L’Espresso
L'Espresso, 27/01/2006
Dopo Rocca tocca a Rocco
Il rinnovarsi del successo di "Un caso di coscienza", serial in sei puntate giunto al bis su Raiuno, suggerisce considerazioni sul giallo e sul noir, non solo in tv. Negli ultimi anni infatti si era assistito all'exploit di Giorgio Faletti, che con due macro-romanzi ha composto una specie di hard boiled globale, privo di inflessioni locali. Oppure alle narrazioni "epocali" di Tullio Avoledo, scrittore popolare di gran classe, che con "Lo stato dell'Unione" e "Tre sono le cose misteriose" (meglio il primo, ma non male il secondo) ha costruito intrecci in cui la dimensione storico- politica incrocia l'affabulazione pura. Infine c'è l'esordio di Massimo Cotto, che ha tentato "una narrazione intimistica che si apre su risvolti psicologici inquietanti" (Faletti). Per la verità, il romanzo di Cotto ("L'ultima volta che sono morto", editore Aliberti) è ancora più ambizioso, perché prova a fondere la narrazione oggettiva su uno sfondo mitologico, creando una storia tutta disincarnata, ambientata in un luogo della memoria o dell'assenza, "gestita" integralmente dall'autore attraverso le metafore continue del linguaggio. Va da sè che la profondità degli apparati simbolici e psicologici si addice poco alla tv generalista. E allora non si potrebbe chiedere all'avvocato dei poveri Rocco Tasca (l'attore Sebastiano Somma), un altro che combatte guerre apparentemente perdute, di assumere le cadenze metafisiche dei grandi reinventori del poliziesco come D?rrenmatt. Somma è un altro dei nazionalpopolari come il maresciallo Rocca, anche se qui siamo a Trieste e le storie sono un filo più complicate. Il suo successo non dipende però nè dalla story nè dal plot, e neanche dall'anatomo-patologa Barbara Livi che forse si innamora ma dovrebbe vendicarsi proprio di lui. Il protagonista della fiction (diretta da Luigi Perelli) è la personificazione dell'italiano che la domenica non si fa la barba, che esce senza lavarsi tanto non ha impegni, magari con la soddisfazione ulteriore di lasciare lo spazzolino da denti nell'armadietto. Quindi atmosfera molto materiale, e rinvio dello scioglimento del dramma alla puntata finale, quando sperabilmente si sarà fatto la doccia. Comunque tifano per lui le mamme, che sono abituate alla scarsa igiene dei figli adulti, e anche i maschi di casa, che si sentiranno confortati nelle loro abitudini più losche (evviva il realismo! evviva la provincia!).
L'Espresso, 02/02/2006
Il trash è di rigore
Ogni domenica sera l'appuntamento con "Controcampo" è d'obbligo. Vabbè che sulla Rai c'è la "Domenica sportiva", con la sapienza statistica e tattica del maestro Tosatti, ma voi non siete mica gente che sa di sport: voi volete vedere la tv, possibilmente al suo peggio. E allora "Controcampo" raggiunge vette imprecisate e comunque altissime, perché Marco Piccinini è capace di tenerlo sul filo sottilissimo che divide il trash dal puah. Tanto per dire, poche domeniche fa uno dei freak più affezionati del programma, Maurizio Mosca, si è rivolto a Giampiero Mughini chiamandolo «Ormezzano». Squilibro mentale? Assuefazione da programmi televisivi che non consente di distinguere gli ospiti? Intanto, va detto che noi abbiamo una passione autentica per Mughini, in primo luogo perché è uno juventino nel fondo all'anima, ma soprattutto perché contrariamente alla vulgata è un uomo di grandissimo buon senso ed equilibrio. Il quale, davanti a uno schizzato che lo chiamava Ormezzano (ottimo giornalista anche costui, un classico) ha avuto la forza e lo spirito di ribattere, qualche istante più tardi: «Chiamami pure Gianni Brera, non mi offendo». Il successo di "Controcampo" non sarebbe spiegabile, di per sé, se non fosse che il programma sportivo di Italia 1 è un gioco equilibristico tra lo sport e il cazzeggio. D'accordo, manca sempre la Canalis, nel senso di Elisabetta, che dava un pizzico di pepe in più, perché tutti vedendola si chiedevano: e con Bobo come va? Però ci sono sempre «le pagelle di Ziliani, temutissime!», e magari la presenza di Luciano Moggi che rintuzza le accuse con battute ciociare. Piccinini è buffo all'inizio del programma quando annuncia ogni domenica «una puntata storica!». Poi ovviamente la trasmissione è fatta largamente di moviole e di interpretazioni della moviola. E allora c'è quel tale arbitro che sembra avere in testa un'acconciatura in legno, un'opera unica intagliata da un artigiano tirolese. Un tripudio del chissenefrega o della faziosità più esasperata: se non fosse che di tanto in tanto lo scettico Mughini fa sentire il suo scetticismo, in modo da ridare un tono di laica mondanità al soprannaturale e al preternaturale del calcio. Comunque si dibatte: e nel dibattito anche il cultore del diritto romano, ossia il romanista Paolo Liguori, emette giudizi accettabili: sicché "Controcampo", alla fine, non è un caso di maleducazione civile.
