L’Espresso
L'Espresso, 07/06/2007
Il governo annulli l’effetto Brancaleone
Dopo tutte le discussioni sull'antipolitica, e dopo il risultato del primo turno delle amministrative, si tratta di vedere se il centrosinistra può salvare se stesso, il governo, la legislatura, e soprattutto la sua credibilità. La situazione è difficile. E non per un generico rigetto qualunquista della politica in sé, ma per un giudizio ultimativo degli elettori sul governo Prodi e sulla maggioranza parlamentare che lo sostiene. Un elenco sommario dei punti di crisi dell'Unione è presto fatto. In primo luogo, il processo redistributivo varato con la legge finanziaria è stato vanificato dalle imposizioni aggiuntive degli enti locali, in modo che pochi cittadini hanno riscontrato un beneficio diretto. L'obiettivo primario del governo, risanamento dei conti pubblici e rilancio della crescita economica, è stato ottenuto, ma il risultato è stato annebbiato dalla turbolenza interna dell'Unione. Il governo di centrosinistra è stato identificato come il governo delle tasse, al punto che alla fine è passata praticamente sotto silenzio la realizzazione di una misura, il taglio del cuneo fiscale, attraverso il quale le imprese ottengono un vantaggio significativo nel costo del lavoro. Inoltre nei centri di potere economico c'è la sensazione che la rimessa in sesto dei conti pubblici sia un dato astratto. Come ha scritto Massimo Giannini su "la Repubblica" dopo l'exploit di Luca Cordero di Montezemolo, «Confindustria ritiene che quello realizzato dal centrosinistra sia solo un "risanamento contabile", che riflette il riequilibrio dei saldi, ma poggia su un artificio aritmetico e politico: poiché manca il coraggio di abbattere gli aumenti forsennati della spesa pubblica, la riduzione del deficit è garantita solo dall'incremento più che proporzionale della pressione fiscale». Sul piano politico, invece, la quotidianità del centrosinistra è attraversata da nuvole nere. Dall'Afghanistan ai Dico e all'Ici, dal caso Visco ai timori evocati dall'ambiente dalemiano («Non faremo la fine di Bettino», frase che sembra paventare per i Ds una questione giudiziaria incombente). L'Unione non sembra in grado di trovare coerenza quasi su nessun argomento. Gli interessi di parte rendono arduo il cammino delle riforme più incisive, a cominciare dal sistema pensionistico. Di qui una sensazione di incertezza, se non di impotenza, che si trasmette all'elettorato, tanto da configurare sondaggi catastrofici. Si può uscire dall'impasse? Prodi punta su tempi dilatati, convinto che alla lunga la crescita si farà sentire e recherà benefici a tutta la società italiana. Ma è chiaro che se il governo non riesce a far percepire una tonalità efficace nella sua azione complessiva, ogni conseguimento parziale, ogni riforma, tutti i provvedimenti appariranno frammenti sparsi e incoerenti, che non si integrano in un progetto riconoscibile. Questo "effetto Brancaleone" potrebbe essere sterilizzato se il governo fosse in grado di comunicare con chiarezza una serie limitata di punti programmatici, da perseguire in un arco di tempo ragionevole. In primo luogo la riforma elettorale, per uscire dal vicolo cieco del "Porcellum" e dai contraccolpi del referendum (che finora rappresenta l'unica chance per battere l'immobilismo dei partiti). Subito dopo, una riforma delle pensioni in cui l'aspetto dei tagli ai rendimenti futuri venga compensato da un sostegno ai trattamenti più bassi: sotto questa luce, l'ipotesi, variamente circolata, di una specie di "quattordicesima mensilità" per le pensioni minime, potrebbe avere un impatto psicologicamente più forte sulle fasce di pensionati di reddito meno elevato. Un'ulteriore spinta al processo di liberalizzazione (sull'energia, nei servizi pubblici o semipubblici locali, superando le secche in cui sembra finito il progetto Lanzillotta) conferirebbe un peso molto maggiore all'azione dell'esecutivo, dando corpo a un intervento questa volta strutturale e non congiunturale sull'economia. Infine, resta il tema politico di fondo, quello del Partito democratico. Finora si è assistito a una serie di bizzarrie, come la costituzione del comitato per l'elaborazione delle regole dell'assemblea costituente: 45 persone per stendere un regolamento, record stagionale. All'orizzonte c'è un'alternativa drammatica: o il Pd diventa l'occasione anche politicamente cruenta di un rinnovamento della classe dirigente del centrosinistra, oppure finirà nel discredito generale. Con il governo che apparirà una tecnocrazia logora, e il centrosinistra una partitocrazia sfinita. C'è ancora poco tempo, tanto vale provarci.
L'Espresso, 14/06/2007
Chiuso per ferie
Dici: sta arrivando l'estate. No, rispondono i seguaci di Al Gore: è il riscaldamento globale. Ti sbagli: è l'estate che torna. Lo dimostra la fine dei talk show. Ha chiuso bottega "L'Infedele", una delle isole di riflessione fra le risse tipiche di tutti i programmi di conversazione, dove anche i più timidi ormai hanno imparato le tecniche per parlare sulla voce degli altri: «Il primo punto... Il primo punto...», e mentre l'altro cerca di interloquire, gli si rovescia addosso: «Il primo punto... Il primo punto...». E ha concluso la sua serie ufficiale anche "Otto e mezzo", benché il programma continui sotto Pietrangelo Buttafuoco (ma senza Giuliano Ferrara, senza le sue scocciature, senza la noia che all'improvviso sembra calargli addosso come una coperta, come un incantesimo, come un colpo di sonno, o senza la sua improvvisa accensione quando un argomento o un ticchio improvviso lo rianimano, be', senza tutto questo "Otto e mezzo" è un'altra cosa). D'accordo che rimane sempre la possibilità di rivolgersi a "Annozero", ma con Michele Santoro si sa dove si finisce: nella polemica politica. Come con i preti pedofili e monsignor Fisichella, che tutti hanno detto quanto è stato bravo, urka che stile e accidenti che classe, ma invece era chiaramente in difficoltà, e alla fine nelle famiglie ci si è guardati in faccia, e ci si è detti: òstrega. Non è che sia stato molto convincente, il monsignore, a spiegare perché il Vaticano e le gerarchie e il Santo Uffizio hanno coperto i casi dei preti-canaglia spostandoli di qua e di là. Ci mancheranno, Lerner e Ferrara, nella lunga estate caldissima: perché sarebbero stati bravissimi su temi non proprio facili. Prendete la faccenduola, rivelata da "L'espresso", degli errorini del papa nel libro su Gesù. Lerner ne avrebbe fatto una disquisizione biblica e teologica, con interpreti delle fonti, rabbini, talmudisti, glossatori e magari Moni Ovadia. Mentre Giulianone ne avrebbe forse fatto un teatrino schizofrenico, cercando di spiegare come a commettere gli errori non sia stato Benedetto XVI, ma Joseph Ratzinger. Immaginatelo: «Non il sovrano pontefice di Maistre, non l'emblema eterno dell'universalità del cattolicesimo, non la macchia bianca nella penombra di una biblioteca, bensì l'individuo Ratzinger, l'essere transeunte e fragile, e per ciò stesso da amare con l'ammirazione filosofica degli scettici...». Arrivederci, amici, vi sia lieve l'estate.
