L’Espresso
L'Espresso, 04/10/2007
beppe grillo L’algerino
La premessa è che il professor Giovanni Sartori è il maggiore scienziato politico italiano, possiede un prestigio indiscusso, ha un alone di autorità internazionale. Liberaldemocratico a pieni titoli, ha insegnato a tutti che cos'è la democrazia. Se non abbiamo capito male a suo tempo, secondo la lezione di Sartori, la democrazia è un sistema di governo articolato in istituzioni, fatto di procedure, determinato da processi formalizzati. (È anche tante altre cose, ma questa sintesi estrema dovrebbe essere sostanzialmente corretta). Bene, la settimana scorsa, sulla prima pagina del "Corriere della Sera", Sartori ha pubblicato un editoriale che potremmo considerare una specie di evento culturale. Parlava di Beppe Grillo, che «ci sa fare», della "casta" descritta da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, della terra che trema sotto la classe politica. Usava parole come «putrefazione»; ventilava un possibile «tsunami»; e concludeva: «Confesso che una ventata - solo una ventata - che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al qualunquismo, al fascismo, e simili». Il professor Sartori ha ripetuto concetti simili anche nel programma di Santoro "Annozero". Per questo non sembra un'esagerazione parlare di evento culturale, a proposito del Sartori ingrillito. Perché se il venerato maestro di tutti noi getta la spugna, e dichiara che il sistema politico italiano è da buttare, e il ceto politico da liquidare, non so come la pensi l'opinione pubblica media, ma c'è da prenderlo sul serio. Sono quasi vent'anni che si cerca di razionalizzare il sistema politico della Repubblica. Siamo passati attraverso ondate (o ventate) di populismo, in coincidenza con Tangentopoli e in seguito alle sferzate antipolitiche di Silvio Berlusconi e della Lega; sono stati cercati rimedi istituzionali con i referendum elettorali dei primi anni Novanta, con l'imperfetta legge elettorale semimaggioritaria, battezzata "Mattarellum" proprio da Sartori, con tentativi farraginosi di riforma costituzionale. Può essere che i rimedi siano stati insufficienti. D'altra parte, contro l'incerto e ondivago sforzo di raddrizzare le gambe storte del sistema, e contro la transizione infinita, si è abbattuto anche il disastro della legge elettorale approvata unilateralmente nel 2005 dalla Casa delle libertà, il "Porcellum" (altra definizione di Sartori). Ma a questo punto, è inutile stare a sottilizzare: Sartori è andato giù con la scure: putrefazione, Seconda Repubblica palude imputridita. Non rimane che rivolgere al maestro, con una certa angoscia, la domanda classica: "che fare?". Perché è stato lui a insegnarci che la politica si può migliorare solo attraverso le istituzioni: e noi ci eravamo convinti, adottando la via faticosa dei miglioramenti graduali, delle riforme possibili, dei compromessi praticabili. I sistemi politici si possono modificare attraverso trasformazioni istituzionali; con l'emergere di leadership e proposte culturali nuove; con la trasformazione dei partiti. In Italia, abbiamo provato tutte queste strade, e il risultato è ormai chiaro: non una transizione incompleta ma una transizione spezzata. Probabilmente Sartori potrebbe aggiungere che le democrazie cambiano anche in conseguenza di vicende traumatiche: una sconfitta in guerra, un cambio di regime istituzionale come la fine di una monarchia. Tuttavia le rivoluzioni devono creare altre istituzioni, pena il fallimento. Lo ha insegnato Tocqueville, lo ha spiegato Hannah Arendt. Forse Sartori ha in mente che i sistemi democratici più o meno putrefatti possono essere travolti da eventi esterni, o eccentrici rispetto alla politica tradizionale. Il caso citato più di frequente è quello dell'Algeria, che procurò alla Francia il passaggio dalla ingestibile Quarta repubblica all'efficienza politica della Quinta. Solo che il nostro algerino si chiama Grillo, e la nostra Algeria è un'Algeria interna, fatta di un "popolo" astioso, anzi rabbioso, convinto che si possa andare verso modalità di democrazia diretta, felice di spedire il proprio insulto, "vaffa", verso tutti. In sostanza, già le proporzioni sono squilibrate, se è vero che la Francia ha avuto il generale De Gaulle e noi abbiamo Beppe Grillo. Sicché non resta che prendere atto dello scarto di Sartori; ma poi viene naturale chiedergli davvero come agire, secondo quali prospettive, in che direzione. Si può anche augurarsi che la Repubblica imputridita venga spazzata via: ma dopo, e anche intanto, caro maestro, "che fare"?
L'Espresso, 11/10/2007
zingaro gad
Il ritorno di Gad Lerner con "L'Infedele" (26 settembre, La7) ha messo subito il dito nell'occhio degli spettatori: "Zingari: un popolo di troppo". Quella di Lerner è una tv laterale, che affronta spesso argomenti coriacei. È laterale rispetto alla tv normale, naturalmente (non appena in trasmissione il sindaco di Livorno ha parlato di "salotto" televisivo, Gad si è incacchiato di brutto). Il fatto è che in tutto questo parlare di antipolitica si dimentica spesso la società italiana: e basta avere visto un filmato dell'"Infedele" sui rom per notare quale carica di violenza contenga la psicologia nazionale (e non parliamo, per carità di patria, degli interventi nei blog, dove la società civile dà il meglio). Il tempo lento di Lerner è l'antitelevisione, che forse oggi è uno degli antidoti possibili all'antipolitica. Perché la discussione, fondata su argomenti e non su attacchi personali, porta dentro lo studio televisivo quella drammaticità che latita nei talk show. Nei "salotti" del piccolo schermo non c'è dramma: a volte c'è chiacchiericcio, a volte farsa, a volte vergogna. Siamo tutti troppo consapevoli che lo spettacolo vuole la sua parte, e che quindi, proprio per la sua formula in controtendenza, "L'Infedele" sarà sempre destinato a quote di audience ristrette; e siamo tutti così mitridatizzati dal veleno quotidiano inoculato dai media che spesso il dibattito lerneriano appare fuori moda. Ma essere fuori moda non significa essere fuori tempo: la drammaticità della tv lenta può andare al cuore dei problemi. Non porta a soluzioni facili, ma misura lo spessore dei conflitti.