L'Espresso, 02/02/2006
Super Luca for president
Il gioco politico preferito dei corridoi e nei salotti dell'economia nazionale, mentre ricorre il terzo anniversario della scomparsa di Gianni Agnelli, è riassunto dalla domanda: «Che cosa direbbe l'Avvocato?». Già, come si pronuncerebbe adesso, alla fine del quinquennio berlusconiano, quel formidabile inventore di battute che erano verdetti, sentenze praticamente inappellabili? Dunque, nel 1994 l'Avvocato convoca a Roma il neofita governante Berlusconi, insieme alla "haute" dell'economia nazionale, e tutti insieme decidono che non sa usare le posate: pollice verso, e Silvio cadrà. Poi nel 1996 lascia capire che con il centro-sinistra di Prodi le cose andranno meglio, perché si adotteranno misure «europee» e quindi impopolari senza gente in piazza. Quando l'assemblea "vota Antonio", cioè il rutilante D'Amato, contro il candidato di famiglia Carlo Callieri, fa la faccia schifata, «hanno vinto i berluschini». Poi dà il via libera al Cavaliere, messo in croce dalla stampa estera, con la celebre affermazione secondo cui «non siamo una Repubblica delle banane». Ma quando Berlusconi e Bossi licenziano il suo fiduciario Renato Ruggiero, affonda il colpo: altro che banane, «siamo il paese dei fichi d'India». Adesso, quello che Alcide De Gasperi definì nel 1947 «il quarto partito» (come ha ricordato Giancarlo Galli nel volume "Poteri deboli", appena uscito da Mondadori), si guarda in faccia. Ogni protagonista controlla le mosse dell'altro. Ci si scruta e ci si interroga. Già qualche mese fa "L'espresso" aveva rivelato che nel consiglio direttivo di Confindustria prevaleva largamente un giudizio negativo sul bilancio del governo del Cavaliere: «Inferiore alle aspettative». Il presidente Luca Cordero di Montezemolo aveva aggiunto che un governo di fine legislatura «può ancora fare cose importanti», ma le ultime due Finanziarie erano state disarmanti: quella di Domenico Siniscalco aveva rapidamente accantonato l'intervento progettato a riduzione dell'Irap, e l'ultima di Giulio Tremonti aveva concesso soltanto un taglietto di un punto degli oneri sul costo del lavoro. Un passo nella direzione giusta, detto in pubblico. Una inezia, detto in camera caritatis. Quindi ecco la valutazione dominante su Berlusconi: cinque anni di obiettivi spacciati per risultati. Crescita zero, o zero virgola. I conti pubblici, meglio non parlarne. La spesa pubblica, decollata, che per un governo di destra e sedicente liberista è un controsenso. In qualsiasi occasione Montezemolo ripete il grido di dolore: «La politica ha abbandonato l'industria. Negli ultimi cinque anni abbiamo visto la mancanza più totale di politica industriale». Non sembrerebbero esserci molti margini a sostegno di Berlusconi e del centro-destra. Eppure a un esame meno superficiale viene fuori che i "partiti" dell'economia sono più di uno. A parte il partito berlusconiano fondamentalista, l'establishment economico si divide almeno in altre due fazioni. Quelli di sinistra, o che accettano il centro-sinistra e Romano Prodi come il male minore, ed eventualmente come l'anticipazione di quel Partito democratico che dovrebbe finalmente deideologizzare il confronto politico, allontanando i turbamenti che comporta l'avvicendamento al governo. E il "partito del presidente", raccolto intorno a Montezemolo, attentissimo a ogni risultato che possa scomporre il panorama politico, e a mettere in campo ipotesi diverse. Gli "idéologue" berlusconiani in questo momento sono quelli che soffrono di più. Sono sodali del Cavaliere come Fedele Confalonieri, le cui visioni politiche appaiono inestricabilmente avvinte alle sorti dell'impero economico che fa capo al premier. Oppure sono esponenti come la presidente dell'Assolombarda, Diana Bracco, e figure di riferimento come Gianmarco Moratti, che considerano impraticabile ogni altra scelta. Si vota a destra, perché il mondo dell'industria è conservatore, liberista, sbrigativo, poche storie. Se il «nostro» governo non è stato all'altezza, e se uno dei nostri, Silvio da Arcore, che nel 2001 alle assise confindustriali di Parma parlando dalla «comune trincea del lavoro» infiammò gli entusiasmi esclamando «il vostro programma è il mio programma, governiamo insieme», è andato sotto le aspettative, l'idea non muore. L'economia deve stare da questa parte, la sinistra è un mondo alieno. Ed è logico che possano continuare a pensarla così i liberisti più convinti, come il desaparecido D'Amato, e come il "competitor" strabattuto da Montezemolo nella corsa per viale dell'Astronomia, il veneto para- leghista Nicola Tognana. Non è una posizione che raccolga in questo momento molti consensi. Come avrebbe detto l'Avvocato, la Fiat è storicamente governativa. E quindi ci si deve preparare al possibile trapasso di potere. Anche se uno dei grandi vecchi dell'élite industriale, il presidente onorario di Rcs Mediagroup, Cesare Romiti, prende le distanze e invita a non fare il tifo: «Il compito di banchieri, manager e industriali non è quello di fare politica. Quando si hanno responsabilità aziendali ed economiche, magari con migliaia di dipendenti, ci vuole rispetto. Non condivido le dichiarazioni di coloro che si definiscono di destra o di sinistra. Io ho sempre ritenuto opportuno astenermi». In realtà le dichiarazioni latitano. Occorre procedere per indizi, segnali impliciti. Ad esempio, molti guardano con interesse alla posizione di uno dei vicepresidenti confindustriali, il torinese Andrea Pininfarina, «un rigorista». Cioè un esponente di cultura liberal-conservatrice, ma puntuale intellettualmente, a cui si attribuisce un ragionamento vincolante: se nella sua valutazione la Casa delle libertà ha fallito, non serve immaginare scenari inciucisti, grandi centri, prospettive neotrasformiste. In politica si gioca con le carte che ci sono, non con le fantasie, e quindi al fallimento del centro-destra si risponde mettendo alla prova il centro- sinistra. Senza sconti ma anche senza elusioni. Il "partito" del centro-sinistra vede invece all'opera alcuni grandi banchieri, notoriamente filoprodiani, come Alessandro Profumo, Enrico Salza, Giovanni Bazoli, Corrado Passera. A cui si affiancano i sostenitori espliciti del partito democratico capeggiati naturalmente da Carlo De Benedetti e una pattuglia, in crescita, di leader stimati nel mondo imprenditoriale come Vittorio Merloni (a cui si aggiunge per via di relazioni