L'Espresso, 14/06/2007
Marameo al galateo
Qui non è il caso di fare l'agiografia del bel tempo andato, quando le nevi erano bianche, le spiagge semideserte, c'erano le quattro stagioni, vestivamo alla marinara e gli uomini politici andavano in spiaggia con la maglia a maniche lunghe e i pantaloni arrotolati sulle caviglie. Tempi in cui Enrico Cuccia rifiutava le interviste, Gianni Agnelli le concedeva con il suo stile sublime e granducale emettendo sentenze di alta sostanza ironica, si trattasse di Guido Carli o di Zibì Boniek, della Banca d'Italia o del tocco di palla di Platini; mentre a Roma i segretari di partito parlavano di rado e dopo avere soppesato tutto, anche le virgole, provocando magari sconquassi ma dopo avere calcolato ogni ripercussione: quando insomma i ruoli venivano puntualmente rispettati e avevano confini stilistici inderogabili, e nel caso di affari economici e finanziari di rilievo i segretari di partito non telefonavano dicendo «abbiamo una banca» ma si informavano con discrezione, eventualmente convocando gli interlocutori e i brasseur in segreto, nel sancta sanctorum, e facendo fare lunga anticamera, tanto per chiarire chi stava dalla parte che conta della scrivania. Tuttavia evitare la "laudatio temporis acti" non esime dal guardare con una perplessità di stampo scettico lo stile della classe dirigente attuale, e porsi domande conseguenti. Esiste ancora un galateo della suddetta classe dirigente? Più in sintesi, se lo stile è l'uomo (e la donna), e il galateo è l'etichetta di un ceto, esisterà davvero un complesso di atteggiamenti che certifica l'esistenza di una classe dirigente? Oppure il generone, la consorteria, il ceto medio qualificato e squalificato, riflessivo e irriflessivo, con i suoi comportamenti esteticamente problematici, è l'unica classe residua nella struttura sociale del paese? Lo diceva e lo ripeteva qualche anno fa, in modo preveggente, Giuseppe De Rita, molto prima che la coscienza collettiva e televisiva mettesse a fuoco le autoreggenti di Michela Vittoria Brambilla o i tacchi assertivi di Daniela Santanché, leader in pectore di esperienze politiche imprecisate ma in cui la fisicità è un atout superiore alla cultura: in Italia non c'è una borghesia, c'è una «enorme bolla di ceto medio». Ossia all'incirca una poltiglia sociale, paludosa, capace soltanto di degradare ogni giorno un po' di più. Sicché anche gli stili si omologano. La riservatezza è un ricordo del passato. Il rispetto dei ruoli, una fisima culturale da babbioni. Non ci sono molti principi sacri nel nuovo galateo, ma il primo comandamento è presto detto: spifferare tutto. Senza remore. Passare i documenti ai giornali. Telefonare a Dagospia. Intervenire comunque perché solo il silenzio, naturalmente, uccide. Giovedì 31 maggio, sul "Foglio" di Giuliano Ferrara, Barbara Palombelli, ha realizzato una strepitosa impresa, sola contro tutti. Offrendo la sua opinione sulle miserie del centrosinistra, sulla questione della leadership, sul sistema politico ed elettorale, sull'efficacia del governo: «Il ministero Prodi, alla vigilia delle ultime elezioni, non è riuscito a spegnere i falò della spazzatura in Campania, e neppure quelli in Rai». Per poi spiegare la sua ricetta, la «strada seria», ossia «larghissime intese, governo forte, soluzioni veloci per una modernizzazione straordinaria del paese». Ora, qualsiasi politologo abituato al bel mondo come il grande Giovanni Sartori potrebbe ragionare a lungo dubbiosamente e chiedersi se effettivamente le larghe o larghissime intese siano in grado di produrre soluzioni veloci o non piuttosto nuovi negoziati, nuovi patteggiamenti, mediazioni e compromessi inutili. E giungere semmai alla conclusione che oggi ciò che conta non è il contenuto dei ragionamenti espressi, e delle idee manifestate, quanto la possibilità in sé di accedere ai mezzi di comunicazione. Toccherebbe poi alle Donne Letizia o alle Irene Brin della contemporaneità mediatica formulare certe domande sull'opportunità che la moglie di un importante leader politico, ex candidato alla guida del paese, impegnato nella costruzione del Partito democratico, entri in campo con tanta scioltezza. Chi parla, la Palombelli giornalista o la Palombelli governo ombra? La commentatrice politica inciucista o la moglie del politico che deve tener fede al bipolarismo? Già, che cosa ne avrà pensato lui, Francesco Rutelli, battuto sul terreno delle intese larghe? E formulate queste strane domande, siamo sicuri di non ricevere nei denti la risposta definitiva, quella che accomuna politici e calciatori, «io non devo dimostrare niente a nessuno»? D'altronde, le questioni di famiglia sembrerebbero il centro vero dell'agire politico, come dimostrò la lettera del cuore inviata da Veronica Berlusconi al marito sulle colonne della "Repubblica", con il seguito della risposta strappalacrime del buon mascalzone latino e più tardi le rivincite sarde del Cavaliere in compagnia delle squinzie, con tanto di foto che testimoniavano la perdurante inclinazione per il gentil sesso da parte dell'ex premier (sulle vacanze di Berlusconi, risulta sempre attuale come principio avverso, una volta di più, il calembour dell'Avvocato: «Andavo a Capri quando le contesse facevano le puttane. Ora che le puttane fanno le contesse non mi diverte più»). Così la sensazione prevalente è che nonostante le modernizzazioni più o meno veloci siamo sempre dentro un "Family day", magari a rovescio, come testimonia l'iniziativa di Margherita Agnelli, che ha citato madre Marella e figlio John Elkann, «esclusivamente per motivi tecnico- legali», insieme ai grandi sauri della Fiat Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, per cercare di mettere in chiaro alcune vicende patrimoniali attinenti all'eredità dell'Avvocato (anche se non ci sarebbe da aggiungere che la migliore eredità di Gianni Agnelli è impalpabile, un fenomeno volatile di magie e di vezzi: come ha raccontato Marco Ferrante nel recente "Casa Agnelli. Storie e personaggi dell'ultima dinastia italiana", «Giuliano Lanza di Trabia seguiva Agnelli con funzioni di intendenza, quando uscivano pagava le mance», e s'è detto tutto, signori si nasce). Altro che salotti buoni, stanze ovattate, tavole di noce, silenzi, confidenze preziose e telefonate meditabonde. Guerra di tutti contro tutti, semmai. Qualcuno