L’Espresso
L'Espresso, 30/08/2007
Notti tragiche a sognare un gol
Quattordici agosto, vigilia di mezza estate. In tv, il Trofeo Tim, cioè un triangolare di calcio fra Juventus, Inter e Milan (su Canale 5, l'intera serata). Bene, siamo a Ferragosto, le vacanze sono noiose come sempre, nelle località di villeggiatura le famiglie hanno già cominciato a sbranarsi (infatti numerosi omicidi apparentemente inutili si susseguono lungo la Penisola, per la soddisfazione del Tg5, amante della cronaca secondo la lezione di Enrico Mentana), e quindi qualche volonteroso può anche dedicare tre ore e mezzo a una serata di calcio "amichevole", cioè accademico, nel senso che non c'è niente in palio. Certo ci vuole una certa dedizione, perché il calcio è già noioso di per sé, non succede mai niente, e quando accade una inezia la fanno rivedere 12 volte. Ma mettiamo che il clima agostano di questa estate freschissima (nonostante l'effetto serra) induca qualcuno a impegnare la serata per vedere queste partitelle. Se siamo d'accordo sul punto che ognuno è libero di passare il tempo libero come vuole, ci si può mettere davanti al teleschermo. Bella festa iniziale, con tanti bambini con la maglia rossonera, sicché ci si chiede: così piccoli e già milanisti, possibile? Poi, fischiato il primo calcio d'avvio, di solito si resiste dai 12 ai 13 minuti: dopo di che, la palpebra si appesantisce, precipita, si incolla. La soddisfazione principale, prima di precipitare "fra le braccia di Morfeo", come direbbe un telecronista di Mediaset, consiste nel fare un calcolo di quanti budgedt pubblicitari vengono sprecati in seguito all'abbiocco di massa. Non sono molti soldi, perché è presumibile che d'estate le tariffe vengano limate, ma la soddisfazione è comunque notevole. Solo che la pennichella serale non dura molto. Ci si sveglia dopo un'ora, con la sensazione di avere chiuso gli occhi su Alex Del Piero e di averli riaperti su Pippo Inzaghi. È un prodigio televisivo di dissolvenze e di trasfigurazioni oniriche. Nel frattempo però ci si rende conto che il gioco espresso in campo è molliccio. E ci si chiede: ma in città, con le molteplici possibilità della metropoli e anche della provincia, chi mai si sarebbe messo davanti alla tv a guardare il Trofeo Tim? Aspettiamo lumi dall'Auditel. Magari sarà stato un trionfo. Sono i misteri della tv. Fortuna che ci si può riaddormentare, e siccome fra un gol e l'altro passano ore, buonanotte cari, buonanotte.
L'Espresso, 30/08/2007
Si è ingolfato il centro
C'è un padre spirituale per tutti loro, i centristi cattolici: se ne sta ritirato e guarda con serena sollecitudine le manovre centriste. Naturalmente si chiama Camillo Ruini, è stato il presidente della Cei, ma soprattutto ha avuto un ruolo strategico nel riposizionare politicamente la Chiesa in Italia. Prima con il "Progetto culturale", un manifesto che assumeva l'identità nazionale come uno dei pilastri del cattolicesimo, e anche di quel cattolicesimo diffuso, semi-anonimo e poco impegnativo, che per Ruini fa parte del corredo genetico italiano. E poi con l'intuizione, politica e politicista, concretatasi nell'opposizione al referendum sulla procreazione assistita, con la chiamata all'astensione. Ma ciò che il cardinale Ruini non ha mai nascosto è la sua inquietudine per la perdita dello strumento politico per eccellenza della Chiesa, la Democrazia cristiana. Questa è ormai storia: Ruini aveva seguito quasi con angoscia la disintegrazione democristiana dopo Tangentopoli, e mentre Mino Martinazzoli cercava di tenere insieme i cocci con il Partito popolare, aveva ribadito la sua convinzione che la Dc non avesse tradito il suo mandato: «L'unità politica dei cattolici è stata un valore», disse ripetutamente. Sempre lì si ritorna. Al centro, al cattolicesimo, allo scudo crociato, alla sigla "Libertas". E serve a poco sottolineare ciò che sanzionò uno dei massimi studiosi del fenomeno democristiano, l'allora docente di sociologia politica Arturo Parisi: «L'unità è finita con il referendum sul divorzio, anno 1974». Vale a dire: dopo di allora, ogni ipotesi di ricostituzione di un partito unico dei cattolici, sotto una sola sigla, era destinato al fallimento. Sottoposta alle spinte e alle tensioni del sistema dell'alternanza politica, la Dc, qualsiasi forma assumesse, era destinata fisiologicamente a disgregarsi. Solo la sovrapposizione del partito "cattolico" con l'area del potere aveva consentito di tenere insieme tutte le correnti e i particolarismi democristiani. La diagnosi era severa e difficilmente contestabile. Ma c'è sempre una tentazione che serpeggia, e che talvolta riaffiora. La prospettiva della Chiesa come soggetto autonomo dalla politica, che sostiene una gamma di posizioni e di principi senza guardare in faccia chi ne sia il portatore (ovvero la linea dei cattolici democratici come Pietro Scoppola e Luigi Pedrazzi), è sempre stata considerata troppo "illuminista" dalla gerarchia. Anzi, troppo «debolista», razionale ma astratta, come argomenta il politologo Piero Ignazi: «C'è stata un'abitudine troppo forte al rapporto privilegiato con un partito specifico perché il Vaticano si accontenti di qualcosa di meno». Il pregiudizio dei vertici ecclesiastici verso il centrosinistra è noto. La diffidenza era stata mitigata dalla simpatia dei parroci e delle associazioni di base per il Prodi del 1996, inteso come un'alternativa all'"edonismo" di una proposta considerata pressoché aliena dalla visione cristiana (come dimenticare che lo scrittore Vittorio Messori dichiarò che «per le televisioni berlusconiane Dio non è neanche un'ipotesi»?). Ma in seguito la credibilità del centrosinistra si è molto smorzata. A suo tempo l'autodefinizione di Prodi come «cattolico adulto» è spiaciuta non soltanto alla Cei. E la chiesa si sente troppo sfidata non solo dal "laicismo" di alcune frange dell'Unione (il contrario della «sana laicità» di papa Ratzinger), ma anche dalla continua pressione sui temi di confine, dalla "propaganda" dei temi omosessuali, dagli zapaterismi e dal riemergere di posizioni anticlericali. A cui non hanno posto rimedio le posizioni filocattoliche di Francesco Rutelli, con i suoi scarti dal referendum sulla fecondazione assistita alla prefigurazione delle alleanze «di nuovo conio». Fra i candidati alle primarie del Pd, Rosy Bindi ha alle spalle il peccato dei Dico, e Enrico Letta non si è ancora guadagnato leadership e carisma. Chi ha cercato di proporsi come tramite esclusivo è stata l'Udc. Ma agli occhi di molti cardinali e vescovi il partito di Pier Ferdinando Casini non è strategicamente rilevante, almeno fino al momento in cui il suo leader non dovesse assumere un ruolo più centrale nel centrodestra (senza contare che l'exploit "sex & drugs" dell'udicino Cosimo Mele è stato visto come una caduta di immagine e quindi di credibilità). Per il momento può essere più interessante il rapporto a raggiera con i leader "locali", come Letizia Moratti e, sempre a Milano, il sempiterno Roberto Formigoni, utilmente collocato al centro del network di Comunione e liberazione. Anche il rapporto con Silvio Berlusconi è ombreggiato di ambiguità. Una parte della gerarchia vaticana ha pensato di poter giocare con il capo di Forza Italia da potenza a potenza, cercando di sfruttare il bisogno di radicamento e di identità del suo partito, senza però nascondersi che da parte di Berlusconi la strumentalizzazione politica dei temi cattolici era evidente fino all'improntitudine. Finora le figure principali dell'era Ratzinger sembrano esprimere rispetto alla destra un atteggiamento apertamente neodemocristiano. La destra è la mano dura, il liberalismo gridato, il forzaleghismo campanilistico ed elusore, l'antiprodismo esasperato. Il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone e il presidente della Cei Angelo Bagnasco si collocano in una posizione più moderata. Il cardinal Bertone al meeting di Rimini ha esposto una sua visione sulle tasse, in cui ha unito il «dovere» di pagare le tasse alle «leggi giuste» che dovrebbero presiedere al potere impositivo dello Stato. Non dovrebbe sfuggire l'ambiguità intrinseca