personali il presidente delle Ferrovie, ex Ibm Italia, Elio Catania) e un ulivista storico come Mario Carraro. E se l'ulivismo di Annamaria Artoni, attuale presidente della Federindustria emiliana, non è mai stato in discussione, al punto che si prevedono per lei candidature (improbabili) e ministeri (probabili), nel mainstream di centro-sinistra figurano nomi importanti come quelli di Roberto Colaninno, Emma Marcegaglia, Alberto Tripi, oltre all'ex StMicroelectronics Pasquale Pistorio. I più informati sostengono che anche un duro come Alberto Bombassei starebbe dimostrando un atteggiamento da realpolitiker non troppo dissimile da quello del Pininfarina giovane, e forse anche il responsabile della Federmeccanica, Massimo Calearo, reduce dal complicato accordo (13 mesi di conflitto e negoziato) con i metalmeccanici, a cui gli oltranzisti rimproverano di avere lasciato ai sindacati la bandiera dei 100 euro. Un'incognita è rappresentata da uno dei grandi protagonisti sullo sfondo, Marco Tronchetti Provera, il quale tuttavia sembra incline a guardare alla politica in chiave sistemica, e con simpatia alla dimensione "professionale" di molti ministri virtuali del centro-sinistra, a cominciare da Enrico Letta e da Pier Luigi Bersani. Senza contare il ruolo che può avere nella definizione dei suoi orientamenti Riccardo Perissich, che ha avuto una carriera nella Commissione a Bruxelles, e di cui è nota l'insofferenza per le pulsioni anti-europee di parti della Cdl. Tutto ciò ha una razionalità se il risultato elettorale sarà netto. Ma se invece il pasticciato sistema proporzionale rimescolerà le carte, dando luogo a un risultato contestato o difficilmente leggibile, ecco che lo scenario si complicherebbe. Per ora si tratta di una subordinata, ma c'è tutto un mondo che silenziosamente ha guardato con favore alle soluzioni neocentriste delineate dall'ex commissario europeo Mario Monti. Che si chiami Grande Centro o altro, è un'ipotesi che non scompare mai. Se la politica fallisce, se gli schieramenti non ce la fanno, se il bipolarismo chiude la propria parabola in una implosione, se, se, se. A forza di ipotetiche, la figura di Montezemolo acquista una visibilità e un rilievo impressionanti. È lui l'uomo che può raccogliere il potere nel caso di un no contest? «De Gaulle diceva che il potere non si conquista, si raccatta», ammiccano a viale dell'Astronomia. A dispetto di qualche attrito più pubblico che privato in seguito ai suoi attacchi violentissimi a Berlusconi, anche Diego Della Valle è uno dei potenziali grandi elettori del "partito del superpresidente", il Cavaliere bianco capace di rimettere in sesto i cocci che la politica lascerebbe sul terreno. E intorno a Super-Luca non si schiererebbero soltanto gli amici di sempre, come Nerio Alessandri e Paolo Borgomanero, nonché tutto l'ambiente dei confindustriali "dal basso", con gli emiliani in testa, ed eventualmente, dall'alto, i grandi sauri della Fiat, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens. Guarda con simpatia a queste suggestioni anche il gruppo degli ex presidenti di Confindustria (Luigi Abete, Giorgio Fossa e, sorpresa, il vecchio liberale Sergio Pininfarina), con l'aggiunta del petroliere Edoardo Garrone. Per ora è poco più che un gioco. Ma alcuni fanno rilevare l'accento che Montezemolo ha sempre posto sulla necessità di una classe dirigente costituita «dalle persone per bene», di un governo che affronti i problemi del paese al di là delle divisioni ideologiche. Qualcuno ricorda il sostanziale via libera a Capri, convegno dei Giovani di Confindustria, sulla legge proporzionale, poi corretto parzialmente dopo qualche protesta interna. Per adesso, insomma, il partito del presidente è un altro partito che non c'è. E che però potrebbe esserci, fiorire all'improvviso, mobilitare risorse mediatiche. Se poi il 9 aprile dodici anni di bipolarismo finissero davvero nella palude, le ipotesi assumerebbe un ineffabile altro sentore di realtà.
L'Espresso, 09/02/2006
VIVA il cannibale Vasco
La "Notte dei Telegatti", mercoledì 25 gennaio su Canale 5, potrebbe essere trattata ragionevolmente come uno dei vertici trash della nostra televisione, così provinciale, così demenziale, così evitabile. Ma succede che uno si mette davanti al teleschermo con l'idea di confermarsi nelle proprie certezze, secondo cui tutto è ormai scritto secondo il paradigma infallibile dell'"Isola dei Famosi" (gente poco famosa che si fa del male, come Zequila e Pappalardo, e fa del male anche a tutti noi, oltre che alla Mara Venier). E poi invece si imbatte in un capitolo geniale di televisione dell'assurdo, ma anche di pura televisione dell'intrattenimento, insomma una (forse involontaria) genialata. Premiavano Vasco Rossi, e bisognava vederlo. Bello grasso, intacchinato come una rockstar in disarmo, probabilmente annoiato, scettico sull'utilità di essere intervenuto. Lo premiava Fiorello, cioè il talento allo stato puro, capace di spingere la panza all'infuori e di premerla contro l'addome del Blasco, e giù risate, e nascita della complicità. Perché Fiorello ha cominciato a recitare qualche verso di quella tale canzone del rocker di Zocca che parla più o meno del senso da ridare alla vita e da dare a questa storia. E ogni volta che accennava: «Eh, la Vita», Vascorossi, con l'occhio cadente, gli mancava solo uno stecchino all'angolo delle labbra, lasciava andare: «Eeeeeeh». E poi quando l'altro suggeriva: «Eh, la storia», il Blasco, sempre con la palpebra smorta e una specie di sorriso diffidente, gargarizzava: «Aaaaaah». È durata quasi cinque minuti, di «eeeeeeh», di «aaaaah», di borborigmi, di gargarismi, di occhiate e di occhiaie. Alla fine Fiorello ha cominciato a cantare la strofa della canzone, «Voglio ridare, un senso a questa vita...», e dopo avere esitato un po' anche Vasco si è messo a seguirlo. Insieme hanno preso forza e convinzione, e se ne sono usciti a braccetto, come due compagnoni, come due che escono tardi dal Roxy Bar, magari un po' brilli, anzi, forse completamente ubriachi, però tonici, «eeeeeh». E soprattutto completamente sfasati rispetto alla televisione e alle regole dell'Isola, alle convenzioni dei talk show: ecco, sono stati cinque minuti di situazionismo, o di terrorismo puro. Da ovazioni. Speriamo che lo ridiano, che lo facciano rivedere. Perché era la tv che divora se stessa, un caso di cannibalismo esemplare. Era la post-televisione: «Eeeeeeeh».