L'Espresso, 11/10/2007
GOVERNO a ostacoli
Magari non è la svolta. Forse non servirà a restituire il consenso perduto sulla scia dell'antipolitica e di una dilagante delusione. Può darsi benissimo che per il centrosinistra nella versione di Prodi, cioè alleanza politica larghissima dall'Udeur a Rifondazione, autentico comitato di liberazione nazionale dal berlusconismo, il tempo sia già scaduto, e che l'esperienza dell'Unione si aggiri nevroticamente nei dintorni del capolinea. Si metta anche in archivio che i sondaggi manifestano la tendenza deprecabile di inclinare sempre al peggio. E poi? E poi, punto e a capo. Il presidente del Consiglio abbassa il crapone e tiene duro. Tanto da giustificare l'ammirazione di Eugenio Scalfari per la sua testardaggine, per la sua ostinazione reggiana, da vero "testaquadra", nel tentare e spesso conseguire mediazioni in apparenza impraticabili. Ma se Scalfari fosse giudicato non sufficientemente obiettivo e neutrale, ecco la sentenza di Mario Monti, grand commis europeo, possibile intestatario di un governo di transizione e di garanzia nel caso di collasso del governo, sostenitore a tempo debito della necessità di unire la politica italiana al centro, su un'area di misure politiche essenziali: «L'abilità e la tenacia senza pari di Romano Prodi, unite alla capacità di Tommaso Padoa-Schioppa e di Vincenzo Visco, hanno prodotto quella che forse è la migliore manovra oggi possibile». Naturalmente il consulente di Nicolas Sarkozy, l'elegante bocconiano Monti, chiariva sul "Corriere della sera" tutte le obiezioni possibili alla legge finanziaria, senza lesinare i giudizi dettati dalla teoria economica: «Una Finanziaria grave: mostra i limiti che, nella presente configurazione politica italiana, non permettono una politica economica adeguata ai problemi del Paese». La migliore Finanziaria possibile, e nello stesso tempo una Finanziaria grave: sono i due confini fra i quali si colloca un complesso di misure di contenimento, di galleggiamento, di compromesso, prodotto a fatica all'interno di una coalizione isterica. In ogni caso, dentro l'establishment il varo della Finanziaria è stato accolto con qualche soddisfazione. Per il presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, «siamo sulla buona strada». E si capisce: Montezemolo ha portato a casa il taglio del cuneo fiscale, e dopo avere condotto un durissimo attacco antitasse all'assemblea generale della sua associazione, prima dell'estate, può assaporare l'ulteriore taglio dell'Ires e dell'Irap previsto dalla manovra. Nel suo ambiente, si vedono sorrisini e si ascoltano note vellutate: «Dopo tutti gli attacchi da destra, dopo le accuse di essere stato troppo molle con il centrosinistra, ecco un presidente di Confindustria che ha incassato per le imprese risultati che i falchi non avevano mai ottenuto». Di fronte a queste considerazioni a Palazzo Chigi storcono il naso. Nessuno accetta l'etichetta di un doroteismo illuminato. «Qui non si tira a campare». Il ministro per l'attuazione del programma, Giulio Santagata, osserva: «Abbiamo fatto tutto il possibile, e anche qualcosa di più, per mettere insieme una manovra equilibrata. Perché noi non abbiamo una strategia di sopravvivenza: o meglio, siamo consapevoli che le chance di resistenza del governo sono legate soltanto, anzi esclusivamente, ai risultati prodotti dalla continuità dell'azione di governo». Continuità sempre a rischio, naturalmente, dato che i numeri al Senato sono noti. Ma dopo il varo della Finanziaria si intravede qualche insperato barlume. Sarà per via della leggendaria testardaggine. Ma se Berlusconi ha annunciato nei giorni pari e nei giorni dispari la caduta imminente del governo e della coalizione, e la spallata non è mai riuscita, può anche voler dire che il governo assomiglia sempre più al paradosso classico del calabrone, l'insetto che secondo le leggi dell'aerodinamica non sarebbe in grado di volare, ma ignora le regole della fisica e quindi vola. O almeno svolazza. O almeno non cade. A parlare con lo staff del premier si ottengono spiegazioni multiple. Il bicchiere è mezzo pieno. Se economisti come Tito Boeri e Pietro Garibaldi parlano della manovra come di una nuova grande occasione mancata, la risposta è una serie di dati tutti positivi. Le finanze pubbliche sono tornate sotto controllo, il deficit tocca un risultato migliore di quello concordato con l'Unione europea, è stato ricostituito un 2,5 per cento di avanzo primario, il debito ha ripreso a calare rispetto al prodotto lordo, la spesa pubblica è stata fermata (dopo i cinque anni berlusconiani di crescita inesorabile, mezzo punto l'anno). Bisogna ripartire da questi dati, dicono a Palazzo Chigi. Il navigatore Prodi guarda con preoccupazione alle fibrillazioni politiche, alle mosse di Lamberto Dini, al malpancismo di Clemente Mastella. Ma se si guarda allo scenario d'autunno, al di là degli incidenti possibili in sede parlamentare, i punti critici veri, su cui si concentra l'attenzione di Prodi, sono due. Il primo è l'idea di una "ripartenza", cioè la sensazione che dopo il lancio del Partito democratico con le primarie del 14 ottobre sia necessaria una sterzata. Un rimpasto, un Prodi bis, una spettacolare riduzione del numero dei ministri, una risposta razionalizzatrice alla ventata antipolitica. Storie, risponde all'unisono l'ambiente prodiano, guardando con qualche diffidenza alle ipotesi di restituzione delle deleghe da parte dei ministri "democrat", fatte o lasciate circolare da Walter Veltroni. Ridurre il numero dei ministri significherebbe infilarsi in un negoziato imprevedibile nelle modalità e nei contenuti. Troppo pericoloso, anzi, «ricominciare da fermi sarebbe demenziale». Il realismo di Prodi nasce dalla convinzione che il centrosinistra è un cantiere, e se si muove un'impalcatura tutto l'impianto rischia di entrare in fibrillazione. "Quaeta non movere", quindi, ammesso che