L’Espresso
L'Espresso, 12/07/2007
Vasco il magnifico
Quando il giovane ed efebico Vasco Rossi si presentò a "Discoring", un programma domenicale di novità musicali, per presentare la sua canzone "Albachiara", Gianni Boncompagni non si trattenne dal prenderlo bonariamente per il naso. Vasco era il classico rocker precipitato a Roma dalla provincia. Veniva da Zocca, sull'Appennino modenese, aveva alle spalle studi di ragioneria non proprio convinti e l'università a Bologna presto abbandonata. Rocker, per modo di dire: dentro la sensibilità musicale del Blasco c'erano echi cantautorali, una passione per Lucio Battisti, la sensibilità commerciale del disc jockey, il gusto moderno di Punto Radio, e in fondo a tutto la voglia di fare musica per raccattare pollastrelle. Era il meglio che Boncompagni potesse aspettarsi per divertirsi, con battute finto-comprensive e vero-cattivelle. D'altronde, come si fa a non divertirsi con il terribile e placido Vasco: perfino quando rispondeva con piccoli movimenti delle labbra agli sfottò del cinico presentatore Boncompagni, in cui si intuiva il suo inevitabile e represso "vffncl", c'era nel suo sguardo un aspetto giocoso, quello di uno che si sta giocando la vita e un avvenire, senza troppi scrupoli e senza nessuna illusione, dunque con un divertimento implicito. Partirono le note di pianoforte introduttive della sua canzone, «Respiri piano senza far rumore...», e qualcosa cambiò, nell'atmosfera in studio: come se ci si rendesse conto che quella canzoncina romantica contenesse qualche piccola verità, l'aura che si dispiega misteriosamente intorno ai pezzi destinati a fare epoca. Il tempo tiranno infierì sull'esecuzione (vabbè, era un playback, ma non importa), e mentre partiva la schitarrata cosmica ed elettrica a metà esecuzione, il regista fece sfumare la musica. Vasco addio. O meglio, arrivederci. Più tardi fu Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore reggiano morto così presto, e così malinconicamente, a sdoganarlo, proprio su "L'espresso". Perché descrisse la sua voce «da fumatore», i suoi gesti vagamente schizzati, il suo corpo da proletario, intuendo che dentro e dietro l'aspetto del contadino e del montanaro c'era qualcosa di più di un'apparenza. Vasco era già destinato a diventare il re dei giubbotti neri, antitesi perfetta del divo dei pianoforti bianchi, il crepuscolare stornellatore Claudio Baglioni. Sarebbe andato a Sanremo, avrebbe litigato con Nantas Salvalaggio, avrebbe accentuato il suo atteggiarsi da bevitore, avrebbe ripetuto ad libitum «capìtto», come fa ancora adesso nel suo lessico che è esattamente identico a quello dei suoi fan. Sarebbe anche finito in una di quelle storiacce da ragazzo precipitato troppo rapidamente nel successo, in cui la coca fa da contrappunto nasale alle notti da sballato, e a un ritmo di vita che è quello di "Siamo solo noi", generazione senza santi né eroi, protagonista di peccati prevedibili e di redenzioni sempre precarie. Una vita estrema, ma anche una vita provinciale, e perciò comprensibile. La vita di uno che è sempre consapevole che il successo in fondo è casuale: poteva andare bene, poteva andare male, è andata benissimo, più che benissimo, è andata alla grandissima. Vasco infatti è diventato un idolo. Idolo per la vita spericolata, perché va o è andato al massimo, perché ha sfidato la notte e la discoteca, si è perso nei parcheggi fuori da un locale fumando Lucky Strike e guardano le cartacce per terra: perché si è identificato fino in fondo con i suoi ammiratori, con le generazioni che l'hanno amato e che lo amano, che affollano i suoi concerti, e si commuovono e si divertono perché condividono qualcosa (molto) di lui. Condividono anche la sua parabola. Era magro, capelluto, poetico, trasognato, cattivo. Adesso è grasso, pelato, tollerante. Quello che ha perso in immagine l'ha guadagnato nella passione del pubblico. Perché lo «sbudellato» Vasco, come lo definì Roberto D'Agostino, è riuscito in un'impresa formidabile: cioè a farsi voler bene da tutti, diconsi tutti, gli italiani. Non è un fenomeno facilmente spiegabile. Nessuno infatti è in grado di spiegare la ragione per cui Vasco Rossi riscuote un successo travolgente e generalissimo. In Svizzera o a Innsbruck, appena fuori dal confine, sarebbe uno sconosciuto. La sua non è musica all'avanguardia, è un suono di mainstream, potente e accattivante ma senza vertici di originalità. Eppure, grazie anche ad autori e collaboratori come Tullio Ferro (ex chitarrista di tendenza che ha firmato i suoi hit più clamorosi), le sue composizioni sono diventate l'accompagnamento più naturale per l'intera società italiana, senza distinzioni d'età o di classe sociale. Che cosa c'è allora nelle canzoni di Vasco? C'è la trasgressione controllata, lo scarto consentito, la rivoluzione comportamentale moderata. Non c'è tanta politica, dato che il suo mondo è una realtà sostanzialmente individualistica. In quanto rocker, ha sempre manifestato simpatie per Marco Pannella, anche in seguito alle campagne antiproibizioniste dei radicali. Ma si tratta di un radicalismo non di destra, almeno nei pronunciamenti ufficiali, che fa da compagno di strada al progressismo implicito dei suoi tifosi sugli spalti e sul prato. Poi c'è la formidabile energia che si trasmette dal palco, quel muro di suono che non cessa di affascinare il pubblico, la potenza delle chitarre, dato che il rocker sa che la musica va fatta con le sei corde elettriche, e con il pulsare di una batteria percossa con giusta violenza, altro che storie. Salvo qualche intervallo lirico, in cui come i grandi guitti spreme lacrime con il cinismo dei poetastri. E infine ci sono le sue parole, così semplici e così efficaci: ancora oggi, a metà dei suoi cinquant'anni, Vasco scrive come scrivono gli adolescenti, con le maiuscole e le sottolineature, i punti esclamativi, i puntini di sospensione, come se si trattasse di un diario da mostrare in pubblico. Con tutto questo, chi può negare l'efficacia degli slogan vascorossiani? «Coca Cola sì, coca casa e chiesa... Con tutte quelle bollicine...». Sembra uno spot pubblicitario, lo stacco perentorio di un messaggio che sottolinea vicende scolastiche e avventure da tribù generazionale, ragazzate pericolose e innocue, sentimento collettivo, ingenuo e mica tanto, tradotto in perfetta formula cantata. Lo si vede agitarsi sul palco, come di recente a San Siro e all'Olimpico di Roma. E ci si chiede come sia possibile la passione di massa per un tipo così. Poco attraente, viziato, "brutto": in una parola, irresistibile. Si capisce: Vasco è una polarità semantica che riassume tutto il suo pubblico, le esistenze dei fan, le loro parole, le loro frustrazioni, consentendo a ognuno dei suoi ammiratori e ascoltatori di identificarsi con lui. Anzi, ancora meglio: di pensare che il suo successo clamoroso è tanto incomprensibile da non generare invidie, e quindi capace di generare comunità. Vasco vince, convince, trionfa, urla e magari si commuove, perché anche i rocker hanno un'anima, magari di seconda mano, senza instillare frustrazioni nell'indistinto collettivo che si riunisce festosamente intorno a lui. È ricco ma tratta la ricchezza con la nonchalance dell'ex povero, consapevole che tutto questo, i soldi, il fuoristrada, la vita comoda, può andarsene com'è venuto. Al massimo dovrà pensare a come saranno i suoi sessant'anni, se il miracolo della sua leadership morale sulla musica italiana potrà ancora replicarsi. Ma per adesso, a dispetto di tutti gli altri, c'è un solo leader, non vuole comandare nulla, e si chiama Vasco: per sempre. n
L'Espresso, 12/07/2007
Effetto Walter
L'effetto Veltroni è passato sul centrosinistra e sulla politica italiana come un ciclone. Ma i giochi sono tutti fatti? L'abilità del nuovo entrato ha davvero acceso sul flipper democratico la lucina "game over"? Non c'è dubbio che l'iniziativa del sindaco di Roma ha realizzato un evento politico di quelli che segnano una fase. Il blitz ha avuto successo. Si può dire tuttavia già adesso che il Partito democratico è un soggetto che si crea "senza se e senza ma" a immagine e somiglianza del candidato Veltroni? Dipende dagli angoli di osservazione. Per il momento dentro Palazzo Chigi si guarda all'appuntamento del 14 ottobre marcando silenziosamente le distanze. Romano Prodi ha bisogno di tempo per dimostrare che l'azione di governo ha dato risultati positivi e che dopo le stagioni delle tasse è arrivato il momento della redistribuzione. Nel circuito prodiano si sta cercando di mettere a fuoco il problema principale e per molti versi paradossale dell'esecutivo: come è possibile che una serie notevole di risultati positivi (controllo dei conti pubblici, livello dell'inflazione, dati sull'occupazione, sostegno alle imprese con il taglio del cuneo fiscale, ridefinizione della politica estera) si siano trasformati nella percezione pubblica in una catastrofe. Gradimento al 26-27 per cento, minimo storico, secondo i dati commentati su "la Repubblica" da Ilvo Diamanti. Ma la stessa candidatura di Veltroni, con il suo eccezionale rimbombo sui media e nell'opinione pubblica, ha dimostrato che la struttura del consenso è fluida. L'impopolarità di Prodi è il frutto di aspettative asimmetriche: il Nord si aspettava sviluppo e ha avuto