L'Espresso, 09/02/2006
La notte di Silvio
Dove sono i laici, i libertari, gli anticlericali, i radicalconservatori del centrodestra? Dormono tutti sulla collina, e dormono sonni beati, mentre nelle ultime settimane di legislatura la Casa delle libertà dà spettacolo trasformandosi nella Casa della reazione. Leggi regressive. Strappi alle convenzioni. Arroganza anti-istituzionale. Certo, non stupisce assistere allo show del cavalier Berlusconi che si rivolge al cassintegrato dicendogli «fortunato lei che ha il sussidio». Ma di fronte alle leggi ambigue e demagogiche come la riforma della legittima difesa, o al bastone implicito nella legge propagandata da Gianfranco Fini sulla droga, ogni volta si resta sbalorditi. Si sa che Berlusconi ha due anime: la prima famigliare, «mite e sorridente» secondo "il Foglio", pronta però a rivelarsi ghignante, aggressiva. Grazie alle sue milizie è quasi riuscito a trasformare Carlo Azeglio Ciampi in un eversore, solo perché ha reagito con puntualità alla sua invasione televisiva. E anche il centrodestra ha le medesime due anime. Quando si fondono, ecco l'addizione "Lega più Vandea": che non è un'invenzione ideologica da ultimi giorni del regime, quanto piuttosto un ritorno alle origini. Perché è vero che il Cavaliere è il capo di Forza Italia, cioè di un movimento nazionale: ma se fosse stato per lui, forse gli sarebbe piaciuto di più essere il padrone della Lega. Mentalità intrinsecamente lumbàrd, plasmata dall'insofferenza per lacci e lacciuoli, per la fiscalità, per le regole. Padrone a casa sua, secondo un suo slogan sulle ristrutturazioni edilizie, libero anche di costruirsi la tomba di famiglia nel giardino. Su questo sfondo psicologico ruspante il premier ha poi modellato la sua maschera più confessionale, chiamando a raccolta lo spirito di don Sturzo, le zie suore, e in ultimo il figlioletto Luigi che sempre prega. È anche questa componente machista che risulta simpatetica al sentimento più intimo della Lega. E che su un piano maledettamente più serio, con la legge sulla legittima difesa, interpreta gli umori più profondi e vischiosi della società: con i leghisti subito scattanti a difendere chi spara 13 colpi di pistola ammazzando un ladro albanese, e prima ancora a compiacersi per l'equiparazione fra la "roba" e la vita umana instaurata giuridicamente dalla riforma. Un vulnus drammatico al regime di civiltà giuridica a cui eravamo abituati, anche se suscita il consenso della borghesia spaventata, l'adesione irriflessa a una logica western. È un argomento su cui non si sono sentite molte voci critiche fra i cattolici della Cdl, sicché si rimpiange la prudenza democristiana d'antan, un po' gommosa e spugnosa, ma in grado di filtrare il fondo torbido e gli istinti della società italiana. Quanto alla nuova legislazione sulla droga, non risponde a nessuna logica che non sia l'obiettivo pubblicitario del "giamaicano" Fini e di An. Equiparare l'eroina agli spinelli è un'esemplificazione del braccio violento della legge, oltre che una di quelle trovate da uomo d'ordine in cui Fini primeggia, come primeggiava da divo della destra intollerante al "Maurizio Costanzo Show" nelle sue posizioni contro i maestri gay. Fra i ministri di An, Francesco Storace ha scelto la via muscolare, e si adopera in ogni modo per fare terrorismo spicciolo contro la legge sull'aborto, lasciando aleggiare sulla porca Italia della scristianizzazione edonista l'ombra di un esercito di centinaia di migliaia di non nati che chiedono riscatto per il passato e protezione per il futuro. E si mette di traverso sulla pillola abortiva, modificando le norme sull'importazione dei farmaci, tanto per fare sentire la pressione delle istituzioni, e fare vedere alla gerarchia cattolica che la linea è ortodossa. Altro che atei devoti. Qui c'è un clericalismo strumentale e fazioso, quello che fa chiedere rumorosamente le inchieste sul funzionamento della legge 194, e svicola silenziosamente quando viene fuori che la legge funziona e i consultori non sono un abortificio. Sul piano del divertissement confessionale, invece, l'anima brianzola di Berlusconi è riuscita a produrre una riuscita incarnazione nazionale del bigotto che si affida a Dio per non dare a Cesare. E non è solo folklore. La stessa legge sull'impugnabilità delle sentenze, respinta dal Quirinale, è solo l'ultimo capitolo della serie disarmante di leggi sulla giustizia, trangugiate ogni volta dagli alleati di Berlusconi, talvolta con qualche mal di pancia, qualche altra con il cinismo più schietto, ma alla fine mandate giù e assimilate senza troppi contorcimenti: perché evidentemente quel che non ammazza ingrassa.
L'Espresso, 16/02/2006
Più giullari che Iene
Per molti la televisione produce giornalismo addomesticato, e questa diagnosi è vera per difetto, nel senso che di questi tempi i telegiornali 1 e 2 della Rai descrivono un paese allucinato, dominato da una strana figura che le spara grosse, sostenendo tesi che sono già state molto liquidate dopo approfondita discussione in molti bar. C'è da essere invece più scettici sulla tesi secondo cui il vero giornalismo e la vera controinformazione sarebbero quelli di "Striscia la notizia" o "Le iene". Per un appuntamento quotidiano come "Striscia" bisogna sempre pensare che c'è dietro il cervello di Antonio Ricci, cioè un'intelligenza desiderosa di trasformare ogni tragedia in farsa e viceversa. Mentre per "Le iene" il discorso diventa più complesso, soprattutto se lo si riferisce alla politica. In apparenza, le Iene trattano gli uomini politici tutti allo stesso modo, con equo e feroce spirito bipartisan. Ma c'è un ma. Ridurre il rapporto con la politica a uno sberleffo è una costante della società italiana. C'è nella nostra storia nazionale un fondo qualunquista, uno spessore anarcoide, una pulsione familista che gode nel vedere beffeggiato un mezzo ministro o un quasi leader. Ma se si osserva la carrellata di incontri delle Iene con Silvio Berlusconi, le sue risate complici, i suoi rabbuffi ironici, ci si accorge facilmente che la psicologia berlusconica e quella delle Iene sono congruenti. Al massimo il Cavaliere si stizzisce e si rabbuia se il Trio Medusa insiste troppo. Ma il programma delle Iene non è affatto una contestazione del potere, ci mancherebbe: è una complicità giullaresca che fa godere l'Imperatore finché ha voglia di divertirsi. Dopo, naturalmente, s'incazza, il clown ha il suo momento di gloria, e Mediaset la dimostrazione che ci sono i comunisti anche fra noi, e sono comunisti "divertenti". E invece la realtà più probabile è che abbia ragione Franco Cordero, lo stregone del diritto penale, il quale sostiene che con le sue tre reti il signor B. ha istupidito la gente e reso disponibile una visione del mondo che ha al suo centro Berlusconi. Nel sentire la sequela di quasi-verità e di autentiche leggende metropolitane con cui diluvia Berlusconi nelle nostre serate, si capisce facilmente che le Iene non sono un antidoto, bensì un complemento. «Non si dà vita vera nella falsa», sosteneva il vecchio Adorno: il che vuol dire che non ci sono isole felici nel mare di Mediaset.
L'Espresso, 16/02/2006
Ma quanto ci è costato Berlusconi?