ci siano zone di quiete nella maggioranza. Prodi si aggira nella struttura labirintica dell'Unione prendendo nota di ogni problema e ogni difficoltà, ma con la sicurezza che per il centrosinistra non ci sono progetti realisticamente possibili oltre il suo governo. Lo ha ripetuto fino allo stremo. Lo ha fatto capire in tutti i modi. Fatemi cadere, e poi spiegatelo all'opinione pubblica. Lavorate per un governo istituzionale, con la scusa di approvare la nuova legge elettorale, e poi andate a raccontare all'elettorato che avete lavorato per il re di Prussia, ossia per il ritorno trionfale di Berlusconi. Meglio restare calmi, puntare sulla durata. Il secondo punto critico riguarda il voto dei lavoratori sul welfare: ma su questo aspetto Prodi e i prodiani sono più tranquilli. Certo, dicono, c'è la manifestazione del 20 ottobre, ma a questo punto la questione è affrontabile. Il leader della Cgil, Guglielmo Epifani, ha capito che una eventuale delegittimazione del governo sarebbe pericolosa anche per il sindacato. «Si tratta di spiegare alla base operaia», dice sempre Santagata, «che sul welfare abbiamo investito risorse importanti, che migliorano la condizione dei lavoratori: gli scalini sono meglio dello scalone, gli ammortizzatori sociali pongono qualche rimedio alla precarizzazione del lavoro, il bonus ai pensionati poveri è un segnale significativo di attenzione alle aree più deboli. Si può sempre sostenere che si doveva fare di più, ma intanto noi queste misure le abbiamo adottate. Così come bisogna ricordare che la manovra, oltre a frenare l'andamento della spesa corrente, fa crescere la spesa per investimenti. Vale a dire ferrovie, Anas, case». Ecco fatta allora la strategia di Prodi. A chi lo accusa di non avere tagliato le tasse, il presidente del Consiglio ricorda che nel decreto ci sono due miliardi per gli incapienti, e nella Finanziaria due miliardi per la casa (taglio dell'Ici e detrazioni per gli affitti). Se si somma il miliardo di detrazioni fiscali per le imprese, finanziato con modalità simili a quelle adottate in Germania (con l'allargamento della base imponibile), si configura una riduzione sostanziale di cinque miliardi. Resta sempre lo stupore, quasi l'incredulità, per l'insofferenza dei cittadini, rispetto a un complesso di risultati non disprezzabili. «I berluscones sono stati bravissimi, hanno convinto l'Italia che abbiamo provocato una slavina di tasse, e noi non siamo stati minimamente capaci di spiegare il profilo dell'azione di governo». E poi ci si è messa la travolgente ondata antipolitica, il "vaffa" di Beppe Grillo, la documentazione degli sprechi della "casta", i privilegi dei dirigenti di partito, le cadute di stile, di tono, di decenza. Quindi adesso l'imperativo è: portare a casa la legge finanziaria, sperando che i moniti del presidente Napolitano, «non abusare del voto di fiducia», non comportino difficoltà ulteriori. Puntare sul fatto che chi la dura la vince. Sapendo che occorrerà superare un altro Vietnam quando bisognerà andare alle Camere per il rifinanziamento delle missioni militari all'estero. E che nel medio-lungo periodo si staglia sull'orizzonte politico l'incognita del referendum Guzzetta-Segni, con le possibili ritorsioni dei partiti minori. Anche se dicono che «in questo momento il referendum è lontano», a Palazzo Chigi tutti hanno ben chiaro che di fronte alla minaccia referendaria sono già pronti i piccoli killer, disposti a tumulare governo e legislatura pur di evitare la ghigliottina della formula elettorale che uscirebbe dalla consultazione referendaria. Ma la tecnica del Prodi cadente e non caduto è quella del buon cristiano paziente: «Ogni giorno la sua pena». Inutile anticipare i dolori. Anche se a mezza voce i suoi collaboratori lasciano intendere che se vorrà evitare l'arma "fine di mondo" del referendum, «Romano dovrà riprendere in mano il gioco della legge elettorale». Non è la sua specialità, ma quando dice che durerà tutta la legislatura Prodi non fa propaganda: ci crede davvero, o almeno pensa che sia possibile provarci, nonostante tutti i vaticini e tutti gli annunci di sventura. E che solo lui, con la sua «leggendaria cocciutaggine» è in grado di salvare il centrosinistra da se stesso. n
L'Espresso, 25/10/2007
I vizi di house
Come si sa, la notizia della stagione è che il dottor House trasloca da Italia 1 a Canale 5. Peraltro il miglior telefilm di tutti i tempi va ancora in onda su Fox (canale 110 di Sky), ma è la replica della serie precedente. Roba da viziosi (io sono un vizioso). Su Italia 1, vista la puntata di lunedì 8 ottobre, intitolata "Insensibile", che aveva per protagonista una ragazza incapace di avvertire il dolore, e finiva in modo piuttosto splatter, con la scoperta che la paziente aveva nell'intestino una tenia di otto metri (House gliela estraeva con un'operazione da kamikaze della medicina e della chirurgia). Ma non è qui il problema. La puntata è stata funestata da un audio imperfetto, e sono incidenti che succedono. Poi c'è da aggiungere che nella tv generalista la pubblicità sta invadendo anche gli spazi non pubblicitari, con scritte varie, confondendo così comprensione di trame complesse. Infine, il sospetto dei sospetti. Il sospetto dei tagli. Lo so che bisognerebbe avere le prove, ma il fatto è che quella puntata del telefilm era praticamente incomprensibile. Sarà stato l'audio. Sarà stata la pubblicità debordante. Ma se invece fossero stati proprio dei tagli malaccorti, praticati per infarcire di pubblicità il telefilm senza uscire dai tempi previsti dal palinsesto? Ma no, è impossibile, i contratti lo vietano. Già, è impossibile. Non viene fatto mai. Insomma, qualche volta viene fatto, ma raramente. Questa volta non sarà successo. Sono io in realtà che sono rimbambito e non capisco le trame. Guarda che cosa vado a pensare. Voto per la puntata "Insensibile": sarebbe un 7 meno, ma con un taglietto andiamo a 6 più.