tasse, il Sud voleva trasferimenti pubblico e non ha avuto nulla, i ceti medi qualificati avevano fatto buon viso a una redistribuzione virtuosa, a favore dei ceti non privilegiati, che invece non si è vista. In ogni caso l'ingresso in campo del sindaco di Roma ha spostato in modo sensibile l'asse del confronto politico. Anche l'accanimento di Silvio Berlusconi contro Romano Prodi appare in qualche misura sfasato: serve per mobilitare il becerume contro le «stronzate» di Prodi, ma non va al di là della propaganda, oltre a introdurre un ulteriore quoziente di volgarità nel confronto politico. Il capo dell'opposizione sente il bisogno di scuotere il governo e la maggioranza per cercare di ottenere le elezioni a breve termine, ma per diversi aspetti oggi il baricentro dell'Unione non è più nell'esecutivo. O meglio. Il governo Prodi costituisce la sintesi del centrosinistra, e proprio per questo mostra continuamente la corda, in quanto deve mediare a fatica tra sinistra riformista e sinistra alternativa. Ma in questo momento, se si vuole guardare alla prospettiva, ciò che conta davvero è il riallineamento degli schieramenti in vista del futuro confronto politico. Ora, per ciò che riguarda il centrodestra la situazione è semplice. Berlusconi deve trovare il modo per giungere alle elezioni politiche in modo da riproporsi credibilmente come leader della sua coalizione e candidato insostituibile alla premiership. Ha poco tempo. Il rientro di Veltroni nella politica nazionale, con il discorso al Lingotto, ha rappresentato anche un salto generazionale cospicuo. Ogni giorno che passa, il Cavaliere invecchia. Magari non nella sua tenuta fisiologica e temperamentale, ma nella sua immagine, nel complesso degli interessi che rappresenta, nel contenuto simbolico dei suoi ideologismi e nella visione del paese che proietta nel futuro. In sostanza, Berlusconi incarna quel complesso di pulsioni che fanno riferimento alla piccola e piccolissima impresa, al mondo delle partite Iva, a quell'universo di cittadini che sono disposti a scontare l'inefficienza pubblica come un prezzo da pagare per consentire l'interesse privato. Veltroni invece rappresenta un'Italia proiettata nell'immaginario, capace di accensioni emotive, in cui l'economia sembra la subordinata di un'evoluzione "postpolitica", largamente fondata su fenomeni postmaterialisti. Il salto qualitativo è impressionante, e per certi versi anche affascinante: in fondo, il confronto ideale tra la destra proprietaria di Berlusconi e la sinistra liberale di Veltroni si configura come un faccia a faccia tra il Novecento liberoscambista del Cavaliere e del sarkozismo alla lombarda di Giulio Tremonti, da una parte, e dall'altra il Duemila scintillante e spettacolare dell'autore delle notti bianche, l'impresario politico della movida romana, delle inaugurazioni, dei concerti, dell'economia dei servizi, dei media, del cinema, della reinterpretazione dell'effimero come strumento di consenso. Ma nello stesso tempo la postpolitica di Veltroni pone serissimi problemi anche al centrosinistra e al Partito democratico. In primo luogo perché per ora l'investitura a leader del sindaco di Roma ha tutte le caratteristiche dell'operazione dall'alto, un gioco di strategia gestito da Massimo D'Alema e Franco Marini, con la collaborazione attiva di Dario Franceschini (un cervello politico di prim'ordine, capace di intuizioni notevoli, ma propenso a un realismo che potrebbe penalizzare le aspettative che si sono appuntate sul Pd come partito della fusione "calda", promosso dal basso, frutto di una mobilitazione popolare), e con il sostanziale via libera di Francesco Rutelli, che per il momento sembra avere rinunciato, almeno nel breve periodo, alle ambizioni personali. Resta da vedere quindi se il partito che nascerà il prossimo 14 ottobre può effettivamente organizzarsi intorno a una sola, per quanto amplissima e totalizzante, proposta politica. Se intorno a Veltroni si costituirà uno spettro di correnti secondo uno schema democristiano. A dispetto delle valutazioni più fideistiche sul carisma di Walter, nel Nord è presente una forte aspettativa legata ai temi più tradizionali della sinistra riformista, come il lavoro, l'impresa, la competitività sui mercati, le liberalizzazioni, l'impulso alla concorrenza e alla sburocratizzazione. È davvero possibile ricondurre tutto questo a una candidatura unico? Nella sua intervista a "L'espresso" e nella lettera di martedì scorso a "La Stampa", Arturo Parisi ha confermato la sua concezione di un partito basato su un confronto esplicito, aperto, senza schemi precostituiti. Il principale ideologo del Pd, Michele Salvati, ha proposto sul "Corriere della Sera", con una lieve provocazione, la candidatura di Guglielmo Epifani contro Veltroni: un modo per segnalare la necessità che il "partito nuovo" nasca dalla dialettica e non dall'unanimismo, concludendo che se non c'è competizione, alle primarie del 14 ottobre «starò a casa». Nel frattempo però sono diventate fortissime le pressioni verso una soluzione unitaria. Piero Fassino ha frenato il possibile candidato Bersani chiedendo che non venga scalfita «l'unità riformista». A Milano, il sottosegretario Enrico Letta, compagno di strada se non "gemello" del ministro dello Sviluppo economico, ha sviluppato una piattaforma programmatica senza sciogliere i dubbi sul suo impegno diretto. Rosy Bindi ventila una candidatura di testimonianza, ma nel frattempo è in surplace. «Lanciare un partito nuovo», dice Salvati, «è stato un atto di coraggio. Ma ora questo coraggio non bisogna rimangiarselo». Anche perché, come sanno bene a Palazzo Chigi, il punto centrale e critico della candidatura di Veltroni riguarda il rapporto con il governo Prodi. Nel caso di una intronizzazione mediatico- plebiscitaria, il rapporto fra il leader designato Veltroni e l'esecutivo di centrosinistra diventa critico. Se invece parte il gioco delle candidature, con il Partito democratico che diventa un'arena di confronto, Prodi si può riparare a Palazzo Chigi in attesa del risultato, e proporsi ancora come una sintesi pratica fra le anime della sinistra moderata. In sostanza: con un Veltroni plebiscitato, sarà difficile mantenere una diarchia. Con un Veltroni sottoposto al vaglio democratico del voto delle primarie e a una competizione credibile, Prodi può prolungare se stesso: come un governo di garanzia, come un garante delle intese possibili in una politica che non è definita a priori. n
L'Espresso, 19/07/2007
Largo alle larghe intese
In parte politico, in parte analista. Sono le due facce di Pier Ferdinando Casini, presidente emerito della Camera, anima e corpo dell'Udc, unico e a suo modo coerente vessillifero della necessità di scomporre e ricomporre il sistema politico italiano. «L'avevo detto un anno fa in un'intervista al "Corriere della Sera": Romano Prodi può effettivamente essere protagonista in una fase nuova, ma a un solo patto: che prenda atto della situazione politica reale. Cioè di una maggioranza numericamente insufficiente e politicamente contraddittoria. Se invece deciderà di insistere sul fondamentalismo bipolarista, se farà dell'accanimento terapeutico sulla formula con cui è giunto a Palazzo Chigi, da quella formula verrà sommerso. È passato un anno e non mi sembra di avere avuto torto». Si dà il caso che Prodi avesse puntato tutto sull'alternativa a Berlusconi. Sarebbe stato politicamente impraticabile cambiare in corsa, nonostante il risultato elettorale controverso. «In astratto posso anche apprezzare il rigore con cui si è attenuto al suo schema. Ciò non toglie che la mia analisi sia stata confermata dai fatti. Ora Prodi viene additato come il responsabile dell'impasse del centrosinistra, è diventato il bersaglio non solo dell'opposizione, e in questo c'è anche una visibile ipocrisia. Perché è chiaro che il problema non è Prodi: il problema è la sua coalizione». L'ingresso in campo di Walter Veltroni non ha modificato l'assetto dell'Unione? «È un'immagine più fresca. Ma poiché io non credo nell'antipolitica, e neppure nella concezione che il consenso possa essere modificato semplicemente da trovate di comunicazione, vorrei ricordare che qui il problema è di sostanza. Veltroni, se sarà lui il candidato del Partito democratico e dell'intero centrosinistra, si troverà di fronte la stessa equazione impossibile di Prodi. Può far lievitare i sondaggi, muovere indici di popolarità, smussare le contraddizioni fra sinistra riformista e sinistra radicale: ma una terapia di affabilità non basta a curare la malattia dell'Unione». Ma molti gli attribuiscono la qualità essenziale di poter competere con Berlusconi sul suo stesso terreno. E questo ha perlomeno ridotto il pessimismo del centrosinistra. «Sarà pure competitivo, ma su quali basi? In questo caso sto con Andreotti, a pensare male si fa peccato ma ci si azzecca: e allora vedo la furbizia con cui si tiene fuori dai problemi veri del paese: l'abilità nello scivolare sulle cose è la dimostrazione che Veltroni sa di avere difficoltà serie. Così facendo non ha minimamente contribuito a chiarire l'equivoco di fondo, cioè le divisioni irrecuperabili nel centrosinistra, e si crogiola nell'idea che cambiando il cuoco cambi anche la minestra». Una leadership nuova e circondata dal