Fra le tecniche della politica populista ce n'è una che i politologi definiscono "manipolazione dell'agenda". Funziona più o meno così. Si presenta un programma elettorale, dopo di che si selezionano i temi giudicati soggettivamente più importanti, che vengono imposti propagandisticamente all'opinione pubblica, e su cui alla fine si chiede il giudizio degli elettori. Ciò consente di mandare in secondo piano una larga serie di punti programmatici controversi. Tanto per dire, a molti pendolari non importa granché delle grandi opere, se i trasporti normali vanno in malora; qualcun altro giudica la riforma della Costituzione qualcosa di molto più importante e grave del taglio delle tasse; altri ancora pensano che il ritorno al sistema proporzionale sia un attacco cinico alla tenuta del paese, e guardano con sufficienza o diffidenza alle promesse (peraltro non mantenute) sulla riduzione dei reati. L'abilità spettacolare di Silvio Berlusconi è consistita proprio nel portare la di?scussione pubblica sul terreno scelto da lui. Sulle 33 riforme prodotte dal suo governo, come se fosse importante il numero delle leggi e non la loro qualità, il loro varo legislativo, e non la loro realizzazione concreta. Ad esempio, è difficile non giudicare regressiva la riforma della scuola realizzata da Letizia Moratti, e basta entrare in un qualsiasi istituto scolastico per capire in quali condizioni deve lavorare un insegnante di buona volontà. E anche sul Contratto con gli italiani ci sarà da discutere: fra pochi giorni esce un nuovo libro di Luca Ricolfi ("Tempo scaduto", Il Mulino), che misura proprio il grado di attuazione dei cinque punti, e che contiene molte serie delusioni per la destra, parecchie delusioni per la sinistra, e una delusione grandissima proprio per Berlusconi. Il quale però è impegnato in una campagna titanica, basata su un solo assunto: deve fare il possibile per ricreare la fusione calda fra sé e il popolo. Deve mobilitare nuovamente il proprio elettorato deluso. Quindi ha ripristinato la sua formula infallibile: "noi" contro i comunisti, un manicheismo che investe e anzi specula sulle fratture della storia politica italiana. È venuto nell'Emilia profonda e ha ironizzato sul fatto che «qui perfino il sole è rosso»; ha ripetuto le solite ovvietà sugli intrecci fra giunte rosse e coop. Ha ripetuto quell'autentica trovata geniale che è il "pentagono rosso", con le sue ombre e risonanze misteriche. Ha ripreso tonalità quarantottesche, riuscendo a presentarsi come vera opposizione contro un potere virtuale ma rosso e pericoloso. Funziona? Sulle platee televisive un po' funziona. Se il Potere appare a tutte le ore in qualsiasi programma, compreso quello di Irene Pivetti, con l'accompagnamento trionfale di Arrigo Sacchi e di qualche goleador milanista, può anche scattare il pensiero che un altro potere, cioè l'alternanza, sarebbe un salto nel buio. Qualcosa che evoca ideologie minacciose, rischi per la proprietà, accanimento burocratico e fiscale. Il fatto è che almeno per ora non si è assistito a una risposta convincente e coordinata del centrosinistra. Berlusconi sul piano della dialettica, con i suoi "foglietti e disegnini" (Diego Della Valle), è capace di sfuggire a ogni attacco individuale . Ecco allora che occorre riportare in agenda, cioè nella discussione pubblica, i temi su cui la Cdl è in difficoltà e su cui ha poche risposte. L'economia. Il reddito degli italiani. Nel 2001 avevano puntato tutto sul "miracolo", un tasso di incremento del Pil superiore al 3 per cento. Siamo alla crescita zero. Non è soltanto un indice macroeconomico: si tratta di ricchezza scomparsa, che non è più nelle tasche degli italiani. Un risultato ottenuto bruciando l'avanzo primario, aggravando il deficit, sfondando la spesa pubblica. Tutto questo significa una sola cosa: che il paese si indebita. Che la terra dei sorrisi e dei gipponi, dei ristoranti sfacciati e delle vacanze al Billionaire, nasconde dietro di sé un sistema tarlato, sempre meno competitivo, abituato al benessere ma incapace di mantenerlo. In sostanza, occorrerà portare in campagna elettorale la domanda: quanto ci è costato Berlusconi? Con un po' di fantasia contabile si può anche quantificare la cifra e chiedergliene conto. Ma occorre farlo presto: altrimenti l'ipnosi del Cavaliere addormenterà non solo le platee televisive ma anche ampi settori di elettorato.
L'Espresso, 23/02/2006
L’orrore corre sul bisturi
Si sconsiglia vivamente di guardare "Extreme Makeover" su Fox Life. Perché è un programma carogna. Prende e non molla più. Dimenticatevi le imitazioni provinciali come "Bisturi": qui siamo nell'horror puro. Trovano dei mostri nella provincia americana, li convocano, li trasformano. C'è la donna più brutta del paese, quella che la figlioletta si metteva a piangere se veniva accompagnata a scuola, perché i compagni minacciavano di prenderle entrambe a sassate. C'è il ciccione che per una dieta killer ha perso 90 chili in un anno, e che ha la pelle della pancia che gli arriva quasi alle ginocchia. Un catalogo di casi umani, trentenni che dimostrano settant'anni, povere donne deturpate dalla chirurgia, giovani che se invitano fuori una ragazza vengono denunciati per crudeltà mentale. Qui comincia l'avventura. Li prendono, e cominciano a sbudellarli, a disossarli, a limargli gli zigomi, a ficcargli protesi dappertutto. Poi gli rifanno i denti, gli tirano gli occhi, gli spostano le orecchie. Vengono fuori tumefatti, pieni di bende. Sono poveri corpi martoriati, su cui si sono accaniti chirurghi allegrissimi, in operazioni che sembrano quelle di "Mash". Con il passare delle settimane, le condizioni migliorano e si passa alla seconda fase, la creazione di un look nuovo. Ecco lo specialista di moda, lo hair stylist, la truccatrice. Il mostro alla fine viene ricondotto a una condizione di quasi normalità, magari con due tette così. E qui c'è il colpo di genio: perché prima di riportarli al paese, dove li attende il consesso dei parenti e degli amici, li vestono e li acchittano come star. Gli uomini, vabbé. Le donne invece drappeggiate come mignottoni in serata di gala. Quando rientrano a casa, per lo shock tutti ridono e piangono come vitelli, con i mariti che guardano un po' increduli e vagamente preoccupati, dicendo «è bellissima ma lo era anche prima, per me». Ci sarebbe da discutere sulla moralità di questo genere di "body show", ma non ne vale la pena. "Extreme Makeover" è l'anticipazione di un futuro in cui il rifacimento sarà pratica normale. Meglio prepararsi: anche perché quando la donna rinata o il maschio rifatto si ripresentano a casa hanno l'aria un po' così di chi sta già pensando di parenti e conoscenti: ah, poveri scorfani. E tutti noi, ancora non rifatti, siamo assaliti dal pensiero irriducibile cha forse, anche per noi, un botox non sarebbe una tragedia sociale.
