L’Espresso
L'Espresso, 09/03/2006
elezioni western
Ci hanno messo un po' di tempo, ma adesso tutti puntano sui cartelloni sei per tre. Con effetti cinematografici mica male. Un grande western, dove i cowboy non sono ancora gay, tranne le apposite riserve. Piuttosto una trama alla Sergio Leone. Buoni, brutti e cattivi. È il film della campagna elettorale più dura e maligna, e nello stesso tempo più astratta e virtuale, che la storia ricordi. Campagna inutile per le terze file, le comparse che al tempo delle preferenze si scatenavano nei quartieri e nella provincia profonda, per un pugno di consensi, per qualche voto in più, di parenti, amici volonterosi, amici del bar indecisi ma non ostili. E campagna superflua anche per quelli in cima alla lista bloccata, che hanno la pratica certezza di essere eletti. Leader e co-protagonisti occhieggiano dai cartelloni. Gli effetti non sembrano speciali. O forse sì. Vediamo. Nel primo cartellone si contempla la luminosa figura di Gianfranco Fini. Il buono. Lo slogan dice: "L'Italia sicura". L'inquadratura però è venuta di sbieco, e il leader di An mostra una piega nelle labbra tutt'altro che rassicurante. Gli manca soltanto il cigarillo di Clint Eastwood (nessuna allusione alle canne e alla legge antidroga fatta passare per via olimpica). Sarà che lo incattivisce il pensiero di Domenico Fisichella, il professore cattedratico che ha ispirato la fondazione di An e in perfetto disaccordo con la politica costituzionale della Casa delle libertà si è posato come gentil farfalletta sui petali della Margherita. Cattivissimo, Fisichella a "Ballarò" è riuscito a trattare da mentecatto un povero caratterista leghista, sparandogli nella pancia i nomi di Benedetto Croce e di Henri Pirenne, con la faccia accademicamente omicida di chi all'occorrenza non avrebbe avuto remore a far fuoco in nome di Huizinga, Weber e Elias (con uno dei brutti, Fabrizio Cicchitto, che sogghignava accusandolo di vezzo baronale: ma Fisichella, imperturbabile, con una raffica di citazioni che avrebbe steso anche il buon samaritano dell'Occidente, cioè del West, il caritatevole e poetico frate Sandro Bondi). Fini ha fatto un colpo effettivamente gobbo arruolando l'avvocato Giulia Bongiorno, quella dell'«evvài» per l'assoluzione di Giulio Andreotti, il quale ha subito detto che voterà per la fanciulla del West. Ma ha il piombo nelle ali per via delle altre facce del suo partito: Francesco Storace è uno dei brutti e cattivi, ministro della Salute con gessati disdicevoli, un angelo che ha mangiato troppi fagioli ed è favorevole al fumo, nonché non proprio convincente sull'influenza avicola. Un tempo la destra poteva contare sui militari esercito, marina e aviazione, adesso ha problemi anche con l'aviaria. Gianni Alemanno è un altro con la faccia di uno che comincia a giocare quando giocano i cattivi, sguardo teso di chi teme un attacco alle spalle; mentre Maurizio Gasparri non si è più ripreso dalla trombatura da ministro, dopo avere realizzato la legge voluta da Silvio Berlusconi per le sue truppe e le sue troupe. Inoltre il ministro degli Esteri, che spesso esprime una politica estera piuttosto virile, è gravemente scoperto sul lato femminile: poteva dargli una mano la Prestigiacomo, trasferendosi armi e bagagli in An, ma si sa che le donne sono volubili, un giorno dicono che sono pronte a saltare lo steccato e a fuggire nell'Arkansas, poi rimangono a ballare con il loro Cavaliere. Insomma, a destra i buoni sono buoni relativamente. È buono Silvio Berlusconi, ma solo finché non lo fischiano in chiusura di Olimpiadi a Torino (con tutto il rispetto, a Torino andò male anche a un altro pistolero, il cavalier Benito, che tirò alcune bestemmione romagnole e concluse prendendosela con gli operai del senatore Agnelli: «Sono come i fichi, neri fuori e rossi dentro»). Berlusconi ha i tacchi da bounty killer, ma non gli speroni, e il cavallo interno lordo non cresce neanche sotto l'occhio del padrone. Il suo programma è una tipica operazione pensata dal cattivo vero di tutto il centro-destra, ovvero Giulio Tremonti: che nella prima bozza dopo avere elencato le riforme attuate dalla Cdl si era interrogato pensosamente: «Cosa resta da fare?». Ma niente, ci basta. I programmi di Three Mountains sono trovate da commercialista proiettate nella geopolitica: piacciono molto nelle riunioni di categoria. Quanto alle sue proposte generali, eccone alcune sull'ordine pubblico: «Legge & ordine. Non è più vietato vietare. Più severità nei tribunali. La pena non serve solo per rieducare ma anche per punire e scoraggiare...». A molti nella "Casa circondariale delle libertà" (copyright di quel brutto ceffo di Marco Travaglio), dev'essere partito un brivido. Sono buoni anche tutti i capi e i gregari dell'Udc. Buonissimo, Pier Ferdinando Casini, uno capace di scambiarsi i bigliettini con Walter Veltroni, vincete voi, ma no, pareggiamo noi. Addirittura eccellente è Marco Follini, che quando i berluscones gli sparano addosso risponde con ottime battute, sullo schema "me ne hanno date, ma gliene ho dette". Ottimo è Rocco Buttiglione, che con Marcello Pera potrebbe fondare un movimento neocristiano, nella certezza di poter ambire, entrambi, alla successione di papa Ratzinger, quando sarà il momento, oppure al lancio di una crociata in difesa della (demo)cristianità; e se va male un ruolo da predicatori in uno spaghetti western non glielo toglie nessuno, a nessuno dei due. Per la categoria dei brutti e cattivi autentici, i migliori critici assegnano Oscar e nomination, ça va sans dire, alla Lega: c'è il cattivo d'annata, il Senatur, che resiste impavido a tutte le pallottole che il destino gli ha tirato adosso, fa il vecchio saggio, ma in cuor suo deve avere già deciso che la storia della Casa delle libertà è finita, e non appena il referendum spazzerà via la devolution si entrerà in un altro film: la sua banda dei tre Roberti, con Maroni, Castelli e Calderoli è pronta per un remake di "Dio perdona io no" (Maroni non perdona gli esuberi alla Fiat, Castelli non perdona i pm, Calderoli non perdona gli islamici: continueremo a chiamarli Trinità). Quelli dell'Unione sono tutti buoni. Belli, mah. Tolto il bello guaglione per definizione prodiana, Francesco Rutelli, l'estetica del centrosinistra tende decisamente al brutto (neanche Luxuria & Grillini alzano la media e il glamour). Siamo brutti che piacciono, sarebbe lo slogan creato da Giulio Santagata, solo che lui non piace alla Margherita e Arturo Parisi non piace ai rutelliani. Romano Prodi l'ha messa sulla serietà. Fassino, D'Alema e Bersani fanno i seri anche loro, forse per il sospetto che nel clima da Far West la transizione comunista possa concludersi con il passaggio dall'Unipol all'Interpol. I problemi più immediati sono provocati dalla Rosa nel pugno, che più che un partito sembrerebbe una canzone di Celentano, «a mezzanotte sai che io ti cercherò»: ma altro che una carezza, Boselli e Pannella alla Quercia hanno davvero tirato un pugno, anzi un cazzottone, con la candidatura esplosiva, giù la testa, del compagno Lanfranco Turci (l'autocandidatura di Emma Bonino al Quirinale è un sequel, e sembra fatta apposta per far venire il mal sottile al dottor sottile Giuliano Amato). Nel gran duello elettorale, Prodi sta adottando una tattica imperscrutabile. Non spreca un proiettile. Rinvia la decisione sul faccia a faccia televisivo. Tiene coperto il programma. Come fu detto, il Professore (ottimo soprannome per uno sceriffo, di quelli che hanno un passato moderato da far dimenticare e quindi sono diventati micidiali anche con i loro alleati: come è stato ripetutamente scritto, e come hanno raccontato anche a Helmut Kohl, Romano gronda bonomia da tutte le Colt). Quindi i suoi sostenitori sono convinti che al momento buono Prodi avrà ancora a disposizione un impressionante volume di fuoco; i suoi nemici invece sono arcisicuri che quando comincerà a sparare le elezioni saranno già passate. Chi vivrà, e nel West non è facile sopravvivere, vedrà. L'Unione intanto ha fatto onore al suo nome unendo l'estremista moderato Antonio Di Pietro con l'estremista rossa Franca Rame. I cattivi del centro-sinistra sono tutta gente conosciuta, e le loro facce si possono trovare su appositi cartelli davanti a tutti i saloon: Pecoraro Scanio, Mastella, Diliberto. Ma anche nei film più duri si è visto che i cattivi si riscattano. La prova della redenzione l'ha fornita Fausto Bertinotti. D'altronde, l'Unione è davvero davanti alla prova del fuoco. O vince questa volta, e porta a casa il costosissimo scalpo di Berlusconi, oppure si cambia produttore, regista, film, personaggi, distribuzione, e magari anche pubblico. Ma se l'Unione ce la fa, sarà la smentita ufficiale che, quando l'uomo con la pistola incontra l'uomo con il fucile, l'uomo con la pistola è un uomo morto. Per battere i cannoni televisivi del Cavaliere, ci vuole un'azione come quella finale di Butch Cassidy e socio. Per sfuggire alle trappole di una coalizione non proprio volonterosa, divisa sulla politica estera, sugli embrioni, sull'Europa, sul papa, non basta un gran pistolero, la mano veloce, una buona mira. Occorre la principale caratteristica posteriore che ha reso famoso Prodi. Urge la fortuna che talvolta aiuta i parroci. E di fronte all'impresa temeraria del Parroco, dieci anni dopo, ci vuole soltanto del gran cinismo per augurare, alla fine del film, in attesa dell'happy ending, "pacs e bene".