consenso può proiettarsi positivamente sull'equilibrio della coalizione. «Sono fenomeni illusori. Se la formula rimane quella di Prodi, si continua a chiudere gli occhi sul fatto che quella formula è intrecciata in modo inestricabile con la crisi del sistema politico del nostro paese. E questa crisi, trovo superfluo ripeterlo ma evidentemente ci sono troppi che fanno finta di non vedere, deriva dal fatto che per vincere le elezioni ogni schieramento è obbligato ad allearsi con le componenti estreme. Quando Veltroni fa l'apologia di questo sistema, dovrebbe sapere che si taglia le gambe da solo. E quindi non va da nessuna parte». Ammetterà che sarebbe bizzarro candidarsi alla guida del centrosinistra avendo in mente formule politiche trasversali. «Ma guardi alla sua posizione sul referendum: lo appoggio ma non firmo. Può essere semplice politicismo, un modo per non scontentare nessuno. Ma può essere anche qualcos'altro: un espediente per prendere tempo, in attesa di avviare uno sganciamento lento dal fronte referendario. Perché se il Pd vuole una centralità nel sistema politico, non può che agire per riformarlo in profondità; se invece accetta la logica della continuità significa che dà per scontato il Prodi bis, che magari si chiamerà Veltroni uno, senza toccare nessuno dei problemi reali del funzionamento della politica». Si può anche ragionare diversamente: se il bipolarismo non funziona perché è condizionato dalla presenza di fazioni marginali irriducibili, occorre forzare il sistema per produrre processi di aggregazione. È l'obiettivo del referendum. «Ecco un altro miraggio. I referendari espongono ragionamenti lunari. Prenda i loro slogan. Dicono che vogliono "ridare lo scettro ai cittadini". Ma quale scettro: se il disegno referendario andasse in porto avremmo due comitati elettorali, senza nemmeno la possibilità offerta dal Porcellum di scegliere fra i partiti di una coalizione. Negli schieramenti ci sarebbe un grande abbraccio, del tutto strumentale, con lo scopo di fare scattare il premio di maggioranza, e appena lasciate alle spalle le elezioni i partiti si dividerebbero nuovamente. Questa sarebbe una riforma?». Dentro il centrosinistra si è riaffacciata l'ipotesi dell'uninominale a doppio turno. Si teme che sistemi diversi, basati sulla proporzionale, siano il cavallo di Troia di operazioni neo- trasformiste, per le grandi coalizioni e l'abbattimento del bipolarismo. «Noi siamo contrarissimi al doppio turno. Abbiamo celebrato un congresso in cui una mozione ci vincola esplicitamente al sistema tedesco, basato sulla soglia di sbarramento contro la frammentazione e sulla sfiducia costruttiva come garanzia di stabilità. Perché vorrei che fosse chiaro: il nostro obiettivo primario non è la difesa del bipolarismo ma della democrazia dell'alternanza. Quanto alla grande coalizione, è un'esperienza che si è realizzata in diversi paesi europei: in Germania ma anche in Austria e in Olanda. In Germania perché a suo tempo Gerhard Schröder rifiutò di fare l'accordo con l'estrema sinistra. Prodi ha seguito la strada opposta, e i risultati si vedono». E allora, qual è in prospettiva il ruolo dell'Udc? «Punto primo, io non ho la vocazione della crocerossina, meno che mai rispetto al governo Prodi. Punto secondo, la crisi attuale non si risolve con i ritocchi. Il presidente Napolitano ha detto che con la legge elettorale attuale non si vota? Allora occorre mettersi a un tavolo per fare una legge elettorale. Per questo ho proposto un governo di "responsabilità nazionale", con pochissimi punti all'ordine del giorno: legge elettorale, poche modifiche costituzionali essenziali da realizzare in tempi brevi, non oltre il 2009. Dirò di più, lo stesso Berlusconi, di fronte a un'ipotesi del genere, dovrebbe pensarci seriamente: quale migliore opportunità democratica per giungere a una situazione che legittima tutti i giocatori?». Forse Berlusconi non ha interesse a una partita basata sul fair play. «Già, ma finora l'ideologia della spallata è stata controproducente. Si possono portare anche cinque milioni di persone in piazza contro il governo, ma con quale risultato? Che i riformisti e i moderati del centrosinistra, come Lamberto Dini, e lo stesso Di Pietro, vengono spinti fra le braccia di Prodi». Quindi lei propone non il colpo d'ariete, ma l'abbraccio mortale. Tuttavia Berlusconi proclama di poter vincere le elezioni a mani basse anche senza l'Udc. «È una prospettiva inesistente. Renderebbe la Cdl ancora più estremista e priva di un riferimento moderato che è politicamente essenziale per il centrodestra. Oggi l'Udc vale doppio perché è in grado di attrarre anche aree politiche che hanno votato per l'Ulivo. Quindi non è il caso di scherzare». I politologi dicono che l'elettorato centrista non esiste più. «D'ora in avanti prometto che querelo chi dice che noi siamo di centro. Io voglio essere percepito come un modernizzatore. Destra e sinistra non dicono praticamente più nulla sulle grandi questioni delle democrazie contemporanee. Ci sono due punti su cui il governo Prodi è riuscito a costruire l'immagine del proprio fallimento: in primo luogo la sottovalutazione della questione fiscale; e subito dopo il tema della sicurezza, su cui il governo dà continuamente segnali schizofrenici. Oggi in altri paesi la riduzione del peso fiscale è un argomento trattato anche da sinistra. E la sicurezza è un tema che coinvolge soprattutto le fasce sociali più deboli, quelle più esposte al rischio. Sono argomenti di destra o di sinistra? E mi dica lei se l'università meritocratica non è una proposta che va a garanzia dei ceti popolari, per premiare chi ha qualità a dispetto delle condizioni sociali di partenza». E la laicità è di destra o di sinistra? «Ma anche in questo caso, sul tema dei valori, c'è stata da parte dell'Unione una sottovalutazione impressionante. In Italia la Chiesa esiste e, anzi, copre un vuoto della politica. Il bisogno identitario di fronte alla società multietnica, multiculturale, multitutto, è stato incarnato dalla Chiesa. E quelli partono dai Dico, ma andiamo». Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Nell'ultimo anno il centrodestra non ha brillato per una capacità di proposta politica. Si è limitato a mettere all'incasso la perdita di consenso del governo. «La crisi di Prodi è stata così rapida e violenta che ha impedito un esame autocritico serio nella Cdl. Dovevamo guardare a ritroso e fare un bilancio analitico: bene sul mercato del lavoro con la legge Biagi, bene con la riforma delle pensioni, insufficienti sulle liberalizzazioni. Nemmeno il nostro elettorato ce l'ha chiesto, questo esame. Ci siamo limitati a fregarci le mani perché la campagna elettorale, lo si è visto nel caso delle amministrative, ce la faceva Prodi». La struttura del consenso è volatile. Vincere le amministrative non significa avere in tasca le prossime elezioni politiche. «Proprio per questo rivendico una posizione di coerenza quando chiedo una riflessione approfondita sui problemi di sistema e sulle soluzioni responsabili. Non è colpa mia se tanti in privato mi danno ragione e in pubblico mi danno torto. Da Gianfranco Fini, ad esempio, mi sarei atteso un grado maggiore di solidarietà, ma forse la generosità non è fra le sue caratteristiche. Capisco di più, semmai, gli amici di Forza Italia: hanno un'obbligazione forte verso Berlusconi e sono tutti un po' paralizzati». Onorevole Casini, lei sembra la voce che grida nel deserto. Solo che nessuno vuole ascoltarla. «Oggi in politica il buonsenso è in minoranza. Sicché navighiamo a vista, in attesa di un venticello che faccia cadere il castello di carte della politica italiana. In una condizione ogni giorno più degradata. Con Veltroni che invoca il buon gusto e le buone maniere nel rapporto fra contendenti politici: ma si vede che svolge un compitino. E sono grato agli amici dell'Udeur che mi hanno proposto alla guida della commissione d'inchiesta sui servizi segreti: ma sono palliativi. Anche perché spero che questa commissione non si faccia mai. Ce ne sono state abbastanza. Io su Pollari non ho assolutamente nulla da dire. Se mi chiede un parere sui servizi, rispondo che vorrei in Parlamento un'analisi seria dei meccanismi di reclutamento al loro interno. Come se non si sapesse che è prassi abituale, per gli uomini di governo, piazzare i loro autisti nell'organico dei servizi segreti». In conclusione, il bipolarismo per lei non funziona. Ma l'ipotesi del governo di "responsabilità nazionale" è circonfusa di nebbie. C'è spazio per qualche altro protagonista? Per qualche cavaliere bianco? «E chi sarebbero i cavalieri bianchi?». I soliti. Luca Cordero di Montezemolo, Mario Monti... «Una volta che Montezemolo, all'assemblea generale della Confindustria, ha tenuto una relazione che avremmo potuto sottoscrivere quasi integralmente, dall'ala berlusconiana sono arrivate le critiche, con toni anche risentiti. Invece, se la politica non vuole cedere all'antipolitica, non può chiudersi su se stessa. La forza di una politica ragionevole consiste anche nell'aprirsi a quelle personalità che possono dare un apporto significativo alle soluzioni necessarie per il paese. Altrimenti siamo portatori solo dei nostri egoismi». n
L'Espresso, 19/07/2007
Chi terrà insieme le due sinistre?