L'Espresso, 02/03/2006
Radio fiorello Cult
Sgombriamo il campo da un equivoco culturale: nonostante le teorie dei critici, fra la televisione e la radio non c'è nessuna differenza. Se si azzera l'audio, la televisione fa ridere; se si azzera il video, come da sua essenza, la radio fa ridere pure. Ossia: fa ridere, e anche sghignazzare, se la trasmissione si chiama "Viva Radio2" (dal lunedì al venerdì alle 13.40, in replica alle 23), programma di Fiorello con Marco Baldini giunto alla terza edizione. E qui bisogna sbilanciarsi. Basta ascoltare una puntata di "Viva Radio2" per capire che siamo ai livelli epocali di "Alto gradimento", lo storico exploit di Arbore & Boncompagni. Anzi, qualche volta meglio, perché la trasmissione di Fiorello è tutta scritta, pensata la mattina per essere realizzata nel pomeriggio, con una prodigiosa qualità di invenzione e di humour. Certo, ci sono anche qui i tormentoni. La telefonata cult a casa dello scrittore Andrea Camilleri, o l'intervento dello pseudo-Minà da Cuba, che ogni volta produce uno sterminato elenco di "eroi": «Io, Fidel, Compay Segundo, Sotomayor, Mario Pastore, Paolo Meneguzzi, Cassius Clay...». Ma forse il lato più divertente del programma sono le performance dal vivo, con le strepitose canzoni di Fiorello (indimenticabile una esecuzione di "Delilah" forse migliore di quella di Tom Jones). Oppure gli interventi politico-canori, il samba napoletano di Silvio Berlusconi, Romano Prodi che accenna l'odiosamata "Roma capoccia"; e l'indimenticabile performance di Bobo Craxi, che ha accompagnato (benissimo) Lucio Dalla alla chitarra mentre quest'ultimo, a Bologna, in macchina, cantava nel cellulare: «Oddio, adesso basta perché ci sono i vigili», e clic. Noi non vogliamo sapere niente di questioni tecniche. Se si prendesse lo "specifico radiofonico" di "Viva Radio2" e lo si trasformasse in uno "specifico televisivo" si otterrebbe uno show tale da cambiare la storia della televisione italiana. Le obiezioni non sono valide: la radio è la radio e la tv è la tv. Storie. L'intrattenimento è l'intrattenimento. C'è chi lo sa fare e chi non lo sa fare. C'è chi può e chi non può. Fiorello può. E complimenti a tutti, autori, collaboratori, regista, assistenti di studio; l'unico rischio è che, ascoltato una volta il programma, si rischia la tossicodipendenza, e incombe la nuova legge equiparante droghe pesanti e droghe leggere. Noi vogliamo la droga pesante: dateci la televisione.
L'Espresso, 02/03/2006
Reality Sanremo
A dire che ogni anno il Festival è peggio dell'anno prima si fa la figura dei babbioni che rimpiangono il tempo andato. Però è vero, ogni anno è peggio. Per le altre edizioni, di stagione in stagione, si potevano rispolverare le categorie descrittive di cui si è abusato. Sanremo come specchio dell'Italia contemporanea, del suo costume, della sua società; oppure, al contrario: il Festival come un prodotto autoreferenziale, un acquario di freak che nuotano in una bolla, rappresentando solo se stessi (e "l'ideologia" del festival). Dopo di che le deplorazioni potevano riguardare il fatto che il palco del teatro Ariston, quest'anno allestito scenograficamente dal premio Oscar Dante Ferretti, non è più la vetrina della canzone italiana, come se davvero esistesse una cosa che si chiama "canzone italiana" da mettere in qualche vetrina; oppure più rigorosamente che i freak non fossero abbastanza freak, e ancora più precisamente i mostri non abbastanza mostri. Aria moscia. Vabbé che è l'edizione numero 56, un anno di transizione, né nozze d'oro né di diamante. Festival di legno, come certe quasi medaglie olimpiche. Manca il grande pigliatutto, il conduttore presentatore dittatore che sbanca l'audience, non c'è Fabio Fazio, non c'è Piero Chiambretti, non c'è Paolo Bonolis, e non c'è nemmeno come direttore artistico Tony "Anch'io ho degli amici criminali" Renis. C'è Giorgio Panariello, con un profumo televisivo e neocentrista di Ballandi-Ballandi. E ci sono Victoria Cabello, la iena che diventerà il «folletto disturbatore del Festival», e Ilary Blasi, quella che ha avuto il Pupino dal Pupone, che poverino si è rotto il perone e rischia i Mondiali di Germania: lacrime, applausi, tutti in piedi, ci manca solo l'inno di Mameli cantato dalla bambina. Di Panariello si sa quasi tutto, compreso il fatto che sfida la storia e la cronaca sostenendo che la signora Franchina Ciampi non si riferiva a lui quando parlò della «tv deficiente» (in proposito dà la colpa a una copertina de "L'espresso", evvài!), e si mostra «quasi offeso» quando qualcuno lo addita a simbolo della tv nazional-popolare più ovvia. Il sito del Festival (www.sanremo.rai.it) illustra un ricco elenco di autori, Eddi Berni, Riccardo Cassini, Claudio Fasulo, Pietro Galeotti, Giorgio Panariello, Carlo Pistarino e Claudio Sabelli Fioretti, ma non rinuncia a promettere che «Marta Cecchetto, Claudia Cedro, Vanessa Hessler e Francesca Lancini, quattro splendide modelle italiane, accompagneranno gli artisti, indossando le magiche creazioni dei più grandi couturiers del made in Italy». Col tipico effetto da mercato rionale "donne, mi voglio rovinare, se non vi bastano i cantanti ci metto anche un frullatore". Dopo di che si tratta di riempire cinque serate tv, e non sarà semplice. Perché è vero che quest'anno il Festival sta completando una parabola che prima lo portava ad assomigliare a un reality show, e talvolta ad anticiparne la logica (con la differenza che nei reality non si è mai suicidato nessuno, e quindi l'effetto verità di Sanremo è stato spesso assai più clamoroso, e anche la creazione di leggende urbane, come nel caso di Luigi Tenco, riesumato proprio in prossimità dell'edizione 2006); e che adesso invece lo porta all'identificazione completa con i moduli del reality, con un qualsiasi "Music Farm" dove non si riesumano i morti ma i morti di fama. Uno sguardo ai partecipanti infatti rende subito evidente che fra il Sanremo di quest'anno e un reality a sfondo musicale c'è poca differenza. Manca Francesco Baccini, è vero, ma c'è la gatta morettina Dolcenera, che nell'ultimo "Music Farm" gli piantò una storia di seduzione basata sul prevedibile schema "te la do anzi no". Con lui che non s'è mai capito se ci provava, ci stava o era semplicemente provato. Se è solo per questo mancano anche Iva Zanicchi e Mietta e Franco Simone e Fausto Leali o Loredana Bertè. Ma si sa che ciò che conta è lo spirito. E lo spirito del