L'Espresso, 25/10/2007
Il dilemma di Walter
C'è la vittoria e c'è il problema. La vittoria è stata soprattutto la partecipazione alle primarie del Pd, piuttosto clamorosa se si pensa che ancora una volta il risultato era già scritto. Il problema viene domani, ma comincia adesso, subito. Perché la nascita del Partito democratico, suffragata dai quasi tre milioni e mezzo di votanti, è tutt'altro che un risultato burocratico. Incide sulla composizione del centrosinistra. Si mette in parallelo al governo Prodi, avviando una specie di surplace da pistard, il cui svolgimento è tutto da verificare. Ma siccome con le primarie si è avuta la conferma che dalla crisi della politica si esce soltanto con la politica, cioè con un processo istituzionale fatto di procedure formalizzate, dovrebbe anche essere chiaro che adesso la politica, in una parola Veltroni, dovrebbe cominciare a ragionare sull'evoluzione possibile del centrosinistra. L'assemblea generale di fine ottobre con i 2.400 delegati eletti sarà una specie di grande e festosa cerimonia. È difficile aspettarsi grandi novità. Tuttavia di qui in avanti il neo segretario del Pd dovrà applicarsi fondamentalmente a una sola questione. Banale e difficile insieme. Ossia come vincere le prossime elezioni. Un'impresa eroica, se si guarda ai livelli di consenso del governo Prodi. Ma anche un'impresa che Veltroni può tentare, dal momento che fra tutti i leader del centrosinistra è il più capace di sollevare ondate di emozione politica e di scalfire certe barriere di cruda ostilità che segnano il bipolarismo italiano. Tuttavia il Veltroni "uno e trino", sindaco, segretario e leader del centrosinistra, si trova davanti a un dilemma corposo. In questo momento, l'Unione sembra una montagna della Pusteria, imponente e fragile, a rischio di frattura e frana. Il "piccolo principe" (secondo la definizione del libro che gli hanno dedicato Marco Damilano, Mariagrazia Gerina e Fabio Martini) ha già dichiarato durante la campagna per le primarie che per poter governare occorrono alleanze coerenti, e non assembramenti larghi e tumultuosi. Ciò significa che Veltroni ha ben chiaro che nella prossima stagione il Pd può trovarsi nella condizione di dover ridefinire il perimetro del centrosinistra, facendo i conti con tutta l'area della sinistra radicale. Ma è anche evidente che qualsiasi pronunciamento pubblico sulla fine dell'Unione così come la conosciamo significherebbe lo smottamento della maggioranza attuale e di conseguenza lo schianto del governo. Il dilemma del neo leader è quindi davvero "bicornuto" come un sofisma fallace. Ogni soluzione implica potenzialmente il fallimento dello schema: senza la sinistra oltranzista infatti il centrosinistra non vince; insieme con quella sinistra non governa. E allora? Veltroni ha ripetuto in ogni occasione, ben prima del discorso di investitura al Lingotto, che il Pd dovrà essere un partito «a vocazione maggioritaria». Il che significa che deve andare a prendersi i voti nella società, convincendo l'opinione pubblica, anche uscendo dal cerchio rigido dei partiti e degli schieramenti. Sotto molti aspetti per Veltroni si prospetta un'operazione "blairiana" basata su tre pilastri: partito nuovo, leadership e programma. È su quest'ultimo punto cardine che si gioca la sua credibilità come possibile vincitore. Vale a dire: il segretario del Pd vince la sfida (o almeno la affronta in condizioni praticabili) se prende le mosse dall'impianto programmatico del partito, non dalla tessitura di alleanze e mediazioni con tutta la variegata galassia del centrosinistra. Il sentiero è stretto, e la sua azione sarà fortemente influenzata dal tipo di regole elettorali con cui si svolgerà, quando si svolgerà, la competizione. Ma perdere tempo con un appello fondato sull'umanitarismo, la solidarietà, la genericità sarebbe, per l'appunto, uno spreco. Il Partito democratico ha bisogno di un'anima: tradotto in termini meno sentimentali ciò significa che occorre rendersi conto che è solo una parte della sinistra. E proprio in quanto tale può permettersi di specificare che cosa è e che cosa vuole, vale a dire quale identità politica intende assumere e quale profilo di società e di governo ha in mente. Le mediazioni possono aspettare. I volonterosi votanti delle primarie hanno detto che si aspettano un leader e un partito. E allora tocca al leader di questo partito parlare nel modo più chiaro possibile. Non per guadagnare il consenso preventivo dei partiti alleati, ma la credibilità necessaria per proporsi come guida di un progetto di modernizzazione del paese: qualche volta, e non è un paradosso, la ragionevolezza e la capacità strategica hanno bisogno di una dose di radicalità.
L'Espresso, 01/11/2007
da lucio al tg
Come dice il poeta: «Deve essere stata una costosa distillazione la marea del mare». Il poeta è Pasquale Panella, autore per Lucio Battisti del "corpus hermeticum" in cinque dischi che ha stravolto la canzone italiana. Ci vuole un certo gusto dell'azzardo per chiamare Panella a commentare l'attualità: lo ha fatto Michele Bovi con "Tg2punto.it", lo spazio quotidiano di mezza mattina che ha esordito l'8 ottobre. Un'ora di telegiornale, collegamenti, ospiti, rubriche, servizi, approfondimenti. Niente gossip, ed è una curiosa ed eroica novità per la tv mattutina. Ma che cosa c'entra Panella, il poeta postfuturista o presimbolista, l'allitteratore efferato, il giocoliere parolibero? Intanto, Panella recita, da bravissimo recitatore, alcune canzoni canoniche: da "As Time Goes By" ("Casablanca", a cinquant'anni dalla morte di Bogart) a "Casetta in Canadà" (prima in classifica nel 1957), a "Il capello" di Edoardo Vianello (per festeggiare i suoi 70 anni), in modo da porre la domanda terroristica: la poesia di Aldo Palazzeschi è davvero superiore a "Guarda come dondolo"? E Palazzeschi, lasciatemi divertire, è davvero superiore a Panella, uno che ha avuto il talento astruso di scrivere per Battisti: «Che ozio nella tournée di mai più tornare nell'intronata routine del cantar leggero l'amore...». Erano canzoni incantabili e incantate. Poi Panella ha collaborato con Riccardo Cocciante traducendo e scrivendo le sue opere tardo-moderne, ha scritto canzoni per Zucchero. Adesso commenta on line le hard news del Tg2. Dei suoi versetti satanici, beccatevi questo, quintessenza lirica del genio, intitolato "Stampa estera e nostrana": «Al Cairo, giornalisti tendenziosi, puniti con ottanta frustate... Qui, spesso, giornalisti tendenziosi puniscono noi con ottanta righe».