L'Espresso, 16/03/2006
Non sparate sul Festival
Poi vi dico del piccione. Intanto sarà il caso di misurare le parole, perché si ha l'impressione che i dati di audience di Giorgio Panariello, definiti "pessimi" dalla critica, l'anno prossimo saranno molto invidiabili. Il 48 per cento nell'ultima serata, capito? Chi sarà lo sfortunato che dovrà confrontarsi con questo share? Qualcuno pensa che la televisione italiana possa produrre molto meglio di Victoria Cabello e Ilary Blasi? Quest'ultima è svantaggiata dal nome, ma sarebbe solo colpa dei suoi genitori se lei e il maritozzo, cioè, il maritotti, non avessero chiamato il loro pupino Cristian, o Christian, come vi pare tanto è uguale (come raccontava Michele Serra, le varianti del nome Christian e la sua diffusione implacabile sono il segno della scristianizzazione strisciante). Comunque Ilary ha fatto una figura migliore di quel che si aspettavano i maligni. Poi, secondo comandamento, niente puzza al naso, niente narici inarcate: se parlate male del Festival l'avete visto, quindi siete complici. Volete avere il becco, altroché. Altrimenti avreste guardato programmi alternativi e molto culturali, film iraniani, documentari e inchieste. Non dite che manca la tv di approfondimento, perché sono bugie. Di recente (per la precisione il 23 febbraio), su La7 è andato un film-inchiesta di Stefano Pistolini, Christian Rocca e Francesco Bonami, "Dalla parte degli angeli", sottotitolo "Dove va la NeoAmerica". Esemplare per capire la psicologia americana e come gli americani percepiscono la necessità infallibile del loro destino. Oltretutto Pistolini, esperto di musica esoterica sul "Foglio", è uno che detesta Povia e l'uso massacrante che fanno le maestre elementari della famigerata (secondo lui) filastrocca sui bambini che fanno "oh", inducendo le scolaresche a cori a bocca spalancata. D'altronde il grande poeta battistiano, Pasquale Panella, quello che ha scritto le parole per il melodramma albanese di Anna Oxa, scrisse proprio per Lucio Battisti un verso indimenticabile in cui descriveva "l'oh dello stupore". Corsi e ricorsi. Noi (vale a dire una comunità informale raccoltasi per la serata finale) abbiamo tifato selvaticamente per Povia e il piccione. Quanto al Festival che verrà nell'anno che verrà, un solo imperativo. Non cambiare nulla! Non toccare niente! Il Festival deve andare per inerzia, qualche volta bene, talvolta male, finché un giorno morirà da solo. Intanto, avanti così!
L'Espresso, 16/03/2006
Video-istruzioni per l’uso
La televisione di qualità non esiste. Semmai, esistono i programmi di qualità. Bisogna andare a cercarli, scovandoli dentro le reti generaliste, individuandoli nei canali tematici, con indagini degne di un "Blade Runner" mediatico. E poi dipende dalla personalità mutante dello spettatore: se siete il clone di una massaia berlusconiana, codificata dall'Auditel come possibilmente poco scolarizzata e auspicabilmente ultrasessantenne, con l'apparecchio acceso per l'eternità, l'intera programmazione della Rai a partire da "Unomattina" fa per voi. Se nel vostro codice robotico siete un'aspirante velina, i palinsesti Mediaset sono il vostro pane, Maria De Filippi è la vostra regina, e voi non dovreste avere più di diciott'anni (altrimenti il guasto è serio e bisogna chiamare l'esperto di androidi). Se non siete programmati da un potere superiore per essere una donna segregata o una valletta, e neanche un "tronista", l'affare si complica. Ormai i reality show, dal "Grande Fratello" in giù, hanno perso il glam; al massimo, è consentito qualche minuto con la Gialappa's che si accanisce sui reclusi. Ci si può liberare del problema e concentrarsi sull'edizione serale di "Blob". Anche se ormai ghettizzata, in quanto sospetto di subliminale propaganda antipatizzante per la destra, la storica invenzione di Enrico Ghezzi e Marco Giusti è ancora insostituibile per vedere ciò che non si è visto. Essenziale, anzi entomologico, "Blob" consente un ripasso veloce di tutto o praticamente tutto, compreso il cabarettista Rocco Barbaro che fa uno dei numeri migliori visti negli ultimi mesi, una parodia del "Vecchio frac" di Modugno interpretata con accenni, mugolii, silenzi, omissioni, latrati, una prestazione comica con il tocco stralunato del genio (anche se in materia di cabaret quest'anno "Zelig" è andato all'ingiù, nel trend). Archiviato "Blob", c'è chi ama "Striscia"; gli altri seguono ipnoticamente Pupo lo spacchettatore urlante; ma nel post Bonolis l'unica tecnica praticabile consiste nell'esasperazione dello zapping. Postulato: la televisione non va vista su appuntamento, magari programmando il videoregistratore. Quella è una pratica da critici professionali. Ormai il mezzo ha rivelato se stesso: la tv è flusso continuo. Di fronte a quel fluire elettronico ininterrotto, tanto vale andare a casaccio, con il pollice automatico sul telecomando. Nelle reti generaliste si incoccia nella pubblicità, e quindi alla larga. I film si sono già stravisti, e addio. Se è tardi, obbligatoria una sosta su "Porta a Porta", ma si sa in partenza che Massimo D'Alema e Gianfranco Fini dopo cinque minuti hanno già impostato i termini, il resto sono derivate e subordinate, e quindi ci vuole una scanalata per vedere chi c'è a "Matrix". Aprire una discussione sul tema: meglio il Mentana calcistico della domenica, con il maglioncino azzurro che lo allarga un po', o quello istituzionale della tarda serata? Aprirne un'altra: la domenica sera è meglio dedicarsi al maestro Tosatti o al Piccinini furioso che annuncia l'ennesima «puntatona!» di "Controcampo"? Nel dubbio, ricordarsi che il martedì a "Ballarò" va in onda il dibattito intelligente, ma conviene fermarsi soprattutto se c'è Pier Luigi Bersani, che è un divulgatore pop, anzi rock'n'roll, una specie di Ligabue dell'economia, o Giulio Tremonti, che attizza irresistibilmente l'antipatia del pubblico di sinistra. Le battute di Tremonti piacciono molto a destra, anche se lo schema è ripetitivo: anni fa, Visco al Tesoro come Dracula all'Avis; ora Fassino all'economia come l'aviaria agli allevatori (voto: 9 in cattiveria, 6 meno in humour). Da intelligente il dibattito diventa praticamente seminariale a "L'infedele", dove Gad Lerner fa davvero l'approfondimento, con tempi non televisivi (e quindi se per i nevrotici è un tormento per qualcun altro è un'oasi: noi diciamo oasi). D'altronde, La7 è ormai per acclamazione la televisione d'élite grazie alla triade Ferrara-Bignardi-Chiambretti. Certo che non si vive solo di talk show. E nemmeno del "Senso della vita" di Bonolis (nelle sere in cui il desio volge al trash si sente talvolta la mancanza del filosofo Gabriele La Porta). Come antidoto ci si può dedicare a qualche storicizzazione di Giovanni Minoli, ma via via che ci s'inoltra nella notte l'impegno si fa di piombo. Il pollice scivola su qualche scheggia di "Sex and the City", sperando di trovare la puntata in cui la tardona se la fa con il lottatore, oppure quello tremendamente superdotato (facendosi una canna per predisporsi al martirio). Un finale di "Csi Miami", così si capisce definitivamente che il mondo è cattivo. Cinque minuti di "Extreme Makeover", che è uno sguardo sulla provincia americana più profonda, tanto profonda da dare le vertigini. Un pizzico di David Letterman a Raisat Extra (in cui passano repliche utili per chi ha il complesso di colpa per non avere visto Panariello, o il finale del confronto Berlusconi-Rutelli). Poi tutti a letto, noi poveri androidi, a sognare, come disse il profeta Philip Dick, pecore elettriche: o anche schermi finalmente spenti, tanto domani si ricomincia.