si è dimenticato quale fu la risposta tattica di Marco Tronchetti Provera a Romano Prodi sull'affare Telecom, mentre circolavano le ipotesi su spezzatino, vendita presunta, liquidazione della telefonia cellulare? Il documento del "piano Rovati" passato graziosamente per ritorsione al "Corriere della Sera", cioè uno sgarro impensabile quando la politica godeva ancora di deferenza. Ma la politica invece si adegua. Nessuno che si stupisca se Gianfranco Fini, che piace tanto alle signore moderate per il suo aplomb sarkozista, al convegno dei giovani della Confindustria a Santa Margherita, invece di discutere di riforme, aggredisce Pier Luigi Bersani a proposito del caso Visco-Speciale: e ci vuole il coraggio di Matteo Colaninno, con quella faccia da ragazzino, a salire sul palco e a dire al portabandiera della destra "identitaria" che il tema non sarebbe all'ordine del giorno. Forse la civile coscienza o incoscienza del giovane Colaninno sarebbe stata utile anche a Vicenza, quando nel 2006 si assistette allo show incendiario dello sciancato miracolato Silvio Berlusconi. Se invece di Diego Della Valle a dargli del buffone ci fosse stato un ragazzino cortese a dire al Caballero, guardi che qui si stava facendo un dibattito, e non è il momento di un comizio, chissà, ora la politica sarebbe meno isterica. I giornali hanno titolato quasi tutti, con animo bipartisan: "Rissa tra Fini e Bersani"; ma l'unico titolo decente e adeguato ai fatti reali avrebbe dovuto identificare l'aggressione a freddo, fuori contesto, fuori luogo, perpetrata da Fini contro il ministro diessino (dev'essere una tecnica studiata con precisione scientifica, visto che pochi giorni prima, durante un "Porta a Porta" sul risultato elettorale delle amministrative, il presidente di An si era rifiutato di rispondere alle considerazioni espresse dal direttore della "Stampa" Giulio Anselmi dicendo pressappoco: «Caro direttore, io non le rispondo perché noi ci parleremo in tribunale, dato che io l'ho querelata», senza degnarsi di aggiungere una parola nemmeno sui contenuti della querela, con Anselmi e Bruno Vespa che lo guardavano un po' scossi). Il secondo principio fondamentale del galateo della nuova classe si riassume nell'aureo principio: "Abbiamo sempre ragione noi". Noi vuol dire tutti coloro che si riconoscono nell'agenda Giavazzi, nel centrismo riformatore di Mario Monti, nell'idea che i problemi non sono né di destra né di sinistra, nel mainstream di pensiero secondo cui le liberalizzazioni non bastano mai e le privatizzazioni neppure. Noi che ci diamo tutti del tu anche in tivù. Noi che siamo d'accordo su tutto: sul taglio delle ali, sulla crisi del bipolarismo, sul tracollo dei partiti, sull'insufficienza (a essere di buon cuore) del Partito democratico. Ma possibile che siano scomparse tutte le differenze, anche quelle di classe, in senso sociale e in termini di eleganza? Per appartenere alla classe dirigente occorre soltanto imparare alcuni mantra del tipo: "Sono sereno", che è la frase preferita da tutti quelli che stanno per andare in galera. Non sembra ancora entrata nel lessico la straordinaria performance del generale Speciale, appena deposto dal ministro Padoa-Schioppa, il suo couplet irridente ma rivelatore davanti a Berlusconi alla festa della Repubblica: «Sempre agli ordini, presidente». Ma diventerà un cult, come da tempo è diventato un fiore del blog lo scambio fra Claudio Sabelli Fioretti e l'intervistata Lavinia Borromeo, giovane consorte di Jaki: «Ha amici poveri?». «Dipende da che cosa si intende per povertà. Parliamo di persone che devono lavorare per mantenersi?». Se c'è da gettare la maschera, gettiamola, senza ipocrisie, à la guerre comme à la guerre. Se va male, è sempre utile la conclusione di Altan, fra i lavoratori della vecchia classe, quella operaia: «E allora concedimi l'ultimo slow e poi que serà serà». n
L'Espresso, 21/06/2007
Minoli è l’uomo del mistero
Come si può definire il lavoro condotto da Giovanni Minoli con "La storia siamo noi"? Era la domanda che ci si poteva porre vedendo "Il mistero di Modì" di Emilia Brandi (andato in onda il 7 giugno su Raidue in seconda serata). Allora: non è semplicemente una ricostruzione storica; e non è neppure un'inchiesta giornalistica pura. Forse si potrebbe definire questa tecnica televisiva un saggio di storia "simultanea"(secondo una definizione dello scrittore Valerio Evangelisti). Come si ricorderà, l'affare Modigliani scoppia nel luglio 1984, quando a Livorno vengono ripescate nel Fosso Reale tre sculture che sembrano riprodurre il classico stile di Modì. Molti critici si esprimono a favore dell'autenticità, fra polemiche che divampano altissime. La conclusione fu la rivelazione che si trattava di un colossale scherzo, giocato da tre studenti ventenni, che avevano realizzato le famigerate teste in pietra con il Black&Decker (ripetendo poi l'exploit "artistico" in televisione, mentre l'azienda dei trapani sfruttava pubblicitariamente la vicenda con pagine di annunci che dicevano in sostanza: con i nostri attrezzi si può fare di tutto). Ma dubbi e misteri aggiuntivi sono sempre circolati, nuove informazioni sono trapelate. L'autrice Emilia Brandi è andata sulle tracce di un'altra storia, che risale al 1991, allorché a Livorno vengono ritrovate tre altre teste in pietra, che sembrano anch'esse ricalcare lo stile di Modì. Autentiche? Di sicuro c'è solo che è come se non esistessero. Il programma di Minoli le ha ritrovate e filmate per la prima volta alla Soprintendenza di Pisa, dove sono sotto sequestro da 12 anni. Che la storia dei falsi o veri Modì sia bellissima è fuori dubbio. Perché è una vicenda infinita, che non si conclude mai, che non conduce alla soluzione. Resta sempre il dubbio che possa aprirsi un altro capitolo, con altre rivelazioni e ulteriori scoperte. "Il mistero di Modì" era efficace perché seguiva il percorso di un'indagine giornalistica attraverso la consapevolezza di un lavoro storiografico. Senza mai rinunciare al rigore necessario, ma con il gusto di pedinare le tracce più promettenti, anche se non si sa dove possono portare. Storia "simultanea", per l'appunto, storia aperta, storia di sentieri che si biforcano. In questo caso, con l'aggiunta di un po' di ironia al mistero, che dava leggerezza al giallo, con risultati alla fine avvincenti.