Di qui al 14 ottobre, data di fondazione del Partito democratico, ci sarà la possibilità di analizzare le prospettive del "partito nuovo", e di capirne le potenzialità. Ma c'è un problema che finora è stato solo sfiorato, e che è a suo modo un problema eterno, cioè strutturale, per il centrosinistra. Vale a dire la convivenza fra le due sinistre, quella liberal-riformista e quella "alternativa". A essere meticolosi le sinistre sono ben più di due, dal momento che andrebbero considerate le componenti ambientaliste e neosocialiste. Ma se il Pd, secondo la formula più volte espressa da Walter Veltroni, dovrà essere un partito «a vocazione maggioritaria», la linea di confine del conflitto possibile, all'interno del centrosinistra, corre nei pressi dei Comunisti italiani e di Rifondazione comunista. Quindi oltre a marcare una piattaforma esplicitamente riformista, come Veltroni ha fatto nel discorso al Lingotto di Torino, occorrerà anche provare a immaginare come dovrà svilupparsi il rapporto con l'altra sinistra. Finora infatti si è assistito a un incepparsi dell'azione di governo (esemplare, e preoccupante, nel caso delle pensioni), in cui le resistenze dell'ala oltranzista si sono intrecciate con la posizione della Cgil, che non può farsi scavalcare dai partiti, con la conseguenza di una impasse assai negativa per l'immagine dell'esecutivo. La situazione è stata riassunta con lucidità lievemente sadica da Giulio Tremonti, il quale ha dichiarato: Prodi non è uno qualsiasi; ha governato il Paese; è stato, bene o male, alla presidenza della Commissione europea. Se si è piantato in un anno, vuol dire che nessun altro, nel centrosinistra, può illudersi di farcela. In altre parole: il problema del centrosinistra è irrisolvibile. In realtà, Prodi ha tentato di risolvere la questione attraverso il suo voluminoso programma, le famose 281 pagine di super-mediazione. Ma il totem del programma rischia di diventare un vincolo, se non è sottoposto al vaglio della realtà e del contesto economico in evoluzione. Ad esempio: il taglio del cuneo fiscale alle imprese era stato pensato in una fase in cui c'era la sensazione di una perdita di competitività da tamponare a ogni costo. Per rispettare la promessa alle imprese, si sono impegnate risorse mentre l'apparato produttivo italiano stava riprendendo a fare profitti. Ne è venuta fuori una misura "pro-ciclica", di quelle che il centrosinistra aveva spesso rimproverato al centrodestra (come nel caso della detassazione degli utili reinvestiti nel primo governo Berlusconi). In sostanza, il programma è uno strumento che può diventare un vincolo ulteriore, come prova anche la discussione infinita sullo scalone. E allora, se non basta un accordo di programma, qual è la risorsa chiave che può garantire la gestione di un rapporto non paralizzante con la sinistra alternativa? Non c'è una risposta unica. È possibile che a dispetto delle apparenze (e agli appelli di Fassino a Pier Luigi Bersani a non infrangere «l'unità riformista») a Veltroni possa far comodo una candidatura alle primarie che si dislochi alla sua "destra": nel senso che la presenza di una piattaforma industrial-liberalizzatrice (come quella di Enrico Letta, per intenderci), potrebbe assicurargli una posizione di maggiore centralità nel Pd e nell'intera coalizione, e quindi un ruolo più dinamico nella trattativa con la sinistra meno riformisticamente malleabile. Ma a prendere sul serio l'etichetta di «partito a vocazione maggioritaria», viene da dire che non si diventa partiti maggioritari senza sistema maggioritario. Per il centrosinistra, le future elezioni politiche avranno due fronti, non uno solo: il primo sarà quello del confronto, durissimo, con il centrodestra; il secondo sarà quello che designerà i rapporti di forza interni all'Unione. Non è pensabile in questo momento che il Pd possa diventare maggioritario semplicemente in base alla propria condizione di partito dei riformisti più volonterosi. La leadership di coalizione dovrà essere conquistata sul terreno di una competizione interna all'alleanza. E allora è inutile illudersi che riforme elettorali all'acqua di rose possano rendere centrale il futuro partito di Veltroni. Se c'è una strada, per il Pd, è quella segnata dal referendum di Guzzetta e Segni. Che imporrebbe regole severissime e una torsione formidabile del sistema politico: ma poiché l'alternativa è la vittoria semiautomatica della destra, e simmetricamente una grande palude a sinistra, vale la pena di correre l'avventura. Anche perché un partito nuovo non nasce nella bambagia, bensì nell'asprezza del confronto. E allora, se il Pd vuole vincere, innanzitutto non deve avere paura di giocarsi la partita senza riserve mentali.
L'Espresso, 26/07/2007
clemente per vocazione
Caro Clemente J. Mimun, ci scusi per questi consigli non richiesti. Ma adesso che si è insediato sullo scranno più alto del Tg5, le confessiamo che siamo preoccupati. Vede, abbiamo tutti la sensazione che la battaglia politica raggiungerà il calor bianco, e che il suo Editore mobiliterà tutte le risorse disponibili per creare un clima favorevole a sé e negativo per i suoi avversari. Ci è capitato di vedere un settimanale del gruppo che nell'ultimo numero ha pubblicato quattro editoriali, diconsi quattro, tutti per dimostrare quanto è insopportabile Romano Prodi con il suo governo. Lei non cada nella trappola. Dicono che si debba a lei l'invenzione del "panino"; ma ai nostri occhi lei rimane il creatore dell'Almanacco del popolo in chiave moderna, quando trasformò il Tg2 in un rotocalco popolare, in cui la parte dedicata al costume e all'intrattenimento, con i servizi sull'estate e sull'inverno, e con i problemi delle mezze stagioni, bilanciava quel tanto di politica che si riteneva strettamente necessaria. Quel telegiornale ha fatto scuola. Non tanto per ciò che ha compiuto il suo predecessore Carlo Rossella al Tg5: Carlito lo conosciamo bene, e sappiamo quale sia il suo godimento intellettuale nel trasformare le notizie in intrattenimento. Ma anche l'insospettabile direttore del Tg1, Gianni Riotta, ha capito che il telegiornale non è semplicemente una fonte di news, ma una forma di televisione, e cioè di spettacolo, da condire con una visione "sociale" su ciò di cui parla la gente: il sole, il caldo, il mare. Quindi lei non rinunci alla sua vocazione. Ha certamente la possibilità di prendere le notizie e di trasformarle in una clava contro il governo, la sinistra, Veltroni, il Partito democratico, la sinistra alternativa. Ma a che servirebbe? A nulla. Non serve a niente maramaldeggiare contro la sinistra. Da lei ci aspettiamo uno scintillio, il glamour, una patina di sciccheria, e quando occorre una full immersion nel popolo. Non ci deluda. La nazione ha bisogno anche di una destra dal volto umano. Tanto, lo sanno tutti che il paese, e quindi l'audience, è di destra. È un paese di vecchi, di pensionati che amano incazzarsi, di prepensionabili che pensano solo alla pensione. Non ci metta dell'intenzione in più: lasci che le cose vadano come vanno. Almeno, subiremo il ritorno della destra come una malattia, come una fisiologia: lei, per favore, ci metta un po' di humour.
