L’Espresso
L'Espresso, 06/12/2007
Non facciamo i Gentiloni
C'è voluto lo scoop del quotidiano "la Repubblica", con la pubblicazione delle intercettazioni relative al coordinamento politico dei telegiornali e dei palinsesti, per tornare a parlare dell'anomalia assoluta rappresentata dal duopolio televisivo in Italia. Eppure il problema affonda nella notte degli anni Novanta, all'epoca dell'ingresso in politica del monopolista Berlusconi. Si sapeva tutto, dov'è lo scandalo, sostengono i più realisti. Ma trovarsi stampate le conversazioni inciuciste, dominate dal volere implicito del leader del centrodestra, ha provocato un effetto particolare; non è di tutti i giorni la prova che i fedelissimi sono così fedeli al capo da tentare di oscurare la morte del papa. Tanto che si è ricominciato a parlare della legge di riordino del sistema televisivo, ancora afflitto dagli effetti della Gasparri. Su questo punto occorrerebbe un tantino di radicalità. Perché la legge predisposta dal ministro Gentiloni, che andrà in aula dopo le festività, è una buona e volonterosa mediazione, ma non è affatto sufficiente a risolvere il problema. I difetti del disegno Gentiloni sono stati rilevati con chiarezza: nella proposta del ministro non c'è una fiducia sufficiente nel mercato, come si vede dall'idea del tetto alla raccolta pubblicitaria (fissato al 45 per cento, mentre oggi Mediaset oscilla sul 57 per cento); come pure il trasferimento nel digitale di una rete Rai e una rete Mediaset: non era più logico mettere sul mercato queste due reti? Non sarebbe stato l'embrione di un oligopolio se non altro più largo? In realtà, ogni discorso sul futuro della televisione in Italia è condizionato da due aspetti: in primo luogo, la presenza di Silvio Berlusconi come signore e padrone di Mediaset, che strilla all'esproprio, e fa strillare i suoi pretoriani, a ogni idea ispirata da una nitida concezione antimonopolista; e subito dopo c'è il totem premoderno del cosiddetto servizio pubblico svolto dalla Rai. Ora, che il servizio pubblico sia una favola è testimoniato dall'insufficiente, come minimo, attenzione dedicata dalle reti della Rai agli eventi collettivi, alle sessioni parlamentari, a tutto ciò che attiene generalmente alla "polis". Ormai il servizio pubblico, quello per cui si paga quella gabella arcaica che è il canone, è limitato alla trasmissione degli incontri della nazionale di calcio. Ma detto più esplicitamente, il servizio pubblico è in realtà un servizio politico, cioè la possibilità per i partiti e gli schieramenti di occupare spazio nell'informazione e negli organigrammi. Un residuo del passato anche questo, che soltanto con un certo ottimismo verrebbe risolto con il passaggio a una fondazione autonoma. Di recente il ministro Gentiloni ha sostenuto che la Rai deve «recuperare una maggiore autonomia dalla politica». Espressione infelice. Che cosa vuol dire «maggiore autonomia»? L'autonomia o c'è oppure non c'è, non si danno gradazioni intermedie. Proprio per questo, e in considerazione dello sviluppo del mercato e della tecnologia, sarebbe il caso che a qualcuno venissero in mente soluzioni un po' più radicali. Abolire il canone, per esempio, e non solo per gli anziani poveri e ultrasettantacinquenni, come previsto dalla finanziaria. Abolirlo e basta, perché sarebbe molto morale che la Rai vivesse soltanto con gli introiti della pubblicità. In secondo luogo, possibile che agli adepti del liberalismo e del liberismo non sia quasi mai venuto in mente che una magnifica piattaforma "di mercato" e pluralista consisterebbe nel privatizzare la Rai, e nello stesso tempo frazionare sul mercato Mediaset? Avremmo sei ottime reti, più La 7, a contendersi il mercato dell'audience e della pubblicità, ottima forma di pluralismo e quindi di maggiore libertà. Una delle obiezioni è che in Italia non esistono soggetti in grado di acquistare le reti messe in vendita. Può darsi. Ma potrebbero comprarle gli indiani, i tedeschi, gli americani, gli spagnoli. A chi appartiene Sky, forse a un'impresa italiana? E il telegiornale di Sky non fa più servizio pubblico, durante una giornata, di quanto non faccia la Rai in una settimana? Dopo di che, verranno i compromessi, i patteggiamenti, le minacce a Berlusconi anche da destra («Aspettiamo in aula la Gentiloni», come hanno già detto quelli di An). Ma l'argomento di fondo non dovrebbe essere eluso: vogliamo il mercato, la tecnologia e la modernità, oppure i balzelli come il canone, il condizionamento politico, il coordinamento realizzato grazie ai tirapiedi dei leader, le interviste contrattate, la lottizzazione degli ospiti, i veti? Non c'è bisogno di rispondere, la domanda è ovviamente retorica. Ma sarebbe il caso, d'ora in avanti, di non raccontarci storielle pensose e illuminate sul servizio pubblico e la sua antica filosofia, quella favola bella che ieri ci illuse ma oggi non dovrebbe illuderci più.
L'Espresso, 13/12/2007
Genio Gene
Gene Gnocchi in "Artù". Sotto: balletto del Teatro Nazionale di Praga (a sinistra) e "I giganti della montagna"
L'Espresso, 20/12/2007
Divina audience
Allora: Adriano Celentano piace comunque, anche con un programma irrisolto, e Roberto Benigni piace a tutti gli ammiratori della Divina Commedia, che sono tanti e fanno audience. Ma il problema filosofico e dantesco è il seguente: la Rai si salva con i programmi evento, quelli che fanno decollare lo share per una serata, sono circondati da un'onda di mediaticità, scatenano discussioni vere e finte? Oppure la strada è un'altra? Si tratta di intendersi, naturalmente. L'evento ci sta sempre bene, nel palinsesto, a meno che non sia una cattedrale nel deserto. Perché ci sono molti modi di intendere la televisione, ma vale per la tv quello che vale per la società: non c'è progresso se sono soltanto in pochi a eccellere. Poche università di punta non salvano il sistema della formazione universitaria; pochi vertici nella ricerca non testimoniano della qualità di un paese nel settore scientifico. O almeno, l'eccellenza sporadica non serve a riscattare la mediocrità quotidiana. Idem per la televisione. Una melassa di programmi bufala non è riscattata dal successo di qualche raro show eccentrico. Il Benigni dantesco piacerà anche ai teologi del Vaticano, e Celentano susciterà grandi aspettative (siamo persino riusciti a credere, e non ci sono parole, che si sarebbe assentato spesso in trasmissione per ragioni prostatiche), ma la qualità televisiva si fa con le medie, non con le punte. E la media della Rai va all'ingiù. Siccome non sembra esserci rimedio, vale la pena di insistere: via il canone, privatizzare, smetterla di parlare di servizio pubblico. Anche perché sta tornando la proporzionale, e se tanto ci dà tanto, un'altra spudorata lottizzazione è alle porte.