L'Espresso, 16/03/2006
Quante spine ha la Rosa nel pugno
Chi ascolta Radio radicale può facilmente farsi l'idea che la Rosa nel pugno rappresenti un segno di divisione nel centrosinistra. Marco Pannella, Daniele Capezzone e altri esponenti radicali non perdono un'occasione per polemizzare con altri partiti dell'Unione. Contro esponenti della Margherita in quanto clericali, contro Oliviero Diliberto in quanto comunista, antiatlantico e antisraeliano, contro Romano Prodi perché non li valorizza abbastanza. Sicché ci si potrebbe anche chiedere se l'arrivo dei radicali nel centrosinistra sia stato utile. I sondaggi accreditano la Rnp di un risultato fra il 2,5 e il 3,1 per cento, e quindi è ragionevole pensare che il loro contributo sia essenziale (data la formula elettorale pazzesca che il centrodestra ha inflitto agli italiani, con il risultato politico che potrebbe essere assegnato in base alla dislocazione dei vari partitini dello zero virgola). Il talento mediatico di Pannella sta spendendosi nell'asseverare la posizione "strategica" della Rnp, in quanto con l'apporto dei radicali essa sarebbe una delle due formazioni politiche dell'Unione in grado di intercettare il voto transumante da destra (l'altra è la Margherita). Ma bisogna vedere se la nascita e il consolidarsi di questo embrione laico-socialista sia funzionale allo sviluppo dello schieramento nel suo insieme. Anche perché per ora il vantaggio dell'unificazione fra socialisti e radicali è andato tutto a favore di questi ultimi. Il leader socialista Enrico Boselli è praticamente scomparso dalla scena politico-mediatica. L'alleanza di Pannella con i socialisti assomiglia molto a una scalata. In ogni caso questo è l'aspetto minore della vicenda. Perché c'è invece da mettere a fuoco la concorrenza che i radical-socialisti stanno esercitando nei confronti della galassia ex comunista. L'adesione alla Rnp di Lanfranco Turci, Biagio De Giovanni e altre figure della sinistra tradizionale esemplifica il ruolo competitivo della Rnp nei confronti dei Ds. A sua volta, l'"endorsement" malizioso di Achille Occhetto è altamente indiziario di come la sinistra delusa o vendicativa possa guardare con attrazione al nuovo partito. Tutto questo è interessante ma è anche un ulteriore fattore di complicazione. Perché la Rnp può essere soltanto la reincarnazione dell'esistenza politica pannelliana, vale a dire un fenomeno che attraversa la storia della prima e della seconda Repubblica; ma potrebbe essere anche lo "start up" di un'ipotesi politica diversa da quella lungo la quale era avviato il centrosinistra. Cioè diversa e alternativa rispetto al "partito democratico". Occorre mettere a fuoco questo aspetto, che non è ancora molto discusso. È possibile infatti che dopo le elezioni la spinta unificatrice del centrosinistra, che finora si è espressa in chiave liberaldemocratica, come alleanza fra cultura cattoliberale e cultura socialista, rallenti o perfino si arresti. Qualunque sia il risultato del voto, sarà l'egoismo di partito a condurre il gioco: la formazione delle liste ha esposto la fragilità della prospettiva unitaria e la debolezza degli ulivisti e dei prodiani (se tutto va bene, se il centrosinistra vincerà, Prodi dovrà fare l'uomo di governo; alla politica penseranno gli altri). In queste condizioni, la Rosa nel pugno, che oggi appare non più di un nucleo (un embrione, sia detto senza ironia), domani potrebbe diventare un organismo complesso. Sullo sfondo c'è la crisi dei Ds, partito di grandi numeri senza una cultura che possa renderlo trainante. E c'è anche la collocazione neodemocristiana della Margherita, che sembra avere conquistato stabilmente il centro del centrosinistra. Potrebbe diventare attraente l'idea di lanciare l'ipotesi, o il progetto, di una sinistra da scomporre e ricomporre in chiave radicalsocialista. In sé non c'è niente di male nell'immaginare una svolta zapaterista; solo che a questo punto andrebbe probabilmente in frantumi l'idea stessa su cui si è fondato finora il centrosinistra. È la bellezza del proporzionale: ognuno può trovarci la posizione che lo rappresenta, senza dover produrre nessuna sintesi. Divertente, e talvolta spettacolare, dal punto di vista politico: ma non si può dimenticare che ha lasciato all'opposizione la sinistra per quasi mezzo secolo.
L'Espresso, 23/03/2006
La sera andavamo al Bar Giamaica
Converrà guardarle tutte, le puntate di "I migliori anni della nostra vita", il programma di RaiSat Extra che dalla fine di febbraio va in onda per dieci settimane il martedì e in replica il sabato (l'intero ciclo è stato curato da Luigi Mattucci, mentre gli incontri con i protagonisti sono realizzati da Lorenza Foschini e Anna Vinci). Già la puntata dedicata al fotoreporter Mario Dondero è stata di bellezza inedita: fotografo, cittadino delle metropoli, "comunista" e soprattutto testimone nei luoghi in cui lo ha portato la sua curiosità e la sua indignazione, Dondero parla una lingua bellissima e straordinariamente precisa, senza un'esitazione o un inciampo. Le sue parole sottolineavano il passaggio d'epoca del boom a Milano, la "vita agra" ma eccitante al Bar Giamaica, ritrovo di intellettuali e artisti; e per contrappunto la scoperta della Parigi mondana ed esistenzialista, suggestiva e severa, una città racchiusa in poche vie accanto alla Senna, in cui ogni giorno poteva accadere di incontrare le divinità, da Hemingway a Juliette Gréco. Con la gioia di esserci e poter fissare i contorni di un mondo in pieno cambiamento, fedele a un bianco e nero che è scelta morale ancor prima che estetica, «perché il colore è ornamento». Nel racconto di Dondero si apprezzava la qualità di una povertà «senza complessi», che consentiva di godere delle cose buone e magari ottime, nella consapevolezza che «quando arrivano i ricchi le cose si svuotano, perché stanno in due dove prima stavano in 20»: ma con la capacità e il gusto di apprezzare la meraviglia quotidiana della Parigi «capitale della rivoluzione, e dell'ideale repubblicano». Essere senza complessi significa anche apprezzare la Roma della "Dolce vita": in modo non dissimile da quello descritto nella bellissima testimonianza di Raffaele La Capria, a sua volta un capolavoro di nonchalance partenopea, capace di fondersi con la Capitale di Fellini e di Visconti, quando Roma era un incrocio del mondo (e mentre il "jet set" fluiva a via Veneto, nei locali la sera si incontravano Moravia, Pasolini, Arbasino, e tutti gli altri). Non è nostalgia. A vederlo oggi, il materiale documentario che accompagna i colloqui con i protagonisti (da non perdere quelli con Adriana Asti, Giorgio Ruffolo, Rosy Bindi), offre l'immagine di un paese lanciatissimo. Internazionale, aperto verso il mondo. Certamente meno provinciale di oggi.