Sanremo 2006 è proprio quello del recupero di gente in disarmo, di semi-star logorate, di ex campioni d'incassi delusi dalla Siae. Ron, Alex Britti, Gianluca Grignani, Michele Zarrillo fra gli uomini. C'è quello che rifà il se stesso degli esordi, quando rifaceva il Battisti più battistiano, quell'altro che fa il clone di Venditti per l'area meridionale, uno che preme preme e non sfonda mai del tutto perché "cià 'a faccia da burino". Volete una parata di cantanti donne da reality? C'è solo l'imbarazzo della scelta: Anna Oxa e Ivana Spagna, cioè la vecchia guardia, un epinicio generazionale alla Silicon Valley. Anna Tatangelo, allieva e protetta di Gigi D'Alessio, a riprova di una vocazione irriducibile alla subalternità (certificata dall'aver presentato in altra edizione una canzone autobiografica intitolata "Una ragazza di periferia", che ovviamente è diventato un must per tutte le coatte che inflazionano i programmi giovanilistici ed esibizionistici del pomeriggio, con Maria De Filippi o no). Sulla categoria dei "gruppi" bisognerebbe stendere un velo, ma bisogna fare un paio di eccezioni innanzitutto perché ce n'è uno piuttosto "glocal", che sarebbero i Figli di Scampia, uno di quei nomi che richiama classiche battute come quella di Fiorello quando annuncia al padre di voler fare il ballerino: «Ma non potresti fare scippi come tutti gli altri?». Costoro rischiano di far passare in secondo piano il debutto a Sanremo dei Nomadi, che giusto quarant'anni fa avevano esordito al Cantagiro con "Come potete giudicar" e nel frattempo hanno attraversato tutte le fasi di una carriera: il successo con "Dio è morto" e con le ballate di Francesco Guccini, la fase di stanca, l'ideologizzazione tardo-emiliana con storie di mitraglie e partigiani, la morte del leader Augusto Daolio, il ritorno sempre più convinto come band perpetua, amica di Cuba e di Fidel, dotata di un pubblico fedele ed entusiasta, politicamente più vicino a Rifondazione che ai Ds. Anzi, neanche Rifondazione, troppo trotzkismo, troppa sciccheria, i Nomadi sembrano l'immagine perfetta per i Comunisti italiani, il rock secondo Oliviero Diliberto. L'effetto reality dovrebbe essere esaltato da un regolamento supercompetitivo, con eliminazioni a raffica, che alla fine lascerà sul palco del sabato sera solo otto protagonisti, una specie di grande massacro dei poveri svippati. E così si chiude il cerchio, Sanremo diventa una sottomarca dell'"Isola dei famosi". Certo, per movimentare un po' l'ambiente ci vorrebbe qualche scandalo, ma un'esperta del Festival come l'inviata della "Stampa" Marinella Venegoni assicura che per il momento niente, né scandali né polemiche, una noia piatta. Speriamo in Mario Venuti, uno spirito ironico che oscilla fra canzoncine sadomasobondage e cedimenti all'autoerotismo, e che ha la faccia perfetta per risultare antipatico al pubblico di Raiuno. Poi ci vorrebbe probabilmente qualche cosa di clamoroso politicamente, magari l'irruzione dei No Tav, come quella volta che arrivarono i metalmeccanici e Pippo Baudo salvò Sanremo parlamentando con la delegazione operaia. Quanto ai vip veri, si sa che Luca di Montezemolo, uomo di stile, ha declinato ogni invito. Ci vorrebbe qualcuno che faccia colpo, bisognerebbe non perdere il figlio segreto di Moana Pozzi, oppure l'ex ministro Roberto Calderoli. Finirà invece che il momento clou del Festival sarà l'esibizione di Povia, quello che l'anno scorso sbancò fuori concorso con i bambini che fanno oh, l'incubo del grande e sfiziosissimo conoscitore Stefano Pistolini, il quale sul "Foglio" non manca di esecrare l'inflazione scolastica di quella canzone così perfettamente ruffiana, con tutti i mocciosi e le maestre impegnati nell'epopea infantile del cagnolino. Povia stavolta è in gara con una canzone intitolata "Vorrei avere il becco": praticamente perfetta. Se infatti fra becchi e gabbiani Sanremo venisse contagiato dall'aviaria, allora sì il divertimento, allora sì i titoli sui giornali.
L'Espresso, 02/03/2006
Incubo pareggio
Il pareggio è un incubo, un miraggio, un'opportunità. Tutto sta a intendersi su che cosa significa la parola pareggio. Perché la situazione, al momento è più o meno la seguente. A fronte della flemma olimpica manifestata dall'Unione, Silvio Berlusconi risale. Lima frazioni di percentuale. Man mano che ci si avvicina al voto, la Casa delle libertà si rinfranca. La violentissima campagna mediatica del Cavaliere, insieme con la sua spregiudicata campagna di alleanze con i neofascisti, è fruttuosa. Per ora lo sforzo berlusconiano sembra dare risultato più rilevanti nel voto alla Camera, mentre al Senato, secondo il sondaggio Swg pubblicato in queste pagine, le distanze risultano più stabili. Mancano sei settimane al giudizio di Dio, e l'eventuale rimonta della Cdl può prefigurare lo scenario politico della Madre di tutte le manovre. E qui occorre chiarire che il pareggio non è un pareggio per tutti. Per Berlusconi e per Romano Prodi sarebbe a tutti gli effetti una sconfitta. Per il capo di Forza Italia c'è una sola possibilità: vincere. Berlusconi esiste in quanto "dominus" del sistema politico, come colui che modella lo schieramento bipolare. Se concludesse la sua risalita con un risultato di parità, riemergendo dai giorni in cui sembrava battuto a priori, allorché Giuliano Ferrara lo consigliava di trovarsi una via d'uscita e un successore, il Cavaliere diverrebbe comunque un politico fra gli altri. È vero che si tratterebbe di un mezzo miracolo. Perché vorrebbe dire che alla Cdl sarebbe riuscito il riequilibrio dopo una serie di vistose sconfitte elettorali intermedie. E sarebbe anche la dimostrazione che l'ideologia paga, che nell'Italia del Duemila il discrimine corre ancora fra "comunisti" e anticomunisti. Se Berlusconi rimonta, ciò significa che l'attività di governo è priva di significato, che la crescita zero non importa nulla agli elettori, che il degrado dei conti pubblici, con lo spreco dell'avanzo primario, e la perdita di controllo sulla spesa pubblica, rappresentano variabili irrilevanti. Eppure, anche in caso di "no contest", Berlusconi appartiene al passato. Così come anche Prodi. Il Professore infatti è il prodotto di alcuni fattori storici: è la garanzia cattolica su tutto il centro- sinistra, un'etichetta di governabilità che rende trattabile alla borghesia nazionale l'estremismo parolibero di alcuni partiti e alcune frange della sinistra. Ma nello stesso