L'Espresso, 21/06/2007
Il mito della diversità
Se le intercettazioni su Massimo D'Alema, Piero Fassino e Nicola Latorre sono tutte qui, c'è poco da aggiungere ai commenti formulati quando furono rese di pubblico dominio le telefonate tra Fassino e Giovanni Consorte, sintetizzate da quella frase complice («Allora, abbiamo una banca?») che è rimasta appiccicata sulla pelle del segretario ds. Non c'è la «questione morale» di cui aveva parlato in quei giorni Arturo Parisi; c'è semmai un'area grigia fra la politica e l'economia, che risulta poco gradevole almeno per due motivi sostanziali. In particolare, si conferma un coinvolgimento dei vertici diessini con un ambiente, quello dei "furbetti del quartierino" di Stefano Ricucci, che non si sa bene quale apporto offrisse alla trasparenza e alla presentabilità del capitalismo italiano. E non depone a favore della medesima trasparenza che la scalata della Bnl da parte di Unipol fosse in qualche misura bilanciata, se non contrattata, "a destra" dalla scalata di Gianpiero Fiorani con la Popolare di Lodi su Antonveneta. Detto questo, occorre anche rilevare che queste nuove intercettazioni sono state precedute dalla costruzione di un'attesa frenetica, come se dovesse uscire la prova definitiva di peccati gravissimi da parte del vertice ds. Il botto non c'è stato: e quindi si dovrà semplicemente iscrivere anche questo caso nella scia delle cospicue montature che sono state realizzate negli ultimi anni contro il centrosinistra? Sarebbe una tesi troppo benevola. È vero che si è assistito a una serie di casi oltremodo inquietanti: Telekom Serbia, con il credito attribuito al "conte" Igor Marini, la commissione Mitrokhin, con la presenza dell'agente più o meno segreto Mario Scaramella, le irruzioni telematiche nelle posizioni fiscali di Romano Prodi, infine il polverone sul comandante della Guardia di finanza Roberto Speciale. Ed è anche vero che diverse di queste storie si sono intrecciate in quell'aggregato che faceva capo al nucleo spionistico della "Tavaroli band". Tuttavia minimizzare non serve a nulla. L'intera storia della sinistra si basa su un crisma di moralità presentato come una differenza di valore rispetto agli avversari politici del centrodestra. Riscontrare di nuovo il coinvolgimento dei leader diessini in operazioni economiche sottotraccia lede un'immagine. Il realismo dice che politica e affari non sono mai distinti come prevede la teoria; ma oltre al realismo, tra le virtù politiche ci sono la prudenza, la qualità dei comportamenti, l'assunzione esplicita di una lealtà morale verso i cittadini. Tutte doti che gli elettori del centrosinistra hanno sempre visto come un netto discrimine rispetto al centrodestra. E che oggi rischiano di finire nel calderone del "questi o quelli per me pari sono". Alla fine, liquidate anche le ultime intercettazioni, e messo alle spalle un cortocircuito pazzesco delle procedure giudiziarie su cui occorrerà stabilire regole precise e controlli ferrei, agli elettori di centrosinistra resta la sensazione sgradevole che sia finita l'età delle certezze; che tutti i giudizi vadano commisurati a una classe politica che ha assimilato le disinvolture del realismo. Ma se è così, se ciò che conta è solo la tecnica della politica, non sarà facile indicare ancora una volta come una risorsa pubblica la propria alterità.
L'Espresso, 28/06/2007
Il prete radicale
Certe volte la televisione produce grande cultura. Domenica scorsa è andato in onda uno speciale del Tg1 che assomigliava molto a un evento. Si è trattato di "Lorenzino", ovvero "Don Milani, l'ultimo prete", definito dai titoli di testa «un lavoro videostorico di Alberto Melloni, curato e montato da Fabio Nardelli e Federico Ruozzi». Va a merito di Gianni Riotta e di David Sassoli, che fa anche da voce narrante, l'avere intercettato questo film, realizzato nel clima culturale dossettiano (e alberighiano, sia lieve la terra al maestro di storia e di sapienza) dell'Istituto per le scienze religiose di Bologna. L'evento consiste in questo. Che per una volta non prevale l'aspetto del don Milani insegnante, con tutta l'attenzione concentrata sulla scuola di Barbiana: bensì si interpreta la vicenda del prete toscano, il «povero pazzerello scappato dal manicomio», secondo la sbrigativa definizione di Angelo Roncalli, come il prodotto di un ambiente culturale plurimo e di altissimo livello. Non c'è soltanto la madre, ebrea boema; c'è una famiglia con quarti accademici di primissimo ordine, un ambiente «agnostico e colto» in cui la scelta di conversione di "Lorenzino", il suo «cattolicesimo indossato per sventura», cioè per sfuggire alla violenza del fascismo, si esalta quasi per contrasto, ma forse anche per abitudine al dubbio, in una prospettiva di radicalità religiosa, umana e politica. Perché ciò che il film di Melloni illustra con chiarezza è proprio la figura di democratico radicale di don Milani, il suo porsi non da una parte, ma «sopra le parti, per cercare il nucleo di verità che c'è nelle cose e nei rapporti fra gli uomini, perché la verità sta da una parte sola». Poi, naturalmente, a Barbiana, «c'era un bellissimo spirito», come ricorda Oliviero Toscani parlando della sua lontana partecipazione come giovanissimo maestro di fotografia. Ma il documentario di Raiuno, costato pochi euro, non si sofferma sulla dimensione talvolta commovente della vicenda umana di "Lorenzino": trattiene la commozione per scandire i momenti fondamentali della vita di don Milani, la storia del suo contestato libro "Esperienze pastorali", il rapporto con la gerarchia, quel senso di verità per l'appunto radicale che muoveva la sua riflessione e il suo agire.