L'Espresso, 26/12/2007
Luttazzi fa autogol
Ciò che è sfuggito ai critici di Daniele Luttazzi nella querelle televisiva con Giuliano Ferrara, è che si è trattato di un duello fra spiriti irridenti: e nonostante Luttazzi si qualifichi (anche con apposite epistole a Dagospia e a questo giornale) come satiro politico, sottolineando politico, la vittoria è andata al politico satirista direttore del "Foglio", sottolineando satirista. Non solo perché di questi tempi la vena di Giulianone si è mostrata in abbondanza sul suo giornale con l'autocandidatura alla direzione prima de "l'Unità" degli Angelucci e poi del "manifesto" nella versione Cusani; da tempo infatti Ferrara conduce una battaglia sulfurea, in quanto fautore di D'Alema che sostiene il partito di Veltroni con il supporto di Berlusconi (ma in privato aggiunge sornione: «Sì, ma con la benedizione di Ratzinger»). Bene, contro un tipaccio così, l'esile Luttazzi aveva tutto da perdere: perché mentre molti lo criticavano per la maleducazione, il conduttore di "Otto e mezzo" ha pubblicato sul "Foglio" una recensione di Luttazzi, firmata dall'acribioso Christian Rocca, in cui si dimostrava che l'ormai celebre scena sadomaso che immortalava il ciccione nella vasca da bagno, sommerso da un profluvio sterco-urinario, era il calco di uno sketch di Bill Hicks vecchio di anni; la definizione del neologismo "giulianone" come l'esito immondo di una pratica sessuale alternativa si deve al comico Dan Savage; e un'idiozia sul volo di una mosca per cui Luttazzi si accapigliò con Bonolis, ritenendosi scippato, oltre che essere patrimonio dell'umanità ha il copyright del comico George Carlin. Conclusione: i satiristi farebbero bene a scegliere con attenzione i loro bersagli.
L'Espresso, 26/12/2007
si va verso Il Referendum
Non ci vuole una fantasia eccezionale per immaginare tutte le difficoltà che il negoziato "di sistema" fra Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sulla legge elettorale si troverà ad affrontare, oltre a quelle che ha già incontrato nelle prime mosse. Da un lato ci sono le infinite varianti che qualsiasi formula deve contemplare per non scontentare troppo i soggetti politici minori, partiti e partitini (che nel centrosinistra potrebbero praticare ritorsioni contro il governo, e nel centrodestra minacciare svolte strategiche sul piano delle alleanze elettorali, portando sino in fondo la politica delle mani libere). E in via complementare a complicare le cose ci sono gli interessi dei partiti, maggiori e minori, che si intersecano con la tattica, la visione e le ambizioni dei leader, nonché il problema della durata del governo, e quindi della coalizione un tempo chiamata Unione, e dell'ex Casa delle libertà: insomma, una scacchiera con troppe varianti. Tradotto in sintesi, il tema della legge elettorale può essere enunciato nel modo seguente, in una specie di nuovo Postulato delle impossibilità: «I conflitti sul sistema proporzionale sono il frutto della proporzionale». Vale a dire: noi ci troviamo già ora in una condizione proporzionale. Il metodo maggioritario è stato abbandonato dalla classe politica, sulla base del giudizio sommario secondo cui "il bipolarismo è fallito". Conta poco che il fallimento sia stato determinato dalla scelta suicida e folle del Porcellum, che reintroduceva la proporzionale esaltando il ruolo di ogni entità politica presente in un'alleanza politico-elettorale. Adesso si tratta di fare i conti con un consenso quasi generale che pretende il ritorno alla Repubblica manovriera dei partiti, delle contrattazioni post-elettorali, degli aghi della bilancia, dei due forni. Benissimo, ci vuole realismo, inutile fissarsi sulle illusioni. Tre politologi, Piero Ignazi, Luciano Bardi e Oreste Massari hanno rilanciato sul "Sole 24 Ore" l'argomento dell'uninominale a doppio turno (il sistema francese), ma il fascino della proporzionale è irresistibile. In primo luogo perché toglie drammaticità al confronto politico: c'è in tutti la convinzione ragionevole che con la proporzionale chi vince conquista il potere, ma chi perde non perde mai del tutto e mantiene un rassicurante potere di veto. Da questo punto di vista, anche le organizzazioni di rappresentanza economica, la Confindustria, le grandi aziende come Enel e Eni, il sistema bancario, il mondo dell'informazione, a cominciare dalla Rai, si sentono tutti rassicurati. Si torna all'Italia del patteggiamento, e ciò risulta terapeutico per l'ansia di chi non sopporta il sapore della sconfitta, nonostante il fantasma delle lottizzazioni future. Eppure proprio il sentimento proporzionalista impedisce una razionale scelta della formula: ragion per cui ci si accapiglia sul Vassallum di Veltroni, sul sistema tedesco con doppia scheda elettorale, sulle soglie di sbarramento del progetto Bianco, sull'ampiezza delle circoscrizioni nel modello ispano- germanico, ancora su eventuali "premietti" di maggioranza. Eh sì, decenza vorrebbe che il nuovo metodo favorisse la formazione e la competizione di due partiti principali, costringendo i satelliti a raggrupparsi. Ma per ottenere questo scopo occorrerebbe un accordo di ferro tra Berlusconi e Veltroni, che in troppi hanno interesse a sabotare, per convenienze di bottega, gridando all'"inciucio". È chiaro tuttavia che accontentando tutti si arriva alla proporzionale pura, cioè presumibilmente alla disgregazione del sistema politico. E allora la domanda sul "che fare" ha poco senso in questo momento. Sarà pure possibile anche un tentativo di Romano Prodi, per quadrare il cerchio, in modo che l'accordo fra Silvio e Walter sia blindato dal governo in modo da garantire gli alleati della maggioranza, quelli a sinistra del Partito democratico. Ma è molto più probabile che invece si vada inevitabilmente verso il referendum. A metà gennaio la Corte costituzionale esprimerà il suo parere in proposito. Se sarà positivo, tanto vale prendere atto che il referendum si profila come l'unico modo per superare l'impasse. E anche per far sì che i partiti tornino a dedicarsi alla politica. Perché sono mesi che ci si dedica al discorso sul metodo: che è un'attività cartesiana, ma che a un certo punto dovrà pur cedere il passo ai contenuti. Altrimenti, è vero che la metafora bizantina è abusata: ma si resterebbe sempre di qui all'eternità, nei corridoi della politica a disquisire del sesso angelico della proporzionale.