L'Espresso, 01/11/2007
Walter format
I partiti come Dio comanda hanno il Pantheon. Numi tutelari che illuminano il presente e risvegliano echi dalle distanze remote di un passato glorioso. Ma il Partito democratico non è un partito classico. Non ha un passato né una memoria. O meglio, di memorie ne ha due, entrambe poco utili: possiede una parte della memoria del Pci e la memoria della sinistra democristiana. Quindi sarà meglio darsi da fare, alla svelta. Nell'impossibilità di edificare su due piedi il tempio della memoria, Veltroni potrebbe intanto pubblicare il nuovo album delle figurine Panini del Pd. Meglio che niente, l'album. Perché ogni album che si rispetti, per completare la collezione, deve eliminare i doppioni e gettare nel cestino le figurine fuori stagione. Provare per credere: mettere insieme le figure principali, della politica e soprattutto della cultura, per allestire la nuova costellazione "democrat", è un'impresa eroica. Implica sacrifici, abbandoni, riesumazioni, recuperi, salvataggi. In parte è un gioco al massacro e in parte un'operazione di cesello. Vogliamo cominciare? Si comincia dalla figurina numero uno, quella di Palmiro Togliatti: togliere, togliere. Il Pd non può avere niente in comune con la "doppiezza" e la "democrazia progressiva" del compagno Ercoli, che allora sarà stato il Migliore, per i comunisti, ma per tutti gli altri mica tanto. Magari, con la benedizione di Rosy Bindi e dei Dico, si potrà salvare un posticino per Nilde Iotti. Al posto di Togliatti, via libera per Alcide De Gasperi, il cattolico liberale che proprio Palmiro voleva mandare via a pedate: «Vattene via, odioso Cancelliere, o ti manderemo via a calci nel sedere». Ma fatta questa prima ardua scelta, bisogna aprire subito una bustina di figurine ancora più problematiche. Gramsci? Berlinguer? Qui forse si può essere meno radicali, e giocare di distinguo. Il filosofo imprigionato da Mussolini può essere utilmente collocato in una sezione di storici; mentre per Enrico Berlinguer ci vuole una didascalia a luci e ombre: che dimostri la capacità di staccarsi dal blocco sovietico, ma che critichi le contraddizioni e le lentezze dell'eurocomunismo. Invece via libera ad Aldo Moro, che per il talento di inglobare fenomeni complessi in vaghe nebulose potrebbe essere considerato una specie di Veltroni triste, e sul lato "radical" a don Milani, un altro dei precursori veltronici (già, "I care"). E se c'è bisogno di equilibrare il prete di "Esperienze pastorali" sul lato laico, c'è sempre l'ombra di Norberto Bobbio, che nella sua lunghissima vita e carriera ha parlato di tutto, e che dunque può essere chiamato a suffragio nel caso di problemi indecidibili, come autorità filosofica e giuridica rassicurante. Poi conviene andare alla radice, e liquidare la genealogia marxista. Tranne Marx, naturalmente, di cui si rifiuterà tutto, dal principio della lotta alla teoria del plusvalore, dalla struttura alla sovrastruttura, salvo il suo genio nel descrivere i processi storici di lunga durata: «Grande ammiratore della modernità borghese», si può concludere osservando in controluce la sua figurina, «basta leggere che cosa dice nel "Manifesto" del 1848». Invece pollice verso per tutti i filosofi marxisti o marxiani da Lukács in poi, e per i teorici della Scuola di Francoforte, Adorno, Horkheimer, Marcuse (con un'eccezione per Habermas, ma solo perché ha dialogato con Ratzinger). Se infatti si deve andare alla ricerca di padri fondatori e maestri di pensiero, il vero e sensibile "democrat" si inchinerà di fronte alla sacra figurina di Alexis de Tocqueville, l'autore di "La democrazia in America", il pensatore che individuò la sindrome della «tirannide della maggioranza». Ma in certe occasioni si potrà scambiare la figurina di Tocqueville con quella di Max Weber, maestro di ogni prospettiva liberaldemocratica. E poi si potrà andare a caccia dei pensatori moderni, l'insuperato John Rawls di "Una teoria della giustizia", filosofo contrattualista e neokantiano, l'autore di una delle ultime grandi teorie per "salvare" concettualmente e politicamente il welfare state; per poi arrivare alla filosofa più trendy, Martha Nussbaum, una sessantenne femminista liberale, costruttrice di un'idea di persona che integra razionalità ed emozioni, e il cui nome si associa inevitabilmente al guru Amartya Sen, l'economista di maggiore successo nell'ultimo ventennio (insieme al critico della globalizzazione Joseph Stiglitz), la cui analisi si è sempre rivolta criticamente allo sviluppo concepito soltanto in termini quantitativi. Diventano complicate le cose sul piano iconografico, perché a parte John Kennedy, e magari Bob Dylan e Joan Baez, e forse il "boss" Bruce Springsteen, il Pd nostrano non sembra dimostrare troppa fantasia. Ma niente paura, basta ricorrere al vecchio Jovanotti di "Penso positivo": «Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa». Un pensiero troppo eclettico? Ma no, basta interpretarne soprattutto il lato dell'immagine, dell'"icona", non le idee. Questo vale anche per i papi di riferimento: addio a Paolo VI, pontefice del dubbio cavernoso, e largo alle immagini di papa Giovanni XXIII, quello della veltronica carezza ai bambini, e all'ipermediatico Karol Wojtyla (di cui vale doppio la figurina che lo rappresenta sul monte Bianco mentre benedice la Russia, salvandola così solennemente dalle tragiche profezie di Fatima). Tanto più che c'è l'altra immagine, quella che lo raffigura mentre dice che ci sono nel marxismo dei «grani di verità», espressione adattissima all'ala sinistra e pensosa del Pd. Certo, con i papi e la chiesa bisogna andarci sempre cauti, perché si era già pedissequamente classificato Joseph Ratzinger fra i conservatori, anche in seguito ai peana di Giuliano Ferrara e degli atei devoti, quando lui, Benedetto XVI, viene fuori con la storia che il lavoro precario «mina le basi della società», e spiazza tutti. Meglio scendere di livello, quindi, e passare dal trono di San Pietro