L'Espresso, 30/03/2006
Il capitombolo dell’impero romano
Sostiene lo storico Luciano Canfora che la fiction "Roma" (che ha esordito venerdì 17 marzo su Raidue) suscita una doppia impressione. Da un lato si apprezza il lato brutale, violento della Roma classica, soprattutto quando lo sceneggiato fa vedere il "bellum romanum", la guerra senza quartiere praticata contro i barbari, fra stupri, crocifissioni e combattimenti a corpo a corpo pieni di sangue. Per un altro verso, si rimane allibiti per la quantità di fregnacce storiografiche, di errori, di autentiche panzane inanellate nella trama e nei dialoghi. Per noi che abbiamo studiato sul Bignami, il giudizio è più semplice. "Roma", con il suo sforzo produttivo, i cinque registi, i sei teatri, la Bbc e la Hbo, i 2.500 costumi e i 15 mila figuranti, è una Rometta. Ma mica per colpa di nessuno, neanche della Rai coproduttrice. Ma per un fraintendimento. Riassumibile in questo modo: non bisogna confondere la Roma di Giulio Cesare con la New York di "Sex and the City". Vale a dire: se Samantha si porta a letto un maschione, e le amiche commentano la prestazione, possiamo pensare che si tratti di uno schema tipico dell'età contemporanea, e quindi che la scopatina o scopatona della bellona ci dica qualcosa di noi, ossia dei comportamenti sociali di oggi. Ma se uno dei fulcri della fiction romana è «l'insaziabile nipote di Cesare» che sceglie gli schiavi in base alle misure, chi se ne frega. Un bollino rosso alla base del teleschermo non è che attizzi molto. Morti ammazzati, banchetti, colpi di triclinio e di letto, fanno un po' ridere se proiettati duemila anni fa. Insomma, erano corrotti, crudeli, cattivi, erotomani, abbiamo capito. Tutto questo però fa spettacolo? Mica tanto, almeno per ora. Per fare spettacolo ci vuole Russell Crowe, un protagonista, un'epopea, il dramma personale. Del ritratto della Roma repubblicana e poi imperiale, dell'affresco d'epoca non c'importa nulla. Eravamo bambini quando andava in tv il cult "C'ero anch'io", telecronaca dei grandi eventi storici. L'effetto scenico e narrativo di "Roma" assomiglia proprio alle sequenze di quel lontano programma. La perfidona è andata a letto con il cattivaccio. L'affare politico si complica. Catone il Censore ha aperto un'inchiesta. Anvedi. A voi studio, se ci saranno notizie vi chiederemo la linea. Buonasera a tutti. Sigla di Teleroma.
L'Espresso, 30/03/2006
Fatti di ragazzi perbene
Come fa un prodotto di fascia e di nicchia a diventare un successo di massa? Ci fosse una risposta sarebbe piuttosto facile replicare le "operazioni" che hanno sbancato il mercato. Nell'editoria risulta infatti esemplare il caso di Alessandro Piperno, il cui romanzo d'esordio, "Con le peggiori intenzioni", era stato preceduto da una sottile campagna di consenso prodotta dalla Mondadori con un efficace "word of mouth" destinato a innescare l'exploit. Talvolta è un dettaglio a suggestionare il mercato, come nel caso della copertina poco einaudiana del libro di Simona Vinci, "Stanza 411", che alla recente London Book Fair ha attirato l'attenzione di molti operatori stranieri. In altre occasioni, il successo d'autore è il frutto del più classico passaparola, come per le "superfiction" di Tullio Avoledo (l'ultimo romanzo, uscito da Einaudi, si intitola "Tre sono le cose misteriose"). Quanto ai giovanissimi, balza in primo piano una questione di contenuti, ancor prima che di tecniche commerciali. A un primo riscontro sociologico sembrerebbe infatti di assistere a una specie di ripiegamento, alla ricerca di un conforto famigliare e provinciale, che avviene tutto dentro le mitologie della post-adolescenza. Le storie di Federico Moccia si iscrivono nella cornice dell'emozionalità giovanile, un universo in cui la violenza dei sentimenti e dei gesti si dispiega come una liberazione individuale, che non scalfisce il law & order di una società "di destra". La trasgressione è individuale, al massimo generazionale oppure praticata utilizzando la coppia come fattore d'innesco, senza nessuna concessione a dimensioni sociali e neanche collettive. Viene il sospetto che il marketing sia stato efficace più che altro perché ha individuato un riflesso protettivo, un bisogno di autotutela di un mondo giovanile sopraffatto dai nuovi strumenti di intrattenimento: l'ultimo modello della Playstation, ma anche la versione più recente dell'iPod, così come tutti i consumi evoluti, sofisticati, tecnologicamente avanzati, costituiscono un orizzonte inevitabile, con cui ci si misura ogni giorno, ma si portano dietro anche un'eco aliena, una radiazione "globale". Mentre le storie di casa nostra, le trame locali, consentono rappresentazioni e identificazioni molto più partecipate e gestibili. Questo spessore provinciale rappresenta una rassicurazione implicita, e a suo modo infallibile, dal momento che agisce diffondendosi rapidamente nel pubblico, confermando le mappe comportamentali individuali, consentendo di metterle a confronto, di misurare dubbi e desideri, pulsioni e inquietudini. Più che di marketing, si tratta di educazione sentimentale: che poi venga praticata o favorita da circuiti di consumo di massa, è la solita conferma che in fondo nel mercato convivono gli estremi, dalla riproducibilità tecnica più estrema, ossia la serializzazione del cuore come del corpo, all'individualizzazione più confortevole, in cui ogni sentimento può essere trattato come qualcosa di irriducibilmente possessivo, non aggredibile dalla prepotenza di ciò che è globale.