della parola "giusto" allorché ci si riferisce alle leggi e al fisco. Chi definisce se le leggi sono giuste? L'atteggiamento verso il fisco è discrezionale? Non si pagano le imposte perché lo Stato consente l'aborto? Sempre lo scrittore Messori si è arrampicato su una china scivolosa per spiegare che una certa resistenza al fisco è giustificabile quando i tributi vengono considerati iniqui (e il vescovo di San Marino, Luigi Negri, si è avventurato in una difesa antimoderna della discrezionalità del pagamento delle tasse, secondo una logica da ancien régime). Per tutti questi cattolici diffidenti verso lo Stato, potrebbe diventare di qualche interesse l'ipotesi di un centro politico come quello evocato da Clemente Mastella. Cioè un "prodotto" da mettere sul mercato elettorale senza pretese di egemonia culturale, ma con l'ambizione di condizionare sistematicamente le alleanze e il funzionamento stesso della democrazia. Insomma l'idea di mettere insieme la gran parte dei residui democristiani, a cominciare dall'Udc e dall'Udeur, possibilmente sottraendo qualche frazione di voti e qualche personalità ai margheritici del Pd, un po' di ex dc rifugiatisi in An, per creare una formazione capace di modificare in profondità lo schematismo bipolare. Anche se per ora il riflesso automatico degli schieramenti ha posto il veto su questa ipotesi, essa contiene molte più possibilità tecniche, in chiave politica, di quanto non ne possedesse il progetto del centro cattolico messo in capo all'ex segretario della Cisl, Savino Pezzotta, e a una varia congerie di cosiddetti "teodem". Oltretutto, la suggestione di un piccolo (ma non troppo piccolo) centro cattolico è irresistibile in primo luogo per molti di coloro, come Bruno Tabacci, che continuano a pensare che il bipolarismo è fallito. E va a genio anche al mainstream ecclesiastico, che non si è mai appassionato alle "astrattezze" bipolari, e che è piuttosto indifferente ai ragionamenti sul formato della politica e al modo di funzionare delle sue istituzioni formali. Se dovesse nascere il centrino, potrebbe assomigliare a una minestrina riscaldata. Ma se la minestrina fosse ruiniana e utile a ridare forza al corpicino del cattolicesimo politico italiano, perché dire no? n
L'Espresso, 30/08/2007
Rossa come la vittoria
Andatelo a dire agli operai della Ferrari che la Ferrari è un mito. Qui a Maranello, nella fabbrica più bella del mondo, dove le linee di montaggio sembrano quinte teatrali, e il montaggio una rappresentazione scenica, si lavora duramente sulla materia. Si prendono acciai, matasse di cavi elettrici, blocchi di alluminio, sellerie, componenti elettroniche, e nel giro di una giornata viene fuori una Ferrari. Gli operai (ma più che operai sono operatori, specialisti dell'assemblaggio sul confine in cui la meccanica sfiora l'arte) contemplano con aria critica ogni vettura, socchiudendo un occhio come per prendere la mira, e alla fine della giornata licenziano il capolavoro. Voilà. Non vogliono saperne di miti, leggende e robetta leggera del genere. Non siamo nella bellettristica dell'automobilismo. Qui il mito è fatto di materia, di sostanza, di pesantezza, di realtà. Andate a Modena nella casa museo di Enzo Ferrari, e anche il presidente della fondazione, il direttore di "Quattroruote" Mauro Tedeschini, vi racconterà ammiccando che qualcuno sostiene che nel cortile della vecchia abitazione e prima officina del Drake, in certi giorni di umidità padana, si sente ancora l'odore dell'olio industriale che ha intriso lo sterrato, quasi un secolo fa. Sarà vero, sarà falso, sarà boh. Tuttavia un prodotto in fondo prevedibile come un'automobile ha davvero il bisogno essenziale di un alone mitologico intorno a sé. Altrimenti per quale motivo un londinese della City, arricchitosi con i derivati, dovrebbe bonificare centinaia di migliaia di euro (veri, non virtuali o "subprime"), per portarsi a casa una granturismo del Cavallino rampante. Stesso discorso per l'emiro di qualche improbabile emirato vicino a Dubai, che ne avrà magari una collezione, in garage blindati vigilati forse da una schiatta di eunuchi ignari della fine dell'impero ottomano. Eppure, per intuire il mistero della Ferrari, bastava visitare, nella primavera scorsa, la mostra "Mitomacchina" al Mart di Rovereto, e contemplare la Ferrari Barchetta, disegnata da Pininfarina, tirata in pochissimi esemplari negli anni Cinquanta (in una data che non sta bene precisare, naturalmente, perché i miti non soggiacciono alla sofferente mediocrità umana del tempo, anche se doveva essere il 1957), per restare stecchiti di fronte a un capolavoro autentico. Non soltanto perché uno di quegli esemplari appartenne anche all'Avvocato Agnelli, certificatore di stile e massimo trendsetter dell'epoca, ma perché la bellezza di quella vettura bicolore, verde nella parte superiore e blu metallizzato nella carenatura bassa, il suo stile supremo, l'essenzialità sovrumana del design, la perfezione estetica rendevano la Barchetta un oggetto assoluto: e si capisce poi che finisca al MoMa, accanto ad altri capolavori artistici del Novecento, magari facendone sfigurare qualcuno lì vicino. Insomma si tratta di decidere se la magia della Ferrari nasce dalle corse e dalle avventure di piloti e motori oppure da una produzione industriale che rasenta l'assoluto meccanico ed estetico. Com'è noto, tutto nasce dalla follia cocciuta di Enzo Ferrari, che era pazzo due volte: perché si era messo in testa di costruire le auto più belle del mondo; e in secondo luogo perché c'è riuscito, come solo ai matti può accadere. E quindi anche oggi risulta un po' difficile districare i due aspetti, sport motoristico e produzione commerciale. Nei primi anni Novanta, quando a Maranello arrivò Luca Cordero di Montezemolo, le Ferrari in pista prendevano un secondo e mezzo al giro; e le auto prodotte dal reparto industriale sembravano trattori: grande rumore, un volante manovrabile solo con sforzi erculei, l'antitesi hegeliana del comfort. Il ferrarista doveva soffrire. C'era un prezzo da pagare al mito. Montezemolo strillò: «Voglio il servosterzo!», e lo ottenne. Chiese: «Chi è che controlla la concorrenza?», e in fabbrica lo guardavano come si guarda un alieno: la Ferrari non ha concorrenti. Arrivò il servosterzo, il "customer care", insieme con tutte le astrattezze tecnologiche che oggi sono naturali. E soprattutto arrivò Michael Schumacher. E qui si vede il talento di un leader: perché per colmare il divario con le Renault e le MacLaren, un buon dirigente della Fiat avrebbe cercato di migliorare le monoposto della Formula Uno, impiegandoci magari vent'anni, un passettino alla volta, con grandi fatiche e scarse soddisfazioni. Oggi miglioriamo il carburatore, domani le candele, poi l'elettronica, e il carbonio, e i freni, e i cavalli, e le gomme... E invece "Luca" saltò qualche mediazione intellettuale e meccanica, assumendo il miglior pilota del mondo, proprio lui il grande Schumi. Lo pagò uno sproposito, ma i fatti dimostrarono che sapeva quel che faceva. Tuttavia quasi tutti si sono dimenticati che prima di rivincere il Mondiale di Formula Uno, Montezemolo ci ha messo un'eternità. Eppure, qui si vede il "touch", qui si vede la classe: per alcuni lunghissimi anni, Montezemolo è riuscito a trasformare ogni sconfitta nell'aspettativa di una vittoria. Ogni gran premio era una sofferenza. Ogni sofferenza diventava una speranza. Si era innescato un circuito positivo, che faceva sentire i suoi effetti benefici anche sul terreno commerciale. Così, quando arrivarono i successi, sembrarono perfettamente naturali, una derivazione fisiologica del mito, una filiazione della divinità ferrarista. Invece, quanta fatica, quanta dedizione, quanto "commitment". Perché l'egemonia ferrarista sulle piste mondiali nasceva certo dalla compattezza di "quella sporca dozzina" capeggiata da Jean Todt; ma anche dalle sperimentazioni continue del reparto industriale. Andate, andate a vedere a Maranello la galleria del vento disegnata da Renzo Piano, e resterete sbalorditi. Ma non dimenticate di entrare nella fabbrica più bella del mondo, dove alla temperatura costante di 23 gradi centigradi, senza che si senta il minimo odore di olio meccanico, con isole vegetali e arboree che rendono più naturale l'ambiente, fra operai o operatori che si muovono con classe innata, con l'eleganza antica e modernissima dei meccanici emiliani, emergono un paio di vetture al giorno (una virgola uno, per l'esattezza). E lì vicino, un robot di sofisticazione pazzesca infila una pallina nell'azoto liquido, a una temperatura vicina allo zero assoluto, per infilarla poi in un'apposita cavità del monoblocco: riprendendo la temperatura normale e quindi dilatandosi, lo sferoide si fissa nel futuro motore come nessuna saldatura potrebbe garantire. Ecco. Questo è il mito. Una faccenda di robe dure, metalliche, novecentesche, gestite da meccanismi e software del nuovo millennio. Una sintesi. O forse un esempio di che cosa potrebbe essere l'Italia, se tutta l'Italia fosse capace di assomigliare alla Ferrari. n