L'Espresso, 02/08/2007
Pensionato non buttarti via
Certo, non è detto che ci sia la necessità estetica o morale di guardare uno show di prima serata come "Dal Lago di Garda... Stasera mi butto» (vista la puntata di martedì 17 luglio, prima serata). I conduttori del programma, andato in onda da Arco nel Trentino, sono Caterina Balivo e Biagio Izzo. Sono i tipici programmi in cui si è quasi certi di incontrare Alba Parietti (che invece pochi giorni dopo presenziava al Festival delle voci nuove di Castrocaro); e invece all'improvviso sbuca il volto dell'olimpionico Jury Chechi: ma che ci fa? Vabbè che un'ospitata non si nega a nessuno, sia in senso attivo sia in senso passivo, ma è proprio necessario che una gloria nazionale vada a buttarsi stasera? Il problema, tuttavia, il punto cruciale, è un altro: perché il pubblico di "Stasera mi butto" si diverte? Per avere lumi converrebbe recuperare il saggio di Francesco Piccolo "L'Italia spensierata", in cui si racconta un atroce pomeriggio passato fra il pubblico di "Domenica In", che per molti aspetti è illuminante. Anche nel caso di "Stasera mi butto" la gente fa una certa impressione: soprattutto gli uomini danno l'idea di essere dei coatti del divertimento. Partecipano a giochi rispetto ai quali sono inadeguati, cantano canzoni che non sono capaci di cantare, ascoltano uno sketch tremendo su Adamo ed Eva (no, Adamo ed Eva no, con la storia della costola, quella no!), fanno di tutto per assumere una faccia da televendita e sghignazzano. Non c'è nulla di più triste dei sessantenni entusiasti (finto-entusiasti?) che fanno i mondani quando vengono chiamati dal presentatore. Si vedono anche da questi particolari i danni fatti da un sistema previdenziale troppo generoso, che manda i lavoratori in pensione troppo presto: una volta a riposo, i pensionati vanno in televisione, con i risultati che si vedono. Acchittati, tinti, stirati, abbronzati, fanno i mondani, producono grandi risatacce, si piegano in due dal ridere: magari fino a ieri sono stati distinti manager o ottimi rappresentanti di commercio, chi lo sa. E adesso invece sono lì a farsi compatire, e talvolta a farsi prendere in giro. Alla fine, viene il dubbio che davvero la televisione sia ciò che è diventata, marmellata e melassa, perché ha raggiunto un'identificazione perfetta e totale con il pubblico. Ma allora, vietato lamentarsi della tv: conviene in primo luogo lamentarsi di noi tutti, gli italiani televisivi.
L'Espresso, 09/08/2007
Gran Premio Formula Voyeur
L'osceno, come il diabolico, si nasconde nei particolari. Chi ha visto l'incidente capitato al pilota inglese Hamilton nelle prove ufficiali del Gran premio di Formula uno al Nürburgring, non è rimasto colpito dalla dinamica: alla velocità di 260 chilometri l'ora salta una ruota, la MacLaren di Hamilton parte per la tangente, rimbalza sulla ghiaia e si infila nella barriera di pneumatici. Tutto comprensibile. Era stata molto più spettacolare, qualche gara fa, la carambola del polacco Kubica, che era servita a dimostrare la tenuta della cellula di sopravvivenza delle macchine attuali. Ma l'incidente di Hamilton ha avuto una caratteristica particolare: poiché è stato seguito "in soggettiva" dalla telecamera posta sulla vettura, si è potuta vedere tutta l'uscita di pista, fino all'impatto con il muro di gomme. A colpire molti spettatori sono stati gli istanti che hanno immediatamente seguito l'urto: un'inquadratura perfettamente centrata ha mostrato le gambe del pilota inglese, scosse da un tremito irrefrenabile. Era un movimento convulsivo, che sembrava segnalare una condizione terribile per il giovanissimo Hamilton. Il quale è poi riuscito a portarsi fuori dalla vettura ma solo per accasciarsi sul terreno. È chiaro che se si montano le telecamere sulle monoposto si accetta il rischio che mostrino "tutto". Un rischio accettabile dal momento che la tecnica ha praticamente espulso la morte dalla Formula uno. Ma se mostrare una scena è giusto, far vedere numerosi replay di quella scena può non essere giusto affatto. Rivedere per l'ennesima volta le gambe di Hamilton agitate come in una diabolica pedalata è sembrata una specie di peccato mortale dettato dal voyeurismo tecnologico. Certo, la Formula uno è noiosa e va vivacizzata. E nel caso di Hamilton non si sa a chi dare la colpa: alla regia tedesca?, all'inconscio tecnologico che vuole esibire tutto, compresa la morte in diretta? (perché poteva effettivamente trattarsi di una tragedia in diretta). Ma il reality show sulle convulsioni di un corpo traumatizzato dovevano risparmiarcele. Vista una volta, quella scena, poteva essere semplicemente affidata alle parole dei cronisti (molto brava, anche in questo caso, tutta l'équipe della Rai). Perseverare è effettivamente diabolico, e lo spettacolo del corpo offeso nel pomeriggio del sabato non è riscattato dal lieto fine della vicenda, con Hamilton in pista e in tv 24 ore dopo.
L'Espresso, 09/08/2007
Tremonti d’alta quota
C'è chi si considera in linea di successione rispetto a Silvio Berlusconi per una sorta di fisiologia politica, poiché è baciato, non si sa bene perché, dalla popolarità: Gianfranco Fini. C'è chi è un possibile successore in quanto amministra una porzione dell'eredità democristiana e quindi è il titolare della rappresentanza del voto moderato: naturalmente, Pier Ferdinando Casini. Ma tutti gli eventuali eredi dell'inventore di Forza Italia, del Polo e della Casa delle libertà, compresi Gianni Letta, Letizia Moratti e la cavallina del Cavalier Caligola, Michela Vittoria Brambilla, dovranno fare i conti con il candidato ombra, l'uomo delle visioni strategiche e totali, insomma il professor Giulio Tremonti. Il quale ha scelto una propria strada, diversa dagli altri uomini politici del centrodestra. L'obiettivo: conquistare la Cdl attraverso la cultura. Impresa non facile, dato che il centrodestra è un coacervo di detriti culturali: ancora oggi Forza Italia ha «istinti di mercato, non una cultura di mercato», come disse Giuliano Amato alla nascita della destra post prima Repubblica. Alleanza nazionale, nonostante le proclamazioni sulla «destra identitaria», come ripete sempre Gianni Alemanno, è un contenitore di ideologismi depotenziati. L'Udc è la portatrice del tradizionale pensiero fatto di cattolicesimo e di liberalismo leggero, con l'eco della "dottrina sociale" della Chiesa. E la Lega? Fermi tutti, la Lega è importante. Perché è sempre stata uno dei perni del pensiero politico di Tremonti. Fu Tremonti a ricucire i rapporti con Bossi. Anzi, è stato Tremonti il creatore del "forzaleghismo", cioè l'ideologia che oggi è alla base del patto di ferro di Forza Italia con il Carroccio. Per capire quale sia l'impianto culturale del tremontismo bisogna prenderlo sul serio: e prima di tutto riconoscergli una coerenza nel tempo: Tremonti si era accorto delle potenzialità disgregative della globalizzazione già all'epoca di "Nazioni senza ricchezza, ricchezze senza nazione", anno 1993, un libro che comprendeva, oltre al suo, saggi di Sabino Cassese, Francesco Galgano e Tiziano Treu. Dunque, da sinistra era sbagliato considerare Tremonti un ultraliberale canonico. A leggere la "Lectio Tremontiana" (così figura il titolo sul suo sito www.giuliotremonti.it), cioè la "lezione sulla politica" in 4 mila parole tenuta il 14 luglio a Padova nella sede della scuola giovanile estiva di Forza Italia, i fondamenti del pensiero tremontiano sono messi in chiaro subito: nel "mundus furiosus" successivo alla caduta dei blocchi geopolitici della guerra fredda, «si è spezzata la catena Stato-territorio-ricchezza». La ricchezza si è dematerializzata, tutti i confini sono diventati porosi: il "pensiero unico", che con le formule della Banca mondiale e del Fondo monetario, cercava di riportare tutta la realtà di oggi a un «uomo a taglia unica», si è esaurito presto. È durato dieci anni, dice Tremonti. Il neoliberismo ultras si è scontrato con le dinamiche furibonde del mondo dematerializzato, delocalizzato, derealizzato. E quindi? Secondo l'ex ministro dell'Economia, oggi conviene ricorrere a formule empiriche, di portata meno generale: «Mercato se possibile, governo se necessario». La formula non è dissimile da quella sanzionata nella revisione dell'Spd a Bad Godesberg nel 1959, e dalla pratica di Ludwig Erhard, prima ministro e poi successore di Kornad Adenauer, uno dei principali autori della "economia sociale di mercato". Difatti, l'obiettivo polemico di Tremonti è il «mercatismo», «sintesi inefficiente di liberalismo e comunismo», insomma una superfetazione ideologica che si scontra con i dinamismi reali del mondo attuale. La denuncia tremontiana era contenuta in un libro del 2005, "Rischi fatali", dove già nel sottotitolo e a proposito della Cina si accennava al «mercatismo suicida». Dunque, la concezione tremontiana disegna un orizzonte di crisi. «Dopo quasi due secoli, la sinistra non è più il progresso e il progresso non è più a sinistra». Siamo alla fine dell'età delle masse, alla fine del mito dello sviluppo scientifico lineare, di fronte alla crisi dello Stato nazionale, e all'inutilizzabilità del keynesismo, cioè del "deficit spending" in funzione sociale. E allora, davanti allo spettro che si aggira per il mondo, la "Krisis", qual è la risposta? Non