L'Espresso, 04/01/2006
Rock Parade
La storia del rock può essere letta come un processo fluviale ma lineare, che comincia più o meno ufficialmente con Bill Haley e "Rock Around the Clock", poco più di cinquant'anni fa, e si sviluppa fino a oggi, dopo avere attraversato il beat, il funk, il punk, la dance, l'hip hop, e qualsiasi forma musicale e spettacolare che non sia riconducibile a una tradizione specifica, e che appaia in qualche misura eversiva. Oppure si può interpretarla attraverso dimensioni intrecciate, storia di musicisti che hanno svolto la loro esperienza sul campo, nei "complessi", nei gruppi, nelle band, nelle session, nelle reunion. Gente che cita altra gente, musica che mima e cambia altra musica. Forse è vero che il programma, o il manifesto, del rock è impossibile da stendere. È talmente onnivoro, così flessibile il concetto di "rock", da risultare in fondo irrilevante a fini descrittivi. Per individuare le ascendenze bisognerebbe risalire alle parole di George Gershwin, che commentò la "Rapsodia in Blue" dicendo: «C'è dentro il nostro blues, il brio delle nostre città, il ritmo della vita americana, la pulsazione di ciò che è moderno». Ma in questo modo accetteremmo in primo luogo l'idea che il rock non è mai nato, in quanto è esistito da sempre, fin dai ritmi e dai suoni dell'eco culturale afroamericana; e secondariamente dovremmo prendere per buona l'idea che il rock è l'America: il che è vero, ma solo in parte. Perché non si può negare che nella pulsazione del rock ci sono le sistole e diastole del cuore americano, se è vero che basta ascoltare un capolavoro dei Pink Floyd, tanto per esemplificare "Wish You Were Here", per accorgersi che sotto una verniciatura onirica, dietro l'"acidità" delle parole c'è fortissimo l'impianto del blues, dissimulato ma capace di dare forma ai sogni e alle libertà poetiche estreme di quegli anni Settanta. Eppure non è tutto, e non è solo America. Se infatti si vuole provare a capire «se è rock o no» (come si chiedeva Lucio Battisti in una delle sue produzioni più solipsistiche), conviene procedere in via davvero enciclopedica. E l'occasione è offerta dalla "Enciclopedia del Rock" con "L'espresso" dalla prossima settimana (prima uscita al prezzo speciale di un euro in più), leggendo le biografie e seguendo i rimandi cedendo alla tentazione momentanea, alla suggestione di un rinvio, per vedere quali musicisti hanno suonato con chi, come si sono riorganizzati i gruppi, da quale cosa è nata un'altra cosa, da quale musica è nata un'altra musica. Mettere a frutto le informazioni su tutti i protagonisti e gli album dalle origini a oggi per registrare che nei vecchi Yardbirds, quelli di "For your Love", hanno suonato la chitarra solista tre virtuosi come Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. Era l'Inghilterra ruggente dei metà Sessanta, e ciascuno si può divertire a inseguire le carriere di questi grandi chitarristi: "Slowhand" Clapton che continua a coltivare quarant'anni dopo il suo blues armonioso e tecnicamente perfetto, Beck che ha sfiorato i terreni strumentali dell'indicibile ma anche del pop, Page che è passato alla storia per avere innervato la verve già quasi metallica dei Led Zeppelin. Oppure si può ripercorrere la carriera dei Beatles, andare alla ricerca del modo in cui il Quartetto di Liverpool si è appropriato dei rocchettini giovanili dell'America più ludica, degli anni Cinquanta più divertenti e futili, impregnandola di scintillante British Style: «I should have known better with a girl like you...»: cose da college, da festa adolescenziale, chewing gum, hula hoop, drive in, però con il "touch" di Lennon & McCartney, pronto a trasformarsi nell'opera- mondo del "Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band", dopo avere attraversato l'inevitabile Penny Lane con i colori e i suoni dei pompieri, il ritratto della regina, il barbiere all'angolo, in quell'isola così dolcemente pre-thatcheriana, ma anche così innovativa ed eccitante. Sicché non risulta poi del tutto incongruo o inaspettato che tanto John Lennon quanto Paul McCartney si siano misurati con i classici del rock'n'roll, dato che alla fine si torna sempre alle radici. E se si ascolta l'ultima produzione dei Rolling Stones, viene da condividere il giudizio di qualche vecchio maestro del blues, secondo cui Jagger & Richards, dopo la carriera, le donne, la droga, la ricchezza, il jet set, alla fine di tutto «non hanno tradito» la vecchia lezione di Muddy Waters e più in là dei maestri semidimenticati del Delta del Mississippi. Perché davvero il rock è eclettico, e questo suo eclettismo consente di inglobare stili e modi, senza preclusione alcuna. Gli Zeppelin sono capaci di allestire ballate struggenti come "Stairway to Heaven", con quell'arpeggio che tutti hanno provato a fare sulle sei corde acustiche; i Beach Boys hanno provato a reinventare la forma-canzone nella ritmica di "Good Vibrations"; i Doors avevano tentato, grazie al talento prossemico di Jim Morrison, di occupare lo spazio teatrale del palcoscenico con una performance estetizzante e mortuaria; i Kraftwerk hanno prodotto un'avanguardia elettronica che sembra citare talvolta le atmosfere di Weimar, sfumandole nel camouflage della musica artificiale. È per questo che non si può dire qual è il destino del rock. Quando la scena musicale sembrava languire, è nato il "movimento" punk, con il suo slogan "no future", un nichilismo sarcastico vomitato contro l'Inghilterra borghese. In America la musica di "mainstream" si è fatta contaminare dal reggae giamaicano; è nata la tendenza hip hop, il rap è diventato una forma di rivoltosa espressione metropolitana, la parola del ghetto che diventa ritmo. Dopo la fine dei Nirvana e lo spegnersi del Seattle sound, gruppi come i Green Day, quelli di "American Idiot", hanno ripreso il vessillo del punk e lo hanno portato nei territori dell'emozione, una sorta di punk "compassionevole" che potrebbe addirittura piacere ai neocon. Gioco di contaminazioni, non è vero che il rock sia rimasto lo stesso dai tempi di Elvis Presley, e di quella musica che «piace ai giovani perché non piace ai loro vecchi». Ma oggi non possiamo immaginare "dove va" il rock. Ormai non è più un fiume, è un oceano. Ognuno deve trovare la sua rotta, cercando i segni, e le musiche, che si sono fissati nei cataloghi discografici come nel vissuto e nell'immaginario. Si può cominciare da qualsiasi punto, agli inizi o alla fine della storia. Alla fine si può condividere una frase di George Harrison: «Il rock non è una rivoluzione, è un'evoluzione». In altri tempi si sarebbe detto una rivoluzione permanente. Adesso sappiamo che è stata un'arte capace di mettersi continuamente a confronto con il pubblico, spesso con il mercato, talvolta con l'industria, con il mercato di massa. Nel momento in cui la musica non si ascolta più come una volta, in religioso silenzio, in poltrona, ma accompagna la vita quotidiana come un sottofondo, o come un concentrato di ascolto informatizzato nell'iPod, viene facile considerare tutta l'esperienza del rock come un universo unico, in cui si può entrare da qualsiasi apertura, e in cui si può, o si deve, viaggiare anche senza meta. Qui c'è il primo Dylan, che richiama i Byrds; qui ci sono gli Hollies, che avevano alla chitarra Graham Nash; ecco il Boss, che riprende l'America profonda dei "losers", i perdenti, la working class che non va in paradiso. Eccetera. Basta cominciare e non si smette più. Il rock è davvero un'enciclopedia.