L'Espresso, 06/09/2007
Ipnosi da rigore
La7 ha rimandato in onda la finale del Mondiale di calcio 2006, con il commento alternativo di Bruno Pizzul, e l'iniziativa si presta a considerazioni epistemologiche. Liberiamo subito il campo da un problema: la nuova-vecchia telecronaca di Pizzul è stata professionale e utilmente distante, senza enfasi inutili. Ovviamente tutti conoscono il risultato, tutti hanno visto lo stupido "cucchiaio" su rigore di Zidane nel primo tempo e il pareggio di Materazzi, i tempi supplementari, i rigori con l'errore di Trezeguet. Non ci si stancherà di ripetere che la prima provocazione, molto in anticipo sulle opinioni di "Matrix" sulla sorella di "Zizou", è stato proprio l'irridente rigore di Zidane, che ha mortificato Buffon, oltretutto in seguito a una decisione arbitrale dubbia. Sono cose che non si fanno, specialmente in una finale mondiale. Negli istanti decisivi il calcio è fair play, rispetto degli avversari: non si sarebbe stupito nessuno, almeno fra quelli che ricordano le leggi fondamentali del calcio, se qualcuno si fosse preso la briga di sbriciolare un ginocchio al campione francese, così impara. Ma il punto cruciale dal punto di vista di teoria della conoscenza è quello che riguarda la conclusione ai rigori. Ecco, io ho intercettato almeno cinque volte quella fase cruciale, restando ogni volta ipnotizzato. E per una distorsione della curva temporale, o per un fenomeno psicologico curioso, ogni volta mi dicevo: no, gli italiani non ce la fanno. È successo anche questa volta. Capirai, mi dico, se Grosso riesce a mettere dentro l'ultimo tiro, quello decisivo. Un mancino, oltretutto (non bisogna mai fare tirare i rigori ai mancini, sono troppo prevedibili: il portiere è avvantaggiato perché non capisce la finta). E invece Grosso ha segnato anche questa volta. Miracolo: pure in questa occasione il sospiro di sollievo è stato superiore alla soddisfazione. Infatti anche Pizzul, si è trattenuto dal manifestare troppo entusiasmo. Ha evitato di urlare il triplice «Campioni del mondo!» che non ha mai potuto gridare, e ha concluso bene il programma. Per tutti noi che nella gara delle bighe ogni volta facciamo un tifo sfrenato per Ben Hur e i suoi cavalli, contro il romano cattivo, anche la finale di Berlino entrerà negli eventi storici che continuanamente replicano una leggenda non scritta a priori. Forza, azzurri, la prossima volta, cercate di vincere prima dei rigori!
L'Espresso, 06/09/2007
Se Unione fa rima con tassazione
Dietro la concezione delle tasse espressa dall'Unione dev'esserci una incomprensione del paese reale. Non si spiega altrimenti il forcing autolesionista che ha dato luogo alla sortita sulla tassazione delle rendite al 20 per cento. Non tanto perché la misura non sia "giusta" o "in linea con l'Europa", ovvero "compresa nel programma del centrosinistra": tutto vero, ma la catastrofe comunicativa nasce dalla sensazione che si tratti di un nuovo balzello. L'aumento, se non si è capito male, ci sarebbe (da due a due miliardi e mezzo di euro), ma il senso dell'intervento su questa porzione del regime fiscale andrebbe nel senso di una razionalizzazione complessiva. E allora ditelo, fatelo capire, argomentatelo: non lo si può presentare slegato da una concezione di fondo, dentro un quadro riformatore, altrimenti i cittadini capiscono una sola cosa: mani nelle tasche. Tutto questo mentre il gettito tributario continua a superare le previsioni, per ragioni che non sono ancora state spiegate con chiarezza. E soprattutto mentre il centrodestra sta coordinando tutti i propri sforzi per dipingere il governo Prodi come un'idrovora che drena risorse dal sistema economico e spegne la crescita. Nello stesso tempo, l'ex Casa delle libertà, compreso Pier Ferdinando Casini, conduce una campagna per imporre i propri stereotipi e la propria retorica all'opinione pubblica. Uno dei più martellanti sostiene che il livello di tassazione "percepito come giusto dai cittadini" è un terzo del reddito. E su questa bubbola per babbei la propaganda diventa asfissiante: tutti gli esponenti grandi e piccini del centrodestra la ripetono con compunzione, facendola diventare una realtà autoevidente. In realtà, basta leggere gli ottimi e sintetici articoli di Nicola Cacace sull'"Unità" per rendersi conto che la propaganda dei berluscones è una bufala colossale, che il livello di tassazione italiana è solo leggermente superiore alla media europea, che rimane un problema di eccessiva tassazione del profitto d'impresa (temperato come sempre da livelli di elusione molto elevati), eccetera eccetera, con tanti saluti alla favola delle tasse a un terzo del reddito. Ma per rispondere alla campagna del centrodestra, che nell'autunno diventerà martellante, e di cui Umberto Bossi ha già dato un saggio con la storiella militare del fucile («C'è sempre una prima volta»), occorre una consapevolezza un po' più sofisticata di quanto l'Unione non abbia dimostrato finora. Vincenzo Visco avrà tutte le ragioni a ricordare che il problema risiede nella «pandemia» dell'evasione, che nonostante tutto è a livelli intollerabili per un paese europeo evoluto. Ma l'azione del "cane da guardia" Visco, terrore dei commercialisti e del lavoro autonomo, rappresenta solo una faccia, quella cattiva, dell'azione fiscale del governo. Ce ne dovrebbe essere un'altra, legata all'uso della leva fiscale come strumento per favorire la crescita. E su questo punto l'Unione brancola. Aveva cominciato male il suo lavoro, rimodulando la curva dell'Irpef dopo il "regalo" di Giulio Tremonti nella scorsa legislatura, senza accorgersi che colpiva indiscriminatamente il lavoro dipendente qualificato, cioè il settore sociale dove l'Ulivo aveva il maggiore insediamento («Solo voi potete capirci», aveva ridacchiato con un po' di imbarazzo Pier Luigi Bersani quando glielo avevano fatto notare). Ma eravamo ancora nella plumbea stagione post-berlusconiana in cui sembrava che i conti fossero allo sfacelo e quindi il sacrificio obbligatorio. Oggi invece sarebbe il momento di agire per dare slancio al paese, e non soltanto alle aziende, già gratificate dal taglio del cuneo. Invece, il modello di pensiero prevalente nell'Unione sembra quello di una distribuzione del vantaggio fiscale a stralci, in parte "ai redditi più bassi", "alle famiglie", in parte "alle imprese", sempre con una concezione che sembra preferire il sostegno egualitarista più che l'incentivo. In realtà, si tratterebbe di far capire a settori consistenti della società italiana che il governo non ha intenzione di mettere i bastoni fra le ruote alle aree più dinamiche, che non intende più penalizzarne il reddito. Anche perché sono queste categorie che hanno visto tutte le corporazioni protestare e ottenere qualcosa dopo ogni protesta, per riprendere a protestare subito dopo, dato che la protesta conviene. Solo il lavoro dipendente tace, perché la sua rappresentanza naturale, il sindacato, ha un solo pensiero fisso, le pensioni. Forse, un pensiero su questo tema da parte di Enrico Letta, candidato "democrat" in sintonia con un'idea di sviluppo, non sarebbe sgradito, a quell'elettorato così mortificato e così prezioso.
