbé, non sarà tv così innovativa, ma una volta tanto, in mancanza di altri capolavori, va bene il salottino. Purché adesso a Moncalvo e compagnia non venga voglia di attizzare litigi e risse.
L'Espresso, 31/05/2007
Time out per Max
Naturalmente arriva in moto nel traffico di Roma, fa una curva a ginocchio aperto, scende, parcheggia alla meglio dalle parti di piazza Fiume, si toglie il casco e si mette un cappellino con la visiera e la reticella, perfetto per completare il ritratto del teenager da vecchio. Vecchio, si fa per dire: Max Pezzali ha 39 anni, una storia di successi scoppiettanti alle spalle, dall'"Uomo ragno" in poi, quello ammazzato perché aveva fatto qualche sgarbo a certi industriali del caffè, come sapevano tutti i bambini prima di fare "oh". Ma la prossimità ai quaranta, con proverbi annessi sull'esistenza che comincia o ricomincia, ha prodotto un cambio effettivo di vita. Mica male, come metamorfosi. Immaginiamo un figlio della Padania più genuina, abituato a considerare la sua Pavia una propaggine estrema di un'idea chiamata Milano, locali e gang di amici, che decide di venirsene a Roma. Per amore, naturalmente, e per matrimonio quasi classico. Lei si chiama Martina e non ha trent'anni, anche se ha una figlia di dieci venuta da una unione precedente. Tutto molto classico-moderno, perfettamente in linea con i tempi. Mettono su casa da qualche parte fra la Camilluccia e la Tomba di Nerone. Con il matrimonio, lui è ingrassato 20 chili, poi li ha persi, si è rimesso in forma, ha contemplato il successo del suo ultimo "greatest hits", l'album doppio intitolato "Tutto Max" (300 mila copie, in questi chiari di luna discografica di downloading frenetico, dieci settimane in cima alla classifica); e finalmente si è messo a lavorare per il prossimo capitolo della sua autobiografia in musica, un disco che si chiama "Time Out" e che comprende 11 canzoni inedite (prodotto da Claudio Cecchetto e Pier Paolo Peroni, e realizzato da uno dei migliori produttori italiani, Michele Canova Iorfida, che ha lavorato con Tiziano Ferro, Eros Ramazzotti, Jovanotti, Celentano). Ogni volta il disco nuovo è un problema, perché ovviamente il pubblico vorrebbe sempre il già sentito, "Come mai" e tutte quelle canzoni melodiche che fanno piangere i teenager giovani e anziani. Così per costruirlo ci ha messo quasi un anno, da febbraio a dicembre dell'anno scorso, lavorando come è abituato, da solo, con una tastiera elettronica e il computer che contiene tutto l'archivio musicale e tecnologico di un post-giovane completamente "paperless", che vive fra Google, YouTube e software fichissimi. E come si trova un lombardo a Roma, senza i suoi vecchi amici Cisco e Apo, immortalati nelle canzoni da bar, e lontano dal negozio di fiori dei genitori, di cui si sa che è cliente affezionato il pavese più noto dopo di lui, Carlo Rossella? «Giornate tranquille: mi sono accorto che Roma è una metropoli, ma anche una città di città, che ogni periferia ha il suo centro. E poi ogni tanto vado a Milano da Cecchetto, approfitto del fatto che sono diventato socio di una concessionaria dell'Harley Davidson e vado a vedere». Nella capitale, serate e weekend con un piccolo gruppo di amici accomunati dalla passione per le moto. Che cosa vuol dire "Time Out"? «Una sospensione, una pausa. Ho imparato qualcosa della vita quando ho visto i surfisti in California. I dilettanti inseguono qualsiasi onda, perché vivono nell'ansia di perdere quella perfetta. Invece i più scafati aspettano in souplesse, senza frenesia. L'onda arriverà. Ecco, le nuove canzoni rispecchiano questa sensazione. Viaggi e attese, messe a fuoco di sensazioni che si isolano dal flusso del tempo...». A guardarsi indietro, Pezzali ha una storia che può sembrare pazzesca. Il successo con il suo amico Mauro Repetto, che poi se ne va a cercare altra fortuna in America, e finisce a organizzare eventi a Eurodisney. Un ciclo di dischi di spaventosa fortuna, con quelle canzoni che è divertente cantare a squarciagola mentre l'auto fila sull'autostrada. La vita in simbiosi con la factory di Cecchetto, insieme con Jovanotti e tutta la gang, Paola e Chiara, la brava Syria che ha cantato qualche volta in un suo disco. Un'aggiustata per raddrizzare gli incisivi un'operazioncina agli occhi per sistemare la miopia (già, «occhiali grandi, un po' troppo spessi per piacere a una così...», come dice "Lo strano percorso", nell'album precedente). Un sondaggio Abacus secondo cui nel 2000 aveva un indice di popolarità in Italia, nel pubblico fra i 14 e i 24 anni, del 97,8 per cento, superiore di qualche decimale a