L'Espresso, 04/01/2006
Giù le mani dallo zapping
Faranno il piacere di mettere a disposizione di chi non è capace neanche di accendere la tv un attrezzo totale, che contenga tutto quello che serve per la ricezione e la riproduzione. Faranno il piacere di raggruppare, in un unico "coso", l'etere, il satellitare, il digitale, il dvd, il vhs, Internet, la banda larga e qualsiasi altra roba a destinazione televisiva. Dopo di che cominceremo a ragionare sui programmi, e su quali reti o canali vorremo sintonizzarci. Perché intanto si rinviano gli acquisti, si aspetta la modalità nuova, l'ordigno definitivo che non ci faccia pentire dell'acquisto intempestivo, con gli esperti che ridacchiano e dicono: stupido, te l'avevo detto. Dice: intanto godetevi Al Bano e Loredana. O Pippo e Katia. O il trionfo sull'Isola di Lori Del Santo. Sì, marameo. Noi aspettiamo la televisione "de qualità". La aspettiamo come aspettiamo il successo del centrosinistra, non perché si abbia particolare fiducia sulle sorti magnifiche e progressive, ma perché dopo cinque anni di Silvio e Gianfranco e Pier Ferdinando, con l'aggiunta di Roberto Calderoli, uno ha il diritto di tirare il fiato. Cioè ha il diritto di cambiare canale. E non solo per rivedere il volto di Enzo Biagi, di Michele Santoro e di Daniele Luttazzi, gli ostracizzati dell'Editto di Sofia: che quando riappariranno scenderanno lacrime e diremo bentornati, quanto tempo, dove siete stati, quanto ci siete mancati, come si fa con i parenti che non si sono visti per un po'. Ma cambiare canale significherebbe anche vedere il Tg1 e il Tg2 senza doversi chiedere: ma è vero? Che cosa sono quelle nuvole rosa sulla penisola? Sono previsioni meteo o l'imposizione di un clima? E non perché la televisione della Casa delle libertà sia la televisione dell'intrattenimento, mentre la tv dell'Unione sarebbe quell'altra. Siamo grandi, lo sappiamo bene che la televisione è tutta infotainment, sia quando appaiono il papa, la senatrice Rita Levi Montalcini e il presidente Ciampi che deplora la cattiva tv, sia quando si profila Paolo Crepet o Giucas Casella. D'altronde, se uno vuole programmi alternativi, già adesso ne trova quanti ne vuole. Il bouquet di Sky consente di vedere, che so, "Cult", che manda film brasiliani o congolesi con un perfetto cartellone da cinema d'essai; un canale dedicato agli animali, con moltissimi serpenti e coccodrilli; e qualsiasi programma di nicchia si senta il bisogno. Con il che, qualcuno potrebbe avere la tentazione di dare ragione all'ex ministro Maurizio Gasparri (a proposito, s'è poi capito perché lo fecero fuori dal Berlusconi bis?), che per tutelare il sistema berlusconiano inventò il Sic, ossia il sistema integrato della comunicazione, diluendo il potere televisivo del Cavaliere in un indistinto imprendibile. Però, però. È vero che i "satellitari" passano ormai le serate facendosi il proprio palinsesto su misura: non piace "Porta a Porta"? Trovo un film "classic", magari una bella commedia anni Cinquanta su cui addormentarsi placidamente. Contemplo una partita della Ternana (si fa per dire) del 1992. Guardo il salvataggio di un gatto su "Animal Planet", bravi i vigili del fuoco di Santa Monica. C'è anche chi ormai non guarda un programma ma guarda genericamente la televisione: dito pollice sul telecomando, un canale dietro l'altro, zapping puro, trionfo del totem domestico come puro frullato di nulla, blob infinito, immagini senza sosta e senza senso, e alla fine della ginnastica si ritrova pure un pollice da atleta, muscolosissimo. Bisogna tuttavia specificare che la diffusione del satellitare è frenata dalle assemblee di condominio, che non si mettono mai d'accordo sull'installazione dell'antenna, giacché non solo è complicato realizzare il partito democratico, è complicatissimo anche passare alla parabola unica. E quindi gli operatori della pubblicità, quelli che guardano l'auditel come se fossero i dieci comandamenti, fanno ancora i conti con le sei reti del Sib, che non vuole dire Si bemolle, ma Sistema integrato Berlusconi, con qualche spazio concesso al Tg3 e a La7. Ogni volta che può, Aldo Grasso ricorda che il pubblico della televisione generalista è costituito prevalentemente da donne prevalentemente meridionali, prevalentemente a bassa scolarità, prevalentemente esposte al piccolo schermo per tutta la giornata. Quindi è con quella tv che bisogna fare i conti: con la tv di massa, non con la tv di nicchia. E allora, nella benigna ipotesi che il centrosinistra vada al governo, bisognerà che il cambiamento di canale e programmi tenga conto della realtà, e non delle illusioni. A sinistra c'è gente che non ha mai visto "L'isola dei famosi" e che pensa in buona fede che il popolo desideri ardentemente la prosa, la lirica, la cultura, la politica "alta", le inchieste, l'approfondimento, la tortura intellettuale, il dibattito, le rassegne librarie. Questi, bisogna fermarli subito. Spiegare che non hanno ancora capito che il mezzo è il messaggio. La televisione è la televisione. E quindi non si tratta di cambiare tutto, facendo la rivoluzione contro il popolo e l'Auditel. Eh no, bisogna essere riformisti anche qui. Essere riformisti in campo televisivo significa innanzitutto comprendere che non si tratta di sostituire, ma di migliorare. Il progetto potrebbe essere sintetizzato con slogan di questo genere: "Più Fiorello per tutti". Oppure "Corrado Guzzanti al potere". Perché Fiorello è la televisione al suo meglio, intrattenimento puro, fantasia, ritmo, divertimento, ironia. Al massimo il professor Prodi potrebbe fargli una telefonata e indurlo a fare lavorare di più e meglio i suoi autori. Perché come disse una volta il Professore, non Prodi, ma sempre Grasso, «se avesse anche autori come quelli di David Letterman, con la tv di Fiorello noi avremmo la nostra Broadway». E quanto a Guzzanti, dopo il successo strepitoso dell'imitazione di Tremonti, povca tvoia!, potrebbe rifare utilmente tutta la galleria del centro-sinistra, dal Professore, non Grasso, ma di nuovo Prodi, immortalato mentre accarezza la mortadella, fino a Francesco Rutelli che compone al pianoforte l'inno "Forza Ulivo", sulle note della canzoncina di re Silvio. Vero è che si finisce sempre a parlare della Rai, ossia solo di una metà dell'etere. Ma si spera che il programma di governo dell'Unione non contempli anche di cambiare l'anima di Mediaset. Avesse dato ascolto a certi provocatori, il centro-sinistra avrebbe privatizzato integralmente la Rai smantellando nel contempo, ovviamente, l'altra metà del duopolio. Reti tutte private, ma una soltanto per ogni proprietario. Obiettano i più meditabondi: e il servizio pubblico? Risposta: ragazzi, il servizio pubblico andava bene ai tempi del maestro Manzi, dell'"Approdo", del centro- sinistra storico, di Mario Soldati, di Studio Uno, di quando il calcio era una rarità domenicale preziosa e ansiosamente attesa, di quando c'era la solidarietà nazionale. Adesso il servizio pubblico a che cosa servirebbe? A nazionalizzare "Matrix" e "Porta a Porta"? Ad assicurare qualche rendita politica e qualche spartizione dentro il piccolo schermo? No, se dobbiamo cambiare, cambiamo. Non si arriva qui a proporre di spostare la Rai a Pordenone, o a Reggio Calabria, come pure sarebbe un'ottima idea per smobilitare lottizzazioni, generoni e semi-vip. Ma intanto proviamo a creare un mercato, cioè un pluralismo, cioè reti autonome, e poi vedremo come va. Peggio di adesso non andrebbe. Chiedono i più avvertiti: e la cultura? Risposta: se c'è una domanda, ci sarà anche un'offerta. Se c'è qualcuno che vuole Pavarotti, si fa per dire, o Albertazzi, qualcuno farà i suoi conti e glieli darà. Altrimenti, se non c'è la domanda, tanto peggio per l'Italia. Come diceva Nanni Moretti: «Ve lo meritate Alberto Sordi!». Solo che con il passare del tempo, guardando la tv contemporanea, state certi che Moretti rimpiange anche Albertone. Insomma. Con la prossima stagione si cambia. Iscriviamo nella bozza di programma che vogliamo una tv meno banalis. Con un invito: alla prima difficoltà, non vengano a dirci che risolveranno tutto con un nuovo programma di Adriano. Il prossimo Celentano lo vogliamo per il suo settantesimo compleanno, non prima. Coronamento di una carriera, eccetera. Grande prova di televisione "contro", e va bene. Ma intanto, lasciateci respirare. Lasciateci fare il nostro zapping quotidiano.