L'Espresso, 13/09/2007
Incubo Lucignolo
Ormai "Lucignolo" è un programma storico di Italia 1: anzi, si può dire che sia un programma- manifesto. Se cercate l'Italia berlusconiana e post berlusconiana la trovate lì, nei lustrini, nel binomio "culi & tette" in versione Mediaset, nelle notti luccicanti di "Lucignolo". Di recente, il clou era rappresentato dall'incursione della "Diavolita" Melita Toniolo al meeting di Comunione e liberazione a Rimini. La ragazza in rosso aveva un solo mandato: interpellare gli ospiti, soprattutto i politici, chiedendo loro di completare lo slogan «abbasso le tasse». Ogni volta che si vede un uomo politico a cui qualcuno, una iena o una diavolessa, rompe le scatole mentre arriva da qualche parte, alla Camera o a un congresso, viene da pensare: altro che casta, i leader e i comprimari sono i migliori fra noi; di solito restano calmi, rispondono (nel caso, Piero Fassino rispondeva anche con un certa prontezza e un certo spirito), reprimendo la voglia di affibbiare semplicemente un ceffone. Tutto questo montato con immagini in cui la suddetta Diavolita faceva la doccia e opponeva eroicamente il generoso petto agli sguardi degli spettatori. Altri momenti di notevole interesse: quando la pupa approcciava i ragazzi di Cl, forse senza sospettare che i cattolici sono birbe come gli altri, e quindi rischiando di essere allegramente "harassed", cioè palpata on the road. Dopo di che, qualsiasi spettatore o critico si dovrebbe chiedere: ma chi càppero è questa Diavolita? Fortuna che c'è Google, da cui si viene a sapere che dovrebbe essere «l'inquilina sexy» di un qualche Grande Fratello. Soddisfatti? A quel punto ogni persona di buon senso riprende a fare zapping, naturalmente. Ogni volta che si ripassa su Italia 1 ci sono scene di feste in locali e discoteche, più tardi sequenze delle riprese fotografiche per il calendario di Diavolita o di "Lucignolo", chissà, qualche volta con Melita seminuda a cavallo (non potrei giurare che fosse proprio Diavolita, da animalista ero più interessato al cavallo). Sotto il profilo sociologico, "Lucignolo" è un programma entusiasmante: fa intendere che l'Italia è un paese senza speranza, irrecuperabile, in cui si fanno solo happy hour, feste e party. Non è un'immagine distante dalla realtà. L'unico dissenso è che il messaggio implicito del programma è "solo un Berlusconi ci salverà", e su questo, ce lo consentano, abbiamo i nostri diabolici dubbi.
L'Espresso, 20/09/2007
Miss per un quiz
Uno dei fenomeni antropologici nuovi della televisione contemporanea è il cambiamento di qualità nei partecipanti ai quiz (o meglio al game show, secondo il lessico degli esperti). La qualità riguarda non le doti intellettuali o le conoscenze, dato che per partecipare a uno spettacolino a domanda e risposta non ci vuole nessuna competenza in nessuna materia. Concerne invece l'aspetto fisico, e in particolare l'aspetto delle donne che partecipano come concorrenti. Le quali sono diventate via via delle belle donne (anche i maschi, per la verità, sono un po' migliorati, ma il fenomeno è vistoso soprattutto con il côté femminile della partecipazione). Per rendersene conto basta dare un'occhiata a programmi preserali o post- telegiornale: per intenderci, quelli diretti di volta in volta dai Frizzi, Conti, Insinna, Pupo, Amadeus eccetera. L'esempio migliore attualmente è "L'Identità", la trasmissione condotta da Fabrizio Frizzi, proprio perché i concorrenti non devono saper fare nulla. L'obiettivo è di indovinare l'identità di alcune figure ospiti, e l'unica qualità richiesta ai concorrenti è una certa intuizione e una buona dose di fortuna. Ecco allora: le concorrenti non sono più anonime, non hanno dedicato una vita agli studi di materie noiose, di elenchi sconfinati, di particolarità meticolose. Si caratterizzano per l'aspetto fisico, due occhi che bucano lo schermo, le curve armoniose, la scollatura che sottolinea le curve suddette. Si vede benissimo che il loro scopo principale non sono i soldi: se arrivano, bene, si comprerà l'auto nuova al marito o al fidanzato che è in studio e che, interpellato sulle decisioni della moglie o morosa, dirà sempre: «Sono dalla sua parte». Ma in realtà alle donne che arrivano in tv interessa più che altro realizzare il proprio show: apparire per quel quarto d'ora warholiano di presenza e di popolarità a cui tutti, ma soprattutto le gnocchette, hanno diritto. Quanto alle brutte, si dirà, qual è il loro destino? Innanzitutto, si sappia che le brutte non esistono più, se non per loro colpa o disattenzione. E quindi non ci vogliono rimorsi o sensi di colpa. Che bellezza sia. E la televisione si apra all'avvenenza come unica dote: d'altronde, le veline che cosa sanno fare, se non apparire? Forse, dare anche al popolo la possibilità dell'apparizione televisiva è il vero progressismo, oggi.