L'Espresso, 28/06/2007
Settanta volte Renzo
Fa l'impossibile per tenere segreta la data. Profilo bassissimo, understatement, per ora niente feste, niente party (o «parties», come direbbe lui ironizzando sul plurale inglese). Eppure i settant'anni di Renzo Arbore, che scoccano il 24 giugno, sono un appuntamento non proprio evitabile. Fastidiosissimo per lui, che si appella agli amici: «Poco chiasso, mi raccomando. Se si sparge la voce che ho settant'anni non raccatto più». È un richiamo alla solidarietà maschile. Già, ma come si fa a tenere riservato l'avvenimento? Più apparentemente pubblico di Arbore non c'è nessuno. Non ci si può dimenticare che ha fatto la storia della televisione, e prima della radio: il vero esordio nel rutilante mondo dell'intrattenimento musicale dell'irripetibile Renzo si deve proprio a una trasmissione radiofonica, l'indimenticabile "Bandiera gialla", i cui titoli di testa recitavano: «Un programma di Gianni Boncompagni con la complicità di Renzo Arbore». Era il 1965, e il maestro programmatore Arbore, studi di giurisprudenza a Napoli ed esordi nella Taverna del Gufo nella natia Foggia, contribuiva ad aprire le patrie sponde all'epoca beat, volteggiando fra i Beatles, i Rolling Stones, l'Equipe 84, i Rokes e tutti gli altri, dai Them e gli Who ai Delfini e ai Dik Dik. Dopo di che, Arbore non è distinguibile dalla sua attività pubblica. Esperto di musica dalla melodia napoletana al rhythm'n'blues e al jazz, creatore di calembour e campione dei tormentoni («A quest'ora in questura il questore non c'è»), navigatore nella goliardia, esploratore dell'antropologia meridionale, cultore dell'"Amèreca", cioè l'America degli emigrati, deposito di culture che in patria magari scompaiono e sull'altra sponda dell'Atlantico vengono meravigliosamente conservate. E poi anche, Renzino vostro, collezionista caotico di oggetti e gadget di plastica che riempiono la sua bella casa, attico al quarto piano saturo di qualsiasi cosa, teatrini meccanici, orologi a cucù, radio americane degli anni Quaranta (molti oggetti, fotografati ed esposti alla Triennale, "The Renzo Arbore Collection"). Ma è chiaro che Arbore è passato alle cronache e passerà alla storia, televisiva e non solo, per alcuni programmi di svolta, a cominciare da "Alto gradimento", con i suoi astronauti spagnoli dispersi nel cosmo, il professor Aristogitone («Studenti, vi rompo le corna»), la poesia dell'"assurdo tautologico" di Mario Marenco, le istanze dello studente Verzo («Stamo a fa' un sittìn paa libberazzione sessuale dei regazzini daa Angola»): insomma una galleria di cialtronate irresistibili. Come naturalmente sono stati irresistibili e irripetibili i suoi programmi "seminali", a partire da "Quelli della notte", anno 1985, memorabile oltre che per la fauna da talk show (Maurizio Ferrini «non capisco ma mi adeguo», Riccardo Pazzaglia e il brodo primordiale, Massimo Catalano con le catalanate, Nino Frassica con gli sfondoni, anche per una partecipazione inattesa di Prodi e Reviglio, cioè Iri e Eni, che si sganasciavano (e pare che Bettino Craxi avesse ringhiato minacciosamente: «Ma che cacchio hanno da ridere quei due»); e l'irruzione di Paolo Guzzanti nell'ultima puntata, imitante la voce di Sandro Pertini. A cui seguì il più imprevedibile e postmoderno "Indietro tutta" (1987), parodia del quiz, esempio di televisione "celibe" fatta di nulla sotto vuoto pneumatico, pubblicità del Cacao meravigliao e lustrini delle Ragazze Coccodè, gare sul filo dell'assurdo fra Nord e Sud, interventi telefonici e «vado al regolamento» del bravo presentatore Nino Frassica. Adesso, dopo la televisione "amarcord" di "Meno siamo meglio stiamo", Arbore è soprattutto uomo di spettacolo dal vivo, con l'Orchestra italiana, una cinquantina di concerti l'anno. E dal vivo è come sempre uno dei più formidabili narratori di aneddoti che si conosca: «Dunque, non ci crederai ma Mogol e Battisti sono venuti a portarmi quella loro canzone, "Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi..." proprio il giorno che mi fidanzavo con Mariangela Melato, e quindi capisci la coincidenza, "come può uno scoglio arginare il mare", c'era davvero da mettersi a piangere». In attesa di una vacanzina, di un altro tour, di qualche altro inimitabile prodotto della premiata erboristeria: e forse di un programmino televisivo «piccolo piccolo», dedicato al Sud. Intanto, con tutta la discrezione possibile, sono auguri. n
L'Espresso, 28/06/2007
Fortino palazzo Chigi
Un assedio. La coalizione di centrosinistra con i leader ammaccati dalle intercettazioni e dai verbali degli interrogatori di Stefano Ricucci. Il sospetto serpeggiante anche nella famiglia diessina che Piero Fassino e Massimo D'Alema fossero iscritti in un "concerto" che spartiva pezzi di economia fra sinistra e destra, Bnl da una parte e Antonveneta dall'altra, con sullo sfondo la possibile "finlandizzazione", cioè una neutralizzazione spartitoria, del "Corriere della Sera". E il governo Prodi protagonista involontario della più colossale caduta di consenso che si sia mai vista nella storia della Repubblica. Il premier fischiato in ogni occasione, anche dalla platea che si immaginava non ostile della Confesercenti. Le regioni del Nord che alle amministrative consegnano il foglio di via al centrosinistra, indicando percentuali intorno al 30 per cento. È la fine di una stagione? Per capirlo si può tentare di penetrare nel quartier generale del governo, sentire gli umori, raccogliere le valutazioni delle persone più vicine al premier. Ascoltare un grido di dolore silenzioso. Guardiamo alle condizioni di scenario, dicono le voci di Palazzo Chigi. I politologi sostengono che il governo è impopolare perché al Nord si aspettavano libertà e hanno avuto tasse, mentre al Sud si attendevano trasferimenti pubblici che non sono arrivati. Il governo vittima delle aspettative asimmetriche. Ma ci sono anche ragioni più strettamente politiche. I Ds sono in condizioni preoccupanti. La scissione di Fabio Mussi a sinistra. E nel partito il diffondersi di un cattivo pensiero, l'idea o l'esorcismo di un complotto che viene da lontano, ossia che tutto vada fatto risalire alle esternazioni di Arturo Parisi due anni fa, quando l'attuale ministro della Difesa accennò al possibile riemergere di una «questione morale» a sinistra. Non gliel'hanno mai perdonata, a Parisi, come se quella fosse la prova di una grande macchinazione e la dimostrazione implicita che a ordirlo fossero stati loro, gli ulivisti fondamentalisti, i prodiani, l'école parisienne. Ma non ci sono difficoltà soltanto sul fronte diessino: non passa giorno senza che Francesco Rutelli attacchi pesantemente la politica economica e fiscale del governo, e questo alimenta dubbi sul futuro. A quanto si capisce, se cade Prodi potrebbe esserci un governo di transizione più o meno lunga: che cosa succede del Partito democratico in questo caso? Bisogna chiedersi