L'Espresso, 04/01/2006
Finale senza morale
Alla fine del grande risiko, delle Opa fallite o in via di fallimento, del concerto e dei concertisti, dell'aggiotaggio, degli immobiliaristi, resta da capire perché. Perché tutto questo. Perché la battaglia di retroguardia della Banca d'Italia, con il governatore asserragliato nel suo fortilizio. La scuola realista, di cui è capofila il quotidiano di Giuliano Ferrara, concede ad Antonio Fazio una specie di onore delle armi: «Ha scelto la strada della protezione dell'italianità, il che era lecito ma non indispensabile. Ha perso questa battaglia e, con questa, il suo ruolo, ma solo per i linciatori la sconfitta è una colpa». Sulle colonne del "Corriere della Sera", Dario Di Vico invece ha stilato un epitaffio molto più aspro. Il governatore «è caduto perché alla fine ha creduto che si potesse fermare il vento della globalizzazione con le mani di Gianpiero Fiorani». Mentre Salvatore Bragantini ha archiviato la questione con brutalità: «Fosse per Fazio, avremmo oggi a capo di uno dei principali gruppi bancari una banda di malfattori». Come si intuisce, "Il Foglio" fa della fenomenologia pura. Non fa cenno a criteri giuridici prevalenti o metodi di autocontrollo del sistema: Fazio ha condotto la sua guerra, sarebbe sciocco pensare che le sue dimissioni siano il risultato di una rivincita dei valori. È un'analisi che risente di una matrice marxista. Non esiste il bene o il male, ci sono soltanto rapporti di forza. Il "Corriere" esprime le sue convinzioni, che sono il concentrato dei codici intellettuali di Mario Monti e Francesco Giavazzi. Posizioni come altre, comunque di parte, legate al patto di sindacato. Già. Ma intanto bisognerebbe capire finalmente che cosa significa "italianità" e quale valore abbia. Uno spirito pratico potrebbe rispondere che l'ex governatore aveva poca fiducia nella qualità competitiva delle banche italiane: lo sbarco di concorrenti stranieri avrebbe potuto scardinare l'intero sistema, mettendo allo scoperto le inefficienze degli istituti. E nella visione di un uomo come Fazio che era stato ostinatamente scettico sull'euro (come alluse in un suo libro, senza citarlo, Tommaso Padoa-Schioppa), convinto che l'industria italiana non fosse in grado di resistere alla concorrenza internazionale se non ricorrendo all'alternanza di svalutazione e inflazione, la struttura bancaria del nostro paese costituiva una risorsa non negoziabile, non trattabile sul mercato. Secondo questa diagnosi pessimistica, gli innovatori, coloro che provengono dall'esterno del sistema bancario, come Alessandro Profumo e Corrado Passera, andavano considerati alla stregua di una quinta colonna. Occorreva tutelare l'italianissimo intreccio di interessi fra banche e imprese per evitare che l'apparato economico entrasse in tensione o addirittura potesse collassare. Secondo i critici di Fazio, era uno schema reazionario, provinciale, paternalistico, oneroso per i cittadini-clienti. Tuttavia, criticato il criticabile dello "stregone di Alvito", secondo la definizione di uno dei suoi antagonisti più espliciti, Diego Della Valle, resta ancora da capire che cosa c'entri in tutto questo la politica. C'è di mezzo una nuova Tangentopoli, titolano i giornali; no, ribatte Paolo Mieli in uno dei suoi rari editoriali, qui si tratta di casi specifici, non di una distorsione di sistema, non la corruzione strutturale, non l'oligopolio colluso scoperchiato da Mani pulite nel 1992. Eppure, in agosto, all'epoca delle intercettazioni, nel clima del bacio in fronte di Fiorani a Fazio, e delle trascrizioni che rivelano la sbrigatività operativa del boss dell'Unipol Giovanni Consorte, Arturo Parisi muove le acque estive con una intervista al "Corriere della Sera", in cui allude al ritorno della questione morale. E qui si scatena la bagarre. Perché un conto sono i traffici di una gang di sradicati, gli insider abituati alle plusvalenze facili, e un conto è la dignità storica del mondo cooperativo rosso. E un altro conto ancora è l'onore di Piero Fassino, che a Consorte ha fatto troppe telefonate. Insomma, c'è un disegno finanziario di sinistra, contrapposto a una strategia finanziaria di destra? E i Ds sono o non sono legati a filo doppio alla scalata dell'Unipol sulla Bnl? Perché alcuni settori diessini sono prudentissimi verso il governatore? E perché Pier Luigi Bersani parla della "canea" che si è scatenata contro la Banca d'Italia? A qualcuno torna in mente il takeover su Telecom, con Massimo D'Alema che irrideva il vecchio capitalismo dei salotti buoni, dove c'erano quelli che pretendono di comandare con «l'uno e mezzo per cento». E il sostegno ai «capitani coraggiosi» guidati da Roberto Colaninno. E l'idea che dalla merchant bank di Palazzo Chigi D'Alema stesse tentando la rivoluzione, cioè la creazione di un nuovo strato capitalistico, più moderno e svincolato dalle vecchie lealtà verso i poteri forti esemplificati da Fiat e Mediobanca. Ma in questo caso, pur con tutto il rilievo che poteva avere l'operazione Bnl, il disegno strategico sembrava molto più limitato. Tanto più che sul caso Unipol si sviluppava un conflitto fra Margherita e Ds, che si sta trascinando fin qui, con Rutelli che ancora critica il «collateralismo» e riceve risposte piccate. In realtà si stavano delineando strategie multiple, una serie di disegni a geometria