L'Espresso, 20/09/2007
Qui finisce il sessantotto
Non siamo mica in Francia, dove Nicolas Sarkozy ha fatto sapere: «Io sono l'anti Sessantotto», e via andare con l'ordine, la legalità, la pulizia, il rispetto, l'educazione, senza tanti fronzoli mondani e liberal. Eppure a Parigi, dopo le battaglie nel Quartiere latino, l'impulso del Maggio si era rapidamente spento sotto il pugno di ferro del generale De Gaulle. Qui siamo in Italia, dove il Sessantotto è durato politicamente dieci anni, e socialmente e culturalmente un'eternità. Ha permeato l'autunno caldo del 1969, le lotte della classe operaia che doveva conquistare il suo paradiso, le grandi avanzate della sinistra nel 1975 e nel 1976, il Settantasette bolognese con l'Anti-Edipo di Guattari che attaccava la «repressione», fino alla chiusura del sipario, reale e virtuale, simboleggiata dall'assassinio di Aldo Moro nel 1978. Ma soprattutto il pensiero sessantottesco e l'ideologia sessantottina si sono stese sull'antropologia italiana, impastandosi con l'idea stessa di sinistra e diventando il vero senso comune nazionale. Ma adesso ha cominciato a tirare un'aria diversa. Come se, dopo quarant'anni, lo spirito del tempo, che soffia dove e quando vuole, avesse deciso di chiudere i conti, chiudere la fase, chiudere la partita del Sessantotto. Sessantotto adieu, allora. Basta alzare il naso e si sente aria di restaurazione. Indizi, sintomi. Che cosa vorrebbe dire, altrimenti, la sortita del ministro Giuseppe Fioroni, che rimette al centro della scuola tabelline e sintassi? Per decenni ha avuto corso il principio supremo del sessantottismo, cioè il no al nozionismo. Subordinata: largo allo "spirito critico". Non ci vuole un'anima reazionaria per registrare i danni inferti dalla lunga ventata antinozionista, nel senso che l'intreccio di genericità, di sociologismi, di astrazioni, di politichese ideologizzante si è sedimentato nella cultura scolastica, ha trasformato i libri di testo, anche alle elementari, in una nuvola vaporosa di nulla centrifugato, braudelismi in versione pop, storia e microstoria sociale, "materiale e immaginario" mischiati alla meno peggio: per cui nessuno scolaro è più capace di recitare a memoria i sette re di Roma o citare l'episodio di Muzio Scevola che si brucia la mano, ma sa qualcosa di vago sulla "vita quotidiana delle donne nella Repubblica romana". Ridateci gli Orazi e i Curiazi, e pure «Romolo e Remolo», à la berlusconiènne. Ma il ritorno alle nozioni è la spia di un cambiamento d'epoca o è solo un postdatato velleitarismo di stagione? Prendiamo l'altro grande totem della cultura sessantottesca, ossia la battaglia antimeritocratica. Quarant'anni fa, battersi contro il merito come criterio di giudizio e di selezione era un'etichetta progressista, fondata sull'idea che nella società di classe i privilegi assegnati a priori dalla società capitalistica impedivano agli ultimi di competere con i primi. Somma ingiustizia, diceva una delle icone sessantottesche, don Lorenzo Milani, «fare parti uguali fra disuguali»: vale a dire che il merito era considerato soltanto lo specchio della disuguaglianza di classe. L'egualitarismo diventava quindi un altro principio inderogabile. Mentre oggi non è solo la Confindustria, con le parole del suo presidente Luca Cordero di Montezemolo all'assemblea generale, a proporre la meritocrazia come fattore progressista della società: anche l'ala più esplicitamente riformista del futuro Partito democratico, da Enrico Letta a Pier Luigi Bersani, interpreta il merito come uno strumento per infrangere le barriere di una società castale. Già, la casta: il bersaglio dell'ormai più che celebre libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, ma anche della piazza virtuale e reale di Beppe Grillo. Il fatto è che quarant'anni fa si proponeva di aggredire il privilegio con la lotta di classe, cioè con un'azione collettiva organizzata politicamente; mentre adesso di collettivo non c'è quasi più nulla. In fondo anche il Vaffa Day di Grillo assomiglia più a una somma di individui, all'esprimersi di una società molecolare, che non al lavoro "di massa" che agiva attraverso il sindacato, i partiti, i gruppi politicizzati. L'età presente sembra tornata alla realtà descritta dal teorico ottocentesco Gustave Le Bon, alla psicologia delle folle anziché alla coscienza delle masse. E quindi tutte le grandi opposizioni del Sessantotto, a partire dalla dicotomia destra/sinistra, risultano scalfite. Allora, sulla scia delle tesi dei filosofi francofortesi come Herbert Marcuse e Theodor W. Adorno, il processo dialettico vedeva da un lato il sistema del "dominio", cioè la complessità del tardo capitalismo (vulgo: "il sistema"), e dall'altro le classi alienate, espropriate materialmente e spiritualmente dal potere. Marcuse aveva creato addirittura il concetto della "desublimazione repressiva", ovvero la modalità con cui il sistema medesimo tollerava le trasgressioni, purché fossero ininfluenti sul funzionamento complessivo. Oggi invece la trasgressione, l'adorniano scarto ripetto alla norma, è diventato politicamente fastidioso. Se il Sessantotto era tutto un fiorire di slogan intellettuali contro la famiglia borghese, contro il matrimonio, contro il filesteo decoro famigliare, oggi si è assistito a uno slittamento di criteri inesorabile. La famiglia è tornata a essere un valore primario da spendere in politica, e non solo da parte di Pier Ferdinando Casini e di Silvio Berlusconi. Mentre quarant'anni fa, quando il privato era politico, la liberazione sessuale, che avrebbe trovato voce e presenza pubblica nel movimento femminista, aveva come premessa e conquista la libertà di contraccezione, oggi circola come motto il ritorno alla "natalità". La coppia, che allora veniva considerata una struttura storica da superare, magari con le comuni e con la creatività erotica, è tornata a essere considerata il nucleo vitale della società, una forma sociale storicamente immodificabile che riscuote il favore e l'ammirazione intellettuale dei boys di Giuliano Ferrara, commosso dalle iper-storie sentimentali di Annalena Benini sul "Foglio", strazi e gioie di coppie che si spezzano, si riuniscono, eccedono, infine si normalizzano. Quindi addio ai grandi destrutturatori, a Ronald Laing e David Cooper, con le loro teorie sull'antipsichiatria, l'io diviso e la disgregazione della famiglia, ai guru come Ivan Illich, che voleva «descolarizzare la società» e «distruggere la scuola». La grande triade su cui si era articolato il Sessantotto, Marx-Marcuse-Mao, secondo la tagliente ideologia teutonica di uno dei leader del Sessantotto tedesco, Rudy Dutschke, è finita in archivio (al massimo resiste Mao, come Che Guevara, in quanto immagine totale, celebrata anche nella rassegna che si apre a Parma il 21 settembre, intitolata "Mai dire Mao - Servire il pop"). Il marxismo-leninismo, che era la formula dogmaticamente indiscutibile, una concezione immacolata del verbo rivoluzionario, appartiene alle anticaglie: ma quali avanguardie, ma quale partito, la scena del mondo si stende fra la società atomizzata del capitalismo liquido e le esplosioni disordinate dello scontro di civiltà alla Huntington. Lo