L'Espresso, 30/03/2006
Parte il missile Fiorello
Con quei baffetti che gli danno un'aria saracena, a prima vista è leggero, leggerissimo, impalpabile. E invece Rosario Fiorello, in arte Fiorello, per gli amici siciliani Saro, secondo nome Tindaro, è 87 chili di energia pura. Una radiazione nucleare. Quasi tre chili persi a ogni spettacolo, perché nelle tre ore del suo show "Volevo fare il ballerino", che sta spopolando in giro per l'Italia, il dispendio fisico è spaventoso: «Non ho tecnica, non ho studiato, non uso il diaframma, canto di gola, con una fatica bestiale». Mettiamoci la puntata quotidiana del programma cult "Viva Radio 2", le convention aziendali che servono anche per sperimentare nuovi personaggi e nuovi numeri, e si capisce subito che l'ex divo del karaoke, classe 1960, deve avere un fisico da atleta. Allora avanti con il monologo, storia vera di Fiorello raccontata da lui medesimo. «Un fisico da fuoriclasse? Sarà perché da giovanissimo avevo una carriera nel calcio», scherza. Fino a 15 anni ha giocato ala destra nella Megarese, la squadra di Megara Hyblaea, un amore per il pallone destinato a perpetuarsi con il tifo per «la grande Inter» (pronunciando il sacro nome nerazzurro alza religiosamente il dito), «vista per la prima volta allo stadio di Catania». Città fatale in ogni senso, dato che a Catania c'è pure nato. «Ma solo per ragioni ospedaliere: la mamma Rosaria, brava ragazza di Giardini Naxos, ha avuto qualche difficoltà a farmi nascere, e io qualche seria difficoltà a saltar fuori. Un cesareo da 64 punti, tanto che mia madre, dopo quello strazio, sospirò: sia chiaro, dopo Rosario, nessuno». E gli fece mettere nel secondo nome il richiamo alla Madonna dei Tindari, la Madonna nera a cui era devota. Si sa che fine fanno le promesse. Mamma Rosaria ebbe altri tre figli: Anna, nel 1961, Catena detta Cati (l'eccentrico nome viene da una nonna), nel 1966 e Giuseppe detto sciaguratamente a suo tempo Fiorellino, e ora Beppe, nel 1969. Forse non riusciva a resistere al fascino di papà Nicola, appuntato radiotelegrafista nella Guardia di finanza, «che era nato a Letojanni, assomigliava a Clark Gable, e morì all'improvviso nel 1990 a una festa». Allora se ne stavano ad Augusta, aspettando che Rosario raggiungesse lentamente la quarta al liceo scientifico Principe di Napoli. «Nello show lo dico chiaro, l'unico mio titolo di studio è il battesimo. Studiare, ma si poteva? Augusta è un'isola, eravamo circondati dal sole e dal mare, fin da bambini si stava sempre fuori, a giocare a "chiappeddi", le pietre al posto delle bocce, in palio le figurine Panini». Ma poi, come esercizio culturale, è riuscito a incidere una canzone pop sui versi di "San Martino" di Carducci, «La nebbia a gl'irti colli piovigginando sale». E a farsi invitare dal rettore dell'Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi, per un faccia a faccia con 1.500 studenti. Comunque agli inizi, altro che ballerino. «Volevo davvero fare il calciatore. Ma gli anni del liceo erano gli anni delle prime radio libere: Radio Marte, Radiorama, Augusta Centrale. Era il tempo della "Febbre del sabato sera"». Tutti travolti da John Travolta? «Roba da poco, gare di disc jockey ai balli studenteschi. Ma uscivamo da un grandissimo provincialismo, quando andare al cinema a Catania era un'impresa eroica». L'esordio avviene come dj al Gran ballo della ragioneria, ma il primo spettacolino vero è al bar, imitando "Tutto il calcio minuto per minuto" con le voci di Ciotti, Ameri e Bortoluzzi. Poi, corrente l'anno 1976, si fa vivo il destino. A Brucoli, sei chilometri da Augusta, tirano su un villaggio Valtur. Molti ci vanno a lavorare. E ne escono la sera con gli occhi schizzati: «Voi non potete immaginare! Sono tutti milanesi! E si vestono con certe stoffe... Nessuno aveva mai visto un pareo. Anzi, prima di andare militare, nella Caserma Milano a Bari, Car e Car avanzato, non ero mai uscito dalla Sicilia, Milano era un altro pianeta, e i milanesi marziani». A quei tempi i ragazzi li mandavano a lavorare, d'estate: «Andavo a vendere la lattuga con l'Apecar, facevo il banditore: donne, lattuga fresca! Cinquecento lire al giorno». Solo che il Valtur era un paradiso off limits. Impossibile entrare, anche il ristorante era un miraggio. «Allora una sera tagliamo la rete metallica, entriamo vestiti da turisti, e ci appare davanti la meraviglia: i suoni, la festa, belle donne, ricchezza, gozzoviglio puro. Ci beccano subito. Voi che camera avete? "La Seicentoventicinque!". La faccia di bronzo non basta. Sguardo clinico dell'uomo della sicurezza e poi la sentenza: "Fuori"». Da quel momento, l'imperativo divenne: lavorare al Valtur. «Anche perché era un buon lavoro, si facevano i turni, 6 ore e 40, e soprattutto dopo il lavoro si poteva restare nel villaggio. Seguo la trafila: ufficio di collocamento, lista d'attesa, assunzione come facchino di cucina. Sa che cos'è il facchino di cucina? Un paria, uno che è un gradino sotto il lavapiatti. Ma io cercavo di lavorare bene, come ho sempre fatto, qualunque fosse il lavoro». In modo da fare una modesta ma sicura carriera: aiuto cuoco, detto anche "commis di cucina", poi cameriere, posto molto ambito nella gerarchia del villaggio, con la fascia rossa in vita che fa il suo effetto. «Facevo gli show ai tavoli, le imitazioni, e piacevo. Qualcuno chiedeva al caposala: "Mi mette dove c'è quello moro? ". Ma soprattutto dal ristorante vedevo il bar, cioè la vita, la mondanità: e alla fine al bar sono riuscito ad arrivare». E il bar è la svolta. «Come no: alzo gli occhi e vedo l'anfiteatro dello spettacolo serale. Faccio i miei show al banco, con i clienti che si incuriosiscono. Un giorno vedo l'asta del microfono che mi tenta, mi avvicino, la afferro e faccio: sssà, sssà; e parto con "Moonlight Serenade", inventando tutte le parole». La gente lo nota, e Fiorello ottiene l'occasione per qualche piccolo show. Solo che proprio allora, dopo alcuni rinvii per ragioni scolastiche, arriva la cartolina precetto. Casermette di Bari, «la prima vera difficoltà della mia vita». E allora? «Mi dico: qui, o mi diverto o crepo». Erano anni difficili, con le Br che avevano fatto razzie nelle armerie militari, si faceva la guardia con il colpo in canna nel Garand. «Eppure ci provo, a divertirmi. Imitavo il colonnello comandante, il tenente, l'ufficiale di picchetto. Mi mettono nel plotoncino d'onore, con i galloni da caporale, mi faccio un coso così con le marce e le esercitazioni. E quando credo di essermi guadagnato una posizione, l'Esercito italiano mi manda a Sacile». Vicino a Pordenone, profondo Friuli. «Per un siculo come me era la Siberia, una Finlandia, muschi, licheni, il grande Nord. Ma era gente meravigliosa, che voleva un gran bene ai militari, dopo il terremoto di Gemona. Il giorno del congedo m'è venuto da piangere. Nel frattempo anche lì ho cominciato a fare spettacolo: cameriere nella mensa sottufficiali, metto su una band, faccio il presentatore a tutte le feste: Natale, Capodanno, Pasqua, niente licenze perché per tornare a casa ci vogliono 21 ore di treno, chi li aveva allora i soldi per l'aereo?». Quando ritorna al Valtur, il capovillaggio, Enzo Olivieri, non vuole più assumerlo come cameriere. «Mi dice: vieni a fare l'animatore, e io arriccio il naso, perché si guadagna poco, e precariamente. Poi però comincio: senza le basi musicali, improvvisando tutto. Al mattino andavo in spiaggia per farmi conoscere con qualche trovata. Travestito da papa, facevo la benedizione dei cornetti. Così la faccia e il nome cominciavano a circolare, e la sera la gente veniva all'anfiteatro per vedermi». È il decollo? «Macché. Olivieri se ne fila in Costa d'Avorio, e mi chiama con sé. È