variabile. Che però si incrociavano tutti e convergevano fino a sfiorare una cattedrale degli equilibri politico-economici, quell'autentica camera di compensazione che è il gruppo Rcs. Una scalata ostile di cui non si sa più niente, se non che è fallita: ma era un'operazione che aveva evidentemente goduto di appoggi ancora imprecisati anche se leggibili in filigrana, e che potrebbero spiegare perché un immobiliarista come Ricucci abbia cercato di espugnare nientemeno che via Solferino. E qui c'è il primo segnale di pericolo. Perché a quanto si sa la scalata di Rcs era pilotata o condizionata da Ubaldo Livolsi, un uomo legato a Silvio Berlusconi. Quindi sul tema di Rcs vengono pericolosamente a contatto due establishment. Il patto di sindacato che controlla il "Corriere", da una parte, e un settore politico-economico alieno, una "racaille" finanziaria fatta di "homines novi" ma di cui è intuitiva una contiguità con il potere berlusconiano. Fantapolitica? Teoria cospirativa? Dietrologie? Chi ha assistito allo scontro in diretta televisiva lunedì 19 dicembre a "Porta a Porta" fra Della Valle e Berlusconi, con l'industriale delle Tod's che trattava il presidente del consiglio con un "tu" praticamente liquidatorio, ha avuto l'impressione che quello fosse un vero showdown fra poteri. Fra un potere che era stato sfidato e messo alle corde, e che ora si prendeva la sua vendetta. Vendetta simbolica, quindi essenzialmente politica, praticata contro quel Berlusconi che su Fazio ha tenuto duro fin quasi all'impossibile (memore forse di quando le "Considerazioni finali" garantivano il miracolo dietro l'angolo). Non è finita, naturalmente, con l'arresto di Fiorani e le dimissioni di Fazio. Ci sono un paio di uomini del governo nei guai, Giuseppe Valentino di An (sottosegretario alla Giustizia) e il forzista Aldo Brancher (sottosegretario alle Riforme istituzionali), i conti correnti speciali per correntisti illustri, l'affaire della banca leghista Credieuronord, gli arricchimenti personali, i clienti tosati. C'è di tutto. Ma non è Tangentopoli. «È la debolezza della politica», dice Pier Ferdinando Casini, che apre spazi alle consorterie. Nel vuoto politico, si muovono cordate che occupano postazioni, si scontrano, contrattano, eludono i controlli e talvolta scivolano nella criminalità economica. Indossano magliette politiche per contare su sponde utili. I partiti si prestano a fare da spalla, entrando così nel risiko. Quando i raider vengono infilzati dalla giustizia, il messaggio lanciato agli italiani rischia di essere uno solo: qui il più pulito ha la rogna. Non è Tangentopoli, forse è peggio: è il feudalesimo con qualche secolo di ritardo.
L'Espresso, 12/01/2006
Nuvole rosa sul Tg
Ah, che piacere i telegiornali della Rai durante queste feste (si parla naturalmente di Tg1 e Tg2, quelli di Clemente J. Mimun e Mauro Mazza). D'accordo, prima c'è da sbrigare le faccende domestiche, ossia le scalate, i furbetti, con opportune messe a fuoco del look postpostcomunista di Giovanni Consorte e di quello metasessantottino di Ivano Sacchetti (amici ben introdotti al Botteghino garantiscono che ai tempi d'oro, quando le botteghe erano davvero oscure, uno con i baffi e i capelli di Sacchetti non avrebbe mai fatto carriera nelle coop, e meno che mai nel glorioso partito che fu di Gramsci e Togliatti). Ma c'è sempre il rischio che salti fuori qualche storia in cui è invischiato un amicone del Cavaliere, un Livolsi, un Brancher, un problema, e quindi non si mette troppo il dito nell'Opa. Ma dopo tali mestizie, liquidate queste nequizie, si passa al giulebbe, arrivan le liquirizie. E sono leccornie natalizie, come i fichi secchi e i datteri, con i campi innevati e i consigli per gli sciatori, i saldi da Harrod's a Londra, per dimenticare forse i prezzi italiani: anche se poi saltano fuori gli esperti che spiegano come risparmiare (consiglio numero uno: spendere meno). E fra poco arriva l'anno nuovo con la solita carrellata delle feste a Madrid Berlino Londra New York Tokyo, eccetera, cioè la sagra del chissenefrega, ma così rassicurante: come un servizio su un reality show polacco o ceco interpretato da una colonia di gorilla, e una grande iniziativa della guardia di finanza contro i depositi clandestini di fuochi artificiali. Si diventa inevitabilmente più ottimisti, o come minimo meno pessimisti, a dispetto della severità professionale della Busi (ottima la nuova acconciatura, dicono le famiglie, ma il cipiglio è un po' troppo di sinistra; e di sinistra è anche la faccia di David Sassoli, con il suo atteggiamento professorile): forse non è vero che le cose vanno così male, che i consumi hanno ceduto, che siamo sotto il Botswana, che i giornalisti alla conferenza stampa hanno fatto "buuuuu" quando il Cavaliere ha minacciato la solita storiella... Beati i tg di fine anno, perché sono un balsamo; soffondono nuvole rosa, rotocalchizzano la cronaca, diffondono aspettative con il segno più. Certamente non fanno terrorismo mediatico. Eppure, con tutti i loro sforzi, riescono ancora a farsi considerare da Re Silvio come covi di insidiosi estremisti, nemici suoi integrali, peggiori di quelli del Tg3, che almeno hanno il marchio e si fanno riconoscere. Contrappasso paradossale: tanti sforzi, per quei cari direttori, per poi finire nel calderone dei brutti, cattivi e comunisti.