è nella postpolitica, dice Tremonti, non è nel pensiero debole, non è nella «ideologia delle liberalizzazioni»: il vuoto non può essere colmato «dal populismo leggero, dal relativismo, dal sincretismo, dal veltronismo». Già, Veltroni. È lui il totem negativo, il «Truman show» politico, lo spettacolo «in cui tutto è falso», in cui la sinistra sostituisce i vecchi bisogni con i desideri. Il Sessantotto ha abrogato l'autorità. Walter è il Sessantotto «aggiornato». Allora, di fronte al pensiero debole post-sessantottesco, degradato nel consumo, la formula di Tremonti richiama cinque parole pilastro: Autorità, Responsabilità, Valore, Identità, Ordine. In tutta la "lectio" non c'è la parola chiave del centrodestra, "libertà". Siamo davanti a una restaurazione filosofica? L'ideologo Tremonti non ci va leggero: «Il nostro problema, in un'età di crisi universale, è quello di conservare valori che per noi sono eterni». Ai Dico e ai Cus si oppone «una visione antica e forte della società, fatta da principi e da doveri». Quanto all'Identità, anche qui non si scherza: «La difesa dell'identità è la difesa delle nostre diversità tradizionali, storiche e basiche: famiglie e "piccole patrie", vecchi usi e consumi, vecchi valori». Eccola dunque la destra tremontiana: un tanto di Colbert nella reinterpretazione sarkozista, con un pensiero alla frattura fra "Gemeinschaft" e "Gesellschaft", cioè fra comunità e società, individuata da Ferdinand Tönnies alla fine dell'Ottocento: «Saremo infatti più forti, nel futuro, solo se saremo più ancorati al nostro passato. Per inciso se - a differenza che nel resto dell'Europa - in Italia non ci sono (...) gli orrori della xenofobia, è anche per questo. Ed è anche per merito della fondamentale funzione democratica esercitata dalla Lega Nord». Il "progetto culturale" di Tremonti è curioso perché è onnivoro. Di tanto in tanto riecheggia temi francofortesi: «Dobbiamo dunque e possiamo reagire alla dittatura del relativismo. Una dittatura di tipo soft, ma pur sempre una dittatura». Sembra di risentire certe tesi di Herbert Marcuse sulla «tolleranza repressiva». Ma in Tremonti l'apocalittismo francofortese è rovesciato nella ricerca di un nuovo equilibrio, un ritorno alla tradizione, forse quell'autenticità oggi corrotta dal postmoderno. Si avvertono echi di corporatismo tedesco, si sente qua e là l'eco del primo ideologo della Lega, cioè Gianfranco Miglio: ma in Miglio c'era una tragicità mutuata dalla lezione di Carl Schmitt, in cui è il sovrano, il decisore, a tagliare il nodo di Gordio, cioè il viluppo delle contraddizioni politiche. In Tremonti ci sono formule, talvolta luccicanti per un alone fuori tempo: «Rispetto al consumismo, noi preferiamo il romanticismo». Ancora l'Ottocento. Nella sintesi tremontiana, alla crisi della tarda modernità si reagisce in due modi: «In verticale», con la concentrazione del potere nel leader (modello Sarkozy) o «in orizzontale», con le grandi coalizioni (il modello Merkel). Come ha dichiarato di recente in un'intervista a Sergio Rizzo, la democrazia oggi richiede «più potere ai governi a fronte di più domanda di governo che viene dai cittadini». O l'uomo forte, o il governo forte. È una concezione coerente, ma tutt'altro che tranquilla. Sembra prediligere l'autorità alla auto- organizzazione sociale. Il consolidamento del potere all'articolarsi delle istituzioni. Di sicuro, rispetto alle strutture sovranazionali privilegia l'aspetto locale, territoriale, quel «misto di paura e di orgoglio, una riserva di memoria, un retroterra arcaico e umorale che negare, comprimere o sopprimere, non solo è difficile. È dannoso». Così stando le cose, si capisce che la rappresentazione di Tremonti non è affatto una proposta programmatica esclusiva per Forza Italia. Il partito di Berlusconi infatti ha una piattaforma culturale fondata su una vulgata liberale. Invece il Tremonti-pensiero è tutto fuorché ovvio. Innesca un arco voltaico che intende saldare la vecchia destra con una destra "nouvelle". Insomma, è una sintesi che progetta di mettere insieme il forzaleghismo con il "law & order", ultima riserva culturale di An. La sua base politica, ambiziosa, è in un partito unico del centrodestra. Non è detto che piaccia a Berlusconi. Non piacerà a Fini, che trova esposte concezioni che il suo partito non riesce a elaborare. È il manuale del partito di Tremonti. Dovranno tenerlo d'occhio a sinistra, perché è una concorrenza insidiosa. Ma dovranno prenderlo sul serio anche a destra, perché quella tremontiana è un'alternativa: a tutti i partiti della (ex) Casa delle libertà. n
L'Espresso, 09/08/2007
Fini, numero due in cerca d’autore
Come leader politico Gianfranco Fini è un uomo fortunato. Basta guardare la sua storia: è uscito senza pagare prezzi, in voti o in scissioni vere, dal bozzolo di «fascista del 2000», in cui si era racchiuso da solo, allorché sosteneva che i valori fascisti erano inalienabili, non soggetti al mutare della storia; gode di un favore popolare che appare in diretta proporzione alla sua assenza di scelte (sarebbe difficile stabilire, ad esempio, quali sono le linee di politica economica di An, se è a favore o contro le liberalizzazioni, a quale modello di crescita il partito è legato); e infine adesso ha avuto il colpo di fortuna della fuoruscita da An della destra di Francesco Storace e di Teodoro Buontempo. Anche quest'ultimo caso assomiglia molto a una vincita alla lotteria. Perché l'esodo volontario dei colonnelli della destra più tosta toglierà qualcosa alla vocazione "identitaria" di An, ma spalancherà al partito lo spazio al centro del sistema politico. La meravigliosa idea postdemocristiana di Fini sta per giungere al traguardo. A questo punto il postfascista, postnazionalista, postpopulista Fini potrebbe dedicarsi alla conquista dell'elettorato centrista, proponendosi come leader politico in proprio, e candidando il proprio partito a rappresentare i ceti moderati. In fondo An è pur sempre il vecchio partito dell'ordine missino, il partito dei marescialli e della disciplina: se i facinorosi delle borgate e i destri duri se ne vanno, si spalancano praterie per il partito della rassicurazione, della protezione sociale e legalitaria, e naturalmente anche il partito presidio delle mille corporazioni che si sentono insidiate dalle ubbie liberalizzatrici della sinistra. Qual è il problema, allora? Semplice: Fini non esisterebbe se non avesse avuto alle spalle Silvio Berlusconi. Fin dal 1993, quando il Cavaliere all'inaugurazione del supermercato a Casalecchio dichiarò la sua scelta per lui, ancora missino, candidato sindaco a Roma contro Francesco Rutelli, il capo di An sa di dovere tutto a Berlusconi. Berlusconi lo ha sdoganato politicamente, Berlusconi gli ha dato un posto nel governo, Berlusconi gli ha offerto la possibilità di fare lo statista internazionale, con il ministero degli Esteri e il lavoro con Giuliano Amato per la Costituzione europea. E poi il capo di Forza Italia sa distinguere le cose che contano dalle sciocchezze. Quando si scherza, Berlusconi può divertire il popolo forzista con le sue battute goliardiche («Da una parte cinquanta trombe che squillano, dall'altra cinquanta squillo che trombano») o raccontare barzellette sulla donazione a don Verzè per la ricerca sulle staminali (per venire smentito il giorno dopo dal prete boss del San Raffaele: «Mai visto un soldo»). Ma quando si fa sul serio, Berlusconi ha sempre riconosciuto che Fini era «l'alleato migliore». E dunque il capo di An è al bivio: se a 55 anni vuole per il futuro prossimo un ruolo di numero uno dovrebbe finalmente decidere di giocare in proprio. Per fare il Sarkozy dovrebbe liquidare il suo Chirac. Ma Fini sa che per guadagnarsi la leadership del centrodestra dovrebbe aprire un contenzioso con Berlusconi, e al momento il centrodestra non se lo può permettere. Le elezioni possono arrivare alla svelta, e non ci si può presentare alle urne con un'alleanza in pezzi. E allora Fini ha optato per una strategia morbida. Nell'assemblea nazionale di An, sabato scorso, ha criticato Berlusconi: avere fermato il processo unitario del centrodestra è stato «un errore strategico», e quindi con l'arrivo dell'autunno An lavorerà in proprio, per rafforzare la sua «identità aggregante». La spiegazione sarebbe che il processo di aggregazione che avviene nell'Unione con il Partito democratico non è un fenomeno irrilevante, e richiederebbe processi unificanti anche a destra, verso il Partito unico dei moderati o il Partito delle libertà. In realtà, la presa di posizione di Fini è quella di un personaggio in cerca d'autore: cioè il ruolo tipico dei possibili e sempre procrastinati successori a Berlusconi. Abbiamo già Pier Ferdinando Casini, l'erede della democristianità; Giulio Tremonti, l'ideologo "forzaleghista"; Umberto Bossi, il detentore del potere di veto. Adesso sembra scendere in pista, o in scena, anche Fini, il capo dell'Italia nazionalcorporativa. Forse è tardi. La classe dirigente del centrodestra sembra essersi consumata con Berlusconi. Gli eredi del capo di Forza Italia sono cresciuti grazie alla tutela del grande capo; ma è anche possibile che per questo, quando si troveranno con il vento in faccia, non avranno più la forza di uscire dalla loro funzione di numeri due.