il primo bivio della mia vita. Mio padre contrarissimo, la fidanzatina pure. Ma io mi dico, se rimango qui, ci muoio: e allora mollo la morosa e nel 1983 vado laggiù in Africa, in un villaggio da parenti poveri del Club Méd. Capo animatore. Discreto successo, con i turisti che dall'Italia chiedevano di prenotare dove lavoravo io. D'inverno l'organizzazione mi mandava in montagna, a Marilleva, a Pila, a San Sicario. Una sofferenza, perché la gente devi andare a cercartela sulle piste. E io ci andavo: a far vedere a quelli delle settimane bianche un siciliano travestito da orso». Nel 1989, quando finisce la stagione a Marilleva, arriva una svolta ulteriore. «Conosco Bernardo Cherubini, che sarebbe il fratello di Jovanotti, e che faceva l'istruttore di tiro con l'arco nei villaggi: "Andiamo a Milano?", propone. Si va. Lorenzo faceva "Uno due tre Jovanotti", stava esplodendo; io, un nessuno: mi hanno preso a fare le voci. Parlavo in radio parodiando un ascoltatore di Bergamo, molto gutturale. Comunque Claudio Cecchetto, uno con la vista lunga, mi osserva con l'occhio clinico e mi fa: "Ti faccio provare Radio DeeJay". E qui siamo al secondo bivio». Erano tempi difficili. Fiorello racconta di essere stato tentato più volte di tornare indietro. Con la radio di Cecchetto passava tutta musica straniera, «e io invece facevo "Amico è" di Dario Baldan Bembo, cose molto popolari. Ho una specie di buco nella cultura televisiva, una voragine d'ignoranza vera, perché per un periodo sono stato sempre in giro per il mondo. L'Africa, la Spagna, Ibiza. Eppure forse per questo ho un mio stile, perché non mi sono fatto influenzare troppo». Per fortuna ci fu la valvola di sfogo di DeeJay Television, anche questa di Cecchetto, una specie di Mtv ante litteram: «Vera fucina di talenti. C'erano Linus, Amadeus, Albertino, Jovanotti, Pieraccioni, e ho cominciato a fare un programma con Amadeus, "Mattinata esagerata", e i primi personaggi, cioè le parodie di Michele Cucuzza e Bruno Vespa. Mi inventai la macchietta del meccanico della Vespa di Bruno Vespa. Ma mi sentivo ancora un pesce fuor d'acqua, i vecchi clienti mi guardavano perplessi: "Al villaggio eri un'altra cosa", insomma non ero contento. Oltretutto, nel 1990 Radio DeeJay mi manda al Festival di Sanremo, e mentre sono lì sulla Riviera squilla il telefono: torna a casa perché papà è morto. È per questo che Sanremo ancora oggi mi prende la gola». Qualche volta è il caso a decidere. «Già, all'improvviso la mia vita prese tutta un'altra piega. Incontrai Marco Baldini, che oggi è il mio alter ego. Nacque "Viva Radio DeeJay", che è l'antenato di "Viva Radio 2". E Gerry Scotti, che mi aveva sentito fare il cantautore ermetico Gregorio De Francesco, mi chiamò al "Gioco del 9", con Teo Teocoli e Gene Gnocchi. Va tutto benino. Così vengo preso per il Cantagiro, con Mara Venier e Gino Rivieccio. Di me scrivono: "Sta nascendo una stella. Bisogna ucciderla prima che uccida noi". Sembrava che gli avessi fatto qualcosa. Finché Fatma Ruffini annuncia: "Abbiamo un format olandese, per fare una cosa giapponese, il karaoke. Sfruttiamo le bellezze dell'Italia, le piazze, facciamo un programma che non costa niente e vediamo se da cosa nasce cosa"». La cosa comincia ad Alba, le puntate d'esordio tutte con inquadrature strette per non far vedere il deserto intorno al palco. Risultati deludenti, 3 per cento, massimo 5 per cento. Essere o non essere, chiudere o non chiudere? «Andavamo alle 20, contro i tiggì. Okay, si chiude, finiamo le puntate già programmate. Solo che a un tratto l'audience comincia a crescere. Prima insensibilmente. Ottocentomila, un milione; poi più forte, un milione e mezzo, due milioni, due milioni e sei. A Pescara, 20 mila persone, senza la sicurezza, senza organizzazione: distruggono la piazza. A Milano, 100 mila persone in piazza del Duomo. Centomila anche a Torino. Uno stress tremendo, perché ero ostaggio del successo, non potevo nemmeno andare al ristorante senza essere assalito da frotte di aspiranti cantanti; in un cinema mi dovettero portare via altrimenti nemmeno cominciava il film». Era il 1992, la prima delle due stagioni del karaoke. «Ma ero insoddisfatto, perché mi limitavo a far cantare i partecipanti. Era il segreto vero del karaoke, perché la gente in quel momento, con il trauma quotidiano di Tangentopoli, preferiva guardare se stessa anziché la politica: e pensava, davanti alla tv, quello che sa fare lui lo so fare anch'io. Si identificava. Eppure io non mi limitavo al karaoke. Prima della trasmissione intrattenevo il pubblico almeno per un'ora. Mi mettevo alla prova. Ma sa com'è la televisione, quando c'è un successo vogliono spremerlo fino in fondo. Così si fa il Superkaraoke con i Vip, finisco a Roma con un delirio, il sindaco Francesco Rutelli che canta con me». Mica male, Rutelli. «Ma intanto incasso la prima sconfitta autentica. Le prendo da Paolo Bonolis, la mia bestia nera, che con "I cervelloni", mi fa un mazzo tanto. Ed evidentemente sconfitta chiama sconfitta: vado a Sanremo, 1995, con "Finalmente tu" di Max Pezzali, con in testa la corona del vincitore annunciato. Sul palco dell'Ariston la voce mi viene fuori un po' faticosa. Il giorno dopo, un massacro. Scrivono "carriera finita, un bluff". Ne esco con le ossa rotte». Siamo a un altro bivio: «Capisco che devo lasciare Milano. Tutto andava troppo veloce. Non parlo delle mie disavventure personali, anche se non ho avuto nessuna conseguenza giudiziaria, niente: ma a distanza di dieci anni sono ancora nella lista, non appena c'è una storia di coca c'è qualcuno che mi chiede un commento». E allora Fiorello va a Roma con Maurizio Costanzo: «Facevo "La febbre del venerdì sera" e poi "Buona Domenica" il sassofono gliel'ho inventato io, dovevamo batterci contro la Venier che era una macchina da guerra». Di notte, al "Costanzo Show", «raccontavo cose, fatti, Aldo Grasso parlò di un Fiorello "pasoliniano"». Addirittura. «Ma avevo voglia di lavorare da solo, anche se sapevo che Costanzo ci sarebbe rimasto male». Figurarsi se il ras ci rimane bene. «Ma incontro Bibi Ballandi, uno che suggerisce prudenza sussurrando con il tipico accento romagnolo e la esse molle: "Ricordati che bisogna volare basso". Ballandi si sbilancia, come può sbilanciarsi uno come Ballandi, e mi dice: "Se ti metto vicino qualcuno che ti aiuti, che ti consigli, che ti ripulisca un po', hai le potenzialità per fare il sabato sera su Rai uno"». Come in effetti sarebbe avvenuto, con le edizioni di "Stasera pago io", il programma costruito con Giampiero Solari. «Ma volete capirlo che io, il ragazzo del Valtur, mi sono trovato a fianco gente come Dustin Hoffman, Liza Minnelli, John Travolta, Fanny Ardant?». Successo inarrestabile. Anche se l'evento principale di quegli anni, siamo al 1996, è tutto personale: «Ho incontrato mia moglie, Susanna Biondo, e ho conosciuto il cambiamento vero. Perché lei era ed è una donna che mi ha portato in casa la stabilità: con una figlia, Olivia, che adesso ha 13 anni ed è come figlia mia. Abitiamo a Roma, verso il quartiere Fleming, e aspettiamo la nascita di Angelica, che arriva a luglio». Fa una vita da impiegato, più che da artista: «Non ho la Ferrari, uso la Panda. Vado al bar al mattino come tutti, la gente è contenta di vedermi ma senza eccessi. Con Susanna ci siamo sposati nel 2002, un passaggio ulteriore nel senso della vita sicura, e quando il lavoro è finito ce ne stiamo in famiglia». Sul lavoro sono un gruppo, una squadra a metà fra la tribù e la factory: «Con la radio ho ritrovato Marco Baldini, reduce dalle sue disavventure di gioco. Mia sorella Catena lavora con l'organizzazione. Il mio manager, Antonio Germinario, lo avevo conosciuto come cliente di un villaggio turistico dove lavoravo. Antonio Cifariello è con me da sempre». Gli altri della squadra, con Baldini, sono Francesco Bozzi, Alberto Dirisio, Riccardo Cassini, Federico Taddia. Le manca la televisione, Fiorello? «Non ne sento il bisogno. Con la radio, tutti i giorni ci inventiamo qualcosa che raggiunge il pubblico. E va anche sui giornali, perché abbiamo inventiva, leggiamo tutto, seguiamo l'attualità. Io non faccio proclami politici, perché lo spettacolo è di tutti, e non si possono dividere le platee fra destra e sinistra. Ma nella vita ho avuto un bivio dietro l'altro, e so che cosa significa scegliere». E il prossimo bivio, Rosario? È a Sanremo, per salvare il Festival? «Il prossimo bivio significa diventare un buon padre». n