stesso atteggiamento di simpatia e sintonia con i movimenti terzomondisti, ispirato principalmente dal furibondo pamphlet anti-imperialista di Frantz Fanon, "I dannati della terra", è stato messo a durissima prova nel momento in cui gli ultimi del pianeta, gli abitanti delle favelas, i migranti, hanno cessato di essere una risorsa potenziale della rivoluzione globale e vengono percepiti come un problema della situazione amministrativa locale. Argomento che assume un peso politico fortissimo nel momento in cui la sicurezza, cioè il law and order, la tolleranza zero, viene impugnata a sinistra in una competizione non tanto subliminale con la destra. Singolare destino per una concezione culturale che aveva privilegiato l'insurrezione contro la stabilità, la protesta contro il governo, l'immaginazione contro il realismo, lo spontaneismo contro le istituzioni, nel segno del grido ritmato secondo cui "lo stato borghese si abbatte e non si cambia", e della battaglia contro l'"autoritarismo". E non serve a molto ricorrere al vecchio adagio secondo cui si nasce incendiari e si diventa pompieri. Piuttosto, non sarà insignificante notare che il vero vincitore filosofico in questo cambio d'epoca non è neppure la destra liberista, esplosa con il boom reaganiano e thatcheriano negli anni Ottanta, con l'edonismo individualista e la curva di Laffer, che avevano già fatto a pezzi le idee anticonsumiste; ma piuttosto il pensiero che ha per sommo interprete Joseph Ratzinger, con il suo repertorio basato sul binomio "fides et ratio". A fine luglio, Benedetto XVI aveva qualificato il Sessantotto come «una fase di crisi nella cultura in Occidente». Certamente, ha più titoli e strumenti il papa a censurare il «relativismo intellettuale e morale del Sessantotto», di quanti non ne abbia Sarkozy. La "fides" è in antitesi con la secolarizzazione innescata dal Sessantotto, la "ratio" è un antidoto all'irrazionalismo dell'"immaginazione al potere". Se ora la crisi apertasi quarant'anni fa si richiude, qui nei confini domestici ci saranno molti sospiri di sollievo: anche se non è detto che sia un gran vantaggio veder tramontare i vecchi sogni della rivoluzione e della rivolta, per ritrovarsi nel proliferare caotico, catodico e internettiano dell'antipolitica. n
L'Espresso, 27/09/2007
I forzati del Kamasutra
Il reality show "Sex Therapy" in onda su Sky Vivo è il classico programma che si guarda di nascosto, cambiando canale se arriva qualcuno in salotto. Il format è noto: coppia di dementi un po' fissati con il sesso (nessuno gli ha ancora spiegato l'ultimo grado del cool: «Ormai lo fanno solo i portoricani»). Questi poveri infelici sfortunatamente hanno qualche problema orgasmico o di insoddisfazione generale sotto il profilo erotico. Ancora non sanno che il sesso, quando è praticato fisicamente, è la cosa più insoddisfacente della vita. E quindi, ahi loro, si consegnano alle sevizie dei sessuologi, che organizzano una corsa a ostacoli verso il sesso perfetto. La terapia comincia con l'esclusione della copula dalla vita dei disgraziati, in modo che questi comincino ad apprezzare le infinite varianti intellettuali e anche materiali dell'impero dei sensi. E a questo punto è detto tutto. Conviene ammirare i protagonisti, veri italiani medi contemporanei, né belli né brutti, ma acchittati, palestrati, forse tatuati: con le donne che pur soffrendo si prestano alla mignotteria, e gli uomini che cercano di assomigliare ai calciatori, quasi riuscendoci. Capigliature, pettinature. Alla fine, l'accoppiamento dopo la terapia è rivolto più alla soddisfazione degli spettatori che a quella degli attori. Lo spettacolino conclusivo, con posizioni ardite, magari non conduce a parossismi orgasmici, ma porta alla convinzione rassicurante che così fan tutti, magari anche i portoricani, e quindi anche le noiose notti in Italia possono essere un po' movimentate. Voto al programma: chi se ne frega.
L'Espresso, 27/09/2007
tsunami a palazzo
Si attaccano al dogma dell'insostituibilità di "Romano". La pattuglia prodiana asserragliata a Palazzo Chigi si comporta come chi è nell'occhio del ciclone: tutto intorno è bufera, uragano, fortunale; loro stanno attaccati alle maniglie di soccorso, ancora convinti che il tempo è dalla loro parte. Aspettare la prossima Finanziaria. «Time is on my side», canticchia Giulio Santagata sulle note di Mick Jagger. «Io governerò per tutta la legislatura», ripete Prodi ad ogni pie' sospinto. Traduzione per il popolo: questo governo sta in equilibrio sulla fune, ma nessuno può permettersi di farlo cadere. Il grande complotto intestato ai poteri forti e a Walter Veltroni? Una bufala: «Nessuno può assumersi l'azzardo di prendere il posto del premier con una manovra trasformista». Allora un governo istituzionale, di garanzia, di salute pubblica, insomma la solita ipotesi Marini? Storie, sempre le stesse storie. Eppure se è bastato il "Vaffa Day" di Beppe Grillo a sconvolgere la politica italiana vuol dire che la crisi di consenso è irrecuperabile, proprio come ha scritto Eugenio Scalfari pur prendendo nota della tenacia a prova di bomba di Prodi. «Ma si tratta di vedere se Grillo fa male solo a sinistra o anche a destra», insistono a Palazzo Chigi. Già, anche un commentatore austero come Stefano Folli, sul "Sole 24 Ore", ha fatto presente che la vertiginosa folata protestataria di Grillo ha fatto invecchiare dalla sera alla mattina anche la Casa delle libertà. Umberto Bossi ha fatto la figura del vecchio reazionario, sentendosi evidentemente espropriato del ruolo di arruffapopoli. I circoli della rossa Michela Vittoria Brambilla sono apparsi all'improvviso come delle conventicole di gente entusiasta ma senza un grande futuro. Gianfranco Fini, come al solito nei momenti cruciali, è impegnato altrove, a sfottere Veltroni davanti ai goliardi post-missini, a condurre i suoi giochi politicanti senza capo né coda. E il grande leader supremo, Silvio Berlusconi, è diventato totalmente taciturno, probabilmente infastidito, lui il grande antipolitico, dal fatto che qualcuno addirittura più antipolitico di lui gli abbia rubato la scena. Anche perché Grillo potrebbe essere una meteora, ma è comunque un corpo astrale che si trascina dietro in prevalenza un elettorato di sinistra, come ha mostrato Ilvo Diamanti. Mentre circolano sondaggi che danno in flessione grave la sinistra oltranzista classica (Rifondazione comunista poco sopra il 3 per cento, i Comunisti italiani all'1), un altro politologo attentissimo al mutare dei rapporti fra società civile e politica, Roberto Cartocci, sostiene che «l'apparire della "cometa Grillo" illumina tutte quelle aree sociali in cui si manifestano domande a cui i partiti non sanno o non possono offrire risposte». Il che equivale a dire: il sistema politico si è inceppato; il centrosinistra non è riuscito a dare la sensazione di intervenire sui temi che l'opinione pubblica considera rilevanti; c'è una distanza culturale che oggi appare incolmabile e che difficilmente potrà essere colmata con l'esperimento in vitro del Partito democratico. In queste condizioni riesce complicato articolare una proposta politica credibile, capace di ricostruire consenso. Per