alla cultura popolare: per esempio, non si è ancora sentita una parola sull'inno dei democratici. È ormai tramontata la stella di "C'era un ragazzo" di Gianni Morandi, perché troppo legata a un'idea da anni Sessanta- Settanta, quando il Vietnam era "la sporca guerra", e non si valutava compiutamente la natura geopolitica dell'impegno militare americano. Quindi se si vuole un inno c'è sempre a disposizione l'ormai logora "Imagine" di John Lennon, che viene cantata anche nei saggi di fine quadrimestre della terza elementare. Tanto varrebbe, pur restando in area Beatles, ripiegare prudentemente su "Let it Be", che si rivolge alla Madonna e quindi soddisfa le istanze cattoliche; ma è ovvio che per noi ragazzi dei Sessanta l'inno rimane "È la pioggia che va" («Il mondo ormai sta cambiando / e cambierà di più / Ma non vedete nel cielo / quelle macchie di blu...»: l'hanno suonata anche all'ultimo congresso della Margherita, fra le lacrime dei delegati). Poi occorrono un romanzo e un film di riferimento. Per il romanzo, sembra ormai molto datato "Cent'anni di solitudine" di Gabriel García Márquez, troppo sudamericano e marginale rispetto alla globalizzazione; mentre guadagna punti ogni giorno il bestseller di Khaled Hosseini "Il cacciatore di aquiloni", storia afgana che ha appassionato il largo pubblico, guadagnando masse di lettori con un passaparola incessante. Quanto al film, si tratterà di aprire un dibattito, perché nonostante il sostegno di Veltroni, molti pensano che "Novecento" di Bernardo Bertolucci sia una pistolata che doveva celebrare il compromesso storico attaccando la cattiveria dei fascisti e la corruzione dei borghesi (per rinfrescarsi la memoria, si dovrebbe recuperare la stroncatura di Alberto Arbasino, su "la Repubblica", intitolata "L'epica nel pollaio"). Per trovare un film autenticamente "democrat" e anticattivista non dovrebbe esserci che l'imbarazzo della scelta, dallo spilberghiano "Schindler's List" in giù, magari proprio giù giù fino a "La vita è bella" di Roberto Benigni; ma molti preferiscono una storia americana tipo "Come eravamo" di Sydney Pollack, con Barbra Streisand giovane, ebrea e comunista, e Robert Redford bello, scafato e cinico. Oddio, c'è anche il caso che il Partito democratico risulti un fallimento, e allora occorrerà riprendere la figurina del sessantottesco "Una risata vi seppellirà". Ma anche in questo deprecabile caso, ci sono ormai alternative secche, decisioni obbligate: addio alle figurine di Sabina Guzzanti, e forse anche di Corrado suo fratello, e benvenuto al pensatore più in palla dell'arena democratica, ossia Neri Marcorè. Perché Neri Marcorè è leggero, gentile, quasi soave, suona la chitarra, imita benissimo il democratico Ligabue. Qualcuno ricorderà la sua versione di una delle canzoni più note di Ligabue: «Una vita da prodiano / sempre a prendere schiaffoni / a tenere tutti buoni / circondato da coglioni / Una vita da prodiano...». Qualche volta nelle figurine, nelle canzoni e nelle parodie, c'è la verità. Democratica. n
L'Espresso, 08/11/2007
Iper boncompagni
Il ritorno alla televisione di Gianni Boncompagni è avvenuto senza clamori su La7, con un programma, "Bombay", che dovrebbe riprendere integralmente il paradigma della televisione come "vuoto", o "nulla". È la televisione di Boncompagni, uno dei creatori televisivi più bravi, e soprattutto uno dei teorici più completi del niente televisivo. Solo che per entrare nella mente e nel cuore degli spettatori, Boncompagni ha bisogno di tempo, di ripetizione, di tormentini e tormentoni. Vista la prima puntata (il martedì, seconda serata), naturalmente non si sa ancora che cosa dire. "Bombay" richiama inevitabilmente "Macao", una specie di iper-televisione, o una meta- televisione, insomma pura "tv di tv". Senza significato, senza contenuti che non siano frammenti e frantumi di contenuto televisivo destrutturato. Non aumenta molto il significato intrinseco nemmeno l'uso di "esperti" come Giulio Andreotti e Arnoldo Foà, in fuorigioco e desemantizzati rispetto ai puzzle televisivi di "Bombay". In fondo, la televisione di Boncompagni non è fatta da programmi, ma da sottofondi: luci colorate, ballerine di Siviglia, gadget musicali. Il fatto è che ormai molti hanno imparato da lui come si fa questa televisione autoreferenziale e insensata. E allora, da un vecchio e nichilista genio della tv, ci si aspetta la zampata, cioè l'invenzione che scatena l'applauso intellettuale. Difficile farlo con una tv laterale come La7. Piccoli numeri di share, pubblico impaziente con il pollice sul telecomando. Ci vuole pazienza, in attesa che il meccanismo scatti, e il consenso si manifesti. Ma oggi gli spettatori ce l'hanno la pazienza? Voto: non classificabile, si resta in perplessa attesa.
L'Espresso, 08/11/2007
Basta la parola
«Basta la parola!», esclama per indicare i pregi del confetto Falqui il Professor Tino Scotti, tuttologo, in uno dei primi sketch. E la parola magica, dal 3 febbraio 1957, ore 20,50, diventa Carosello, il primo contenitore di pubblicità della Rai, per il quale hanno lavorato registi come Pontecorvo, Olmi, Leone, i fratelli Taviani... E attori e cantanti come Totò e Eduardo, Dario Fo e Franca Rame, Mina, Rascel, Tognazzi, Vianello, Gassman, Manfredi... 100 secondi massimo di puro spettacolo che coronano il "codino" (lo spot di 35 secondi), creando intramontabili jingle che entrano nella lingua: «Lei non sa chi sono io», minaccia Aldo Fabrizi. «Il signore sì che se ne intende», approva Lina Volonghi. «Ma cosa mi dici mai», gongola arrossendo Topo Gigio... A 50 anni dalla nascita, "L'espresso" e "Repubblica" presentano una collana in quattro Dvd con il meglio di Carosello. Nel primo Dvd, a 8,90 euro in più, il periodo 1957-1963. Nei contenuti extra: interviste e testimonianze di Edmondo Berselli, Marcello Marchesi, Ugo Tognazzi, Enrico Vaime...; i "nonni" dei jingle; una selezione dei celebri codini; i Caroselli al cinema; cartoonist, uno speciale sui caroselli animati. F. T.