Madonna e al suo amico Fiorello. E poi la liquidazione della sigla "883", con cui aveva spopolato e dietro la quale si era parzialmente nascosto. La consacrazione con Adriano Celentano, a "Francamente me ne infischio", cantando il vecchio hit del Molleggiato "Ciao ragazzi" dopo equivoci e polemiche per una frase venuta male, che voleva essere un apprezzamento e sembrava una liquidazione («Messa male, la Rai, se deve ricorrere a Celentano»). E poi, tanto per dare l'idea di uno normale che sembrerebbe fatto invece per la vita estrema, perfino una serie di leggende metropolitane, secondo cui era moribondo o morto, prima per una leucemia, poi per un tumore al cervello, e infine schiantato in autostrada in moto, con la moglie: «Andavo a trovare qualcuno all'ospedale, mi vedevano in un reparto e mi ritrovavo con la diagnosi già fatta, e cominciava a telefonare gente che si stupiva perché ero vivo». Sono almeno dieci anni che Pezzali sta lavorando intorno al proprio lunghissimo rito di passaggio dall'adolescenza alla maturità. Si impegna, ci prova, lui che era stato prima uno da discoteca, e poi una specie di fratello maggiore di quelli da discoteca, comunque il miglior narratore della vita nella provincia profonda, con le chiacchiere davanti al bar chiuso come in "La dura legge del gol" e i raid tra il venerdì e la domenica, con la sua capacità di isolare particolari del look femminile, il body che tiene su "un seno che non si è mai visto prima", le dita con le unghie smaltate che cercano l'accendino in un'istantanea quasi fetish. A un certo punto si era anche preso un maestro di canto, Michele Fischietti, che gli faceva fare vocalizzi per aumentare l'estensione della sua voce di baritono fino al sol (secondo "Sorrisi e Canzoni", Fischietti è «l'unico rappresentante italiano del metodo Seth Riggs, il maestro americano che tra i suoi allievi annovera Michael Jackson, Stewie Wonder, Anita Baker, Natalie Cole e Michael Bolton»): ma poi si è stufato, anche se effettivamente la voce è diventata più sicura, morbida. E quindi adesso, un pochino più crepuscolare, attento alla musica, con gusti non proprio generalisti («"Time out" è il mio disco più country»). Piacerà al suo pubblico, adolescenti, ex adolescenti e innamorati delle sue melodie così cantabili? Alla lunga fra le canzoni di Pezzali ce ne sono sempre almeno un paio che risultano irresistibili, e quindi anche il tour che comincia dopo l'estate sarà un altro successo senza scampo. Lui è rilassato, muove i suoi occhi a palla raccontando avventure internettiane, e come tutti i cantanti e i cantautori italiani ascolta musica sconosciuta ai più: un cantante che si chiama Jack Johnson, un po' folk, un po' hawaiano, oppure «quello che ascoltano tutti», come l'irlandese Damien Rice. E poi i R.E.M., Johnny Cash, Ry Cooder, «l'ultima ondata di teenpunk», tanto per tornare alle origini e dalle ragazzate di "Non me la menare". Perché l'importante è rinviare il tempo delle decisioni, di un disco, di un anno ancora, di una tournée. Quando poi ci si potrà dedicare, avendone voglia, a diventare davvero grande, un po' meno idolo, un po' più performer, compiendo il destino naturale di uno che ha cominciato quasi per gioco e si ritrova ad affrontare le cose molto sul serio. n
L'Espresso, 31/05/2007
L’antipolitica al potere
In apparenza, il clima è da fine della Repubblica. L'antipolitica che dilaga, anche se per ora sono i politici a dichiararlo, e nella fattispecie Massimo D'Alema con un'intervista, domenica scorsa al "Corriere della Sera": sarebbe in atto «una crisi della credibilità della politica» che potrebbe tornare a «travolgere il paese con sentimenti come quelli che negli anni Novanta segnarono la fine della Prima Repubblica». Dopo di che, è un rullo di tamburi. Fausto Bertinotti che dà voce alla sua vecchia anima movimentista, criticando l'autoreferenzialità dei partiti. I sondaggi che mostrano il non gradimento del governo. I politologi che distinguono, come ha specificato Ilvo Diamanti: «Il paese è felice e insoddisfatto». Felice delle sue condizioni di vita, gravemente insoddisfatto della politica. Nel frattempo, al di là delle denunce più accorate, circola anche un'aria di fatuità, di autocompiacimento schifato, di un cupio dissolvi con cui la classe politica si trastulla, come se il basso impero, in attesa degli inevitabili barbari, fosse lo spettacolo in un cartellone già stampato e passato alle affissioni. Siamo già in attesa di una fase nuova? Prima di tutto andrebbe specificato che le stesse analisi sulla crisi mortale della politica, e nel caso specifico del