che cosa accadrebbe se crollasse il governo: rischierebbe di cadere anche il bipolarismo? In questo caso i Ds porterebbero a casa solo guai, mentre per le frange centriste della coalizione si creerebbero delle opportunità. A pensar male si fa peccato, ma si va vicini alla verità. Naturalmente, ironizzano i Chigi-ultras, non c'è nessun complotto prodiano o parisiano. C'è un clima di rifiuto della politica, che ha avuto un detonatore nel libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, "La casta", e c'è la crisi di credibilità del governo. Tuttavia bisognerebbe fare un modesto ragionamento ed elencare qualche dato fattuale: allora, abbiamo una crescita del Pil al 2,3 per cento; l'inflazione è la più bassa d'Europa, mezzo punto sotto la zona euro; i conti pubblici sono sotto controllo; la disoccupazione è la più bassa da quindici anni; abbiamo dato alle imprese il taglio del cuneo fiscale; siamo usciti elegantemente dall'Iraq; siamo al comando di una forza di pace in Libano che ha rappresentato anche simbolicamente una discontinuità netta rispetto all'unilateralismo americano e al conformismo americanista della destra italiana. E allora, dice la voce profonda di Palazzo Chigi, qualcuno dovrebbe provare a spiegare come fa una somma di elementi positivi a trasformarsi, nella percezione pubblica, in un disastro. Tanti dati buoni che danno come somma una catastrofe. Se questi risultati li avesse fatti Berlusconi, avrebbe inneggiato a se stesso e ai suoi miracoli. Noi, invece, è chiaro che agli occhi del mondo siamo gente di qualità mediocre: abbiamo risanato sì, ma dal lato delle entrate, come dice il governatore Draghi, cioè con le tasse; e il risanamento c'è, ma è congiunturale, dice la Confindustria: un saldo di bilancio, non una messa in efficienza dei comportamenti statali. Certo, insistono i prodiani, non possiamo rispondere alla crisi di rigetto del paese dicendo che non sappiamo comunicare. Ci sono ragioni più serie. Se guardiamo alle elezioni amministrative di fine maggio, ci accorgiamo che avevamo il territorio e non l'abbiamo più: cominciano a diventare contendibili anche aree di insediamento politico che prima erano indiscusse, in Liguria, Emilia, in Toscana, in Umbria. Il fatto è che noi ulivisti per dieci anni abbiamo coperto la malattia dei Ds, con l'Ulivo: ora che l'Ulivo non funziona più ce la faremo con il Partito democratico? È l'ultima chance. In ogni caso, nessuno grida alla cospirazione delle lobby economiche e dei potentati mediatico- finanziari; ma c'è da considerare quella che Giulio Santagata, ministro per l'Attuazione del programma, ha definito «la debolezza dei poteri forti»: i quali poteri per ovviare alla loro fragilità hanno interesse a puntare sull'indebolimento della politica. Con effetti anche clamorosi, perché Gianfranco Fini che riceve gli applausi dei giovani industriali quando difende il Pra dalle liberalizzazioni di Bersani dà un segno di che cosa significa il corporativismo. Questo è l'elenco dei mille dolori. Adesso si tratta di vedere quali sono gli strumenti per cercare di uscire dall'impasse. Le "cartucce" da sparare, come dicono nell'entourage prodiano, cioè la dimostrazione che il governo è in grado di decidere e decide. La prima cartuccia è la Tav, che sembra giunta a una soluzione onorevole. Consideriamo anche che il governo è dovuto intervenire su problemi lasciati marcire da Berlusconi, e quindi difficili da trattare: il Mose a Venezia, ripreso dopo che era stato messo in abbandono, i rifiuti a Napoli. Però pensiamoci, abbiamo chiuso la Maddalena in ottimo ordine, siamo alla guida di 13 mila uomini in Libano, siamo venuti via dall'Iraq in modo perfetto, come ha riconosciuto anche Bush: E allora, spiegateci il mistero: Zapatero esce traumaticamente dalla guerra ed è un eroe, noi usciamo con un passo di danza, con tutti i crismi e il rispetto dell'alleanza e siamo delle caccole. Bene così, ma c'è qualcosa che non si spiega. La seconda cartuccia consiste nel chiudere bene i tavoli della concertazione. Che significa due questioni principali: pensioni e ammortizzatori sociali. Sulle pensioni si deve sapere che l'abolizione dello scalone costa circa 9 miliardi, e quindi serve a poco fare la voce grossa, come ha fatto il segretario della Cgil Epifani in apertura di trattativa. Occorre una soluzione. Nel frattempo però si interverrà sulle pensioni minime, per far tirare un respiro ai pensionati da meno di 500 euro al mese: con l'extragettito si aumenteranno le pensioni minime di una trentina di euro, e il primo anno arriveranno tutti in una tranche, 350-400 euro in un colpo solo, sicché anche loro si accorgeranno che non facciamo promesse a vuoto. Quanto agli ammortizzatori sociali, si lavora sulla "totalizzazione", cioè sulla possibilità da parte dei lavoratori precari di ricongiungere periodi di contribuzione anche saltuari. Dopo di che, l'appuntamento principale è il prossimo Dpef, che rappresenta un momento centrale perché mostrerà che l'azione del governo ha dato i suoi frutti. Potrà portare a una finanziaria senza manovre e senza la minaccia di tagli e amputazioni, e potrà anche mostrare l'intenzione di tagliare le tasse a chi le paga. Adesso a Palazzo Chigi aspettano con un certo ottimismo i dati sull'autotassazione, che sembrano promettenti e in grado di sostenere una politica seria di riduzione del peso fiscale. Nel frattempo, anche pochi ringraziano, si taglia l'Irap del 26 per cento: «Questo governo di incapaci opera un intervento fortissimo sulla tassazione alle imprese». Altra cartuccia, l'intervento sui costi della politica: che era uno dei punti di attacco della politica prodiana, e che in questo clima diventa una manovra quasi soltanto difensiva. Comunque, c'è in atto un coordinamento fra cinque ministeri, per riuscire ad armonizzare misure di trasparenza e di sfoltimento degli organismi politici e parapolitici. Ma quanto ai costi della politica, dicono i Chigi-pasdaran, sarebbe il caso di non dimenticare che i liberista Berlusconi ha fatto due contratti del settore pubblico con un aumento di oltre il 5 per cento. Fra le curiosità, all'ultimo G8 si è scoperto che non avevamo saldato tutte le rate del Global Forum sull'Aids, che era stato voluto da Berlusconi in persona. Ma la cartuccia vera, e qui i Prodi boys traggono un sospiro fra la speranza e la rassegnazione, è il Partito democratico. Adesso, dopo che Michele Salvati aveva auspicato un atto di coraggio da parte del premier, Prodi lo ha preso alla lettera e ha dato via libera all'elezione diretta del leader. Se lo ha fatto, vuol dire che si è reso conto che si era sviluppata una battaglia potenzialmente letale fra due partiti, uno ufficiale, i "bipolaristi", e uno clandestino, gli "inciucisti". La decisione di accelerare sul Partito democratico nasce evidentemente dal timore che il partito inciucista potesse approfittare delle more in cui si trovava il Pd per tentare altri giochi, altre manovre. Senza rendersi conto, dicono i bipolaristi purissimi di Palazzo Chigi, che progettare e realizzare governi di larghe intese con Berlusconi significa consegnargli l'atout per scegliere il momento del ritiro della fiducia e andare alle elezioni alle sue condizioni. Quindi? Resistere, resistere, resistere. Sapendo che ogni giorno può portare l'incidente fatale. E che il risentimento diffuso contro il governo è altissimo. Ma con l'idea che si può ancora risalire la china. A testa bassa, con la classica ostinazione di Prodi. Perché molti non capiscono, dice l'ultimo dei resistenti, che se cade il governo Prodi non c'è un'alternativa e non c'è lieto fine. È il fallimento del centrosinistra, dell'Unione, di tutta una classe dirigente: e allora ne riparleremmo fra vent'anni. n