certi aspetti sembra valere lo schema ironicamente descritto a suo tempo dal maestro degli scienziati politici italiani, Giovanni Sartori: «Ormai in Europa si vota sempre contro il governo. Se si vota contro se non fa le riforme, perché in questo modo blocca la crescita. E si vota contro se le riforme le fa, perché allora vengono attaccate rendite e posizioni di privilegio». Ma se questo è vero sembra possibile soltanto un'abdicazione della politica. Certo, non si può dimenticare che il processo di razionalizzazione del sistema politico è stato silurato nel 2005 dall'introduzione del "Porcellum", la riforma proporzionale varata in via unilaterale dal centrodestra per limitare la vittoria dell'Unione e per tentare di impedire l'attività di governo. Un attentato al paese, lo aveva definito allora Arturo Parisi. Il risultato è visibile agli occhi di tutti: ormai non si può più parlare di una transizione incompleta; siamo di fronte a una transizione interrotta. E quindi risultano sempre meno credibili gli appelli a trovare una soluzione condivisa, nella prospettiva di restituire efficacia al meccanismo elettorale. Resta sullo sfondo la prospettiva del referendum Guzzetta-Segni, ma c'è anche da fare i conti con la stanchezza indicibile di dover puntare di nuovo sul rifacimento dei meccanismi: ossia sulle procedure, sui tecnicismi, quando la sensazione che si è diffusa è quella di un sistema incorreggibile. Per questo passa nell'opinione pubblica l'urlo di Grillo: «Io i partiti li voglio distruggere». Che sarà una protesta irrazionale, ma risulta in completa sintonia con l'insofferenza per la «Casta». E mette in luce il girovagare a vuoto dei protagonisti politici. Di fronte alla denuncia "populista", infatti, ogni progetto di razionalizzazione, ogni risparmio di spesa, ogni taglio dei costi viene percepito come insignificante. Ha un bel da dire, Prodi a "Porta a Porta", di avere ridotto del 30 per cento lo stipendio della compagine dei ministri. È come annunciare di avere cominciato a vuotare l'oceano con il cucchiaio, un nonnulla di fronte allo spreco e agli scandali, agli aerei di Stato, alle pensioni parlamentari, alle spese demenziali delle comunità montane finte. E il piano Santagata di moralizzazione dei costi della politica? Al massimo sarà considerata un'operazione di maquillage. Di fronte al sentimento di indignazione di massa, nessuna misura può risultare efficace. È logico quindi che allora si sviluppino strategie alternative, serpeggianti, non sempre dichiarate ma in fondo rintracciabili. Con il tentativo di risolvere finalmente la partita fuori dagli schieramenti bipolari, al centro. Che cosa significa la piccola secessione di Lamberto Dini, uno dei 45 saggi del Pd, che ha annunciato di non confluire nei "Democrat" e di lanciare il manifesto dei "Liberaldemocratici"? E che cosa vuol dire la defezione di Domenico Fisichella, anche lui fuori dal Partito democratico? Nell'immediato è semplicemente l'annuncio di nuovi ostacoli per Prodi, che al Senato dovrà mettere a bilancio nuove tensioni tra riformisti e sinistra estrema (e quindi si troverà di fronte a un altro e più evidente problema di disfunzionamento della maggioranza, con le ripercussioni che si possono prevedere in termini di credibilità e di consenso del governo). Ma in una prospettiva più ampia, non va sottovalutato il giro di contatti più o meno segreti che coinvolge gli ambienti ex democristiani, un lavorio oscuro che tenta di preparare una risposta iperpolitica alla crisi della politica. La premessa è sempre la stessa: muove dalla considerazione del fallimento del modello bipolare. Il mantra neocentrista, avanzato da Clemente Mastella durante l'estate e fatto circolare dagli ambienti democristiani, suggerisce che c'è la possibilità concreta di creare uno spazio politico che va dall'Udc all'Udeur, con un potenziale di attrazione su settori della Margherita e anche di Forza Italia. Il ragionamento dei centristi è semplice: se si va al voto nelle condizioni attuali, niente e nessuno può impedire la riscossa di Berlusconi. Può darsi che, dopo la vittoria alle primarie del Pd, Veltroni sia in grado, con una campagna elettorale moderna, mediatica, spettacolare, di limitare i danni: ma per essere competitivo dovrà tenere insieme tutto il centrosinistra, con il rischio di incorrere inevitabilmente nelle traversie che hanno messo in crisi Prodi. E allora, è il ragionamento, conviene muoversi per modificare strutturalmente il disegno degli schieramenti. Puntare a una formazione di centro in grado di superare qualsiasi soglia di sbarramento e di proporsi («alla tedesca», come dice confidenzialmente il vecchio navigatore Paolo Cirino Pomicino) come perno per una rinnovata politica dei due forni: ovvero in modo da risultare determinante per qualsiasi ipotesi di governabilità. Mica male, come progetto di massima: rispondere all'antipolitica con una strategia di politicismo puro. Ma se il centrodestra si limita a incamerare il consenso che sfugge all'Unione, e il centrosinistra non riesce a invertire il giudizio dell'opinione pubblica, non ci sarà da stupirsi se dalle rumorose boutade di Grillo verranno ottime occasioni per le silenziose formichine dell'eterno centro. n
L'Espresso, 04/10/2007
i nulla vedenti
Il programma condotto da Paolo Bonolis con la collaborazione di Luca Laurenti, "Ciao Darwin", sottotitolo "L'anello mancante", è giunto alla quinta edizione e va in onda il martedì in prima serata su Canale 5. La collocazione testimonia che è considerato un programma di punta. Aldo Grasso ne ha parlato come di un'occasione mancata. Ma "Ciao Darwin", sebbene non parli dell'evoluzione della specie, parla dell'evoluzione della tv. La trasmissione di Bonolis infatti è tv contemporanea allo stato quintessenziale: con un'operazione alla Tarantino (uno dei "Kill Bill", per intenderci), "Ciao Darwin" prende archetipi televisivi e li piazza in un orizzonte mitologico. Sono frammenti ripescati dall'intrattenimento pop, o dai primi programmi di Gianfranco Funari, proiettati nella tv generalista di oggi e fatti diventare icone della post-post-postmodernità. I risultati di audience non interessano. Importa poco anche il contenuto. Ciò che conta è che si tratti di immagini televisive, con lo schermo decomposto e Bonolis in un box in basso a sinistra che dialoga con degli infelici. Sono in gioco strutture di realtà divenute "fictional", televisività pura, Bonolis-pensiero e Bonolis-ideologia distillati in sequenze tv. Si potrebbe sostenere che nessuno ha mai capito la logica di "Ciao Darwin", se non fosse che come dice il cantautore poeta amico di Veltroni ed elettore della Bindi, «non c'è niente da capire». "Ciao Darwin" è il nulla, come disse Gianni Boncompagni di "Macao", ma è un nulla fatto di televisione, tv che si autoriproduce, partenogenesi assoluta. Non è neppure necessario guardarlo, il programma: basta sapere che c'è per esserne coinvolti o complici. È il quinto o sesto potere, siamo suoi prigionieri. E d'altronde, il linguaggio di Bonolis continua a essere il migliore artificio inventato per la tv di oggi, metà Renato Zero e metà Alberto Sordi, con pennellate auliche. Voto: ineluttabile.