L'Espresso, 12/01/2006
Cavaliere inutile e dannoso
L'ultimo Berlusconi sembrerebbe tornato fra gli umani, anche secondo il sondaggio pubblicato in queste pagine. Dov'è finito il leader esplosivo, l'inventore sulfureo, il gaffeur fragoroso ma anche l'uomo immagine strepitoso? Andato, illanguidito, figura fra i dispersi, se è vero che la maggioranza del campione giudica il suo operato "né positivo né negativo". Cioè come se il "fasso tutto mi" di Arcore, il tremendo lavoratore notturno, l'indefesso presidente operaio, fosse passato sulla realtà italiana con la levità di un refolo di vento, di una brezza leggera, di un sospiro insignificante, che magari scompiglia le chiome (non la sua, opportunamente asfaltata) ma non cambia la fisionomia degli italiani. Scoraggiante, no? Mettiamoci nei panni dell'Unto, del vincitore totale, di colui che non teme rivali, che pensa seriamente di essere il numero uno al mondo («E Bill Gates?», gli chiedono; e lui: «Già, c'è Bill Gates... Allora sono il numero uno dopo Bill Gates»), e pensiamo all'impressione che gli fa il convincimento dei suoi concittadini secondo cui tutto il suo daffare è risultato irrilevante. E aggiungiamo anche l'altro dato prevalente nell'indagine, e cioè che l'Italia sta peggio rispetto a cinque anni fa. La somma di queste due risposte dice che Re Silvio è stato insieme inutile e dannoso. Di fronte a queste risposte, sembrano pezzi fuori mercato e fuori catalogo, roba d'antiquariato, gli artifici del repertorio berlusconiano, aggiornato al 2006. Dodici anni fa, nel governo del decreto salvaladri (e della svalutazione sbrigliata, e conseguentemente del tasso d'interesse pericolosamente in crescita), il refrain canticchiava: non ci lasciano lavorare; c'è chi rema contro. Adesso invece il ritornello è diventato: il governo non riesce a comunicare i suoi grandi risultati. Conta poco che questa canzone triste sia uguale a quella che cantava il centrosinistra negli ultimi mesi dell'esecutivo guidato da Giuliano Amato, e si è poi visto com'è andata a finire. L'importante è che Berlusconi crede davvero a questa favola, cioè che il paese sta benissimo, che per merito del governo tutti hanno tre telefonini e i ristoranti sono pieni, insomma che tutto va ben madama la marchesa, se non fosse che televisioni e giornali, in mano alla sinistra, ingannano gli italiani. E quindi il fiducioso Berlusconi si dedicherà a convincerci che le cattive percezioni dipendono dall'euro e dalla "lira svenduta da Prodi" (ma la durissima trattativa con i tedeschi sul cambio l'aveva condotta Carlo Azeglio Ciampi, o no?) e che il governo ha prodotto una formidabile quantità di leggi e di riforme. Qui ci vuole una pausa, perché non conviene replicare lo sketch di Diego Della Valle a "Porta a porta", ossia «Silvio, piantala con i foglietti e i disegnini, gli italiani non sono bambini». Le scarpe nel piatto si possono mettere una volta, e ci vuole una star come Della Valle per un exploit del genere: i cittadini qualunque potranno semmai obiettare al trionfalismo numerico del capo del governo che governare non equivale a produrre leggi; che le leggi o le riforme non sono buone di per sé; che leggi e riforme vanno applicate, attuate, sorvegliate. Tra le riforme varate, la cosiddetta Legge Biagi ha liberalizzato il mercato del lavoro senza uno sfondo minimo di welfare a sostegno del lavoro precarizzato. La riforma della scuola, nonostante le rassicurazioni di Letizia Moratti, è un prodotto classista e regressivo. La riforma costituzionale è un attentato all'uguaglianza dei cittadini, dal momento che è stata approvata unilateralmente, in base a una maggioranza parlamentare che non è una maggioranza nel paese: per cui oggi ci sono cittadini meno rappresentati costituzionalmente di altri. La riforma elettorale in senso proporzionale è tecnicamente, secondo uno specialista come Amato, "una baggianata". E così via. Governare non è legificare. Le leggi della Cdl rischiano tutte di fare la fine della patente a punti, accolta con favore e annegata nel lassismo (basta un viaggio in autostrada per valutare i comportamenti degli automobilisti e l'efficacia dei controlli). Ma il bilancio più serio dell'attività del governo Berlusconi non va stilato in base alle sue invenzioni mediatiche come il Contratto con gli italiani. La sintesi della legislatura di centrodestra è nella dannata precisione della formula crescita zero: ci hanno messo cinque anni, ma ce l'hanno fatta. Zero, o zero virgola qualcosa, ma sottolineando zero. Un prodigio ottenuto grazie alla collaborazione di Giulio Tremonti, che a Berlusconi ha tenuto il sacco con i Dpef che prevedevano una crescita dal ritmo straordinario, e con la partecipazione entusiastica del ras di Bankitalia, Antonio Fazio, che aveva garantito sulla possibilità del miracolo "dietro l'angolo". Giustificata, la crescita zero, prima con l'11 settembre e la sindrome del crollo dell'Occidente dopo l'attacco alle Twin Towers e al Pentagono, fino a quando il solito inventivo Tremonti non cambiò idea, togliendo un pilastro alla teoria giustificazionista della destra. Ma oltre alla crescita mancata, e comunque costantemente più bassa della media di Eurolandia, riesce difficile spiegare razionalmente la parabola di un governo "delle libertà", che aveva esordito con i tipici argomenti della "supply side economics", taglio delle tasse in primo luogo, ed è finito con lo sfondamento della spesa pubblica, come il più allegramente liberal dei governi di sinistra. E ancora sarebbe interessante spiegare come sia stato possibile che nonostante tutti i condoni, i concordati, il ciarpame fiscale introdotto con le una tantum, le cartolarizzazioni, le vendite e le svendite, i gravami parafiscali introdotti sulle banche e le assicurazioni e da queste immediatamente scaricate sui clienti, insomma nonostante tutta la fantasia di Tremonti e il galleggiamento di Domenico Siniscalco, sempre in attesa della crescita che doveva arrivare e non arrivava mai, ci siamo giocati quattro punti e mezzo di avanzo primario: cioè soldi buoni, frutto di un risanamento che era stato incisivo, al tempo dei pessimi svenditori Prodi e Ciampi. Oppure la prestazione del Cavaliere si può misurare sulla qualità del metodo con cui ha gestito la sua compagine politica. E qui bisogna concedergli le attenuanti, come d'uso, dato che sarebbe stato improbo per chicchessia trovare mediazioni ragionevoli fra i partiti e le culture della Cdl. Berlusconi ha dovuto giostrare fra alleati dimostratisi sempre pronti a votare leggi canaglia come quella sul falso in bilancio, ultima di una poderosa serie di riforme strumentali della giustizia, e poi leggi ad personam, riforme carogna come quella della Costituzione, riforme burla come quella sul conflitto d'interessi, riforme truffa come la legge Gasparri sul sistema televisivo; ma via via incattiviti, gli alleati, nel farsi pagare "cash" la sua leadership (Pier Ferdinando Casini con la proporzionale, Gianfranco Fini con una crescita vistosa di ruolo, non esattamente speculare alla crescita delle sue qualità culturali e politiche). Eppure non è nel carattere di Berlusconi mollare l'osso. È vero che l'ultima stagione è stata davvero "horribilis", con sconfitte elettorali in casa e sconfitte sportive in trasferta (ah, il disastro del Milan a Istambul, nella finale di Champion's League con il Liverpool!). Ma a quasi settant'anni, sembra ancora in grado di innescare il conflitto politico, e non perché, come ritiene il campione del nostro sondaggio, "inventerà" qualcosa, tirerà fuori una trovata capace di rovesciare la tendenza. Può contare ancora su quasi un terzo dell'elettorato indeciso, perplesso, propenso per ora ad astenersi: cercherà di mobilitarlo. Per ora gli hanno sbagliato i cartelloni, e li ha sostituiti. Quelli nuovi sono peggio dei vecchi, ma Berlusconi non conosce requie. Ha già aperto l'offensiva mediatica, punterà di nuovo a dipingere l'Unione come una reincarnazione del comunismo, "miseria, terrore e morte". Vecchiume da guitti, ma ha sempre funzionato, forse funzionerà ancora. Ma ha di riserva anche un'arma "fine-di-mondo", che non dipende da lui ma che può facilmente assecondare, favorire, promuovere: il suicidio del centrosinistra, in seguito a Bankopoli, sullo sfondo dello spappolamento del sistema politico dovuto al sistema proporzionale. Ma in questo caso la salvezza di Berlusconi equivarrebbe allo sfaldamento del paese: può augurarselo soltanto chi possiede un piccolo eden per il buen retiro. Possibilmente offshore.