L'Espresso, 05/07/2007
50 anni nel blu
Appuntamento il 10 luglio nell'Anfiteatro romano di Benevento. Si celebra la nascita di "Volare", più propriamente "Nel blu dipinto di blu", la canzone italiana moderna più famosa nel mondo, uno dei più celebri capolavori di Domenico Modugno. Com'è noto, la canzone vinse al Festival di Sanremo del 1958 (Modugno era in coppia con Johnny Dorelli), ma fu concepita proprio mezzo secolo fa, in un caldissimo giorno di luglio del 1957. L'autore delle parole fu Franco Migliacci, il più chirurgico scrittore di canzoni degli ultimi cinquant'anni, un perfetto allestitore di sillabe. Mogol sarà un genio istintivo, ma Migliacci, classe 1930, è il più elegante disegnatore di versi, perfetto nella metrica e nelle invenzioni, creatore di trovate siderali come "Tintarella di luna" per Mina, «Tin tin tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te», come se il chiarore notturno si sciogliesse in una pioggia di monetine. Lui e Modugno si erano conosciuti sul set di un film di Francesco De Robertis, "Carica eroica". Ha raccontato Migliacci: «A me tocca la parte di un attendente, un giovane toscano. Il pugliese Modugno interpreta l'attendente siciliano. Il marketing di allora richiedeva le parti regionali». Comincia così un sodalizio fortunato. Un giorno Modugno lo invita a Fregene con due ragazze, ma poi lo scarica e non passa a prenderlo, perché di ragazze ne è rimasta una sola (che sarebbe poi la futura moglie Franca Gandolfi). Migliacci per la delusione si scola una bottiglia di Chianti, e al risveglio rimane stregato da una riproduzione di Chagall sul muro, un quadro intitolato "Le Coq Rouge". Butta giù un incipit: «Di blu mi son vestito per intonarmi al cielo». L'idea sembra interessante, sicuramente non convenzionale, ma la metrica non sta a puntino nella musica. «Ci ho messo sei mesi per capire come si costruisce una canzone», spiegò in seguito Migliacci: «Ma alla fine è venuta fuori "Nel blu dipinto di blu"». Ammessa al Sanremo del 1958 con 99 voti su 100 della giuria selezionatrice. E dire che l'arrivo di Modugno sulla Riviera dei fiori fu accolto da uno scetticismo generale: «Non ha il vibrato», commentavano con ironia i cantanti confidenziali dell'epoca. Ma quando sul palcoscenico Modugno, nel suo smoking color crema, spalancò le braccia nel suo grido liberatorio, esplose una specie di delirio. Nell'Italia eccitata dal boom economico, il volo di Modugno e Migliacci scatenò un entusiasmo incontenibile. Sembrava che tutto il paese si fosse messo a volare sull'onda di quella canzone. In sala il pubblico, impazzito, agitava i fazzoletti, rideva, piangeva. Ventidue milioni di copie vendute nel mondo dal solo Modugno. Terza all'Eurofestival, prima in classifica per tredici settimane negli Stati Uniti, interpretazioni di tutti, fra gli altri anche di Dean Martin. Ma la prima vera sostenitrice di "Volare" era stata Virna Lisi, che era in compagnia con la coppia Migliacci-Modugno. Mentre la consacrazione alta venne da Massimo Mila, che disse: «Modugno non è una voce che canta: è un uomo che canta». E aggiunse che nello stile del cantante pugliese si avvertivano strati di sonorità mediterranea, materiali sonori antichissimi, echi millenari di cultura popolare. Il concerto-tributo di Benevento (che è previsto in prima serata su Raiuno il 13 luglio), intitolato "Un uomo in frac", è ideato da Piero Ameli, regista Duccio Forzano. Si alterneranno sul palco artisti che hanno lavorato con Modugno, a cominciare da Migliacci, e musicisti contemporanei che riconoscono un tratto comune con l'autore di "Volare", come Simone Cristicchi, Morgan, Sergio Cammariere, Neffa. n
L'Espresso, 05/07/2007
Bene, bravi, basta
Fare un bilancio critico del passaggio in video di "Viva Radio2", il programma radiofonico condotto da Rosario Fiorello con la complicità di Marco Baldini e di Enrico Cremonesi, è un esercizio reso arduo dal coro di entusiasmi che ha accolto la programmazione di Fiorello&C. la settimana scorsa su RaiSat Extra, prima serata. Innanzitutto, i rallegramenti principali andrebbero rivolti al direttore, Marco Giudici, il quale ha capito da tempo quale potrebbe essere la funzione e la vocazione di un canale satellitare come il suo: essere una televisione corsara, produrre eventi inattesi, magari di nicchia ma di grande qualità, anche quando si tratta di intrattenimento puro. Quanto a "Viva Radio2", al di là degli epinici, bisognerebbe dire che c'è una sfasatura netta fra un programma pensato per la radio e il suo trasferimento in televisione. Sono due linguaggi diversi che vengono unificati: funziona, l'operazione? Sì e no. Certo, le macchiette di Fiorello funzionano quasi sempre, anche se nella tessitura degli sketch traspaiono continue concessioni alla volgarità di cui si farebbe volentieri a meno. I numeri in diretta sono ottimi (memorabile Gino Paoli con i Milestones guidati da Enrico Rava). Anche le telefonate, come quella di Vasco Rossi che comunica l'orario del concerto di San Siro, sono divertenti; un po' meno Valentino Rossi, che fatica a dimenticare di non essere più un ragazzetto. Ma forse è la formula di "Viva Radio" che sta mostrando un po' la corda: succede, quando un successo di nicchia diventa un successo di massa. Accadde ad "Alto gradimento" di Arbore e Boncompagni, per dire, programma madre di tutti i tormentoni. C'è un metodo praticamente infallibile per valutare il livello qualitativo di una trasmissione: il programma comincia a calare di efficacia quando i protagonisti danno l'impressione di divertirsi più di quanto non si diverta il pubblico. Perché comincia un gioco di complicità, di aspettative presto realizzate, di battute previste che effettivamente arriveranno, si manifesta qualche ovvietà. In breve. "Viva Radio2" ha dato ciò che poteva dare. Era moltissimo, è vero. Ma adesso è a un bivio. Continuare, raccogliendo un consenso sempre più ampio e generico, e quindi poco innovativo. Oppure fare il gran salto: passare in televisione, cambiando formula e reinventandosi. Se non osa Fiorello, nel conformismo e nell'impero dei format, chi può farlo?