L'Espresso, 15/11/2007
Metodo Paolini
Considerazioni su "Il sergente", la performance di Marco Paolini tratta da "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern, mandata in onda senza interruzioni pubblicitarie da La7. Autentico evento televisivo. Dati di ascolto più che raddoppiati rispetto alle medie della rete. Io, personalmente, non sono convinto della lettura data da Paolini di questo classico moderno, ma chissenefrega: ciò che conta è che La7 ha mostrato che cosa può fare una rete televisiva quando non è vincolata da palinsesti bloccati, coazioni a ripetersi, automatismi scontati. Voglio dire: c'è uno spazio per la fantasia e la creatività nei programmi tv; e mentre le sei reti generaliste proseguono con la loro programmazione autistica, il solito blob televisivo senza capo né coda, si aprono spazi e opportunità imprevedibili per chi voglia scompaginare le abitudini. Attenzione, non è detto che la formula dell'one man show di Paolini sia replicabile, e nemmeno che lo schema scardinante consista nell'introdurre cultura (teatro, cinema) nella programmazione normale. Il successo di Paolini (e della rete) vuol dire piuttosto che dentro l'omologazione totale ci sono possibilità di scomporre, di sorprendere, di andare a caccia di spettatori. E lo si può fare senza sbattere loro in faccia i soliti format di "culi & tette". Non c'è bisogno neanche di scomodare uno scrittore bravo e appartato come Rigoni Stern, e un attore di culto come Paolini. Basterebbe capire che si deve uscire dall'ovvio, e che uscire dall'ovvio paga. Il mercato è una brutta bestia, ma ama le invenzioni. Per chiunque voglia provarci, è un'indicazione di metodo: o di anti- metodo.
L'Espresso, 22/11/2007
I conflitti di Venditti
Freno, acceleratore, controllo volante degli sms, curva rapida, gioco di sterzo, di nuovo l'acceleratore, e poi, sulle note del suo ultimo disco, la voce inconfondibile di Antonello, core de 'sta città: «Indimenticabile... Indimenticabile». Passione per la musica che è tutt'uno con la passione per la politica, e per l'immersione totale nel disegno urbano della capitale. Venditti infatti attraversa Roma come uno che navighi nel mare di casa, mare ineluttabilmente "nostrum", i semafori come boe lungo mappe e rotte mentali apprese per espressa via cromosomica. L'album esce oggi, dopo una preparazione lunghissima nello studio di Colle Romano, con i suoi musicisti, il contributo di alcuni spunti di Maurizio Fabrizio, e l'assistenza di Sandro Colombini, suo produttore storico: «Ma ho chiamato di nuovo anche Gato Barbieri, con il suo sax sempre così emozionante, e perfino Carlo Verdone che suona benissimo la batteria nella sua canzone più allegramente politica, "Comunisti al sole" ("Resta sempre uguale a come sei, un comunista al sole / non cambiare, tanto resterai per sempre un sognatore...")». L'album si intitola "Dalla pelle al cuore", e logicamente è superfluo chiedere perché: «Ma perché la vita è sempre doppia, istinto e ragione, fisicità e spiritualità. Ha sempre due facce, come dico in una delle canzoni nuove, "Tradimento e perdono": perché l'amore è il perdono, e l'amore implica e comprende il tradimento. O almeno bisogna saper tendere verso il perdono, che io intendo come perdono cristiano...». E poi aggiunge, come per sottolineare questa duplice idea: «Puoi rinunciare a una delle due sostanze fondamentali, alla materia e alla mente? Puoi rinunciare all'anima, o al corpo?». Venditti come Cartesio, la res cogitans e la res extensa. Così in quella canzone dice che «tradimento e perdono fanno nascere un uomo», e si rivolge drammaticamente ai grandi campioni perdenti, quelli che hanno illuminato la notte con uno spettacolare scintillio e si sono spenti mentre moriva nel buio l'ultima traccia di luce, come Luigi Tenco, Marco Pantani, e il più amato, il "capitano" Agostino Di Bartolomei, genio romanista perduto dalla disperazione: «Ricordati di me, mio capitano, cancella la pistola dalla mano». Sta di fatto che anche il cantautore ha due facce: Antonello e il suo doppio Venditti, il laico e il cristiano, l'uno affascinato dalla politica come utopia concreta, e l'altro attirato dalla realtà viva della fede. Due fedi complementari, l'una che si riflette nell'altra. Antonello, poi, è un modo di dire: si chiama Antonio, e l'ha anche scritto in una canzone, è un ragazzone nato nel 1949 ovviamente "sotto il segno dei pesci", che si avvicina gloriosamente ai sessant'anni con la chioma che è un ricordo e un simbolo di quella della gioventù: «Il segreto è che noi siamo una generazione sospesa, divisa fra passione e ragione, fra amore e razionalità. Fa parte della nostra anima e del nostro corredo genetico». Eppure non è schizofrenia, e neanche manicheismo, questa separazione, questo dualismo: «Dobbiamo saperlo, che siamo tutti Giuda, tutti traditori». Per questo ha scritto un brano, per questo album, che evoca proprio Giuda: «Colui che per essere il migliore, ed esserlo fino in fondo, assume su di sé la responsabilità tremenda di denunciare il Cristo, per poi pagare con il suicidio, senza sconti». Lo fermano per strada, Antonello, lo salutano dalle auto. Lo sentono come uno di loro, per l'accento, il dialetto, la battuta scafata, e si capisce: è l'artista del popolo, colui che nel giugno del 2001 diede un concerto al Circo Massimo per festeggiare il terzo scudetto della Roma, raccogliendo una folla di un milione e 700 mila persone a scandire le sue canzoni romane e romaniste. Sono immagini del presente e immagini del passato. Venditti è un figlio della piccola borghesia romana. La madre, Wanda, se n'è andata quest'anno, a più di novant'anni: era un'insegnante di latino e greco vecchio stampo, implacabile, esigentissima con gli allievi, e una mamma più che impegnativa. Suo padre, anarchico bakuniniano da giovane, che finì prigioniero in Kenya per sei anni, ferito al collo ("Mio padre ha un buco in gola", tutto può diventare una canzone), divenne