L'Espresso, 04/10/2007
un marziano a sinistra
Se ci sono i "Gendarmi della Memoria", vuol dire che qualcuno l'ha sequestrata, la memoria. È la prima constatazione, ovvia, scontata, però spontanea, che si prova ad aprire il nuovo libro di Giampaolo Pansa (Sperling & Kupfer, in libreria il 2 ottobre). Anche il sottotitolo in copertina, stampato sopra una mano di bianco che copre l'ineluttabile colore rosso, è piuttosto esplicito: "Chi imprigiona la verità sulla guerra civile". Non c'è il punto interrogativo, e per i lettori appena smaliziati la domanda contiene in sé la risposta. Basta avere letto qualche pagina degli ultimi libri di Pansa, da "Il sangue dei vinti", la ricostruzione che ha riaperto il confronto, o meglio lo scontro, sulla nostra storia divisa, fino a "La grande bugia", uscito l'anno scorso, e che ha destato ancora più clamore dei precedenti. Ma se si cerca di sfuggire a una lettura pavloviana dei "Gendarmi", ci si accorge che il libro di Pansa è ancora più insidioso di quanto non abbia voluto intendere la sinistra più dogmatica, quella dei Sandro Curzi e Marco Rizzo, e quella degli storici alla De Luna. Perché completa un pensiero perseguito con puntiglio, approfondito, scavato, indagato con totale dedizione intellettuale. Per gli avversari, e anche per i nemici del pansismo, si tratterà di un altro capitolo dell'opera di instancabile denigrazione della Resistenza praticata da uno che «lo fa per i soldi», produce «un'operazione commerciale», con il «libro vergognoso di un voltagabbana» (come titolò "Liberazione"), tramutando in un cospicuo affare privato la modestia economica della ricerca storica. Oppure di un esempio dell'inconsistenza storiografica severamente censurata, come ricorda Pansa, dallo storico Sergio Luzzatto: «L'audience giampaolopansista corrisponde al ventre molle di un'Italia anti-antifascista prima ancora che anticomunista... Un Paese felice di sentirsi ignorante, e di farsi illuminare dal Robin Hood di Casale Monferrato». Per chi desidera ripercorrere la campagna di attacchi scatenatasi all'uscita della "Grande bugia", Pansa è prodigo di pagine, a cominciare dalla spettacolare incursione avvenuta il 16 ottobre 2006 nella sala di un albergo di Reggio Emilia («Triangolo rosso? Nessun rimorso», diceva il cartello della dozzina di incursori denominata "Antifascist Militant"). Tuttavia le contestazioni e le minacce, proseguite in altre città, a Bassano come a Castelfranco Veneto, rappresentano soltanto un complesso artificio indiziario: dietro gli indizi c'è una questione ben più controversa della difesa occhiuta della mitologia resistenziale e del repertorio antifascista. Un passo indietro. Si può leggere ancora una volta "I Gendarmi" come un capitolo ulteriore della luttuosa epopea raccontata meticolosamente da Pansa. Gli ultimi giorni della Liberazione e la stagione della vendetta contro i perdenti. Sequenze illividite dall'odio, in cui trascolorano le ombre dei repubblichini fucilati, dei fascisti trucidati, delle donne innocenti stuprate e uccise barbaramente, delle sepolture senza nome e delle ricerche senza risultato: eppure, concentrarsi su queste descrizioni, sulle morti sconosciute, sugli eccidi innominabili e a posteriori giustificati con l'inganno, equivarrebbe a perdere di vista il nucleo vero e bruciante del libro di Pansa (ma a questo punto converrebbe dire della sua opera complessiva). Libro e opera sgradevoli per la sinistra italiana. Anzi, "sgradevoli" è un eufemismo. Forse "distruttivi" sarebbe più adeguato, se non fosse che Pansa rivendica con chiarezza e forza la sua cultura di sinistra. Tali comunque da meritare attacchi violenti e soprattutto esorcismi: come il «rovescismo fase suprema del revisionismo», nella formula usata dallo storico torinese Angelo d'Orsi prima su "Liberazione" e poi sulla "Stampa". Perché la tesi finale di Pansa è una e una sola: «Non c'è riformismo senza revisionismo». E qui occorre fermarsi. Perché ci vuole poco a capire che a questo punto l'argomentazione di Pansa, del "pansista", del "completista", del sostenitore di una storiografia che racconti e comprenda anche la tragedia dei vinti, si proietta su tutta la vicenda che ha portato la sinistra italiana dal Pci al Pds, e condurrà dai Ds al Partito democratico. È la convinzione che, senza un approfondimento spregiudicato della propria storia, nessuna evoluzione è credibile. Senza un atto di rottura, senza un riconoscimento formale della drammaticità di una vicenda, giurando e spergiurando invece sulla indefettibile continuità di una parabola che comincia con la Resistenza e si dirama nel Pd veltroniano, l'avventura della sinistra rimarrà soltanto un santuario oleografico. Cioè un travisamento della realtà. Sotto questa luce, parafrasando Pansa, Palmiro Togliatti, il Migliore, alias il funzionario dell'internazionalismo, il "compagno Ercoli", resterà il costruttore sapiente di un'esperienza di comunismo nazionale, l'uomo che con il memoriale di Jalta individuò le contraddizioni del Pcus. Il suo successore, Luigi Longo, sarà il depositario dell'eredità togliattiana, un duro ortodosso ma anche il primo critico dell'invasione di Praga nel 1968. Enrico Berlinguer sarà sempre venerato come il portatore di una "diversità" comunista, opposta al degrado morale del sistema di potere democristiano e socialista. Dopo la transizione di Alessandro Natta, postremo esponente della natura ideologica del Pci, il movimentismo di Achille Occhetto verrà ricordato come la febbrile consapevolezza della necessità di cambiare ideologia e sigla, giusto in coincidenza con il crollo del Muro di Berlino. E così via, fino alle sofferenze di Piero Fassino, il primo segretario a tentare una riconsiderazione del craxismo e a lanciare l'anima oltre l'ostacolo verso l'orizzonte "democrat" come compimento della vicenda del Pci. Altri studiosi italiani, come Ernesto Galli della Loggia, hanno individuato nel continuismo il peccato originale della sinistra. Ma Pansa è un intellettuale "sui generis", sfrontatamente anti- accademico, portato a credere, come San Tommaso, solo in ciò che vede e in cui può ficcare il dito. Tant'è vero che il suo scrupolo di cronista lo conduce a recuperare il commento né scandalizzato né conformista dell'ultraortodosso e ultrapragmatico Giorgio Amendola, ai tempi della demonizzazione di Renzo De Felice, lo storico "pugnalatore" (secondo Nicola Tranfaglia), colpevole di avere trattato il Ventennio da entomologo, e non con la lente dell'ideologia approvata, ai tempi dell'"Intervista sul fascismo". Opinione che va messa a confronto con il giudizio recente di uno dei santoni del comunismo "di massa" e di movimento, Pietro Ingrao: «Provo collera contro gli attacchi che vengono fatti alla Resistenza, alla lotta di Liberazione, da parte di alcuni giornalisti...». Alcuni giornalisti. Una definizione che è una miscela di superiorità e di sprezzo. L'avversario innominato, ridotto a una non entità. Da parte sua, Pansa non edifica ideologie. Lascia cadere i giudizi fra le righe delle sue cronache: «I miei libri non piacciono a quella parte della sinistra italiana che è rimasta bambina». Ossia che crede alle favole e rifiuta di guardare la realtà: «Si tappa le orecchie, urla che non vuole sentire, accusa lo sfavolatore, chiamiamolo così, di commettere un delitto». Ma a proposito dei «Gendarmi delle Favole», Pansa non si tira indietro, trae le conseguenze: «Nelle teste dei miei cacciatori c'era un grumo totalitario, insopportabile in un Paese democratico. Ma purtroppo sopportato, e qualche volta incoraggiato, da partiti che siedono in Parlamento». La battaglia di Pansa è quella di un alieno a sinistra. Un uomo la cui polemica abbatte le mitologizzazioni del passato (come ebbe a giudicarle anche un intellettuale di sinistra, Silvio Pons, direttore della Fondazione Istituto Gramsci: «A sinistra c'è una tradizione consolidata che porta a valorizzare la propria storia. Ma che a volte è sconfinata nella mitologia»). Ma le cui critiche investono, e questo dovrebbe essere più preoccupante, l'avvenire. Perché senza il passato non c'è futuro. Ecco il «perfetto Walter Veltroni», prodigo di solidarietà privata quanto avaro di solidarietà pubblica, «capace come nessuno d'incarnare la banalità del bene». E anche tutta la nomenklatura in procinto di reincarnarsi nel Partito democratico, da Anna Finocchiaro a Pierluigi Bersani: ultimo esempio o vittima, secondo Pansa, del riflesso condizionato comunista. Bersani infatti non si candida contro Veltroni per la segreteria del Pd, annunciando la propria decisione con una lettera «imprevista e imbarazzante». In cui spiega che si ritira dalla corsa, rinunziando alle proprie ambizioni, per non «disorientare il nostro popolo, che non avrebbe capito». Sono anche questi gli scherzi, maligni, della storia. Effetti del passato che non vuole saperne di passare. Come se sul futuro gravasse un'ipoteca: quella di non avere voluto guardare alle rotture, alle tragedie, alle colpe, di avere sempre giustificato e quasi mai spiegato, e anche di avere capito senza averlo riconosciuto. Per ragioni di interesse superiore, perché lo imponeva la correttezza ideologica, la moralità di partito. Tutte cose che non esistono più, come non esiste il «popolo» a cui si riferiva Bersani per spiegare il suo ritiro. Ma può una sinistra che vuole ignorare la propria storia, che ha concepito ogni cambiamento come una svolta, più o meno naturale, e non come una discontinuità, eventualmente densa di tragedia, magari psicologicamente stridente, presentarsi come un soggetto politico nuovo? Alla fine di tutto, di alcuni libri, di cento polemiche, di mille dibattiti, e anche di tanti insulti, forse questa è la domanda più forte e dolorosa dell'alieno Pansa. n