L'Espresso, 06/04/2006
Mammuccari? Mamma mia
Eh no, questa volta non mi prendete. Non mi avrete. Non ce la farete a ricattarmi con l'idea che se non rido sono io che non capisco. Guardate che io (e dico io come sintesi di una comunità che condivide alcuni tenui criteri di giudizio televisivo: insomma, noi), guardate che noi siamo diventati scafati. Non ci fregate più con la fola del trash. Ma quale trash, che poi voi pronunciate "trèsh", all'americana, o all'amatriciana. Trash o trèsh dovrebbe essere il programma di Teo Mammuccari "Distraction"? Proprio sicuri? Avete le idee chiare sul trash? Parentesi. Trash o trèsh, noi di questi tempi siamo riusciti a evitare "Grande Fratello" e "La fattoria", con ottimi benefici per l'umore. Forse riusciremo a evitare anche "Music Farm", anche se è più difficile perché ci piacciono le canzonette (ma ha ragione Aldo Grasso: se la vittoria di Dolcenera nell'edizione precedente doveva produrre a Sanremo la canzone "Com'è straordinaria la vita", si capirà perché al Festival noi gentaglia cinica abbiamo fatto il tifo per Anna Tatangelo, nonostante il testo di Mogol e il "patronage" di Gigi D'Alessio, e benché non ricordiamo la sua canzone). Ma "Distraction", in onda su Italia 1 il martedì sera, quello no, non ci avrà. «Uova in faccia, ventilatori fermati con il naso, pulsanti che danno la scossa»: comincia così la cronaca del "Corriere della Sera". E poi il mucchio selvaggio dei 15 disgraziati tutti nudi. E soprattutto, Mammuccari. Nessuno ha ancora capito che cosa Mammuccari sia capace di fare. A occhio, dev'essere una specie di comico "de destra" (ma potrebbe anche essere "de sinistra"). Un provocatore ma della mutua, che prima dello show aveva promesso: «Vogliamo divertire, non scandalizzare». Ma via: è uno che fa una battuta sui Cugini di campagna definendoli «quelli che cantano con tappo al sedere»; dovrebbe essere capace di tutto. Dopo di che, leggiamo una dichiarazione di Michele Bonatesta, componente della direzione nazionale di An e membro della commissione di Vigilanza della Rai, il quale ha dichiarato: «Un concentrato di insulsaggine e volgarità». Ora, noi siamo del parere che nulla del pensiero di uno di An sia condivisibile. Mai. Su nessun argomento. Siamo fatti così, mica colpa nostra. Vediamo Gianfranco Fini e ci dà fastidio anche la sua pettinatura, la sua voce, il modo in cui si succhia la lingua. È solo per questo che ci viene voglia di dire: «Viva Mammuccari». Però, guardarlo, no.
L'Espresso, 06/04/2006
Cantautore senza cuore
Come diceva il "maestro solitario" Lucio Battisti, «questi stanno a fa' solo dell'accompagnamento». Eppure il segreto dei cantautori consisteva nell'essere in sintonia con lo spirito del tempo. Accadde negli anni Settanta, quando il pubblico si ritrovava meravigliosamente dentro le strofe di Fabrizio De André e degli altri. Ma adesso? Già negli anni Ottanta e Novanta i cantautori non hanno proposto grandi significati e nemmeno troppi piccoli slogan; inoltratisi nel primo decennio del 2000, viene anche voglia di capire che cosa stanno raccontando, e se ci raccontano qualcosa. A Bologna, come al solito, Francesco Guccini adotta i tempi lunghi: traduce Plauto, ha trovato e portato in italiano dal dialetto una canzone della Resistenza emiliana, che inserirà nel prossimo disco, e che potrebbe essere "La locomotiva" del nuovo secolo: chi l'ha ascoltata dice che si tratta di un pezzo "fenogliano", in cui l'epica si dispiega su un tessuto antiretorico. Immagini scabre, paura, sudore, fatica. Ma Guccini è un caso a sé: con gli anni è riuscito a crearsi un consenso privo di obiezioni, in cui la sua fisionomia culturale e la sua figura fisica coincidono alla perfezione. La sua è la tendenza Guccini: tracce di Dylan, echi dei Nomadi ai tempi di Augusto Daolio, "Noi non ci saremo" più il ricordo di Guevara, e talvolta un intimismo vivificato dalla cultura e dalla padronanza del lessico. Ma allora la tendenza, ammesso che una tendenza ci sia, dove sta? Nel panorama di questi mesi si stagliano ancora una volta due protagonisti sulla scena da oltre un trentennio. Sono Francesco De Gregori e Ivano Fossati. Il primo sta pubblicando un disco dopo l'altro, e l'ultimo, "Calypsos", suona bene, morbido, avvolgente. Quanto ai contenuti, bisogna andare a cercare il messaggio con il lanternino: «Ma guarda la gente che salti mortali che fa / E quanti nani sui trampoli», potrebbe essere un ritratto dell'Italia del "Caimano", e del "Caimano" stesso, cioè di un paese passato dalle meraviglie romantiche della donna cannone ai fenomeni da baraccone divenuti capipopolo. Ma più che un messaggio sembrerebbe un messaggino, un sms, con cui De Gregori si tiene in contatto con i suoi amici e gli aficionados. Mentre Fossati, eh, Fossati. Il compositore più musone e celebrato d'Italia, che fu uno straordinario autore di canzonette e ha cercato in tutti modi di farle dimenticare, viene monumentalizzato in una biografia scritta da Andrea Scanzi ("Ivano Fossati. Il volatore", quasi 300 pagine in uscita da Giunti il 5 aprile). Sarà l'occasione per ripercorrere la vicenda di uno dei più bravi costruttori di musica che siano apparsi in Italia, gravato dal peso di dimostrare in ogni album la sua caratura intellettuale, e che forse non ha mai percepito fino in fondo che la qualità culturale non si esprime soltanto con la ricerca, ma anche con la disponibilità a sintetizzarla nello standard, in canzoni fatte e finite, quelle che si ricordano perché mettono a confronto la dignità musicale con il piacere del pubblico, e con la grazia dell'ascolto. E invece l'impressione è che Fossati stia ancora ricercando una legittimazione sul piano della critica politica, come nella canzone più citata del suo ultimo disco ("L'arcangelo"), che com'è noto si intitola "Cara democrazia", e che si concede il gusto di mettersi in posizione terzista, «io sono un uomo libero, né destra né sinistra» quasi à la Gaber (anche se prestata a Celentano). Questa volta, invece, a proposito di democrazia: «Cara gemma imperfetta / Equazione sbagliata / Non scritta e mai corretta», e «Ahi, che pessime orchestre / Che brutta musica che sento» (come antidoto, si può scaricare dal Web "Lo scrutatore non votante" di Samuele Bersani, secondo il quale il disimpegnato «è come un ateo praticante seduto in chiesa la domenica»). Quanto agli altri, si tratta di intendersi: anche Luciano Ligabue mantiene una venatura cantautorale, che in passato si era espressa in pezzi come "Ho messo via" e "Metti in circolo il tuo amore" (buona anche nella versione di Fiorella Mannoia); ma il "Liga" punta soprattutto a definirsi come grande autore popolare, un Battisti dei tempi nuovi. Antonello Venditti resta fedele soprattutto a se stesso, e forse è una scelta coerente, quella di una canzone che sfida la ripetitività di refrain come «che fantastica storia è la vita». Dopo di che, è una faccenda di nicchie. C'è la nicchia di Vinicio Capossela, che persegue in modo radicale la propria diversità "patafisica". Il giardinetto di Michele Salvemini in arte Caparezza, quello di "Fuori dal Tunnel", che ora ha proposto un disco "postumo": «Io sono il cadavere di me stesso e canto "Non mi fregio di un feretro che mi dia stima e buona nomea, non mi piace la bara Versace, mi piace la bara plebea, mia l'idea di comperarla all'Ikea"». Per scaramanzia, si può ascoltare l'ultima produzione di Gianna Nannini, un'altra che non sarà proprio una cantautrice classica ma tiene dritta la barra e continua imperterrita a miscelare tradizione e pulsazione. Oppure Simone Cristicchi, quello di Biagio Antonacci, uno che sa che cos'è l'ironia. E per i veri reazionari c'è sempre l'opera omnia di Max Pezzali, che non fa nulla per sofisticarsi, ma che è pur sempre il migliore autore di parole per le canzoni che esista in circolazione (quando se ne accorgerà qualcun altro, brindisi per tutti). n