bipolarismo, «che ha fallito», come glossano ogni volta i centristi più svegli, alla Tabacci, venivano svolte nel finale della legislatura scorsa, quando a destra si cercava di presentare come una crisi politica strutturale e acuta il fallimento del governo di centrodestra: trentasei grandi riforme, come reclamizzava Silvio Berlusconi, e desolata crescita zero, come mostrava la banalità dei fatti: «Il che vuol dire che le vostre riforme erano sbagliate», obiettava con logica stringente Tiziano Treu, fra gli strepiti del centrodestra. Dunque, di fronte alle denunce della nuova crisi potenzialmente letale della politica, è opportuna una certa distanza critica. E cercare di vedere che cosa è in gioco. Per Romano Prodi, la posta è semplice: durare. Perché la durata del governo significa la sedimentazione delle misure governative, la capitalizzazione del buon andamento dell'economia, il diffondersi della convinzione che l'azione di governo è stata efficace. Il viceministro Roberto Pinza guarda i dati economici e li legge con un sorriso: «L'economia va benissimo, le imprese per il 2007 hanno un portafoglio d'ordini alto così. Il problema è proprio l'assetto politico». Da parte sua, Prodi ostenta sicurezza. Come il premier ha spiegato a Umberto Bossi, durante le consultazioni sulla legge elettorale, a Palazzo Chigi c'è una serenità che sfida le montagne e i secoli. Se il governo cade, dov'è il problema? «Mi ricandido, e vinco per la terza volta». Il vero ostacolo in questo schema rassicurante è ancora una volta lo scenario alternativo, lo Schema due. Cioè la soluzione anti-bipolare. Che ha una storia lunghissima alle spalle. È stata teorizzata da Mario Monti, con questa formula: la società italiana ha davanti a sé una serie di problemi che non sono né di destra né di sinistra, i quali devono trovare soluzioni che a loro volta non sono riconducibili a uno schieramento o ad assi ideologici precostituiti. E quindi, che cosa ci vuole a mettere insieme una compagine di governo animata dalla volontà di risolvere queste difficoltà, con un gruppo di uomini volenterosi che si impegnino nelle riforme necessarie? Per la verità questa è l'idea più antipolitica che esista. Come diceva Norberto Bobbio, «il governo dei migliori è una vecchia truffa reazionaria». Può piacere a Silvio Berlusconi, almeno nel senso che risponde non tanto alle regole del governo, quanto alle modalità del casting: si scelgono gli attori migliori in funzione della performance che si deve realizzare. È amata dai centristi come Pier Ferdinando Casini, perché promette di assicurare agli spezzoni post- democristiani una rendita di posizione senza date di scadenza. Piace probabilmente a molti segmenti di tecnocrazia, di potere economico, ai santuari finanziari, nel senso che un governo "tecnico" è più influenzabile di un governo esplicitamente politico, ancorato a un programma sottoposto all'approvazione degli elettori. È prediletta dagli ambienti che vedono in Luca Cordero di Montezemolo un protagonista della eventuale fase post-bipolare. Quindi si tratterebbe, semmai, di scegliere fra diversi tipi di antipolitica. L'antipolitica di Arturo Parisi, che "il Riformista" definisce «ideologo del nuovismo e dell'oltrismo», e che nell'estate del 2005 si è manifestata con il richiamo alla nuova questione morale emergente (di lì a poco esplose il caso Unipol, con la sfortunata frase di Piero Fassino «abbiamo una banca»). Oggi Parisi dice: «Rispetto al 1992 le condizioni sono peggiori sul piano dei costi e della legittimazione, e forse uguali sul piano della produttività. Forse le disponibilità soggettive alla protesta sono inferiori, per il momento». Ma bisogna riconoscere che l'"oltrismo" di Parisi, e il suo pensiero intransigente, è sempre stato orientato dalla volontà di spezzare i condizionamenti e i residui della vecchia politica. Di qui la sua attenzione per la mossa di D'Alema. E allora in questo momento si tratta di vedere a che cosa serve lo spauracchio dell'antipolitica e l'evocazione dei fantasmi del '92. Serve a Berlusconi in vista di qualsiasi ipotesi che possa consentirgli di tornare in gioco: fallite le spallate, e in attesa dei risultati delle amministrative, una caduta di Prodi sull'onda di un'insofferenza "popolare" potrebbe riaprire la prospettiva delle larghe intese. È per questo che nei dintorni di Palazzo Chigi l'entourage prodiano sta attentissimo ai segnali provenienti dall'opinione pubblica. Il ministro per l'attuazione del programma, Giulio Santagata, ha passato al microscopio il libro-manifesto di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, "La