tempo è anche l'espressione del progetto bipolare, e quindi il suo volto è l'altra faccia di quello di Berlusconi. Tuttavia gli sconfitti dal risultato di parità sarebbero più numerosi. Le ali estreme delle due coalizioni, in primo luogo, e cioè Lega e Rifondazione comunista. Nonostante le minacce di correre in solitario, rinnovate ma anche presto rimangiate dopo l'espulsione dall'esecutivo di Roberto Calderoli, il movimento di Bossi è vitalmente legato alla Cdl: fuori dall'alleanza la Lega sarebbe un soggetto politico localistico, capace di drenare la protesta e le spinte xenofobe e antislamiche, ma non di portare al Nord trofei importanti come le riforme costituzionali e il federalismo fiscale. Quanto a Rifondazione, l'ammucchiamento al centro determinato dal pareggio la metterebbe ai margini: il caso Ferrando è trattabile all'interno dell'Unione, mentre fuori dalla coalizione l'esplodere di "espressività" caratterizzate da slogan come "una cento mille Nassiriya" porterebbe il partito a una deriva incontrollabile anche da un leader culturalmente attrezzato come Fausto Bertinotti. Ma il pareggio non farebbe bene neppure alla coppia di vertice dei Ds, ossia a Piero Fassino e Massimo D'Alema, che hanno puntato tutte le loro carte sull'alternativa al centro-destra e che si troverebbero in condizioni incerte di fronte a uno schema politico nuovo. Nel centro-sinistra in realtà si tende a guardare ai sondaggi ostentando sicurezza. Il costituzionalista Stefano Ceccanti smentisce l'idea che il Senato possa essere perso dall'Unione. Nell'entourage prodiano, Giulio Santagata fa notare alcuni aspetti risultanti da sondaggi in loro possesso: una tendenza alla crescita della lista unitaria; un profilo non straordinario del gradimento di Berlusconi; un orientamento degli astenuti potenzialmente più vicino all'Unione. Ottimismo? «Perlomeno non pessimismo, anche perché la nostra campagna comincia adesso». E allora occorre vedere quali sono i potenziali "vincitori del pareggio". A diverso titolo, i veri trionfatori in caso di parità, o di risultato politicamente illeggibile, sarebbero gli uomini a capo dell'Udc. La triade Casini-Follini-Tabacci. Ognuno di loro a diverso titolo e per ragioni diverse. Ma ai loro occhi il pareggio sarebbe un risultato eccezionale almeno per tre motivi. Primo, per la mancata vittoria del centro-sinistra. Secondo, per la riduzione di Berlusconi a uomo politico fra gli altri, con l'abbattimento della sua leadership. Terzo, e qui entriamo in zona altamente suggestiva, perché con il campo libero dal bipolarismo si spalancano praterie per qualsiasi ipotesi neocentrista, e per qualsiasi manovra di scomposizione e ricomposizione degli assetti politici. Quando Emanuele Macaluso segnala che l'obiettivo principale e immediato è «battere Berlusconi», perché tolto questo tappo «assisteremo a processi che renderanno fluida la politica italiana», indica un rischio, non solo un'opportunità. Perché i più pessimisti vedono dietro il pareggio la fine del bipolarismo e la grande corsa al centro. Un vortice in cui finirebbero Clemente Mastella, settori della Margherita, pezzi di Forza Italia. In cui potrebbe inserirsi anche Gianfranco Fini, approfondendo la democristianizzazione di An. Sullo sfondo, i salotti buoni, su cui si staglia la figura dell'ex commissario Ue Mario Monti, il primo a lanciare il "ballon d'essai" della formula neocentrista per fare le riforme «indispensabili al paese». E naturalmente i cosiddetti poteri forti, dalla Confindustria all'establishment economico terzista, a cui forse non sembrerebbe vero di poter diventare l'imprenditore politico di uno schieramento centrista destinato a occupare per l'eternità l'area di governo. Sono i miraggi e le opportunità della proporzionale. La vera legge canaglia della legislatura che si è conclusa. Perché si scrive pareggio, ma bisogna leggere fallimento della politica. E 12 anni di razionalizzazione del sistema, e del paese, semplicemente buttati via.
L'Espresso, 09/03/2006
Apoteosi criminale
Vedere la serie di "Csi - La scena del crimine", nelle sue ambientazioni di New York o Miami (sul canale Fox Crime e su Italia 1) è un'esperienza rilassante: a patto di guardare gli episodi con lo spirito giusto, e cioè sapere che si vedranno storie tremende, omicidi spaventosi con particolari agghiaccianti. Eppure ogni puntata è positiva, rassicurante, definitiva. Si capisce da subito che il mondo rappresentato da "Csi" è altamente imperfetto, anzi, dannatamente sbagliato, dove i presunti colpevoli commettono atti che una volta si sarebbero detti innominabili, e magari anche le vittime sono tipini discutibili. Insomma non si salva nessuno, e nemmeno lo spettatore, a cui vengono inflitte magnifiche "slow motion" di proiettili che si infilano nel cranio, e altre devastazioni fisiche prodotte da armi proprie e improprie, con messe a fuoco di rara efficacia (e di notevole impatto sul cervello, sia su quello degli spettatori sia su quello delle povere vittime). E allora perché è rassicurante? Ma perché è l'esatto contrario dei telefilm complicati, esistenziali, metafisici, ambigui, in cui non si sa come va a finire davvero e fra assassini, assassinati e investigatori non si capisce chi è più colpevole. Nelle storie di "Csi" i ruoli sono chiari. E le trame sono meccanismi a orologeria. Non è come in molte story contemporanee, dove vige il principio di indeterminazione (perché in certe psicologie lambiccate, come ha enunciato di recente Cesare Pasqua in un romanzo di matematica precisione che è un'allegoria dell'Italia e della letteratura italiana, "Il viaggiatore di seconda classe", Robin edizioni, «i fatti hanno il difetto di rendere meno interessante la teoria»). Questo schema paradossale non vale per "Csi": qui siamo in pieno positivismo, i fatti sono fatti e le teorie valgono popperianamente solo in base alle evidenze scientifiche. Sulla scena del crimine ogni svolta narrativa è impressa da un riscontro empirico. Strumenti sofisticati, indagini analitiche, risorse tecnologiche servono per falsificare o verificare le ipotesi. E puntualmente gli indizi vengono provati, le macchinazioni svelate: poliziotti e criminali condividono lo stesso codice amorale, solo che il gioco rispetta le parti e ciascuno, di parte, fa la sua. Poi magari, dopo avere sbattuto in galera i colpevoli, ogni detective ha una sua vita o i suoi drammi: ma quella è per l'appunto un'altra storia.