L'Espresso, 23/08/2007
Che bella vita da cani
Gli show di prima serata di Raiuno si dividono in due categorie: la serie A è quella degli spettacoli milionari, con le superstar e la possibile presenza in studio o fra il pubblico del direttore di rete Fabrizio Del Noce; la serie B invece è quella dei programmi che costano meno, non hanno troppe pretese, e magari fanno ascolti superiori alle previsioni. Prendiamo il caso di "Mi fido di te", lo spettacolo condotto da Fabrizio Frizzi: la classica serata di un giorno da cani, dato che la trasmissione è basata su una sola ideuzza, cioè ospiti che vengono in studio con il loro cane e raccontano le loro storie di rapporti umani e canini. Naturalmente per vedere un programma del genere ci vuole una dedizione particolare: bisogna appartenere a quei sei o sette milioni di italiani che posseggono un esemplare canino, o almeno essere fra gli altri sei o sette milioni che hanno in casa un gatto (ma vanno bene anche conigli, criceti, canarini, pappagalli e pesci rossi, perché chi tiene in casa un animale impara ad amare tutti gli animali). Insomma, bisogna essere portati. Avere l'inclinazione. Dopo di che, il divertimento è assicurato, perché i cani, di razza o meticci, che arrivano in studio scortati dagli ospiti sono di solito attori perfetti, e protagonisti di storie talvolta meravigliose. Ad esempio è incantevole la vicenda di Paolo Belli, l'uomo orchestra della scuderia Ballandi: ha un cagnolino nuovo che è diventato il cane guida del suo cane cieco. Ma anche le altre storie, come quelle raccontate da Corinne Cléry con il suo bassotto vecchissimo, un matusalemme dei basset hound, sono state di notevole effetto. Notevole anche l'apparizione di Paola Barale, al meglio della forma fisica e del look, con i suoi tre chihuahua. C'erano anche altre avventure, come quella di una ex reclusa diventata in carcere esperta di pet therapy, a dimostrazione che gli animali sono uno strumento di redenzione.Alla fine, "Mi fido di te" risulta un programma tollerante e per famiglie, apprezzatissimo anche dalla labrador nera di chi scrive, che abbaiava con entusiasmo davanti agli esemplari più attraenti. Di solito gli ospiti parlano con molto buonsenso. L'unico difetto, i filmati sulla vita famigliare vista dalla parte dei cani, con scenette domestiche che sono un po' melense. Per il resto, dieci e lode a tutti, Frizzi compreso (che oltretutto ha una perfetta faccia da cagnone).
L'Espresso, 23/08/2007
Tremate le zebre son tornate
Saran belli i rossoneri, saran belli i nerazzù: ma le zebre, ma le zebre, quelle piacciono di più. E quindi si può anche cantare al popolo della serie A, ai tifosi, ai dirigenti, ai manager, ai maneggioni, ai presidenti, ai procuratori, agli allenatori: tremate, tremate, le zebre son tornate. Erano state condannate al rogo in quanto streghe, le zebre da arrostire, a causa del teorema per cui la cupola di Luciano Moggi aveva corrotto i campionati (e tutti gli altri, povere mammole, sante verginelle, avevano assistito allo scempio, reagendo soltanto con pie giaculatorie). Precipitati, come dicono le gazzette sportive, «nell'inferno della serie B», gli juventini tutti, dai giocatori ai tifosi, riemergono finalmente nell'empireo calcistico italiano, guidati dal presidente Cobolli Gigli, immacolato fin dal liliaceo cognome. Il primo effetto è che si sta già diffondendo una certa preoccupazione, fra tutte le squadre da scudetto e nel vasto campo degli anti- juventini. Perché mettiamo che la Juventus vinca due o tre partite di fila, al nuovo esordio in serie A, e allora si diffonderebbe il terrore, il "pavor nocturnus", lo scompiscio diurno, insomma la cachessia, perché come si spiegherebbe, eh cari, che la Juve signora dei campionati col buco vinca senza i complotti moggiani? Anche perché immaginiamo la scena: la Juve in cima alla classifica, con i giornali che titolano a caratteri pazzeschi, Moratti che trema, Mancini che sbianca (altro che le solite deliziose mêches), Galliani che sviene in tribuna, Berlusconi che ammutolisce in diretta. E noi, intendo noi corrotti, noi congiurati che li han visti a Pontida, noi telefonatori di arbitri, noi delle schede telefoniche svizzere, insomma, noi della Juve, in testa alla classifica, con l'elegantissimo Cobolli che direbbe «son soddisfazioni, dopo tanta merda», e l'allenatore, Claudio Ranieri, un vero anglosassone, un "mister" con la zazzera grigio metallizzato, di quelli che se potessero parlerebbero inglese anche in Italia, che alla domanda se pensate allo scudetto risponderebbe ogni volta con irriducibile aplomb: «Noi non facciamo programmi», e poi anche, «Noi giochiamo alla giornata», specificando «day by day, of course». Certo, perché il ritorno della Juve nella serie maggiore significa il ritorno alla normalità, alla prima Repubblica del calcio, ai tempi in cui si poteva dire: «Le partite durano novanta minuti» (specialmente quando l'arbitro in piena sudditanza psicologica concedeva alle zebre un rigore al novantunesimo). Occorre anche confessare, prima di cadere nella faziosità più trucida, che per ora le cose in realtà non vanno benissimo alle zebre, dato che il precampionato è risultato una ciofeca, anche se poi la Juve ha rifilato cinque pappine alla Roma. Soprattutto la difesa, a parte Buffon, fa acqua da tutte le parti ma soprattutto, dicono i critici più autorevoli, dalla parte di Zebina: ma si sa che le difese basta registrarle, e i buchi verranno colmati. Mentre c'è qualche inquietudine più seria per l'attacco. Perché sarà pur vero che ormai lo stile Juve è stato ripristinato, abbiamo messo in panchina Lapo Elkann, a centrocampo John detto Jaki, a sostegno Montezemolo e in prima linea Marchionne (farà il tifo per Marchionni?), ma l'attacco è un problema serio. Primo, perché Trezeguet ormai sembra uno di quei chirurghi che se non è arrivato il bonifico restano fermi in sala operatoria, mentre il paziente è già anestetizzato, con le mani alzate, immobili, in attesa della ricevuta, altrimenti non operano: e Trezeguet non la butta dentro, aspetta il contratto, il bonus, l'indennità di scalamobile. E come tutti i centravanti che hanno da ridire sull'ingaggio e la durata del contratto aveva fatto sapere che gli si erano azzerate le motivazioni. Gli saranno tornate, queste motivazioni? Situazione in fondo non troppo dissimile a quella di Alessandro Del Piero, il quale tiene famiglia ed è un genio nel fare scene madri con la dirigenza: ma come, un tale affronto a me, la proposta di un contratto risibile all'uomo della fedeltà assoluta, alla bandiera juventina, all'uomo zebra! Sicché alla fine i dirigenti bianconeri cedono sempre e gli allungano il contratto, che ormai scadrà quando Alex avrà raggiunto quota 96, non nella classifica dei gol ma nella somma età-più-anzianità, cioè quando sarà da pensione secondo l'ultima riforma previdenziale post scalone e potrà cedere il suo posto a suo figlio. Però il problemino tecnico-tattico è interessante, perché Del Piero ha l'età di Cristo, e la convinzione di poter arrivare ai mondiali del 2010. Chissà se Ranieri avrà la forza di Fabio Capello, che non guardava in faccia nessuno, e dunque mandava Del