L'Espresso, 06/04/2006
Apocalisse senza riscatto
Il finale apocalittico del film di Nanni Moretti, con gli incendi tribali appiccati dopo la condanna in tribunale del "Caimano", rappresenta la sintesi estrema di una visione altamente pessimistica dell'Italia contemporanea. Pessimistica eppure realistica. Oscuramente credibile. Un vaticinio non si sa quanto corretto dal desiderio che sia un antidoto. Secondo il regista romano, Berlusconi ha già vinto. Ha vinto vent'anni fa, quando è riuscito a imporre come un esercizio di libertà il trionfo delle sue tv commerciali. Libertà, ovvero tette e culi. Ovvero ipnosi popolare, penetrazione nella psicologia di massa, reality show dove la lotta di classe degradava al livello di invidia sociale. Eccolo lì allora, il berlusconismo: le sterminate platee televisive del gruppo Fininvest vengono modellate con il passare delle stagioni e con il succedersi dei palinsesti in modo da trasformarsi in un elettorato potenziale. Nel 1994 è bastata la creazione di Forza Italia, e l'idea «di un nuovo, un grande miracolo italiano», per fare coincidere l'audience del piccolo schermo con il consenso politico. Si era capito praticamente tutto quando i candidati della "gioiosa macchina da guerra", la povera alleanza dei progressisti guidata da Achille Occhetto, andavano nei supermercati del Nord e incontravano gli operai del postfordismo che fischiettavano ironicamente l'inno del partito proprietario: "E Forza Italia, per essere liberi...". Nel 2001, com'è noto, è bastato il "sogno", l'idea meravigliosa che il banchetto dei ricchi avrebbe lasciato cadere qualche briciola anche per i poveri e gli outsider. Cinque anni dopo, con un rovesciamento spettacolare, e con una capacità sregolata di incarnare in se stesso la protesta e il regime, la promessa e la furia, il Caimano sta puntando tutte le sue carte sullo spavento, su uno scontro di civiltà tra antropologie separate e irriducibili alla mediazione politica, demonizzando senza scrupolo alcuno metà abbondante del paese. Tutto verosimile, nella profezia cattiva di Moretti, tutto plausibile anche sociologicamente, se è vero che da vent'anni la realtà si stava disgregando senza riparo. Semmai le eventuali obiezioni riguardano il fatto che ciò che noi abbiamo chiamato berlusconismo in altri paesi avanzati si è chiamato semplicemente modernizzazione. Anche altrove, nell'Europa evoluta, il passaggio d'epoca è stato segnato dal disincanto, dall'irruzione del cinismo, dall'anomia sociale, dall'egoismo di classe, da venature demagogiche. E allora perché da noi tutto ciò ha assunto caratteri parossistici? Perché ha vinto l'autismo consumista, perché il legame sociale si è dissolto? Perché il Caimano, singolare impasto di conformismo cattolico e di spregiudicatezza amorale, scommette su uno stralunato giudizio di Dio tra le forze del bene, il suo clan, e l'esercito del male, "le sinistre"? Per rispondere occorre mettere a fuoco che il mutamento socioculturale è tanto più prevedibile e governabile quanto più sono saldi gli assetti istituzionali, quanto più la prassi collettiva vive di norme condivise, anche e soprattutto nell'orizzonte della vita quotidiana. Nell'età del Caimano, invece, la sospensione delle regole ad personam, e la rottura delle convenzioni primarie a beneficio dei clientes, porta la politica sulle soglie della guerra civile strisciante e permanente. Risulta conveniente un'imprenditoria politica che punta le sue carte sul duello mortale tra fazioni contrapposte. Per cui non c'è troppo da stupirsi se poi, nell'apologo cinematografico, la caduta del Padrone sfocia tragicamente nello scontro attizzato dai suoi fan, ossia in una sindrome che evoca scene di matrice jugoslava. A schermo spento, dopo l'ultima livida scena del film, viene naturale anche interrogarsi sulle terapie possibili per il futuro. Ovvero chiedersi se la società italiana contemporanea possieda riserve di tenuta civica e di lealtà pubblica per assicurare un futuro al paese. C'è un riscatto o no? Per Moretti la catastrofe si è già compiuta, e il pessimismo consente solo palliativi o elusioni nel privato. A maggior ragione, dopo un racconto così inquietante, privo di speranze com'è, bisogna chiedersi se la politica ha gli strumenti per reagire alla disgregazione, per tentare di invertire la rotta.
L'Espresso, 13/04/2006
Bologna la bella
Premessa: noi non siamo neutrali, facciamo il tifo per Bologna. Condividiamo integralmente (di più, fanaticamente) il giudizio di Pier Paolo Pasolini: «Cos'ha Bologna, che è così bella? L'inverno col sole e la neve, l'aria barbaricamente azzurra sul cotto. Dopo Venezia, Bologna è la città più bella d'Italia, questo spero sia noto». Che sia noto, boh. Ma queste parole tornavano in mente vedendo il film di Francesco Conversano e Nene Grignaffini, "Dove la bellezza non si annoia mai", in cui Bologna veniva incontrata e descritta dagli occhi e dalle suggestioni di Tahar Ben Jelloun (su Raitre, il 31 marzo alle otto di mattina; la settimana successiva tocca a Björn Larsson raccontare paesaggi emiliani attraverso le vie d'acqua). Nel primo di questi "Diari di viaggio" realizzati per Rai Educational, Ben Jelloun non si limita a conoscere alcuni bolognesi eccellenti, autoctoni e d'elezione, come Francesco Guccini, Eugenio Riccomini, Umberto Eco, Stefano Benni. Ciò che colpisce, fin dalle prime immagini, è proprio l'incanto della città, raffigurata nel suo colore inconfondibile, guardata dall'alto per poter assistere allo spettacolo dei tetti e delle torri. Vabbè, noi siamo parziali. Eppure anche a un occhio imparziale non può sfuggire il senso profondo di Bologna, bene individuato da questo film: cioè quella «regola civile» iscritta nella comunità, anche nelle sue forme esteriori, di cui parla Sergio Zavoli in un filmato d'epoca "citato" nel montaggio del documentario. Come spiegava bene uno degli intellettuali più conosciuti di Bologna, il critico d'arte Riccomini, la stessa piazza Maggiore è un progetto civile, la «costruzione di un vuoto» per poter rendere possibile l'incontro dei cittadini, una specie di pratica vivente della convivenza "democratica". Ciò che sorprende è che lo scrittore Ben Jelloun non si limita a parlare e a vedere: fissa lo spettacolo di Bologna con rapidi schizzi sul suo taccuino, se ne appropria, ridisegna la città per poterla rivivere. Sono questi scorci che rivelano la sostanza profonda della città, i portici descritti da Eco, il memoriale della Resistenza di cui parla Benni. Forse il segreto di Bologna è proprio la coincidenza di misura civile e di misura urbana. Una misura che non esclude il conflitto, ma offre luoghi e modi per comporlo. E che questo film riesce a rivelare con uno stile fatto soprattutto di pudore e onestà, senza nessuna retorica.