poi viceprefetto di Roma, con una delega simile alla protezione civile. In casa, c'è ancora il vecchio pianoforte Anelli su cui ha cominciato a suonare da piccolo, alla sua maniera. «Ero un ragazzino grasso, mi sono messo a scrivere canzoni anche per questo. Ho composto "Sora Rosa" a 14 anni, ma anche "Roma capoccia" è di quel periodo, nel periodo dell'adolescenza». Sono passati 17 o 18 dischi dagli esordi, non è un tipo da statistiche, Venditti. Lontani i tempi del primo incontro con Francesco De Gregori: «L'ho conosciuto al Folkstudio, dove alla fine degli anni Sessanta si andava per ascoltare la musica alternativa, sotto il comando assoluto di Giancarlo Cesaroni, il grande capo, un talento assoluto che come record personale poteva annoverare il fatto di non avere fatto suonare Bob Dylan nel suo locale». Forse nasce già lì il Venditti "politico", l'amico di Walter Veltroni e il cantore di Enrico Berlinguer, l'uomo di una sinistra romantica e piena di vocalità e di passioni: con quel disco memorabile siglato "Theorius Campus", metà di Antonello e metà di De Gregori, «con un nome simbolico e già rivelatore, metà teoria e metà pratica», un nome che richiama il personaggio inventato dai due cantautori gemelli, immaginato da Venditti come «un vecchio con la barba che quando suona l'organo sfonda il cielo». Venditti parcheggia la Smart davanti alla sua casa in Trastevere, magnifica "location" di una celebre pisciatina in "Ladri di biciclette", con un grande giardino interno, e un curioso bassotto tedesco, Alighiero, che si intrufola annusando fra le gambe e le sedie. Si può diventare ricchi, eh, con le canzoni? «Diciamo che ci si può trattare bene. Forse non sarebbe andata così se avessi dato seguito ai miei studi, laurea in diritto minerario e specializzazione in filosofia del diritto». Diritto minerario, una cosa eccentrica. «Ma allora andavo a studiare nella biblioteca dell'Eni, la mia idea dell'Italia era, ed è ancora, quella di Enrico Mattei, un paese che cresce e che trova gli strumenti per il proprio sviluppo. Solo che nel momento in cui mi sono laureato uscì il mio primo disco, e allora addio sogni di petrolio, sono arrivati i sogni di musica». Forse allora, in quegli anni Sessanta e Settanta, c'erano idee, utopie, comunque obiettivi da raggiungere. E invece adesso che cosa succede, Antonello? Forse arriva il disincanto, l'assuefazione, la stanchezza, anche la botta di cinismo: «Ma no, la vita è piena di complicazioni, tutte da interpretare. Piuttosto c'è da chiedersi come facciamo a dare una risposta ai nostri ragazzi, perché i figli ottengono soltanto risposte imprecise». Pensa, e lo dice senza veli, alla vita di suo figlio, Francesco Saverio, trent'anni, regista, attore, doppiatore, romanziere, sposato con Alessandra, figlia di Raffaele La Capria e Ilaria Occhini, che ha realizzato il video dell'ultimo disco, e che si sbatte nelle strettoie di un mestiere spesso complicato. «Per loro, per questi ragazzi, sembra che la risposta sia sempre altrove: in ragioni di potere, o in logiche clientelari, senza rispetto per il merito. Li abbiamo fregati, i ragazzi: li abbiamo sbattuti davanti a un computer, facendogli credere che dentro o dietro quel display ci sia un mondo, e invece è solo un imbuto, che li condanna alla solitudine». Per uscire dalla solitudine, a Venditti basta uscire di casa, incontrare il primo che capita, magari è don Guerino di Tora, il direttore della Caritas romana, uno degli amici con cui Antonello condivide le iniziative benefiche, le fondazioni, l'Africa. Perché Roma contiene tutti i momenti, tutte le dimensioni che piacciono a Venditti: «Roma è forma, è estetica, ma è anche contenuto. E se si vuole, tutta la mia storia va davvero nella direzione del partito democratico. Te lo ricordi il verso di "Roma capoccia", quello sulla maestà del Colosseo e la santità del Cupolone, non sono questi i due momenti fondamentali di un partito nuovo? Laico e cristiano come me, convinto che la solidarietà non è soltanto un meccanismo, deve fondarsi sulla carità, ossia su rapporti veri fra le persone». Mentre noi, in realtà... «Mentre noi siamo diventati egoisti anche nella cultura, nella sapienza, e rischiamo di non sapere più che cos'è la generosità, che cosa è il dono». n
L'Espresso, 06/12/2007
Sostiene Luttazzi
E allora parliamone. In una tesa intervista ad Andrea Scanzi, pubblicata sulla "Stampa", Daniele Luttazzi sostiene che il silenzio critico sul suo programma "Decameron" (il sabato su La 7, seconda serata) si deve a una specie di vasta macchinazione: «Dietro c'è un disegno preciso: l'oblio. Vogliono disinnescarmi». Non sia mai. Noi ci sottraiamo alla cospirazione antiluttazziana. Ancorché disinnescarlo, lo inneschiamo. Perché è vero che Luttazzi fa il 6 per cento di share a mezzanotte, che per una rete come La 7 è un exploit, ma questo non è un giudizio sulla qualità delle performance satiriche di Luttazzi. Che sono ottime, soprattutto per chi apprezza il suo stile tagliente, le sue affilate cattive maniere. Ma forse una personalità disincantata come quella di Luttazzi potrebbe condividere il punto di vista che proviamo a esporre qui di seguito. Bene, la satira politica in tv è una palla. Siamo tutti reduci da giorni e giorni di politica in televisione, con "Porta a Porta" e "Annozero" e "Ballarò" e "Matrix". Sentire a mezzanotte Luttazzi che rifà le bucce al centrodestra e al centrosinistra ha un suono risaputo. Non vogliamo più sentire battute rancorose sul conflitto d'interessi: vorremmo che il conflitto d'interessi fosse risolto, radicalmente, con una legge. Perché alla fine la satira politica porta inevitabilmente a parlare di Clemente Mastella, e se non si parla di Mastella si ha il costante timore che fra poco si parli di Mastella, emblematizzato come male assoluto: sai che barba. Luttazzi è stilizzato e malvagio. Ci piace quando è surreale, non quando imita Marco Travaglio. A ciascuno il suo mestiere.