Piero in campo con il contaminuti, convinto che fosse un campione da usare a mezzo servizio. Che bei tempi, quando l'attaccante invecchiato veniva arretrato a centrocampo, reimpostato nel ritmo, condizionato al nuovo ruolo, e insomma si adeguava, cambiava numero sulla maglia e non rompeva le scatole. Ai tempi dei tempi, l'ha fatto Giampiero Boniperti, a Torino, l'ha fatto Alfredo Di Stefano a Madrid. Mica delle schiappe. Eppure Alex pretende ancora di giocare là davanti, togliendo spazio anche al neoacquisto Iaquinta proveniente dall'Udinese; ma soprattutto esercita quei ricattini sentimentali in cui è tecnicamente insuperabile: se la società non mi allunga il contratto fino al duemiladiciassette, o duemilaventitré, vuol dire che non crede in me... Ovvio che Del Piero sia un simbolo, ma per qualcuno è un simbolo peloso, che quando occorre la tecnica e la forza ricorre al sentimento, per poi fare certi suoi miracolosi o fortuiti gollettini che lo rendono imprescindibile, insostituibile, insindacabile, sicché anche Cobolli Gigli deve chinare il capo e reclinare il giglio. Comunque tremate, le zebre ritornano. E non vogliamo neppure pensare che la Juve possa vincere il torneo (anche se è esente da impegni internazionali, e quindi il suo campionato sarà meno oneroso). Ma dopo un'estate in cui ci hanno promesso Ronaldinho, e non è arrivato neppure Shevchenko, e in cui ragazzotti di medio calibro oppure adolescenti non giudicabili sono stati spacciati per assi stellari, bisognerebbe rendersi conto che il campionato italiano è un torneo di media tacca, rispetto agli inglesi e agli spagnoli. Più o meno al livello del campionato turco. E dunque può anche darsi che la Juve piuttosto precarizzata di questi tempi possa dire la sua, fra tanti turchi napoletani spacciati per turchi brasiliani. Nel qual caso, guarderemo le facce di chi voleva fare l'arrosto di zebra. E non ci prenderemo rivincite volgari. Diremo soltanto: bentornate zebre. Il vostro ritorno in serie A è il ritorno dell'optical. È il ritorno al passato e alla normalità, quando le casacche erano bianche, a righe nere. Ritorna l'ufficialità delle figurine Panini, per la gioia, fra gli altri, di Walter the Candidate. Già, ci starebbe bene una lista per il Pd: "Bianconeri per Veltroni", ottimo. Ma bene anche "Bianconeri per Walter". Oppure "Zebre per W" (anche se, diciamolo sottovoce, sembra più facile vincere le primarie che il campionato). n
L'Espresso, 23/08/2007
Romano Prodi il professore precario
Durante le sue vacanze a Castiglion della Pescaia, Romano Prodi si è infilato in una discussione piuttosto gratuita sull'oro della Banca d'Italia, mentre proseguiva la polemica sulle tasse e l'obbligo dei cattolici di pagarle, dando a Cesare con quel che segue (fra l'altro, è apparsa singolare la posizione assunta dai paolini di "Famiglia cristiana", che hanno sviluppato riflessioni non dissimile da quelle degli evasori più convinti). Eppure, con i soliti limiti del governo e della maggioranza, e fra i consueti ululati dell'opposizione, c'è da dire che Prodi sembra un po' meno precario di quanto apparisse qualche mese fa. I sondaggi, in tempi vacanzieri, probabilmente non lo dicono, ma il presidente del Consiglio si è leggermente rafforzato. Con questi chiari di luna, questo piccolissimo risultato ha qualche non insignificante effetto politico. In sintesi, il fatto è che Prodi finora è rimasto vittima del più colossale fraintendimento da parte dell'opinione pubblica a cui si sia assistito negli ultimi decenni. Risultati sostanzialmente positivi, comunque siano stati ottenuti, sono stati percepito dai cittadini come una catastrofe. La crescita che Silvio Berlusconi sognava la notte, i conti sotto controllo, la disoccupazione al minimo dal 1992, l'inflazione bassa, i soldi del cuneo graziosamente forniti al sistema delle imprese: sono tutti aspetti che saranno discutibili sul piano della qualità intrinseca, ma che comunque appartengono alla categoria dei dati di fatto. A cui si può aggiungere una politica estera riannodata alla tradizione del paese. E a cui si è sommata subito prima delle vacanze l'approvazione della riforma pensionistica, con l'ammorbidimento dello scalone e una serie di misure che si concreteranno in una certa quota di redistribuzione a vantaggio dei pensionati più poveri. Bene, di fronte a questi elementi, sarebbe il caso che qualcuno, nel governo, riuscisse a spiegarsi con gli elettori. Non si tratta soltanto di un problema di comunicazione, dal momento che il governo ha le sue responsabilità nell'avere penalizzato a forza di tasse proprio i ceti sociali in cui il centrosinistra aveva il massimo insediamento; ma un minimo di informazione coordinata non sarebbe inutile. Anche perché si ha la sensazione che il governo Prodi, la maggioranza e la legislatura non debbano cadere a stretto giro di posta. Nonostante tutti gli annunci di Berlusconi, che promette il crollo dell'Unione a ogni uscita pubblica, e a dispetto di una certa voglia di manovra dalle parti del centro della coalizione di centrosinistra (con Clemente Mastella ringalluzzito dall'idea di un piccolo grande centro capace di condizionare entrambi gli schieramenti e di diventare ipoteticamente risolutivo), non sono ancora emerse ipotesi minimamente convincenti sull'eventuale dopo Prodi. Va da sé che se la sinistra radicale vuole riconsegnare il Paese alla destra non ha che da provocare la caduta del governo: eppure anche all'autolesionismo c'è un limite. Ma soprattutto in questo momento si ha l'impressione che problemi piuttosto seri ci siano anche nel centrodestra. Ernesto Galli della Loggia ha scritto che il vero dominus della coalizione, in assenza di idee altrui, è ancora Umberto Bossi. An va in una direzione ancora imprecisata, verso un destino postdemocristiano, pagando qualche prezzo almeno simbolico e romantico alla destra di Francesco Storace; e Pier Ferdinando Casini invoca larghe intese che nessun altro vuole perseguire. In queste condizioni, Prodi si trova nella condizione ideale per far valere le sue caratteristiche principali. L'ostinazione, la capacità di affrontare i problemi uno alla volta, una pazienza suprema nel gestire la mediazione fra i suoi alleati. Certo, non sono doti su cui si può contare per un recupero straordinario di consenso. Ma in questo momento il centrosinistra ha a disposizione due risorse: una è per l'appunto la tenuta del governo Prodi, che mattone dopo mattone dovrebbe continuare a realizzare pezzi del celebre programma di 281 pagine. L'altra è la nascita del Partito democratico, che con il movimento anche un po' caotico suscitato dai candidati determina qualche insperato fenomeno di mobilitazione, per ora negli apparati e negli eletti, ma da settempre in poi, prevedibilmente, anche fra i cittadini che voteranno alle primarie del 14 ottobre. Quindi ogni giorno positivo guadagnato da Prodi è un giorno guadagnato anche dal Pd e dal centrosinistra. E viceversa. Contrariamente alle previsioni, può darsi che il Professore e il nuovo partito si aiutino a vicenda. È la fantasia della politica: qualche volta anche le crisi più gravi diventano una leva su cui appoggiare il recupero.