L'Espresso, 05/07/2007
Il proprietario Silvio non basta più alla Cdl
È bastato l'annuncio della candidatura di Walter Veltroni per modificare le aspettative: secondo qualche sondaggio il futuro Partito democratico ha guadagnato in pochi istanti quasi dieci punti percentuali, e il centrosinistra ha ripreso la maggioranza delle preferenze. Il che spiega qualcosa di interessante sulla politica italiana: in primo luogo dice che la struttura del consenso è estremamente volatile, tanto che adesso bisognerebbe capire che cosa volessero dire Berlusconi, Bossi e Fini quando sostenevano, dopo le elezioni amministrative, che l'Unione non ha più la maggioranza nel paese. Secondariamente, l'arrivo di Veltroni sulla scena politica nazionale mette allo scoperto i problemi della Casa delle libertà. Perché la crisi del centrosinistra è la prova provata del suo tasso interno di democrazia: l'Unione, compreso il Partito democratico, è un'alleanza caotica, in cui però non ci sono padroni. Di fronte al sommovimento che ha investito il centrosinistra, la Cdl continua a rappresentare una formazione politica di tipo proprietario. Il titolare del patrimonio politico, Silvio Berlusconi, si è intestato 13 anni fa il ruolo di leader, gran dignitario, ideologo e candidato premier, e non lo ha più mollato. Adesso però il gioco potrebbe diventare insostenibile. I colpi di talento del Cavaliere, compreso il fantasmagorico lancio della rossa Michela Vittoria Brambilla come sua possibile erede, non fanno altro che confermare l'identità della coalizione di centrodestra come un feudo. Dentro la Cdl non si può parlare di competizione fra leader alternativi; al massimo si parla e si parlerà di successioni, donazioni ed eredità. La giustificazione dei berluscones è sempre la stessa: Berlusconi non si discute, perché ha preso i voti del popolo. Tutto vero: ma bisognerebbe capire secondo quale formula democratica questo patrimonio di consenso dovrebbe essere trasmesso all'erede. I principali leader dell'alleanza "delle libertà" appaiono tutti, in realtà, leader dimezzati. Umberto Bossi è stato gravemente mortificato dalla malattia, e la Lega ha perso le sue caratteristiche di forza di movimento (per certi aspetti assomiglia, paradossalmente, all'ultimo Psi, quando Bettino Craxi si ingabbiò nel Caf, smarrendo le sue caratteristiche corsare). Gianfranco Fini è il capo di un partito sempre in mezzo al guado, che un giorno completerà il passaggio nei Popolari europei: può contare su un gradimento ampio ma imprecisato, culturalmente poco caratterizzato, a cui il capo di An conferisce un'immagine rassicurante quanto generica, senza che si intraveda una cultura capace di unificare il centrodestra sotto la sua guida. E Pier Ferdinando Casini è un uomo in attesa, probabilmente più adatto a soluzioni di larghe intese, e quindi a un mutamento strutturale del sistema politico italiano, che non a confrontarsi per la conquista della leadership. Finora la Cdl ha lucrato ampiamente sull'ondata mediatica negativa che ha investito il governo Prodi. Ma fra poco le condizioni della contrapposizione politica potrebbero cambiare, e anche radicalmente. Il centrodestra non si troverà soltanto nella comoda situazione di opporsi visceralmente al governo di centrosinistra, magari colludendo in Parlamento con la sinistra radicale per bloccare il processo di liberalizzazione innescato da Pier Luigi Bersani (la destra liberale che protegge le corporazioni e il Pubblico registro automobilistico costituisce un'altra delle meraviglie attuali). Dovrà affrontare la battaglia politica contro il centrosinistra rinnovato, guidato da un leader nuovo. E qui allora occorrerebbe davvero che le contraddizioni a destra emergessero con chiarezza. Per farle venir fuori sarebbe utile che la fase di ristrutturazione del centrosinistra e la scelta della nuova leadership avvenissero con trasparenza, chiarezza, assunzione di responsabilità. Di fronte alla destra "patrimoniale" ed ereditaria, sarebbe di impatto fortissimo un centrosinistra, e un Partito democratico, in cui le culture e i protagonisti si confrontassero senza schemi predefiniti. Finora la leadership veltroniana si è affermata per superiore volontà mediatica. Ma per recuperare il Nord, i ceti produttivi, il lavoro dipendente qualificato, l'imprenditoria moderna, la nuova borghesia, occorre mettere in campo anche quelle figure che si radicano nella cultura di un paese industriale, nella sua storia riformista: quella vicenda avviata con il centrosinistra "storico", con la modernizzazione fondata sull'integrazione della classe operaia nei circuiti della politica e del consumo. Altrimenti la destra si sentirà autorizzata a ereditare se stessa, con un ultimo gioco di prestigio di Berlusconi.
L'Espresso, 12/07/2007
La Rai si è persa Veltroni
Sarebbe stato singolare se le reti Mediaset avessero deciso di mandare in onda la diretta del discorso di Walter Veltroni al Lingotto. Fanno una televisione commerciale, sono orientate politicamente, hanno un padroncino che ha un nome e un cognome, e che si immagina ancora come il futuro avversario elettorale del candidato del centrosinistra (anche se risulta dalle indagini di Ilvo Diamanti che il Cavaliere le prenderebbe dal Sindaco). Ma la Rai? La Rai si ammanta ancora dell'alone del "servizio pubblico". E allora, per quale ragione nessuna delle tre reti generaliste pubbliche ha intercettato l'opportunità di mandare in onda l'evento politico e mediatico di questo avvio d'estate? Salvo errori e omissioni, l'evento del Lingotto è stato seguito da La7 (che sotto l'impulso di Antonello Piroso conferma una sua vocazione all'intervento non ovvio nella cronaca politica: a proposito, arrivederci a "Omnibus"); ha avuto le telecamere di Sky Tg 24 e del canale satellitare Nessuno Tv (e per ciò che riguarda il sistema di informazione internettiano è stato coperto da Repubblica Tv, che sotto la guida di Paolo Garimberti ha registrato un record di contatti e di messaggi, a dimostrazione dell'articolarsi sempre più differenziato e complesso del consumo di informazione, oltre che naturalmente dell'interesse che l'ingresso in campo di Veltroni rivestiva). Bene. Anzi male. Il fatto che la Rai abbia ignorato la possibilità di una diretta da Torino sembra la dimostrazione pulita pulita che l'espressione "servizio pubblico" è un flatus vocis. Tanto per dire, nelle ore e nei giorni successivi, l'evento del Lingotto è stato l'argomento di discussione principale non soltanto sulla carta stampata, ma anche nelle chiacchiere quotidiane della gente. E allora, se la tv pubblica non segue avvenimenti di questo genere, che ci sta a fare? Ai tempi della gestione di Angelo Guglielmi, Raitre era diventata una rete corsara, che irrompeva nella cronaca quotidiana, la valorizzava, la rendeva un fenomeno televisivo. Oggi la Rai brilla per la sua assenza. Ci saranno ragioni altissime per giustificare questo atteggiamento, ma alla fine rimane il senso di un ruolo che non viene esercitato. "Servizio pubblico" vuol dire anche la capacità di incrociare l'offerta, cioè i temi della cronaca, con la domanda degli spettatori. Conclusione: complimenti a La7, e agli altri che hanno colto questa occasione.