L'Espresso, 19/01/2006
Alla Rai i Conti non tornano
Appunti post-Epifania. Il primo gennaio, un riflesso condizionato induce ad accendere la tivù per ascoltare i valzer mentre si scalda il brodo di cappone. Già, ci si era dimenticati che per qualche motivo Raiuno non si collega più con Vienna, e anche quest'anno ha deciso di infliggerci una specie di concerto "greatest hits" dalla Fenice di Venezia: una cosa sovietica, senza uno straccio di commento, con il direttore d'orchestra in clergyman, con i brani d'opera tipo "Vissi d'arte" annunciati da una sovraimpressione (i cantanti no, evidentemente non urgeva dire chi fossero, e quindi erano condannati all'anonimato, o forse ai titoli di coda). E il pubblico era composto da gente evidentemente digiuna di musica, e quindi prodiga di ovazioni a prescindere, soprattutto per il soprano in vistosa mise rossa e scollatura profonda. Aaaargh! Ridateci il Danubio blu e la marcia di Radetzky. L'insigne pistolata del concerto di Capodanno serviva forse a rivalutare un altro capolavoro di Raiuno, il programma della sera prima, san Silvestro, "L'anno che verrà", di e con Carlo Conti. Il tema della serata era "famo caciara": da Rimini, con un pubblico congelato ma desideroso comunque di esserci, si è assistito a un programma modestamente provinciale, di quelli che alla fine inducono tristezza e voglia di andare a letto prima del botto: Rita Pavone che annuncia il ritiro dalle scene e intanto maltratta un suo vecchio hit, "Cuore", infarcendolo di yeah e altri strani versi; Teddy Reno che alla fine duetta con lei (e pensare che è un signore così elegante), e subito dopo la solita sfilata di mezzi cantanti e mezzi vip, mezze belle donne e mezzi protagonisti. Oltretutto l'orchestra e i cantanti erano mixati malissimo, per cui si sentiva soltanto la voce, in particolare di Al Bano, che è un combattente ma quella sera tendeva troppo al sovracuto sgolato e ondulatorio. Insomma, occhèi che in tv si fa un Capodanno da poveri, ma appunto per questo ci vorrebbe uno spettacolo come Dio comanda, in studio e non su un raggelato palco riminese (il mare d'inverno, si sa). Coraggio, signor servizio pubblico, faccia uno sforzo: lo sa anche lei che quando il pan ci manca ci vogliono brioche e circenses: non bastano Dolcenera e Anna Tatangelo, e nemmeno Alex Britti e Gianluca Grignani. Un po' di impegno, per favore, altrimenti l'anno prossimo niente brodo di cappone e neanche uno spumantino.
L'Espresso, 19/01/2006
Se il passato Coop ipoteca il futuro
Il pasticcio Unipol è un simbolo di come il passato ipotechi il presente. Le coop rosse infatti sono una componente di quella vastissima manomorta organizzativa che costituiva il sistema associativo e di potere del Pci. Era un insieme di strutture che comprendeva la Cgil, le associazioni femminili, i gruppi giovanili e studenteschi, i consumatori riuniti, le Feste dell'Unità, le realtà sportive, cinematografiche, di intrattenimento. Si può dire che non esistesse sfera della vita civile che non fosse presidiata da una peculiare organizzazione del Pci. Si trattava di un autentico mondo a parte, che nella prima Repubblica rappresentava la particolarità più profonda del comunismo nazionale: quasi un'altra Italia, contrapposta a quella dei "padroni", alla Dc, al potere codificato dalla conventio ad excludendum. Esclusi dal governo, i comunisti avevano creato un universo parallelo, dotato di una fortissima solidarietà interna. Era quella realtà che consentiva anche la spregiudicatezza dei comportamenti, dal diritto di esazione a percentuale sugli affari dei "capitalisti" con i paesi del blocco sovietico ai legami preferenziali fra coop e giunte comuniste. Ma questa sistematica continuità fra la politica e gli affari era a suo modo giustificata dall'esclusione del Pci dalla stanza dei bottoni. Le organizzazioni collaterali della Democrazia cristiana e dei partiti di governo potevano fare leva sui "loro" ministri o sui capi locali; il mondo comunista non poteva vivere soltanto ispirandosi a nobili e storiche ragioni di mutualità e di solidarietà. Via via che la cooperazione cresceva, dall'autodifesa "di massa" si passava alla tutela di interessi "di classe", che poi alla fine sarebbero diventati interessi di parte senza troppe vernici ideologiche. Per la rete rossa e solidale fu naturalmente un terremoto l'Ottantanove, Bolognina compresa. Non esisteva più un mondo escluso, la democrazia dell'alternanza metteva in gioco tutti; e nella realtà del postcomunismo la compresenza di organizzazioni satelliti perdeva gran parte della propria ragion d'essere. Non c'era più un partito di massa tenuto lontano dal potere con tutti i suoi elettori e "soci". E le coop più grandi, come ha spiegato ripetutamente Lanfranco Turci, si sono progressivamente affrancate dal controllo del partito, visto che dovevano fare i conti con il mercato, non solo con la mutualità. Quindi oggi non ha molto senso un movimento cooperativo legato ai Ds, né collaterale né consustanziale, dal momento che le grandi imprese della cooperazione seguono logiche industriali ed economiche, non politiche, e che la sinistra si è a sua volta articolata (si parla continuamente del legame preferenziale con i ds, dimenticando il ruolo nella cooperazione di altri pezzi residui del Pci, come Rifondazione comunista e i Comunisti italiani). In ogni caso, pensando ai Ds attuali, la Legacoop è un problema più che una risorsa. Vale la pena di citare un solo punto critico, e rivelatore: quando le grandi imprese coop sono in corsa per gli appalti sulle opere pubbliche, o se li sono già aggiudicati, la dirigenza Ds è davvero libera e credibile nelle posizioni che assume sulle infrastrutture? Oppure la solidarietà con la Legacoop è un valore in più rispetto ai desideri dell'opinione pubblica? Per dire, la Tav in Val di Susa è un bene o un male in sé, o il discorso cambia se ci sono coinvolte imprese cooperative? Occorre un salto verso la modernità, e ciò può avvenire con tre mosse collegate. In primo luogo una politica di riforme che agisca sulle regole, in modo che le coop operino liberamente sul mercato, dentro un chiaro sistema di concorrenza, senza né sostegni né sbarramenti impliciti. Poi occorre valutare se abbia senso o no la divisione da guerra fredda fra cooperative rosse e bianche (risposta: no, la guerra fredda è finita, e la fusione tra Legacoop e Confcooperative libererebbe la cooperazione dalla politica). E infine: se il problema dell'intreccio fra coop e Ds è un lascito della storia e va risolto anche dal lato politico, non c'è nessuna ricetta alternativa al partito democratico. Che non è una formula delle oligarchie o un'invenzione dei poteri forti, ma un modo per adeguare la politica all'Italia post-ideologica, uscendo se Dio vuole dal Novecento.