casta", un'inchiesta di profondità, dagli effetti micidiali, sulle distorsioni della politica, e ha confidato agli intimi: «Qui si tratta di vedere se riusciamo a governare la razionalizzazione dei costi della politica, mettendola all'ordine del giorno nell'agenda dell'esecutivo e di tutto il centrosinistra, altrimenti qualcuno la calvalcherà, con effetti disgregativi virtualmente incontrollabili». È possibile poi che la sortita di D'Alema sia un esorcismo preventivo. Il vicepremier e ministro degli Esteri sente odore di inciuci possibili. E quindi comincia a bombardare qualche quartier generale. Se qualche proiettile colpisce anche Walter Veltroni, futuro leader per sopraggiunta inerzia del Partito democratico, non si dispiacerà. Ma intanto D'Alema deve bloccare il modello sarkozista, che sta facendo proseliti in ogni ambiente. Governo di centrodestra con la cooptazione di personalità di sinistra, come il socialista Kouchner (con Veltroni che pubblica l'elogio trasversale da sinistra di Gianni Letta). Perché è vero che la personalità di D'Alema gli garantisce un ruolo in ogni futuro politico. Ma in questo momento il problema sembra relativamente semplice: se l'ondata antipolitica dovesse travolgere tutto, la prima soluzione praticabile sarebbe certamente quella delle grandi intese, del governo di solidarietà fra pezzi degli attuali schieramenti. Ma è difficile non vedere intenzioni diffuse, soprattutto nei cosiddetti poteri forti, a fare a meno della politica. Può darsi insomma che D'Alema veda il rischio non tanto di un governo di solidarietà istituzionale, quanto della sostituzione della politica attraverso un comitato di oligarchi. Una formula ibrida, ma che non nasconderebbe il tentativo di governare dall'alto la modernizzazione italiana. Per questo ha lanciato il suo allarme. Un allarme che suona ultimativo: sappiate, cari italiani, caro governo, cari ministri, cari partiti, che l'alternativa alla politica attuale non è la vittoria del centrodestra; bensì un governo degli gnomi. E quindi sarà il caso di mettersi a fare sul serio, altrimenti l'Italia diventerà il paese delle favole.
L'Espresso, 07/06/2007
Che presa in Giro
C i sono diversi modi per assistere al Giro d'Italia, tutti più o meno legittimi. Quello più fuori moda consiste nell'appassionarsi alla gara fra i ciclisti, Simoni, Cunego e compagnia bella: in seguito a una serie di traversie disastrose, soprattutto doping, ormai il ciclismo è diventato uno sport per amatori, anziani signori vicini ai quarant'anni, campioni che strappano le salite alla vecchiaia e all'artrite, per i quali sarebbe indecoroso ricorrere all'autoemotrasfusione o all'ormone della crescita. Gli atleti in gara si equivalgono (a eccezione di Danilo Di Luca, abruzzese biondo e bello come un attore di Hollywood, che con quella faccia lì non si capisce perché ha deciso di immolarsi alla bicicletta, sfaticando sulle strade). Noi abbiamo fatto il tifo per il veneto Marzio Bruseghin, che ha un cognome da barzelletta sui veneti raccontata da Gino Bramieri o da Lino Toffolo, ed è uno legato alla terra, al vino e alla comunità, tanto che ha pure un allevamento di bellissimi asini: a uno di questi «gli parlavo quando era ancora nella pancia della madre, e adesso riconosce la mia voce, come un cane». Storia da Animal Planet, no? Dopo l'uomo che sussurra ai somari, bisognerebbe spendere qualche parola su Auro Bulbarelli e Davide Cassani, ma sarebbe fatica sprecata. D'accordo, Bulbarelli è il solito entusiasta che esalta anche le minuzie, si commuove per imprese che falliscono dopo minuti, celebra scatti in salita che si spengono dopo pochi metri, e Cassani è il solito specialista infallibile. Stop. Ma soprattutto per ciò che riguarda Bulbarelli, va capito, vorrei vedervi voi a raccontare un Giro di qualità mediobassa, cercando di tenere a forza di chiacchiere l'audience, gli sponsor, la pubblicità, i tifosi eccetera. Ma bisognerebbe ripetere invece che il Giro in tv è un'occasione unica per vedere pezzi d'Italia che non si vedono mai, e qualche volta dimostrano che il Bel Paese contiene ancora meraviglie intatte, luoghi così belli da intenerire il peggiore speculatore, e da far piangere il cuore anche ai biechi costruttori di ecomostri. Quest'anno ci hanno messo anche la rubrica culturale, dentro la tappa, sicché si possono vedere le bellezze dei luoghi, e assaporare per via d'antenna le specialità gastronomiche. Una goduria. Nei lenti pomeriggi di questo anticipo d'estate, la gara passa in secondo piano. Il Giro è una specie di vacanza quotidiana per riconciliarsi con l'Italia.